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domenica, agosto 25, 2013

I grandi Iconoclasti Scritti postumi di Bruno Filippi


I Grandi Iconoclastinel Pensiero e nell’Azione

BRUNO FILIPPI

Scritti postumi




I GRANDI ICONOCLASTI

Scritti postumi

di BRUNO FILIPPI

«Pietra di fionda, pietra di saggezza,
distruttore di stelle, tu ti sei lanciato in
alto. Ma ogni pietra lanciata ripiomba a
terra! Eccoti condannato da te stesso alla
tua propria lapidazione. Tu hai lanciato la
tua pietra molto lontano, ma essa ripiombò
su te.

Così parlò Zarathrustra.».

Tipografia LATINI - Firenze

Corso dei Tintori, 19




A Milano, la sera del 7 Settembre 1919, verso le ore 21, mentre
la Galleria V. E., il Caffè Biffi e tutti gli altri ritrovi rigurgitavano
oscenamente della solita «gente onesta» composta da puttane
d’alto rango, ruffiani e simili pesci-canaglia, un giovane dimessamente
vestito saliva le scale del palazzo ove ha sede il
«Club del Nobili» recando un involto. Improvvisamente una spaventevole
esplosione gettava lo scompiglio e il terrore fra i tremebondi
eroi dell’«andate e noi vi riforniremo». Una bomba - l’involto
che il giovane dimessamente vestito portava seco - era incidentalmente
esplosa «prima del tempo» riducendo in brandelli
colui che la portava e che veniva poi identificato per l’anarchico
diciannovenne Bruno Filippi.

Noi che lo avemmo come collaboratore assiduo e lo amammo
come compagno, inviamo a Colui che ha gettato «gli atomi della


propria vita nella ridda urlante della fiamma» il nostro reverente
saluto.

Da ICONOCLASTA!


La presente pubblicazione comprende la ristampa integrale
degli “SCRITTI POSTUMI DI BRUNO FILIPPI”
editi a cura della Rivista “ICONOCLASTA” - Pistoia
Tipografia F.lli Ciattini 1920 - sotto il titolo “I
GRANDI ICONOCLASTI”, un “profilo spirituale a
modo di prefazione” scritto da Carlo Molaschi ed una
prefazione aggiunta da “I Compilatori” alle “Lettere
dal carcere” di B. F. ai propri genitori.

Non sappiamo se gli autori di queste prefazioni nutriranno
ancora le stesse opinioni che a tale proposito dichiararono
di professare in quell’epoca e in quella occasione,
ma nel caso contrario, - cosa che non ci auguriamo
- facciamo nostre quelle idee e quelle opinioni,
perchè tali erano per noi a quel tempo, e tali sono rimaste,
senza tema di essere tacciati di “appropriazione indebita”
per velleità polemica.....

Se è vero che all’indomani del “gesto improduttivo”
compiuto dal nostro indimenticabile compagno, tanto
giovane di anni, ma già anziano e maturato dall’esperienza
della cruda realtà, la stampa “onesta” ricoprì di
calunnie e di fango quella Grande Anima inquieta e insofferente
di tutte le brutture della guerra appena conclusa
e di quelle di cui già se ne tesseva la trama in uno
di quegli ambienti ove si verificò quell’azione, che se
pure rimasta “incompiuta” fu un indice sicuro dei foco



lai di incubazione del cancro fascista che preventivamente
sarebbe stato necessario estirpare alle radici, e
senza pietà, anche nel campo anarchico vi furono voci
“cospicue” troppo cristianeggianti che deprecarono
quel “gesto” come manifestazione di un folle traviato
dalla lettura di libri “mal digeriti”. Del resto son quegli
stessi che avevano già prima condannato la violenza
individuale come “incivile e vergognosa”. Sicuro:
quando “il buon senso” e “la logica” prevalgono, tutto
si comprende....

Ed ancor oggi, forse più di ieri, si giudica il “caso”
Filippi a quella stessa stregua. Ci si è detto di recente
che il “fatto” individuale è antisociale e “controproducente”
perchè non ha alcun effetto “costruttivo” per la
massa in generale e nel caso specifico, B. F. fu per queste
loro considerazioni un “fuorviato”. Forse possono
avere anche ragione. Infatti pure per noi, sono “fuorviati”
tutti coloro che, partecipi della immensa ed informe
massa umana che incede lentamente, senza volontà,
sospinta per forza d’inerzia sulla grande strada
piatta ed infinita della Storia della “Plebe”, sotto il cielo
plumbeo ed opprimente dell’abulìa che nasconde un
orizzonte irraggiungibile e senza speranza, riescono a
svincolarsi da quell’orrenda “Camicia di Nesso” che
tutti attosca, e violata la “sacra” barriera marginale,
costituita e cementata dalla legge, dalla morale, dal
conformismo e da tutti gli artifici che tengono incatenato
“l’individuo” allo scoglio dell’obbedienza, s’inerpi



cano su balze e dirupi per raggiungere le alture ove l’aria
è purissima ed il Sole della Libertà vi risplende con
i suoi raggi di luce e di fuoco pur rischiando di rimanerne
inceneriti in un sublime amplesso di liberazione.

ESCHINI TITO – LATINI LATO

Dicembre 1950.


Profilo spirituale.

A MODO DI PREFAZIONE

«Quando siamo convinti che lo scudiscio
non può più nulla contro la nostra ostinatezza,
non lo temiamo più: noi abbiamo oltrepassata
l’età della sferza.

La nostra volontà ostinata, la nostra audacia,
si ergono, più potenti di essa, dietro le verghe».

Così l’UNICO di Stirner.

Bruno Filippi fu! Non aveva ancora vent’anni quando
cadde fatto a brani dalla sua idea.

Figlio della rivolta, atomo della eterna violenza
anarchica, è passato nella vita come una folgore. Un
grido ed uno spasimo di dolore: si è arso su di un rogo
per illuminare d’un tragico bagliore tutta l’iniquità di
un mondo che detestava.

Chi conosceva Bruno Filippi? Ognuno che lo ha avvicinato
può aver la pretesa di svelare il mistero della
sua anima tormentata dai brividi e dalle fiamme di


un’idea. Ma il mistero resta; lo sguardo dell’indagatore
non ha potuto sfondare il riparo che celava le profondità
di quell’anima.

Ed io che lo conobbi appena adolescente, che lo vidi
crescere giorno per giorno, che lo studiai, che ascoltai i
suoi pensieri più turbinosi, non riesco a fare l’analisi
del suo sentimento. Poichè la sua vita venne dall’ignoto
e sparve nell’ignoto!

*
* *

È la psicologia d’un anarchico. Psicologia strana
per gli uomini normali. Lapidatemi pure, o credenti nel
divenire libertario, ma io affermo che ogni anarchico è
un anormale.

Tutto ciò che è passionale trascende dal senso comune.
I passionali dell’amore come i passionali dell’arte.
Gli anarchici sono i passionali della giustizia e della libertà.
L’uomo normale è edonista; cerca il bene immediato.
L’operaio che si organizza e sciopera cerca ed
ottiene un benessere che la classe borghese vorrebbe
contendergli, il politicante che strepita nei comizi e sulle
piazze cerca ed ottiene la soddisfazione del suo amor
proprio: diventa segretario, consigliere, deputato.

Ma l’anarchico? È atteso dal carcere, dalla disoccupazione,
dalla fame. La sua vita non è che un tessuto di
tormenti e di vicende dolorose. Nessun alloro gli corona
la fronte, nessuna vittoria gli sorride. Getta un grido:
gli risponde il gelo delle manette; urla una prote



sta: vien trascinato davanti ad un tribunale, seppellito
in un carcere.

La sua famiglia si sfascia: la miseria dopo la pena,
gli abiti a sbrendoli, la persecuzione senza quartiere.

E pure lotta e non recede. Passa altero fra lo scherno
altrui, nel dolore che è l’unica realtà di tutta la sua
vita.

E tutto per niente!

O credenti nel divenire anarchico, uomini di passione
e di fede che soffrite per la vostra idea, ditemi: quale
guadagno avete avuto dall’apostolato che vi siete imposti?
Quale gloria? Quale vittoria avete ottenuto?

Nulla! Ecco perchè, rispetto ai più, noi anarchici siamo
anormali. La nostra idea è parte della nostra vita, è
il sangue dal quale non potremo liberarci se non colla
morte; è passione.

Come l’innamorato spasima e soffre pel suo ideale
incarnato in una fanciulla, così noi anarchici si spasima
e si soffre per un’aspirazione teorizzata in un’utopia.


Ecco la psicologia di Bruno Filippi; venne al mondo
portando seco la sua maledizione, e la sua vita non fu
che spasimo passionale. Era un precoce e appena adolescente
sentì le prime minacce della sferza.

Guardava nel mondo con occhio attonito perchè sentiva
che tutto gli era ostile. Cercava la libertà nella vita
selvaggia e la civiltà gli negava il sole e la foresta. Cercava
la dignità di un lavoro umano e la società gli offri



va la schiavitù di un lavoro bestiale. La vita in lui era
esuberanza ed energia. Il suo imperativo categorico era
agire.

Detestava l’attesa perchè in lui tutto era folgore.
Ateo, non credeva nelle folle. Le sapeva prone sotto lo
scudiscio della legge e sapeva pure che era vano il tentare
di rialzarle. Soffriva per sè, per la sua libertà che
non poteva essere, per il suo vivere che non poteva affermarsi.
A quindici anni la legge penale gli fu sopra
con una condanna. Egli sorrise: quella condanna fu il
principio della fine. La società credeva di avere impaurito
un sognatore ed invece aveva creato un ribelle. Lo
si elencò allora nei registri sociali con l’aggettivo “pericoloso”,
e le autorità agirono di conseguenza.

Ma egli aveva imparato da Ibsen la dottrina della difesa
assoluta di sè stesso, da Schopenauer la fatalità del
dolore umano. Così divenne stoico. La morte non era
che volontà di vivere annientato; l’oltre tomba non poteva
essere che il nulla, dissolvente la materia.

Fece suo il motto di Gaetano Bresci: “Quando la
vita è impropria è meglio la morte”.

E andò verso la morte, serenamente.

*
* *

Così doveva essere, e così fu. L’epilogo della vita
d’un anarchico è una tragedia o un abisso di dolore.

Si scompare fatti a brani dall’odio compresso nella
dinamite, si muore di tisi su un letto di un ospedale,


esauriti in fondo ad un carcere, sfiniti sul marciapiede
d’una via, tremanti di freddo fra le pareti squallide
d’un tugurio, affamati sull’orlo di un fossato....

E tutto per un gran sogno che non sarà mai!

CARLO MOLASCHI


Arte libera di uno spirito libero.

Falange di tisici cronici più moralmente che fisicamente,
microcefali, zoppi, gobbi, ciechi, visi orrendi,
scolpiti dal vizio, dalla sifilide, dall’alcool.

Bocche sdentate, gialle, bavose, a che vomitate contro
me orrendi improperi?

Tutto l’odio che vi gorgoglia nella strozza, che vi fa
colare due rivoletti di bava agli angoli della bocca, non
mi smuove dalla mia indifferenza.

Scuotete pur le pugna avvezze a rivoltar letame! E
voi donne insultatemi pure, voi nel cui grembo si perpetua
il dolore umano. Siete tutti vili, vili! Esseri spregievoli,
degni della frusta! Rettili striscianti in cerca di uno
sporco tozzo di pane, cani che leccate la mano di chi vi
batte! Ed è per voi, proprio per voi che dovrei
insorgere?

Per voi, per i vostri figli e le vostre madri?

Carogne imputridite nella rassegnazione, mummie
tarlate di una società in decadenza, voi vi ingannate. Io
non darò la più piccola goccia di sangue per la vostra
causa, non sacrificherò neanche una sigaretta per voi.


Continuate nella vostra discesa nel fango. Man mano
che voi scenderete, io salirò. Io godrò nel vedere la degenerazione
che si fa strada entro voi, godo, godo....

Giorno per giorno la fronte vi diviene sfuggente, la
bocca patibolare. Giorno per giorno le stimmate della
putrefazione avanzata si scorgono sotto la pelle giallastra.


E io rido, rido!...

Che gioia assistere allo sfacelo di un mondo, vedere
dovunque sangue, cadaveri, putredine!

Mentre e borghesia e popolo s’ingannano a vicenda e
a vicenda si sgozzano.

Io assisto esilarato per tutto questo affannarsi senza
scopo.

Là un Kaiser, qui un Wilson ecc...., e dappertutto popoli
che si lamentano e non insorgono.

Nel fango, rettili!

Io non voglio unirmi alla coorte dei cortigiani del
proletariato, che essi scusano, incensano, ornano di lauri.
No, o egregi parolai, la vostra verve non maschera
nulla. Il popolo è sempre lì, idiota, vigliacco, rassegnato.
Ed io che mi sento superiore, voglio esserlo, e la mia
sarà una superiorità che pagheranno e borghesia e proletariato.
Languite nella fame, negli stenti, vegetate, bestialmente
fecondando uteri in un pullulare di rampolli
cenciosi, sucidi, scrofolosi, rachitici.

Forza! Alzate in coro il vostro lamento vigliacco!
Dite che avete fame. Stendete la mano di fronte alla ve



trina colma di gioielli. Fate, fate! Lamentatevi della
guerra, mentre siete voi i suoi autori e i continuatori perchè
la sopportate! Ma io fuggo il vostro putridume che
vorrebbe insozzarmi. Superbamente solo, rompo le catene
che mi avvincono a voi, e mi separo dal gregge dei
cani rognosi sommessi al pastore. Solo vagherò per il
mondo portando ovunque il mio odio e il mio disprezzo.
Solo nella lotta. Solo nella vittoria, e solo nella sconfitta.
Le mie idee saranno il veleno che deve finire per intossicarvi
e voi tremerete davanti a me come davanti al
Re, al supremo!...

E intanto rido alla vostra ridda grottesca e sanguinosa,
rido tanto che non vedo più nessuno e mi pare che
l’umanità sia una immensa piaga cancrenosa che continuamente
sgorga marciume denso e puzzolente. E questa
piaga si muove, si agita, si copre di croste che poi
scompaiono per poi dar posto a un altro sgorgo di materia
puzzolente....

E io rido, rido!...

*
* *

Vecchissimi ruderi di un sentimentalismo ormai tramontato,
a che v’ostinate nel vostro muffoso ideale?
Non udite la vita che rombando incalza ed insegna?

Finora assorti in un placido sogno di pace, in un avvenire
lucente, combatteste così, cogli occhi spersi nella
vostra illusione. Ma ora poniamo un problema e voi dovete
avere il coraggio di affrontarlo e discuterlo.


Vi poniamo il problema dell’essere o non essere. Finora
il vostro sogno fu l’altruismo, il sacrificio per l’umanità,
per l’avvenire. E così voi sacrificaste tutto il vostro
essere in questa inversione intellettuale. Che vi
deve importare dell’avvenire? Che vi deve importare il
progresso del popolo? Poiché voi che vi dite anarchici,
siete sicuri d’ingaggiare una battaglia per voi, già persa
a priori, perchè voi non vedrete certo una società come
la sognate, e se anche il popolo si ribellerà le condizioni
sociali per voi non possono cambiare, e la vostra ribellione
dovrà continuare.

Quindi a che pro scendere tra una massa che non può
seguirvi poichè le sue condizioni sono tali da rendervi
inintelligibili presso loro? Se voi siete ingegni ribelli
come dite di essere, non dovete sostituire all’abnegazione
cristiana, all’asservimento patriottico, l’altruismo
dell’anarchico che si sacrifica per un avvenire che non
vedrà, e per della gente che non vi segue. Dovete riconoscere
che nati in una società per noi perniciosa, noi ribelli
siamo in realtà i maggiori schiavi. Schiavi dell’evoluzione
noi permettiamo che per mezzo del nostro sacrificio
l’umanità faccia un piccolo passo. E questo almeno
bastasse; ma visto che il progresso è incessante e
quindi inutile, chè la società raggiunta la forma sociale
da noi propugnata non potrà lì fermarsi, ma bisognerà
che proceda verso uno scopo che oggi non possiamo assolutamente
neanche immaginare, così bisogna convenire
che questo nostro affannarsi è assolutamente senza


scopo. Così noi osserviamo che le più forti e migliori
energie d’ogni epoca sono sfruttate da questa immensa
piovra che è l’umanità.

Socrate, Cristo, Bruno e un’immensa coorte di grandi
pensatori sono stati le vittime di questo moto ascendente,
dannoso per chi lo aiuta e inutile per chi lo subisce.
Poichè è naturale che gli schiavi di Roma essendo nati
in quell’epoca erano contenti della loro condizione
come i salariati d’oggi.

Contentezza, intendiamoci, relativa, formata di rassegnazione,
viltà, ignoranza, ecc. ecc. Difetti che la massa
avrà sempre in minore o maggior dose perchè gli aggruppamenti
sono sempre inferiori agli individui.

I popoli sono conservatori: si contentano della società
che trovano. Le minoranze sono novatrici invece e si ribellano
quindi. La massa col suo peso bruto frena l’azione
rivoluzionaria e la subisce.

Si abitua al nuovo stato di cose, vi si imputridisce finchè
una nuova volta la minoranza si ribella.

Ed è per tutto questo gioco di equilibrio che io devo
soffrire? Io che ho forza e coscienza per essere motore
di me stesso, non voglio essere la piccola rotellina che
viene dai pesanti ingranaggi sociali travolta, annichilita.

Ribelle, perchè oggi la società m’opprime e vuole impedire
la libera espansione del mio essere, io adopero
tutte le armi per combattere.

Ribelle contro la massa che anch’essa mi è nemica
con le superstizioni, morale, degradazione, ecc. Pure


contro la massa combatto. Solo in lotta per la MIA redenzione,
per la MIA libertà, per il MIO presente.

Di tutto il resto me ne infischio.

Trionfi il prete, mieta l’alcool, massacri il governo,
non me ne importa perchè non mi tocca.

IO solo il mio IO difendo dagli attacchi.

E se nella lotta disuguale io cadrò, certo non solo1,
avrò la sublime soddisfazione di essere insorto contro
un mondo e di averlo battuto, se non materialmente, intellettualmente.


Perchè studiosi, scienziati, poeti, romanzieri, pittori,
davanti a me il vostro genio non vale. Voi siete un riflesso
della vita, io sono l’essenza. E certo sentirete in
cuore il dolore atroce del veder crollare i rettorici castelli,
e malgrado tutto continuate a sostenerli per misoneismo.
E del resto fate bene. Voi siete nati per strisciare,
io volo. Per voi il fango, per me le vette. Per voi il pavido
annichilimento, per me la sublimazione dell’essere.
E certo se la vita è dei più forti, io l’avrò. Per poco; ma
l’avrò. La prenderò a forza e a forza le toglierò il bene e
il godimento.

E voi, parodie, ombre di uomini; continuate nella vostra
marcia nel buio. Sulla mia via splende la luce. Voi
avete paura di essere: ecco la verità. L’uomo vero v’intimorisce.
La realtà malgrado il vostro retoricume vi spaventa.
E sognate, sognate. Io vivo. Voi non siete; io
sono.

1 Oh, purtroppo, sei caduto solo! (N. del C.)


Ho risolto il problema. Urlatemi dietro....

*
* *

«Vorrei sdraiarmi su un soffice odoroso letto di
rose...» «Guarda alle spine» mi gridano «E che me ne
importa? Poichè nella vita le spine non mancano, preferisco
quelle delle rose che col dolore danno la gioia.»

*
* *

E sta bene. Voi leggendo potrete dire che la mia è
prosa pazzesca, anormale; come, pazzesche e anormali
avete chiamate le mie azioni. Ma il vostro giudizio non
mi interessa affatto nè io lo sollecito.

Voglio solo, per un indefinibile sentimento, che i cervelli
superiori sappiano il perchè io mi slanciai nel buio,
voglio che la mercenaria penna avversaria non possa coprire
il mio nome col pattume che è nel loro bagaglio. Io
solo sono il reporter di me stesso: sfuggo gli intermediari
che potrebbero, in buona o in mala fede, deformare le
mie idee. E poichè probabilmente io non potrò manifestarle,
desidero che dopo la mia scomparsa si sappia
come io abbia deciso questa lotta alla società. Affido
quindi questi pensieri a una persona che ignora il mio
progetto e che lo renderà noto quando il sipario sarà calato.



*
* *

È la nebulosità dell’universo che già con le sue tristi
brume mi attrista? È un’oscura fatalità che mi minaccia?
Io non so qual sia il movente di questa malinconia che
su me si abbatte dilettandosi a torturarmi, strappandomi
tutto quello che io mi illudo di amare e di credere.

Oh! la gioconda fede dei tempi trascorsi quando lietamente
combattevo la buona battaglia per l’Idea, senza
timori, senza dubbi! Ora invece tutto mi appare vano;
per ogni dove scorgo l’oscurità densa e inscrutabile.

Tutto, tutto ho distrutto, ed ora sono rimasto solo coi
miei pensieri tristi e di tutto e di tutti dubitando. E sento
questa necessità di espandere l’animo mio su questa
nuda carta che non ha fremiti all’apprendere la bufera
che mi tormenta. Chi leggerà queste righe? Forse nessuno.
Resteranno ignorate come ignoto è per chi conosce
l’affannoso mio pensare.

*
* *

Stasera come al solito, stavo leggendo, quando un
passo della lettura mi colpì vivamente ed io allora per riflettere
cessai dal leggere. Stavo appunto cogitabondo,
quando volgendo distrattamente lo sguardo per la camera
vidi, anzi mi vidi seduto sul letto. Non io, ma pure ero
io, perchè era assolutamente come me. Stupito guardavo


in silenzio e anch’esso, l’altro io, mi guardava; ma con
un certo risolino ironico.

«Chi sei?» gli domandai. «La tua ombra», mi rispose.
«Sono venuta quì per discutere un po’!» «E
discutiamo», dissi, allettato da una così straordinaria avventura.


«Bene: perchè sei anarchico?» «Ma, perchè oggigiorno
siamo sfruttati, calpestati dai dominatori».

«Rettorica, rettorica caro mio. Senti: tu sei anarchico,
e non sai neanche tu il perchè. Io ho sempre visto questo:
che in qualunque società ci sono stati degli innovatori
che finirono sul rogo, in croce, ecc. ecc.... Quindi
questi novatori con tutti i loro sogni e i loro sacrifici fecero
un buco nell’acqua, perchè è fatale che qualsiasi
rinnovamento precorso da un individuo qualsiasi, accada
molto tempo dopo la morte del medesimo. E così accadrà
di voialtri anarchici. Voi morrete senza vedere attuato
nulla del vostro ideale, e le generazioni che verranno
dopo di voi, viventi magari in regime anarchico,
aneleranno un Ideale più alto e per questo morranno alla
loro volta senza nulla ottenere. È un circolo vizioso, un
eterno rincorrersi....».

*
* *

Mai come oggi le tenebre mi avvolsero. Ed accade difatti
che dopo esser vissuto per qualche ora circondato
dal tepore del sole, quando questo si eclissa un subito
brivido di freddo ci scuote la persona.


Il freddo mi è entrato nell’animo che sogna un avvenire
di tepore e che lo vede lontanissimo o, come mi disse
uno, quasi irraggiungibile. Come sono tristi queste
parole. Dite alla rondine che volta alla ricerca della primavera
che essa non la raggiungerà mai; la vedrete piegare
le ali smarrita, sconfortata. Io non desisto, non piego.
Chi sa che quell’albeggiare lontano non possa raggiungerlo;
chi sa?...

Il mio spirito è arido come un deserto, i miei occhi ardono
come per febbre. E mi pare che ad ogni tratto qualche
cosa si spezzi dentro di me con uno schianto lugubre.
Chi, chi potrebbe descrivere ciò che sento? Non
posso farlo neppur io. A momenti sento la mia anima allargarsi,
espandersi lieta, fiduciosa: E poi d’un tratto
raggrinzarsi subito, con un acutissimo dolore. Che
m’importa del mondo, degli uomini? Io non vedo più
nessuno. I miei occhi vedono solo una cosa, un albeggiare
lontano... Tutto il resto è tenebra.

La natura che ride m’irrita poichè stride coi miei pensieri
dolorosi e par che quasi mi beffeggi. Vorrei che il
cielo fosse tetro, lampeggiante come me in questi momenti.
Come il naufrago che si vede intorno la desolata
vastità del mare e trema della solitudine funesta, e spia
l’orizzonte per vedere se una vela amica si mostri, io
pure, smarrito in un’immensità paurosa, mi sento solo,
dolorosamente solo. Ma non mi lascierò vincere dai
flutti. Solcherò il mare colle mie braccia vigorose alla
ricerca, viatore stancabile ed ardito.


Fluctuat in porto. Il motto latino mi sprona, ed io
come il nocchiero fisso il faro che lontano lontano rompe
la nebbia col suo fascio di luce. Ed io voglio raggiungere
quella luce. Voglio, voglio! Non vi saranno ostacoli
che me lo impediranno, nè scogli, nè infuriare di libecci.
Io sarò forte, io arriverò. Come le carovane arabe
s’accingono alla traversata del Sahara e guatan l’immensità
sabbiosa che dovranno attraversare, con l’ansia
di restar per via, e vanno, vanno, vanno, sotto le vampe
del sole, fra l’infuriar del simum, assetati, affamati,
stanchi, accanto ai gibbosi cammelli che allargano le
nari per rubare un po’ di frescura all’aria secca, con la
visione fissa assillante di una snella candida moschea
d’onde il muezzin saluta la Mecca alla sera, di una cittadina
fresca dove riposare, così pure io vado, vado, vado
con una visione unica negli occhi. Instancabile procedo,
con la gola serrata e con tutta una tempesta in me. Se
ciò che sento si potesse tramutare in vento, io passerei
come una bufera devastatrice distruggendo tutto sotto i
miei soffi violenti. E vado, e vado. L’anima geme, le
palpebre mi si serrano; sento un bisogno di pace, di riposo,
una lusinga a restare così sulla sabbia, svanire,
scomparire sotto il sole, ritornare nel nulla. Verrebbero
gli sciacalli e farebbero festino del mio corpo, lasciando
solo biancheggiante il mio scheletro, come una muta
ironia alla vita. Ma io insorgo, uccido il germe di pace e
proseguo. Arriverò perchè voglio. E se non arrivassi?
Allora il deserto s’impadronirebbe di me.


*
* *

Sono ammalato dello stesso male di Nietzsche e mi
dispiace confessare di avere qualche cosa di comune
con uno di questo o dell’altro mondo. Sono irrequieto,
nevrastenico. Alle tempia ho un ferreo cerchio che mi
stritola il cranio, e gli occhi stanchi di sogni mi martellano
nelle occhiaie gonfie e sanguigne. Sono destinato a
passare ramingo come una invisibile meteora traverso
questo mondo. Appunto perchè superiore dovrò vuotare
tutto il calice dei dolori e dello sconforto senza che la
gioia mi allieti. Ma l’aspra ebrezza di libare al calice dei
dolori è un superbo godimento che solo chi sfida incurante
la sorte, solo a chi da sè stesso con le proprie mani
si straccia a brandelli l’anima è dato degustare. Anch’io
talvolta agogno sì l’altro calice, quello della gioia, per
bagnarvi le mie labbra avide, ma esso fuggì ed ora giorno
per giorno si fa più spaventoso il baratro che mi divide
dagli altri. Chi verrà a me? Chi avrà il coraggio di
sorvolare la voragine per udire le mie verità, per sperdere
un poco la mia tristezza? Chi?... Ieri nel colmo della
mia stanchezza mi giunse una cartolina da una ignota.
Tre viole che con la gaiezza del pensiero e del simbolo
mi rallegrarono un po’: dodici parole che mi fecero sognare
piacevolmente.

Ringrazio l’ignota del suo pensiero e della sua misteriosità
che mi permise di slanciarmi di volo sul cavallo
alato della chimera. Ignota gentile, dove sei? Forse nel



l’Andalusia passionale, o nella gaia Francia? Chi sa?
Chi sa che il raggio di luce sia ella, l’ignota!... No, impossibile.
Intorno a me grava la tenebra fitta, paurosa. Io
non penso, non parlo, ma desidero il sole, la luce....

*
* *

Vagabondo per la vorace città mi immergo nel fragore
della vita per uccidere un germe di melanconia che si
fa strada entro me. Erro senza mèta ed osservo l’incessante
via vai, il succedersi continuo di fisonomie stereotipate
ed indifferenti. Passan donne sgargianti e in tutte
le loro movenze e i loro atti più semplici vedi lo sforzo,
l’ostentazione, lo scopo unico di stuzzicare il desiderio.
E l’uomo si ferma, segue con lo sguardo cupido le figurine
chiassose e procaci ed esclama il commento triviale.
Ecco uno stuolo di ricoverati, insaccati malamente in
abiti mal fatti, procedono, guidati da un prete tozzo e
volgare. Poveri bimbi! cresciuti nella bigotteria, nell’ambiente
corrotto del collegio, sono i rassegnati, gli
iloti di domani. Vedo una chiesa. Un grosso parroco discorre
con delle beghine che lo ascoltano compunte e attente,
e il pretonzolo agita le mani pelose e sguscia gli
occhietti lanciando occhiate oblique. Il ben pasciuto all’ombra
del tempio bugiardo sente inquietarsi l’urlo del
lavoro e della miseria, che pare aleggi sulla grande città.
«Signore, la carità» si lamenta un essere cencioso e
sporco.... «Signore, la carità....» E la folla procede indifferente
pensando alla minestra della sera, all’osteria, al


gioco delle boccie. E il richiamo del mendicante continuando
noioso e implacabile, mi trafigge le tempie, mi
martella il cervello.

Allungo il passo, sono nella zona borghese. Carrozze,
automobili, servitori gallonati, dai visi idioti, aprono
portiere, fanno inchini. Vedo donne imbellettate, profumate,
ganimedi attillati, coi guanti gialli, la caramella, il
bastoncino, la coccarda tricolore. Si urta, si confonde
questa gente: parla di pranzi, ballerine. Sale un profumo
nauseabondo che mi prende alla gola e mi soffoca. Ma
quasi affascinato rimango, sento il fruscio delle sete, il
ciangottare delle gentildonne. Da un caffè sortono a ondate
le note di un inno patriottico: un mutilato vicino a
me, appoggiato alle gruccie, guarda stupito la fiumana
incessante.

Fuggo. Vo per vie solitarie semibuie: sbocco in piazze,
in vicoli.

Fanciulli stracciati, sporchi, donne gravide, uomini
neri di fumo e puzzolenti di cicca. Spazzatura, fango.
Case umide, sgretolate, pisciate sui canti, osterie piene
di avventori urlanti e briachi. Ecco dei soldati: a passo
pesante, cadenzato, sudati, polverosi, rughe sulla fronte,
e schiena curva. Esce la gente, guarda, commenta, compassiona
e poi ritorna a bere, a urlare, a cantare.

Fuggo sempre. Veggo sulle cantonate gli annunci di
varie operette, di vari caffè chantants: sento un crocchio
di giovanotti che discorre di fot-bal, di ciclismo. Povera
umanità che sorge!


Lascio le vie, mi interno per prati, voglio dimenticare,
sognare. Una figura sorge da un gruppo d’alberi e mi si
avvicina. Sento una tanfata di vino colpirmi l’olfatto.
«Vieni, mi darai trenta centesimi!»

*
* *

Ho sognato un mondo in fiamme roteante nell’infinito
e lanciare bolidi infocati e scintille per gli spazi siderei.


*
* *

Ho un dio come gli altri: ma esso è senza d.

*
* *

Decadenza.

Come enormi arieti, diverse razze oggi si cozzano,
ognuno volendo la supremazia sulle altre.

La romantica latinità, la mercantile albione, contro
l’imperativa Germania, mentre a rimorchio vengon le
nazioncelle balcaniche col bagaglio pittoresco dei loro
costumi orientali arretrati. E sull’orizzonte fiammeggia
la Russia, che entra in una nuova fase della sua vita.

Dall’oriente le civiltà rinnovate e ringagliardite da
novelle energie, spiano a settentrione ove si sente buon
odor di cadavere, e que’ piccoli figli del sole, attendono


di poter quì riversare la sovrabbondante popolazione in
una rinnovata espansione di civiltà asiatica.

Eppure questo spettacolo, questo spreco folle di energie,
questa lotta accanita per la vita, non mi rivela nessuno
slancio di forza vera e cosciente. Io vedo solo un
immenso sfasciarsi, un diroccare di castelli, un mortale
spingersi di popoli, mentre la terra indifferente apre il
seno per accogliere tutta quella giovane carne che la feconderà.
Questo magnificamente terribile decadimento
avviene al lume titanico di un incendio colossale, adeguato
al ruinare di questa civiltà.

Così io vedo questo immenso aggrovigliarsi di uomini,
vedo mieter dall’alcool, dalla tisi, dal cannone: vedo
storpi, scrofolosi, acefali, delinquenti.

Letteratura, arte, scienze, tutto supplisce l’influsso di
questa mostruosa discesa. Tutto il mondo è un pullulare
solo di marciume che sale, sale e invade tutto e tutto inghiotte.


L’umanità si crede alta. Parla di eroismi, di progresso
e non s’accorge di essere ulcerata. Il baratro è lì spalancato
ed essa vi cade cantando, urlando, rissando, col suo
dio, la sua patria, la sua civiltà assassina, la sua degenerazione
elegante.

Tutto cade, tutto crolla. Morale muffosa, filosofie
greppajole e bugiarde, rettoricorume antiquato, non salvano
la situazione. Il male è avanzato e non s’impedisce
più ormai. I lecchezzi che adornano il vecchio edificio
sono divenuti il nido di microbi che inquinano. Ormai


tutto è condannato a sparire schiacciato sotto il cumolo
enorme di vecchiume. La storia chiude questa fase curiosa,
che diede lo spettacolo incomprensibile di supinità
nei suoi membri devoti a una ridda di vari fantasmi
inesistenti, e che fece vedere il ridicolo continuo costruire
per poi distruggere, il continuo paziente, soffrire
della moltitudine e il gavazzare di pochi, tutto un insieme
di vigliaccheria, inversione, nefandezze che vi vogliono
far passare per azioni eroiche, tutta una mentalità
rinsecchita che loro dicono geniale.

Così ha fine questa età. Ben vada. Al cospetto di tante
rovine, novello Nerone canto sul disastro, godo nel vederlo,
poichè su queste rovine. edificherò il mio edificio,
la mia civiltà, il mio mondo. Perciò canto....

*
* *

«LUI».

Era un rebus vivente quell’imbecille! Non si sapeva
mai che cosa avesse nella calotta cranica.

Brutto, con una capigliatura assalonnica, pareva un
Rasputine che avesse fatto un bagno. Due occhi chiari
senza lampi che in certi momenti soffiavano un vento
gelido.

Del resto se volete conoscerlo, andate sotto la galleria.
Vedrete una gran sciarpa di lana con sopra un cappellaccio.
È lui. Fermatelo, salutatelo. Anche se non vi
conosce non si meraviglierà di vedervi. Offritegli delle
sigarette (che altrimenti ve le chiede lui!) e benignamen



te discorrerà con voi. Se poi gli pagate una bottiglia di
sangue di giuda, allora qualche paradosso vi compenserà
del disturbo. Ma non illudetevi di conoscere la sua
idea. Egli in un quarto d’ora sarà anarchico, borghese,
autocrate, occultista, futurista, ecc. ecc. Vi romperà i
timpani con parole corredate da lui, vi prenderà maledettamente
in giro, con l’aria di parlarvi seriamente.

E non offendetevi, perchè del resto in quel momento
egli proverà una grande tenerezza per voi. È capace perfino
di baciarvi. È maledettamente nevrastenico. Se lo
vedete ammutolire e fumare rabbiosamente non riuscirete
a cavargli di bocca che frasi inconcludenti. In questo
istante desidera due persone, una che è la più desiderata
non v’interessa saperlo, l’altra la sua cara mummietta.

Se la trova, se la prende sotto il braccio e se ne va.

Che strage allora!

Sono capaci di rompere vetri alle case, tentare di far
deviare i tranvais, sputare sul pastrano ai vecchietti....

Cose dell’altro mondo, vi dico.... mascalzoni meravigliosi.


Questo è «Lui»!


Un capitolo chiuso.

Compito triste di cronista è il mio. Triste è lo scrivere
una pagina col cuore che si domanda: E poi? Ma noi
siam sacrati alla lotta: o riuscire a scomparire. È fatale.
E così, fatalmente, uno se ne va.

Uh! Come urlerebbero gl’imbecilli: l’anarchico volontario!?
Che possono sapere i beati della tempesta che
ci rugge nel cervello? Che possono sapere della nostra
fame di gioia, di vita? Che posson sapere della nostra
sconfitta dovuta alla viltà umana?

Fummo soli; non trovammo il gruppo di arditi pronto
ad associarsi alla lotta, per la conquista della vita.

Fummo sconfitti perciò.

Ed uno se ne va.... Rimane l’altro con l’occhio fisso
all’orizzonte. Egli non può, non deve partire. Questo il
nostro destino. Troveremo dei fratelli?

Altrimenti chi in un modo, chi nell’altro, scompariremo,
taciti o tumultuosi, dalla scena del mondo.

Un capitolo è chiuso.

Capitolo di lotta, di speranze, d’illusioni. Ma la fine
non è arrivata. Vedremo come finiranno queste vite strane,
anormali, che meglio era se non erano nate mai.

Punto e a capo.

Campo di Rocchetta di Cairo - estate 1918.


Le solite dei Nei e Cicisbei.

La cosa avvenne all’osteria del Gatto nero.

Era una notte tempestosa, piena di lampi e tuoni; la
stagione non ricordo qual fosse, forse autunno. Loro
erano seduti ad una tavolaccia sgangherata su delle sedie
reduci da chi sa quante battaglie d’ubriachi. L’ostessa,
una donnaccia unta e bisunta, che trasudava dai pori
il grasso delle sue casseruole, guardava stupita quei singoli
avventori.

E ne aveva ben donde! Tipi così strani non se ne trovavano
certo per ogni dove. Infangati, con dei grandi
mantelli neri e i cappellacci che gocciolavano, avrebbero
messo in apprensione il pacifico borghese, e in sospetto
il guardingo poliziotto.

E poi, certi discorsi.... State a sentire e zitti.

– To’, manipolatrice di polpette avvelenate, portaci
del vino!

Il vino venne servito; loro versarono e bevvero.

– Senti, cara Mummietta, se non aprono presto il nostro
S. Martino, ne fo una grossa.

– Hai ragione. Io è già tre mesi che non vedo la Pina,
sono disperato.


Gli altri ascoltavano e annuivano, poi:

– La luna è nascosta.

– Ma noi siamo ombre.

– Facciamo l’appello.

S’incominciò l’appello; lo faceva uno chiamato Bacherozzolo,
da una spaventosa capigliatura zingaresca.

– Mummietta....

– Veglio.

– Dente....

– Attendo.

– Chiodo....

– Bevo.

– Bambolo....

– Mi succhio il dito.

– Occhio di Vetro....

– Sbadiglio.

– Assenzio....

Bambolo smise di succhiarsi il dito e disse:

– È in galera.

Bacherozzolo scrisse e poi chiese:

– Ne vedo altri due, chi sono? Chi li presenta?

Dente si fece avanti.

– Illustre Bacherozzolo, io ardisco proporre che due
nuovi nei entrino a far parte della nostra confraternita. I
loro titoli accademici sono:

– I° Bevono come russi....

L’assemblea grugnì con soddisfazione.

Dente soddisfatto riprese:


– II° Odiano il lavoro....

Il grugnito divenne simpatia manifesta.

– III° Hanno già fatto venti anni di galera. Vivono di
notte. Non han paura di niente. Son pronti a tutto, pur di
star bene e di vivere. Ecco tutto. Mi pregio pregare l’illustre
Bacherozzolo di volere benignamente dar loro un
buffetto sulla proboscide. A lui ed all’assemblea, il giudizio.
Ho finito.

Bacherozzolo allora disse:

– Avete udito, Cicisbei; volete voi accettare?

Un formidabile urrà fece screpolare ancor più lo scalcinato
soffitto della bettola.

– Sta bene. Voi due fatevi avanti!

I due iniziati si fecero avanti.

– Guardate che il nostro vino prediletto è il sangue di
giuda. Siete nella lega di coloro che ridono, guardate di
non piangere mai.

E in così dire diede loro il buffetto d’occasione.

Tu ti chiamerai Raspante, e tu Graticola; tornate al
vostro posto, e voi festeggiateli.

Avvenne il finimondo. Urla, canti, salti pazzeschi.
Bicchieri e bottiglie danzavano di mano in mano in una
ridda vertiginosa.

Mummietta nell’impeto della gioia andò ad abbracciare
l’ostessa che spaventata si schermiva. Poi ad un
tratto un coro s’alzò:

Oggi siam neriDoman saremo bianchi


Ed anche verdesinChe me ne infalla

A ioooo!

Bacherozzolo fece l’urlo del lupo e il silenzio si ristabilì.


– Attenti, – disse – fumate.

Tutti trassero le sigarette e cominciarono a fumare.
Una nuvola di fumo li circondò.

– Cicisbei, una triste cosa, una catena avvince il mondo.
Per lei si vedon musi imbronciati, per lei le cravatte
sono annodate con cura e i capelli tagliati. Ovunque si
giri lo sguardo si vedono baffetti arricciati e cappelli
duri. I libri, i giornali, tutto insomma è grigio, nebbioso.
Si parla di affari e di politica da gabinetto. Si lotta contro
l’alcool e si applaudiscono i deputati. Bisogna uccidere
il tiranno che ciò fa. Ridare al mondo la gioia, la
spensieratezza, la follìa. Spazzare occorre questo puzzo
pestifero. Cicisbei, bisogna uccidere la «Serietà».

Un immenso «bravo» echeggiò.

Nel frattempo la porta s’era aperta ed era entrato un
individuo che aveva legato un cavallo nero all’inferriata
della finestra. Esso aveva udito l’ultime parole. S’avvicinò
e disse:

– Ci stò anch’io!

– Chi sei? – chiesero.

– Non curatevene, poichè ci stò!

Bacherozzolo interloquì:

– Occorre tu dica il tuo nome almeno a me.


Lo sconosciuto titubò un istante e poi parlò piano nell’orecchio
di Bacherozzolo. Questo lo riguardò stupito e
gli strinse la mano, poi rivolto agli altri:

– Può andare, ne sono garante. Allora usciamo, e all’opera.


Tutti uscirono. Il temporale era cessato ed il cielo
stellato. La squadra preceduta da Bacherozzolo e dallo
sconosciuto marciava in silenzio.

Giunto ad un crocicchio, Bacherozzolo si voltò e parlò:


– Ognuno vada per la sua strada e porti un poco di serietà.
Ci ritroveremo a mezzanotte nel cimitero, e lì giustizia
sarà fatta.

Ognuno se ne andò per suo conto e rimasero, soli,
Bacherozzolo e lo sconosciuto.

– Dunque, tu sei proprio Cristo?

– E te ne meravigli?

– Un poco, lo confesso.

Cristo sospirò, e disse:

– Che vuoi? Volevo l’uomo buono e l’ho avuto ipocrita,
lo volevo naturale, e lo ebbi depravato; io che credevo,
e in tale speranza vivevo, di essere grande mi
sono avvisto di essere nato cretino. Allora dissi: proviamo
con la follìa, tutto è folle, e l’uomo s’intonerà all’ambiente.
Vi ho incontrato vi aiuterò.

S’incamminarono al cimitero, in silenzio vi giunsero,
entrarono, e seduti su di una tomba attesero.


Mezzanotte scoccò lenta, lenta. Subito ombre si agitarono
d’ogni parte. Bacherozzolo fischiò e tutti intorno a
lui si radunarono. Ognuno aveva dei carichi immensi di
roba, nè si comprendeva con qual mezzo riusciti fossero
a portarla lì. Si cominciò a formare il rogo. Con che
cosa? Libri di filosofia, storia, scienza, ecc. Strumenti
d’astronomia, quadri, statue, divise militari e da prete,
mobili, musei, ospedali, scuole, università. Tutto ciò che
forma insomma il patrimonio dei nostri tempi, perchè
tutto ciò era serio. La catasta gigantesca era approntata e
già uno s’avvicinava per darvi fuoco quando lo sconosciuto
lo fermò e disse:

– Fermi! Che v’ha dato l’uomo perchè lo liberiate?
Nulla! Che vi darà quando l’avrete liberato? Nulla! E lasciamo
che imputridisca nella sua tristezza. Pensiamo a
noi. Ognuno di noi ha un po’ di serietà in sè stesso, la
cacci fuori. Io dò l’esempio. – E in così dire trasse un libro
e lo gettò a terra. Alcuni guardarono. Era il Vangelo.
Tutti allora gettarono qualche cosa, e un piccolo
mucchio s’innalzò vicino a quell’altro mastodontico. Vi
si appiccò la fiamma. Quando tutto fu combusto, i petti
dei convenuti non sentirono più oppressione. Tutti eran
lieti, tutti sghignazzavano. E sghignazzando se ne andarono
sparendo nella notte, mentre le note del loro inno
echeggiavano nel silenzio. Ma Cristo era rimasto.
Sgambettava come un matto ridendo a crepapelle. Poi
sollevò una tomba e vi si nascose dicendo:

– Vogliamo fare una burla al becchino!


*
* *

Così in un cimitero venne giustiziata la serietà dai
Nei e Cicisbei.

De profundis....


La Chateau Rouge.

L’avevano vista una mattina uscire dalla sua villetta
nascosta dai cespi di rose, ed avviarsi pe’ sentieruoli
montani umidi di rugiada e soffici di musco. E l’avevan
seguita attratti dal potere malefico della sua bellezza.

Camminava canticchiando, tra i raggi del sole che le
facevano fulgere i capelli e la circondavano come di
un’aureola di luce. E vista così, candida, con tutto quell’oro
intorno alla testa, faceva pensare ad una visione di
sogno, impossibile nella realtà.

Lei, dopo un lungo giro, si era ritrovata dinanzi alla
sua villettina. Loro non si erano accorti nella contemplazione
di essersi troppo avvicinati, sì che essa li scorse, e
vistili così singolari nelle persone e negli abiti, era rimasta
un istante sbigottita, poi aveva dato in una risata, ed
era scomparsa fra i rosai.

Essi eran rimasti lì, muti, con un’ultima visione d’oro
e di bianco, e con quella risatina squillante che s’ostinava
a tintinnar loro nelle orecchie.

*
* *


Le Chateau Rouge, sorgeva in una radura affatto deserta
di que’ monti. Era un vecchio rudere, ormai, pittoresco
e melanconico. Era bello nella sua rovina, ricoperto
d’edere e di muschi, con una cupa boscaglia per sfondo,
che fittissima si distendeva a perdita d’occhio. I
montanari dei dintorni evitavano quei paraggi con la solita
paura degli spiriti, quindi la solitudine e il silenzio
più profondo vi regnavano. Era notte. La luna illuminava
il castello con un pittoresco gioco d’ombre. Si vedevan
vani oscuri, merlature minacciose, ferrate massicce;
e l’orecchio attendeva il suono d’una mandola o l’all’erta
della scolta.

A un tratto dei profili strani spiccarono nella penombra.
S’udirono fischi, passi, poi più nulla.

*
* *

Siamo nei sotterranei del castello; una singolare adunanza
di persone è ivi riunita. Uno d’essi parlava:

– Ho scorto in voi, compagni, il turbamento. Ho chiaramente
letto nei vostri occhi l’ammirazione. Quella
donna per noi è un simbolo, deve esser nostra, lo sarà.
Ma compagni, siete voi sicuri che l’egoismo individuale
non rinasca, e ognuno la desideri sua, solamente sua?
Perchè allora il nostro piccolo mondo dovrebbe scomparire
per causa d’una donna. Pensateci; compagni.

E tacque. Un fremito passò su quegli uomini. Un singhiozzo
s’udì. Era il più giovine che piangeva. Nessuno


se ne meravigliò. Tutti sentivano in sè stessi un po’ di
quel pianto. Il piangente si fece avanti:

– Ascoltami, Baco, ascoltatemi compagni. Sono un
vile. Mi son lasciato ammaliare da quella femmina e
sento che qualsiasi cosa farei per lei. Vi tradirei perfino.
Compagni, punitemi.

E rimase in attesa.

Una commozione profonda era in tutti. Nessuno osava
rimproverarlo. Quelle parole e quell’angoscia erano
in tutti i cuori. Baco s’alzò e disse:

– Occorre che lasciate fare a me. Guardate però che
io vi chiuderò in questo sotterraneo fino al mio ritorno.

Tutti gli strinsero melanconicamente la mano, ed egli
partì. Loro tristemente pensavano, mentre le torce si
consumavano sfavillando.

*
* *

Due settimane erano scorse e nel sotterraneo l’attesa
rodeva tutti. Passeggiavano febbrilmente tendendo le
orecchie. Il timore, l’ansia, il sospetto, tumultuavano
nell’animo di ognuno.

Ma verso le undici di notte s’udì uno stridore di serrature.
Tutti balzarono.

Bacherozzolo entrò. Alla luce delle torce tutti scorsero
un cambiamento notevole in lui. Più curvo ancora,
con gli occhi infossati e cerchiati e una piega triste e ironica
sulle labbra. Tutti, in silenzio, gli strinsero la mano
e attesero.


– Compagni, tutto è fatto. Riuscii a conoscere «Lei»,
l’accompagnai nella città tempestosa che noi abbiamo
fatto tremare. E seppi chi era.... Era una cocotte! Una
cocotte celebre, privilegio dell’alta borghesia. Sì, compagni,
quella bellezza si concedeva per dei biglietti di
banca. Io quando seppi ciò inorridii. Non ho, nè abbiamo
pregiudizi, ma quel simbolo di bellezza che noi inseguivamo
doveva essere qualche cosa di puro, di superiore....


«Una volta ancora la realtà vinse. La vidi sui boulevard,
in tiro a due, sorridere alla folla incilindrata e incaramellata,
accanto a uno stupido vanesio finanziere. La
vidi nelle cene e nei bagordi, seminuda, suscitare la libidine
del convito.

«E colmo di disgusto, seppi che l’amante di quella
donna era un orrido deforme, del quale ella era pazza!

«Immaginate, compagni, sul seno divino di quella
donna quel sudicio sgorbio della natura...?!»

La voce inesorabile ed acuta martellava le parole con
odio, con livore. L’uditorio fremeva. Egli riprese:

– Io vidi tutto ciò, e in quell’istante avrei voluto essere
un dio per fulminare questa schifosa società che così
insozza le nostre illusioni. Dio non ero, ma egualmente
agii. A un tratto Ella scomparve. Il suo amante fu trovato
sgozzato nel letto.

«La città fu a rumore; poi nella furia degli avvenimenti
tutto fu dimenticato.


«Ella era con me in una casuccia un po’ fuori dell’abitato.
Ella era mia prigioniera.»

La voce prese un’intonazione trionfale, gioiosa; gli
altri anelanti ascoltavano.

– Ella era mia prigioniera. La vidi in tutta la sua bellezza,
nuda, coi lunghi capelli biondi sulle spalle. Una
sera mentre ella dormiva ed io vegliavo guardandola la
scoprii tutta e la baciai per tutto il corpo, in un’orgia
d’adorazione.

«Ella s’era svegliata e negli occhi trionfava.

«Ma al pensiero dei baci mercenarî, che prima di me
sul suo corpo eran passati, il poeta si ribellò, si ribellò,
ed io la uccisi!...»

La voce aveva urlato tragicamente l’ultima frase. L’uditorio
inerte vedeva come in sogno tutto, e ansava.

La voce riprese sepolcrale: – L’uccisi d’un veleno rapido,
la vidi contorcersi, morire... E allora trionfai. Avevo
vinto. Ed ora è nostra. Voi la vedrete.

Egli scomparve, fischiò, due uomini entrarono con
una cassa sulle spalle. La deposero e Bacherozzolo senza
togliere i veli che la ricoprivano, riprese:

– Compagni, il più gran dono vi faccio. La bellezza
pura che non sia femmina. Ho purificato la cortigiana
con la febbre del mio pensiero.

Strappò di colpo i veli. Oltre i cristalli comparve il
corpo nudo di lei che viva pareva. Tutti eran caduti in
ginocchio e la fissavano mormorando parole sconnesse
con gli occhi pieni d’una nuova luce. Bacherozzolo pro



nunciò le ultime parole, trionfante, gioioso, con una musicalità
nuova nella voce:

– Compagni, essa è qui, immortale, pura, nostra. In
lei potranno posarsi i nostri occhi senza disgusto perchè
ormai essa appartiene al sogno e in esso vive. Essa è dei
Cavalieri dell’Illusione!

*
* *

Le stagioni si succedono ininterrottamente su que’
monti, e venti e tempeste urlano intorno e Le Chateau
Rouge. La villettina delle rose è abitata da pacifici borghesi,
e la bella madonnina, come la chiamavano i montanari,
è dimenticata.

Talvolta strani individui, qualunque tempo faccia,
s’arrampicano su quelle balze verso il castello.

Noi possiamo dire che sono i Nei e Cicisbei,che vanno
a dimenticare i musi incipriati e volgari che vedono
nelle città, ammirando la pura bellezza, la bellezza senza
corpo, la bellezza che vive nel sogno.


In difesa di Mata Hari.

«Ieri mattina nel cortile della Caponiere, nel bosco di
Vincennes, venne giustiziata l’ex ballerina Mata Hari».

Le brevi, feroci, parole del telegramma, mi hanno
riempito il cuore di tristezza. Oh, Mata Hari, forse non ti
immaginavi una fine così triste. Malgrado il tuo scetticismo,
non credevi ancora, forse, che gli uomini che impazzivano
per te, fossero così vili.

Nessuno ha tentato di difenderti, nessuno ha voluto
arrischiare qualche cosa per salvarti. Questi gentiluomini
che cadevano ai tuoi piedi, come frutti marci, che rivelano
ogni più segreto documento per un tuo sguardo,
che per possederti non esitavano a rovinare famiglia e
patria, questi gentiluomini ebbero paura a tentare qualche
cosa per te. E così, come si ammazza un cane idrofobo,
hanno permesso che un drappello di soldatacci
ignobili, ti assassinasse in un umido cortile, con una
scarica di piombo rovente, nel bel corpo divino. E probabilmente,
qualcuno di cotesti Catoni d’alto bordo, si
sarà rallegrato pubblicamente per la severità del giudice.
Peuh! una spia!


Vigliacchi! Loro che non esiterebbero a far morir di
fame migliaia di lavoratori, pur di guadagnare; che in
Borsa giocherebbero la prosperità di intere provincie,
pur di satollarsi d’oro; che tradirebbero ogni istante ciò
che chiamano patria, per il loro interesse, hanno finto un
moto d’orrore quando l’istruttoria rivelò ciò che essi già
sapevano. Peuh! una spia!

Per possederti ti svelarono i più gelosi segreti della
nazione, per possederti ti consegnarono i piani delle più
poderose fortezze, per possederti ti donarono la vita di
migliaia d’uomini. Ora morta, ti calpestano con disgusto,
ti ingiuriano, e col tuo sangue si lavano le mani.
Mata Hari è stata giustiziata!

Povera Mata! chi l’avrebbe pensata una fine così feroce?
Quando l’automobile così lussuosa ti trasportava
per i grandiosi boulevards parigini, affascinante nelle
toilettes costose, chi avrebbe mai pensato che una cella
ignobile sarebbe stata un giorno tuo asilo? Quando nei
saloni dorati della più alta aristocrazia, il tuo corpo flessuoso
di maliarda, nudo, fremente, suscitava i bisbigli e
la foia di mille gentiluomini in frack e caramella, chi lo
avrebbe pensato che saresti caduta nel fango di un lurido
cortile di fortezza, col corpo crivellato di ferite, in
una triste giornata piovosa? Povera Mata!

Non compiango i soldati che morirono per causa tua.

La massa bruta, che si lascia trascinare al macello
senza un moto di ribellione, che si lascia scannare così,
senza un perchè, che abbandona tutto ciò che ha di più


caro, al semplice ordine di un foglio affisso a una cantonata,
è troppo vile: merita la morte, merita il coltello del
boia. E tu, povera Mata, eri bella! E la bellezza suprema
è al di là del bene e del male. Morire per causa di una
donna meravigliosa, è ancora la morte migliore.

Dormi in pace, povera Mata! Qualcuno che non ti ha
mai conosciuta, ha giurato di vendicarti. E il ricordo dei
tuoi occhi insanguinati, guiderà il suo pugnale; e la visione
del tuo corpo dilaniato, renderà più efficace la sua
bomba!


Iconoclasta.

Sì, mia cara, ho commesso un delitto, un delitto che ti
riempirà d’orrore. Io te lo confesso col cinismo che mi è
abituale, con quel cinismo che gli antropofaghi dicono
essere la caratteristica dei delinquenti.

Dunque senti. L’altra notte ero di guardia. Seduto su
uno sgabello, guardavo distrattamente le pareti della camerata
che una fioca lampada illuminava bizzarramente.
Pensavo a te. Guardavo nelle acque glauche della rimembranza
e sospiravo, pensando al presente. Tolsi di
tasca la tua fotografia e mi misi a fissarla dicendoti tante
cose dolci col pensiero e con gli occhi. Ti chiamai in
quel momento, e certo, se tu fossi venuta, il delitto non
sarebbe accaduto. Ma tu non venisti, io mi tolsi da quella
contemplazione, sentii il russare plebeo della camerata,
il passo cadenzato della ronda nella via, e tutto questo
fu come un getto gelido d’acqua. Accesi una sigaretta,
e ad un tratto, acutissimo, improvviso, sentii un odio,
un odio atroce verso te....

Un seguito di pensieri cattivi, ostili, succedeva a quel
primo scatto, ed io fumando nervosamente, distruggevo
senza pietà tutto il roseo edificio dei nostri sogni. Uh! la


casettina bianca! La mogliettina fedele che ti attende la
sera!... Che cose stantie, borghesi! Fedele, poi! Che parolona!
Chi è fedele al giorno d’oggi? Chi sa che la sorella
non avesse ragione. Va bene che parlava per gelosia,
ma quando piangendo si era quasi gettata ai miei
piedi, scongiurandomi di crederla.... e faceva dei nomi
alla fine!...

Io invece, stupido, la mandai via dicendole: «Non mi
fare la Lidya Borelli!»

E poi quella moda! Sempre parlarmi, parlarmi di cappelli,
fiocchi, nastri.... che noia. Decisamente ciò era indice
di leggerezza. M’amava davvero, alla fine? Si può
forse dire con certezza che una donna ami? Forse era
più per ambizione, per poter dire alle amiche: Sapete, il
tal dei tali, quel famoso ecc. – Sì Ebbene? – Ebbene,
esso mi ama!

Fenomeno comune, questo, tra le donne. Quante volte
non l’avevo io visto? E poi quell’affettuosità così intensa,
l’idolatria con cui mi circondava, erano magari caricature.
Figurarsi dirmi se volevo, ch’essa morisse! Questa
è buffa! Mi credeva così cretino da credere alle sue
frasi melodrammatiche?

Il mozzicone della sigaretta mi bruciò le dita. Lo gettai
rabbiosamente e mi misi a passeggiare.

Sì, sì. Valeva meglio finirla senz’altro. Vivere soli,
senza femmine tra i piedi.... Libero, libero! Sono stufo
di avere il cervello schiavo.


Accesi un cerino e appiccai il fuoco alla sua fotografia.
Poi la guardai consumarsi lentamente e ridursi infine
ad un informe mucchietto di cenere. Vi misi il piede
sopra, e poi risi, risi convulsamente. La camerata russava.
Uno in sogno si mise a gridare: Ohè! Padrone, che
mi porta da bere?


Eroe o assassino?

Parla il comandante del sottomarino
che silurò il “Lusitania”.

Ecco, sono divenuto celebre, ma anche ignobile.
Quando passeggio per le vie di una qualsiasi città della
Germania, mille donne ben grasse e dai visi di bul-dog
imbronciato mi guardano con amore, mentre invece se
osassi far ciò nelle altre capitali europee probabilmente
qualche pitale mi verrebbe in testa! E questa nella migliore
delle ipotesi! Eppure io non comprendo l’odio
che su me riversano.

Secondo me, anzi, milioni di persone dovrebbero ringraziarmi.
Come?.. Vedo una miserabile barcaccia passare
carica di gente, mi sacrifico eroicamente e scaravento
sotto prua un siluro da 30.000 lire (Dio cane,
come mi piangeva il cuore a gettarlo così! Io me le sarei
bevute in tanta buona birra! Basta, quel che è fatto è fatto).
Ebbene, malgrado questo sacrificio tutti mi rovesciano
addosso un sacco d’improperi! Io non ci capisco
un’acca!


Credevo di fare un piacere a tutti i giornaloni del
mondo, ai quali ho permesso di smerciare le più lacrimose
prose, e che a causa mia stamparono milioni di
supplementi, ed invece loro sono i primi ad insultarmi!
Migliaia d’oratori hanno per me infocato i loro discorsi
di pistolotti riuscitissimi. Ebbene, non hanno avuto la
gentilezza di mandarmi neanche una cartolina.

E le società di navigazione? Soppresso un pericoloso
concorrente, mi sarei contentato di un po’ di dividendo,
ma che! L’hai visti tu? E io idem! Si vede proprio che il
commercio indurisce il cuore. Lusitania di quì, Lusitania
di là! Tutta la gente che non sa mai cosa dire ne ha
parlato con gioia per sei mesi e ne parla e ne parlerà per
chissà quanto! Eppure anch’essi ingrati, ingrati....

E i passeggeri? Non avevano avuto emozioni, ne procuro
una io, e non mi sono affatto riconoscenti. Leggono,
vanno a sentire, sognano cose terribili e se ne compiacciono.
Io gliele ammannisco lì, vive, palpitanti. Cos’è
un applauso? Ma che! Accidenti mi mandavano, accidenti
che salivano al cielo. Procurai eredità, pagamenti
d’assicurazioni sulla vita, anche questo feci. Ma la mia
posizione non cambia.

Per esempio. Viene una visita. E come sta sua madre?
Oh, poveretta, era uno dei passeggeri del Lusitania, è
morta, mio dio!

Non è una soddisfazione avere un parente, un amico,
morto nel siluramento?


Si può raccontare a tutti, è come conoscere un deputato,
quasi, ma nessuno di questo mi ringrazia. Ah! È
proprio vero che il mondo è ignorante ed egoista!

Qualcuno potrebbe dirmi che almeno ho goduto lo
spettacolo del siluramento. Sì, bello spettacolo! La nave
affondò goffamente sbuffando come una foca. Il mare
pieno di barchette coi passeggeri fradici che urlavano
come matti, e la gente che annegava faceva certe faccie
stupide come di uno che beve l’olio di ricino. Vi assicuro
che non mi divertii per niente. Io del resto sono filosofo
e mi rassegno, e a chi non vuole riconoscere i miei
meriti rispondo semplicemente così: i bastimenti son
fatti per stare a galla e i siluri per mandarli sotto. Non
fate più bastimenti e non vi saranno più siluri.... È così
logico! E poi del resto, il Lusitania una volta o l’altra
doveva ben finire. Io anticipai. E per un anticipo non
vale la pena di fare tanto chiasso. Tutto sommato, visto
che le tedesche spasiman per me, mi contento di questo:
la mia riabilitazione all’avvenire che, come si suol dire,
è galantuomo.

Se però anche questa non è una bugia...

Beh, sono nato sotto una cattiva stella! E infatti mia
madre si chiamava così e vi assicuro che mi sculacciava
senza pietà! Che caso, eh? Il Kaiser mi onora spesso di
complimenti.

Dice che sono un eroe, ecc, ecc.

Io mi digerisco tutto col piacere che si può provare
mangiando un limone. Sono eroe? tanto meglio, questo


non guasta! Ma la verità è che sono incompreso. Mi insultano
come assassino, e mi onorano come eroe. Ma
nessuno ha ragione. Non hanno la perfetta visuale di ciò
che ho fatto.

Com’è stupido il mondo!

Il più è che non mi faccia prendere dagli inglesi.

Questi dannati sono rabbiosi non per i morti, ma per
il piroscafo che ho affondato e se mi chiappano m’impiccano.
Sono così gelosi del loro interesse che sono
profondamente persuaso che mi darebbero una buona
cravatta di canapa senza neanche farmi dare un By
Cood al creatore, se potessero. Ma io spero in bene. La
posterità ad ogni modo farà giustizia. È vero che io sarò
morto, ma ciò è sempre un onore....

Se ne va? Allora arrivederci. Sì, sì, grazie e altrettanto!



La Federazione del Dolore.

Io chiamo a raccolta tutti gli spasimi della terra. Chi
ha un tarlo occulto che lo roda, chi porta il lutto per l’Ideale,
chi sghignazza sullo sfacelo dell’anima, venga.
Ho bisogno che il mio dolore diventi fiumana, bufera;
ho bisogno d’udire l’urlo della sofferenza, il gemito della
disperazione.

Perchè si ride, nel mondo, ed io non posso sentir ridere.


Fratelli di catena, compagni di strazio, la battaglia è
vicina. Presto ebbri di vendetta ci scaglieremo all’assalto;
e fuggirà il nemico perchè è terribile la Federazione
del Dolore.

*
* *

Da quando nacqui porto il pesante fardello. E le spalle
si sono incurvate e gli occhi infossati. Il tarlo rode,
rode, mi ha già distrutto.

Basta, perdio! Sono stanco.

Getto il fardello e mi fermo, ne ho abbastanza della
vita. Non ho potuto vivere, mi saprò vendicare. Creperò


su qualche marciapiede, con l’ultima bestemmia sul labbro
e l’ultimo guizzo di odio nell’occhio.

Come odio!... L’acciottolato lurido della città mi
manda tanfate di fogna. Mi ha avvelenato. Ero così forte
prima! Ridevo anch’io allora.... Poi.... Devo proprio urlare
quello che avvenne, devo proprio denudarmi davanti
a voi?

Ma imbecilli, è la solita storia!

Si ama, si spera, si opera, e poi viene lo schifo, il nulla,
la disperazione....

*
* *

Un giorno mi portarono alla guerra. Io sognavo, allora,
ero ancora bambino.

La prima raffica di mitraglia mi schiaffeggiò crudelmente
i nervi; aprii gli occhi, vidi sangue, poi più nulla.

Ricordo una fiammata gigante, un tonare continuo....
morti, morti.... e fetore, fetore di cadavere....

*
* *

Io non capisco come mai di quella puzza me ne sia rimasta
un tanfata in gola. Mi pare d’essere in un immenso
cimitero.... croci, bare e puzzo. La società puzza di
cadavere.

*
* *


Le orecchie mi dolgono orrendamente. È il cannone
che ha fatto questo. La belva tonante ha impresso profonde
unghiate nel mio povero cervello.

Sento sempre un urlo lontano lontano, come il singhiozzo
di un gigante disperato. Ma chi è che piange nel
mondo?

*
* *

La guerra ha ridestato in me l’animale. Le mascelle
sono convulsivamente contratte, gli occhi sbarrati e le
mani vogliono stringere, stringere....

Mi son sorpreso mentre guardavo qualcuno con una
voglia strana di sbranarlo. Perchè ho voglia di mordere e
di sbranare?

Non ci sono più tedeschi, ora; chi devo uccidere dunque?


*
* *

Sarò pazzo forse. Ma la mia pazzia è più terribile della
ragionevolezza. Vedo più lontano, sento più vivamente
la vita.

Non so che cosa sia, ma il certo si è che soffro enormemente,
molto più di prima.

Prima? Pensare che prima ero un bambino!

*
* *


Ma perchè questo? Che ho fatto? Vedo crescere tranquille
le margherite, le rondini vanno e vengono per le
vie del cielo. Lasciatemi vivere dunque! Anch’io sono
una margherita e una rondine.... piace anche a me la rugiada
e l’azzurro libero.

E invece.... Ammanettato, infangato, affamato.

Senza amore, senza libertà.

*
* *

E sia, poichè lo volete. In lupo mi trasformaste e lupo
rimarrò. Ma finora m’artigliai il petto, domani altro sangue
voglio. Non domandate pietà poi. Nel mio cervello
avete scritto: Strage. E strage sia.

Forse l’umanità è sporca. Ha bisogno di lavarsi, e per
questo bagno ci vuole sangue.

Chissà dopo il lavacro e la distruzione.... Chissà se faremo
come le margherite e le rondini.... Come sarebbe
bello!

*
* *

Per questo anime in pena del mondo, io vi chiamo a
raccolta.

Il vessillo è già al vento.

È nero: lutto vuol dire. Avanti dunque, forsennati
Prometei. L’urlo della vendetta è una musica dolce e
cara.


Oggi bisogna uccidere, uccidere.... domani saremo.
margheritine....

Avanti, Federazione del Dolore!

dall’ICONOCLASTA!


Il me faut vivre ma vie.

Io non credo al diritto. La vita che è tutta una manifestazione
di forze incoerenti, inconosciute e inconoscibili,
nega l’artificiosità umana del diritto. Il diritto nacque
quando ci fu tolto. Infatti in origine l’umanità non aveva
nessun diritto. Viveva, ecco tutto. Oggi invece di diritti
ve ne sono a migliaia; si può dire senza errare che tutto
quello che ci manca si chiami diritto.

Io so che vivo e che voglio vivere.

È molto difficile mettere in azione questo voglio. Siamo
circondati da una umanità che vuole quello che vogliono
gli altri. La mia affermazione isolata è delitto de’
più gravi.

Legge e morale, a gara, m’intimoriscono e persuadono.


Il «biondo rabbi» ha trionfato.

Si prega, s’implora, si bestemmia, ma non si osa. La
vigliaccheria, carezzata dal cristianesimo, crea la morale,
e questa giustifica la viltà e genera la rinuncia.

Ma questo desiderio di vivere, questa volontà, vuole
pure svolgersi. Il cristiano si guarda bene in giro, osserva
se nessuno lo guarda, e tremando compie il peccato.


Così la vita è peccato; il desiderio: peccato; l’amore:
peccato. Ecco l’inversione.

«Sgualdrina, femmina da tutti, non vergognarti del
mondo. Tu sei franca e leale. Offri ciò che è tuo a chi
compra, non dai nè togli illusioni.

«La società, invece, onesta e pulita nel viso, e incancrenita
orrendamente nel corpo, m’eccita il vomito, l’orrore,
mi fa schifo, m’uccide....»

*
* *

Io invidio i selvaggi. E potessi gridar loro a gran
voce: «Salvatevi, arriva la civiltà!»

Sicuro: la nostra cara civiltà di cui andiamo tanto alteri!
Abbiamo abbandonato la libera e felice vita delle
selve per questa orrenda schiavitù morale e materiale. E
siamo maniaci, nevrastenici, suicidi.

Che m’importa che la civiltà abbia dato le ali all’uomo
per bombardare le città, che m’importa di sapere le
stelle del cielo e i fiumi della terra?

Ieri non c’erano i codici, è vero, e a quanto pare si faceva
giustizia sommaria.

Barbari tempi! Oggi invece s’accoppa la gente con la
sedia elettrica, a meno che la filantropia di Beccaria non
la torturi per tutta la vita entro un ergastolo.

Ma io ve la lasciò la vostra sapienza e i vostri 420, vi
lascio Sottomarini e Caproni. Ma ridatemi la bella libertà,
la mia ignoranza, la mia vigoria. Ieri il cielo era bello
da guardare; lo mirava lo sguardo dell’incoscio.


Oggi la volta stellata è un velo plumbeo che ci sforziamo
invano di passare, oggi non si ignora più, si dubita.


Tutti questi filosofi, questi scienziati, che fanno?

Che delitti meditano ancora verso l’umanità? Io me
ne frego del loro progresso, io voglio vivere e godere!

«Scimmia delle foreste bornesi, Darwin ti ha calunniato!
»

*
* *

Intanto tutto il mio essere mi urla: «Voglio vivere!»

Mi strappo dalla fronte le spine della rinuncia cristiana
e bevo il profumo delle rose.

Sto bene ora. Sono lieto di vivere!

Fischiano le sirene e la folla beata va allo scannatoio.

E tu pure o ribelle sali il tuo calvario, tu pure sei bacato!


Come invidio il grande Bonnot!

«Il me faut vivre ma vie!»

*
* *

È inutile, sono bacato. La società mi ha vinto. E odio.
Odio forsennatamente questa umanità bruta che mi ha
ucciso, che ha fatto di me una scorza d’uomo.

Vorrei potermi mutare in lupo, per affondare denti e
artigli, in un’orgia di distruzione, nel ventre putrido della
società.


Libera uscita.

Io sono un animale strano. Vivo tra i pidocchi e mi
nutrisco di baccalà. Abito quei sudici ed opprimenti penitenziari
che si chiamano «caserme» ed imparo ad uccidere.
In questi lunghi anni di abbrutimento e di strage,
ho perduto la mia coscienza d’uomo. Per questo me ne
vado tristemente per le grandi città, col mio grigio-verde
sbrindellato ed i miei scarponi ferrati.

*
* *

Chi mi chiama «fante glorioso»? La gran gloria, perdio!
Perchè ho vissuto quattro anni tra i cadaveri e il
sangue, perchè mi sono scagliato mille volte all’assalto
ubriaco di un odio non mio, voi mi chiamate «glorioso»!
Via da me questa gloria infame! Non posso dimenticare
i grandi occhi dei morti, le immense ferite cancrenose,
le pozze di sangue che mi hanno per sempre imbrattato
le mani e il cervello.

*
* *


Posso forse ancora amare io? Posso ancora stringere
fra le braccia il piccolo figlio innocente? Non vedete
che ho negli occhi una perpetua visione di strage? Chi
ha vissuto quattro anni fra i morti può forse amare ancora?


Ieri.... (quanto è lontano questo ieri!) affondavo il vomere
nella terra grassa e cantavo a gran voce tra l’oro
del sole e il profumo delle mèssi. Venne la chiamata, la
trincea, i mille agguati della morte. Era duro il pane del
lavoro. L’alterigia del padrone lo rendeva scarso e amato.
Ma le braccia eran forti e il cuore pulsava fiducioso.
Ora invece son quì, col vuoto nel cervello e la rilassatezza
nei nervi.

*
* *

La guerra è finita. Ma ancora sono prigioniero, ancora
vado su e giù per le grandi vie assolate, con lo zaino pesante
e il fucile maledetto. Ancora echeggiano comandi
e squilli di tromba e ancora obbedisco bestialmente. La
mamma? I bimbi? Ma li ho io forse?

Sono cosa d’altri ormai. Son divenuto il «fante glorioso
».

*
* *

O buona terra! Mai più questo tuo figlio scaverà solchi
nel tuo seno e canterà tra ’l sole. Verrò, verrò il gran
giorno, e tu mi accoglierai fra le braccia, buona terra


odorosa, e farai germogliare sul mio capo le timide viole.


*
* *

Eppure.... Ricordo la furia travolgente degli assalti.
Perchè combattevo e morivo? Perchè le mie vene non
conoscevano il terrore?

Ho ancora il fucile d’ieri, come ieri il cuore mi batte a
grandi colpi. Perchè allora non rinnovo l’assalto travolgente
verso il più vero, il più malvagio nemico? Perchè
sono diventato vigliacco?

*
* *

È suonata la ritirata. Ritorno nella triste caserma, mi
butterò sul giaciglio aspettando la pace del sonno. Ho
guardato morire il sole. Il cielo pareva una immensa
chiazza di sangue, una mostruosa ferita aperta nel ventre
dell’infinito.

E la terra mi ha parlato. Mi ha sussurrato parole dolci
d’esortazione. Osare.... ha detto. E osare ripeteva il vento,
e osare stormivano le foglie.... E pure gli ultimi
squilli di tromba parvero dire trionfalmente: osare, osare!


Quando saprò osare!

dall’ICONOCLASTA!


Parla la dinamite.

Dopo l’esplosione nel tribunale una serie di attentati
ha gettato lo scompiglio e la paura nella grassa borghesia
milanese. Il primo ad essere attaccato fu l’ingegnere
Giovanni Breda titolare dello stabilimento omonimo e
noto pescecane.

Esso sfuggì a un tentato vetrioleggiamento e a una
bomba esplosa nella sua villa. Poi fu la volta del senatore
Ponti, presidente della Società mecc. lombarda. Anche
contro la sua abitazione fu lanciata una bomba. Tutto
però si limitò ad esplosioni formidabili e a danni alle
abitazioni. La fortuna protegge i pescicani! Altra bomba
alla dinamite, inesplosa però, fu trovata nella stazione
centrale.

La consegna degli esplosivi prosegue alacremente!
Soltanto essa vien fatta a domicilio.

È naturale che mille voci corrano sul movente di questi
attentati. Il fatto che gli sconosciuti dinamitardi abbiano
scelto gli alti papaveri dell’industria metallurgica,
fa supporre si tratti di rappresaglia per la veramente ributtante
tracotanza padronale. Mentre i signori pescicani
se la spassano al Cova e al Biffi, il povero scioperante


ingozza poco riso e stringe la cintola. Il capitale non si
combatte a braccia incrociate e l’attesa per chi ha fame,
è una lenta agonia. Ma i padroni voglion così e nascosti
dietro i revolver omicidari dei carabinieri del re, fanno
le fiche alla miseria.

Intanto da parte della stampa forcaiola si comincia la
caccia all’anarchico, e si chiedono le solite leggi capestro.
Noi non apparteniamo al numero dei pseudo sovversivi
pantofolai, pronti a rinnegare ogni fede per la
paura della galera. Ma a chi oggi ci accusa di avere, noi,
provocato questi attentati, rispondiamo con cifre e domande
lineari:

Chi seminò durante quattro anni di carneficina l’odio
e il dolore? Furono i varî Graziani, luridi assassini
gallonati.

Finita la guerra la belva borghese perennemente assetata
di sangue, malgrado i 507,193 morti immolati al
trust e alla banca, volle e vuole ancora uccidere.

Dal 13 Aprile a oggi (eccidio di Lainate, morti 3) 54
persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la
propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali
mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando
e la fame. E si grida: Bisogna produrre! Leggevo
l’altro giorno che un giovane (diciotto anni!) si suicidava
per mancanza di lavoro. Io domando: che cosa si
deve produrre? casse da morto? Dunque la provocazione
viene dall’alto. Sono i varî Breda protetti dalla camorra
di stato, sono i Centanni cinici, livragatori di fol



le, sono i “gros bonnet” dell’esercito, lordi di sangue e
furenti di libidine.

Reazione? Ben venga. Gli anarchici non la temono,
troppo l’hanno affrontata.

Ormai la borghesia si è fatta il deserto intorno a sè. E
ne subirà la pura legge.

dall’ICONOCLASTA!


Pubblicando le lettere presenti, vogliamo far conoscere
il carattere intimo di B. Filippi negli anni giovanili.


Il lettore intelligente noterà la diversità che passa fra
il contenuto delle presenti e il contenuto di altri scritti
di epoca posteriore. Ma non farà a meno di pensare che
se andando avanti negli anni può sembrare cinico e feroce
ciò non si deve che all’esperienza della vita e ad
una più profonda conoscenza degli uomini.

Filippi ha molto sognato negli anni giovanili. Le lettere
presenti ce lo dimostrano. Principalmente la lettera
scritta alla famiglia alla vigilia del Natale.

Sognava l’Umanità affratellata e redenta come più o
meno abbiamo tutti noi sognato. Ma la realtà ben altro
ci dice e Lui lo comprese. E pur pensando con rammarico
che bella sarebbe la società nella quale gli uomini
tutti sentissero il bisogno di non farsi comandare e di
non comandare, non lottò più con questa fede perchè
questa si era dileguata in Lui alla luce della realtà cruda.


Lottò semplicemente PER SÈ e PER SÈ trovò la morte.


Ciò che rimase di Lui fino alla morte fu l’amore profondo
per la famiglia sua che sempre lo tenne presente.


Noi che lo conoscemmo da vicino possiamo affermarlo
se non bastano le lettere presenti.

E ciò per rispondere a tutte le calunnie della stampa
“onesta” all’indomani della morte sua.

I COMPILATORI.


Lettere dal Carcere.

24 - 7 - 915.

Carissimi Genitori,

Il proiettile che ha ucciso il Gadda, avrebbe dovuto
colpire me: almeno avrei risparmiato di subire tutti questi
dolori.

Io non so assolutamente comprendere il motivo che
vi spinge a rampognarmi così acerbamente. Di che cosa
sono colpevole alla fine? Questa orrenda guerra che
continuamente dilaga schiantando tutto ciò che di più
caro e di più bello esiste, non giustifica ad usura il mio
atteggiamento? Si può rimanere indifferenti davanti all’orrendo
spettacolo di sangue? Si può tapparsi le orecchie
davanti ai pianti e alle maledizioni di migliaia di
vittime? Io comprendo come i vostri rimproveri siano
dettati dall’affezione che mi portate, ma se esaminate la
vostra coscienza, non potete in verità rimproverarmi,
perchè vi farei certo un’offesa solamente presumendo
che davanti all’orrenda strage possiate rimanere indifferenti.
Di che cosa ho peccato? Di eccessivo ardire? Ed è
una colpa questa? O non è un sacro diritto che abbiamo


e che dobbiamo esercitare? Carissimi, nessuno più di
me è conscio del dolore che vi reco, ma voi che mi siete
genitori, avreste dovuto comprendere che la mia condotta
non dipende da un capriccio mio, ma da un vero e
reale bisogno al quale non posso rifiutarmi. La natura
mi diede un carattere indipendente e schivo da ogni accomodamento
che guida le mie azioni. E sarebbe un annichilire
tutte le mie volontà, tutti i miei sentimenti,
sforzandomi di agire diversamente da quel che mi suggerisce
il mio temperamento. Ed è perciò che pur sapendo
di recarvi un dolore devo parlarvi così. Non sperate
che i patimenti del carcere scuotano le mie condizioni, a
ben altro sono pronto, e solo la mia morte potrà por fine
a tutto. Oramai sono in ballo, e ballerò fino alla fine. . . .
.

*
* *

11 - 12 - 915.

Miei cari,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Per vostra e mia consolazione. Non pensateci su troppo,
passerà anche questa, e più breve ci parrà la separazione
se sapremo affrontarla con coraggio.

Ma non abbiate timore.

Per quanto dura possa essere la condanna, non mi troverà
impreparato e saprò sopportarla.


Mi aiuta in questo la sicura coscienza di aver agito
per una nobile causa, ed anche questo voi dovete comprendere.
Piange chi ha agito male, ma chi per giustizia
soffre, non piange ma si ricorda sperando e opponendo
alla sorte lo splendore di un vessillo. E quì termino, perchè
volete sapere la verità? Scrivendovi mi nasce in
cuore una folle speranza: quella di riabbracciarvi presto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

*
* *

4 – 9 - 916

Carissimi Genitori,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

D’altra parte non è certamente, nè col breve colloquio,
nè con questi brevi foglietti, ch’io posso darvi prova
della mia affezione. Perchè malgrado il mio atteggiamento
possa suggerire, a un esame superficiale, il contrario,
gli è certo che io vi voglio bene, e spero non l’abbiate
posto in dubbio. Io sono sempre stato alieno da
quegli atti che la morale corrente ammannisce per amore,
e questo fu da voi interpretato come durezza d’animo.
Ma non è certamente dalle apparenze esteriori che
si può giudicare un individuo. Così quando disobbedii ai
vostri consigli, lo feci perchè sono persuaso essere l’amore
composto di affezione e non di obbedienza. È un
triste retaggio, per noi poveri utopisti, l’essere le nostre


azioni e i nostri sentimenti, colorite foscamente, senza
riguardo alcuno per la verità. Oggi, mentre l’avvenire
mi si para davanti fosco e doloroso, domani quando
combattendo per l’Idea sopporterò nuovi strazi, voi mi
sarete sempre presenti. Io potrò celare nel profondo del
mio cuore la vostra immagine, dimenticarvi mai. Non
affrettatevi, come avete fatto, a gittarmi l’anatema. C’è
qualche cosa nella vita, cui ogni affezione deve venir sacrificata,
questa è l’Idea. E noi poveri reprobi, che abbiamo
offerto all’Ideale, ogni cosa e noi stessi, siamo
derisi, insultati e maledetti. Questo però non lo dico per
voi che pur rimproverandomi, mi amate. Anzi perdonate
questa mia tirata. Ho dei momenti in cui nel veder invisi
così sfacciatamente i nostri ideali, mi domando se vale
la pena di vivere in questo porco mondo. Basta, il tempo
è galantuomo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

*
* *

18 – 4 - 919

Mamma adorata,

Ti vidi pallida e ansiosa nel Tribunale, e il bacio che
mi potesti dare fu così triste che io ne sono rimasto
sconfortato. La condanna me l’aspettavo: è il solito trattamento.
Ed io non mi perdo d’animo per questi pochi
giorni di prigionia. Ma vorrei che tu pure fossi lieta.


Mamma: il pensiero del tuo dolore è quello che più
caldamente mi fa soffrire. Mamma, sappi che ho pianto
qua dentro, fra queste mura beffarde che si ridono di
me.

Ho pianto ed ho pianto per te.

Non vorrei tu dubitassi della mia affezione per la mia
condotta. E se in apparenza io non seguendo i tuoi consigli
posso passare per un figlio disamorato, la realtà
ben altro dice. E ti dice che il figlio tuo anche per te e
per le tue sofferenze combatte. Credilo mamma e stai
lieta, quindi. Presto spero venire a colloquio con te e
così potrò rivederti. E poi.... pochi giorni mi separano
dalla libertà e ritornerò fra le tue braccia. Io sto di buon
animo e la rappresaglia non m’impaurisce. Non si può
fermare il sole. E il sole siamo noi. Sempre galera e galera
ma non importa. I vincitori siamo sempre noi. . . . . .


Lettere dalla Casa di Correzione di Forlì.

28 – 7 - 916

Carissima,

Quando fanciulletto ancora, tracciavo con mano malferma
sul foglio augurale i detti che il cuore dettava, il
pensiero non supponeva certo la bufera che avrei dovuto
sostenere; e non supponeva che sarebbe venuto un giorno,
triste e lieto nello stesso tempo, che io non più fanciullo
mi sarei inchinato ancora alla consuetudine gentile,
e presa la penna avrei tracciato frasi che l’emozione
doveva improntare ancora ad una ingenuità confusa. Ma
così è. Allora ne l’ignara infanzia, scriveva l’istinto; ora
che le prove mi hanno un po’ temprato, scrive il cuore;
il mio povero cuore, che ne l’ore più dure si vide consolare
da una pallida visione di madre, soave e impareggiabile
consolatrice; ed ora per significare tutto il tumulto
d’affetto che mi sconvolge, vorrei ridiventar fanciullo
per poter dire col labbro semplice e puro, parole d’amore
e di riconoscenza. Perchè mi sembra che da quei tempi
al pensiero remoti una parte di me stesso sia scomparsa.
La realtà della vita, ha forse soffocato in me quella


spontaneità gentile, che mi faceva parlare in modo che
ora inutilmente cerco imitare. Ma voglio sforzarmi; voglio
per un istante ritornar bambino per veder di ritrovare
negli intimi recessi del mio essere, ancora un po’ di
quel vocabolario sincero.

Vorrei aver per penna un fiore e per calamaio l’azzurro
del cielo, e ne la prosa vorrei restasse qualche raggio
di sole e un po’ del cinguettio mirabile degli usignoli.
Vorrei vederti assisa su un aureo trono, per venir a deporre
a’ tuoi piedi bracciate di rugiadosi e profumati fiori,
come a una Madonna. Sì, come a una Madonna:
quando bambino, sotto la tua guida amorosa, balbettavo
preghiere, nulla l’animo sentiva.... Ora non più prego,
che spenta è in me ogni credenza, ma quando ne le notti
insonni ti penso e mormoro il tuo nome, mi scendono in
cuore pensieri di mestizia, d’amore, di speranza, che le
ingenue preghiere della fanciullezza non mi facevano
sentire. All’animo mio, il tuo nome è fremito d’arpa, un
po’ della musica di cui è pieno l’universo. Solo il mormorare
delle fonti e il sussurrìo dello zeffiro fra le fronde,
han confronto con la musicalità del tuo nome. Ed io
qui, non lo nomino, che ho paura d’offuscarlo. Mi contenterò
di mormorarlo pianamente stasera mentre mi addormenterò
pensando. O madre cara, accogli con senso
d’indulgenza queste poche frasi di tuo figlio prigioniero.
Ben lo sai, se la carta non lo svela, ciò che ho nel cuore
e ciò che vorrei dirti. Perciò scusa l’aridità dei concetti,
che a certi compiti non varrebbe possedere neanche la


penna di Dante. È per la gentilezza del direttore di quì
che posso mandarti questa mia. Rivolgi quindi anche a
lui un pensiero di ringraziamento. Ed io nulla ti chiedo,
ma confesso che attendo un bacione forte forte, per far
riscontro a quello che ti manda ora il figlio tuo

Bruno.

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13 – 8 - 916.

Carissimi,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E vi assicuro che non una, ma mille lettere non basterebbero
a darvi un’idea del mio affetto per voi. Io giorno
per giorno penso al modo di ripagarvi di una infima
parte dei vostri sacrifici, e quando uscirò spero dimostrarvi
che non ho promesso invano, e state pur certi
che, salva la mia fede, voi avrete sempre in me un figlio
che ricorda. Ma su ciò basta, mi vedrete ai fatti. . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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12 – 12 - 916

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ci avviamo ad una data fatidica nel mondo. Nella
data che dagli spiriti liberi è salutata come il primo sor



gere di un’età più bella nel mondo. Cristo morì e le sue
parole furono purtroppo dimenticate, ma l’uomo istintivamente
continuò a festeggiare il Natale come la festa
sua più bella ed espressiva, che malgrado la veste che la
ricopre è pur sempre il saluto dell’umanità al martire ed
al precursore delle liete età che già si delineano e che
presto verranno. Io, se mi lascio cullare dai ricordi, penso
a quei lieti natali che passammo nella santa quiete famigliare,
intorno alla tavola lietamente imbandita tra il
gaio schioppettìo dei ciocchi nel caminetto! Ohimè!
Non ciocchi e liete imbandigioni ora, ma qualcosa di
meglio. Queste inferriate che mi chiudono, e che io pensai
talvolta dovermi custodire per più lungo tempo, son
prossime a schiudersi, onde per me e per voi questo natale
verifica in parte il significato simbolico della festa.
Libertà dissi e passi la parola. Ma lo spirito purtroppo
impaziente scioglie ardui voli e anela ben altro. Ma ora
solo questo vuole e spera il mio animo: vuole confortarvi,
vuole compensarvi di lunghi dolori. Ora la speranza
diretta è quella di potervi abbracciare e baciare. Dice un
proverbio cinese (e i cinesi, lo sapete, colgon sovente
nel segno) che i grandi dolori preparano le grandi gioie.
Noi tutti acerbamente soffrimmo, ma ormai s’avvicina
la ricompensa. E lo spirito mio che vorrebbe rubare il
volo alle aquile si culla in quest’idea. . . . . . . . . . . . . . . .


Lettere al Padre.

Milano, 2 - 6 - 918

Carissimo,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Forse Pompei, avrà spronato il tuo estro, col tumulto
dei marmi millenari, esposti brutalmente al sole di questi
anni tragici.

I capitelli semplici, le colonne maestose avranno in
un certo modo lasciato una impressione sul tuo spirito.

Ma non lasciarti vincere.

Pensa che quelle opere d’arte sono frutto di milioni di
schiavi che con le loro ossa hanno fondato la città morta.
E pensa che altri schiavi, moderni però, la scavarono,
e per dare un diletto ai tanti inglesi più o meno italiani,
si spezzarono le braccia sulle dure lave, perchè poi un
gruppo d’imbecilli, tra una bottiglia di champagne e
l’altra, ruttino la loro ignoranza, condensata in una
esclamazione.

Ma certo la tua lira avrà voli più alti, amerà vette più
eccelse e quindi.... «non ti curar di lor ma guarda e passa....
»


Essi stanno bene nel fango d’onde non bisogna toglierli
neanche per vituperarli.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Milano, 29 - 6 - 918

Carissimo babbo,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma in complesso, mi pare che su per giù in tutto il
mondo vi sia a fianco delle grandi meraviglie naturali,
grande sporcizia mentale nei popoli. A fianco delle
grandi cascate del Niagara vi sono le officine poderose
ove migliaia di schiavi, apprestano i banchetti che i turisti
americani s’imbandiscono. Se vai sul mare vedi una
sentinella che ti sbarra il passo, se vai in un bosco un
ferreo recinto simbolo di padronanza te ne impedisce
l’accesso.

E così noi che siamo il più gran miracolo della natura,
e della natura dovremmo farci i signori, vediamo che in
realtà siamo gli schiavi.... e di chi? Di una forza a noi
superiore? No! Di esseri a noi simili!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tu dici che vedendo con i miei occhi subirei una disillusione.
T’inganni, perchè se nelle masse io semino
qualche volta, lo faccio solo perchè voglio sfruttare la


forza bruta che queste masse hanno, e tutto questo senza
fare tanto assegnamento.

E per il resto io difendo la mia causa e non quella dell’umanità.


Io voglio la mia libertà morale e materiale e il mio
benessere.

Per questo lotto e lotterò. Quindi nessuna disillusione!...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .