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venerdì, aprile 18, 2014

THOMAS HOBBES «PUNIZIONI» E «RICOMPENSE»






«PUNIZIONI» E «RICOMPENSE»

"La PUNIZIONE è un male inflitto dalla autorità pubblica a colui che ha fatto, o omesso di fare, qualcosa che la stessa autorità giudica essere una trasgressione della legge, affinché la volontà degli uomini possa per mezzo di ciò esser meglio disposta all'obbedienza".
Prima di trarre qualche deduzione da questa definizione, bisogna rispondere a una domanda di grande importanza, ossia per quale porta sia passato il diritto o l'autorità di punire in tutti i casi. Infatti, sulla base di quanto è stato esposto sopra, nessuno può essere ritenuto vincolato per patto a non resistere alla violenza, e conseguentemente non si può intendere che abbia concesso ad altri il diritto di far violenza alla sua persona. Con la costituzione dello Stato ognuno rinuncia al diritto di difendere gli altri, ma non di difendere se stesso. Inoltre si obbliga ad assistere colui che detiene la sovranità nella punizione di un altro, ma non in quella di se stesso. D'altronde contrarre l'impegno ad assistere il sovrano nel colpire gli altri non equivale affatto a cedergli il diritto di punire, poiché chi contrae quell'impegno non possiede affatto questo diritto. Pertanto è chiaro che il diritto di punire che lo Stato (cioè colui o coloro che lo rappresentano) detiene non è fondato su alcuna concessione o donazione dei sudditi. Tuttavia, sopra ho anche mostrato che, prima dell'istituzione dello Stato, ognuno aveva diritto a ogni cosa e di fare qualsiasi cosa egli ritenesse necessario per la propria preservazione, compreso il soggiogare, il nuocere e l'uccidere chiunque per realizzare questo scopo.
Ecco il fondamento del diritto di punire esercitato in ogni Stato. Non furono dunque i sudditi a dare quel diritto al sovrano; essi si limitarono a rinunciare ai propri diritti e con ciò rafforzarono il sovrano nell'esercitare i suoi nel modo che egli ritenesse più adatto ad assicurare la conservazione di tutti.
Cosicché [il diritto di punire] fu non già dato ma lasciato a lui e a lui soltanto, e così interamente (ad eccezione dei limiti impostigli dalla legge di natura) come era nella condizione di pura natura e di guerra di ognuno contro il suo simile.
Dalla definizione di punizione inferisco
primo, che né le vendette private, né le ingiurie inferte da privati possono propriamente essere definite come punizioni, poiché non procedono dall'autorità pubblica.
Secondo, che l'essere trascurati dallo Stato e non riceverne il favore non è una punizione, poiché con ciò non si subisce nessun nuovo male, ma si è lasciati nello stato in cui ci si trovava precedentemente.
Terzo, che il male inflitto dalla pubblica autorità senza una precedente condanna pubblica è da definire non già col nome di punizione bensì con quello di atto ostile, poiché l'azione, per la quale un uomo viene punito [in senso proprio], dovrebbe prima essere giudicata dalla pubblica autorità come costituente una trasgressione della legge.
Quarto, che il male inflitto da un potere usurpato e da giudici privi dell'autorizzazione del sovrano non è una punizione, ma un atto di ostilità; poiché gli atti del potere usurpato non hanno come autore la persona condannata e dunque non sono atti della autorità pubblica.
Quinto, ogni male che venga inflitto senza la preoccupazione o senza la possibilità di indurre il delinquente o (attraverso il suo esempio) gli altri uomini a obbedire alle leggi non è punizione, ma un atto di ostilità; poiché nessun nocumento inferto senza tal fine è compreso sotto quel nome.
Sesto, a certe azioni sono connesse per natura diverse conseguenze nocive. Ad esempio, un uomo può venire ammazzato o ferito nell'assalire un altro, oppure cadere ammalato in seguito a un'azione illegale. Ora, questi mali, benché rispetto a Dio che è l'autore della natura si possano dire inflitti e perciò punizioni divine, tuttavia, rispetto agli uomini, non sono contenuti nel nome di punizione, poiché non sono inflitti da autorità umana.
Settimo, ove il danno inflitto sia inferiore al beneficio o alla soddisfazione naturalmente derivante dal crimine commesso, quel danno non rientra nella definizione. Esso rappresenta il prezzo o il risarcimento piuttosto che la punizione per il crimine, poiché appartiene alla natura della punizione il fine di indurre gli uomini ad obbedire alla legge; mentre, se è inferiore al beneficio ricavato dalla trasgressione, non solo non raggiunge quel fine, ma anzi produce un effetto opposto.
Ottavo, se una certa punizione è fissata e prescritta dalla legge stessa e, per il crimine commesso, viene inflitta una punizione maggiore, l'eccesso non fa parte della punizione ma è un atto di ostilità. Infatti, poiché lo scopo della punizione è non già la vendetta ma il terrore, e poiché la precisazione di una punizione toglie il terrore di una maggiore, l'inasprimento imprevisto non fa parte della punizione. Ma, ove la punizione non sia predeterminata dalla legge, allora ha natura di punizione qualunque afflizione venga somministrata; e infatti, chi sta per commettere una violazione della legge, per la quale non è predeterminata una pena precisa, si attende una punizione indeterminata cioè a dire discrezionale.
Nono, un male inflitto per un'azione compiuta prima che ci fosse una legge che la proibisse, non è punizione ma atto di ostilità. Infatti, premesso che, in assenza della legge, non c'è alcuna trasgressione della legge medesima, e che la punizione presuppone che l'azione sia stata giudicata trasgressione della legge, segue che un male inferto prima della emanazione di una legge non è una punizione ma un atto di ostilità.
Decimo, un male inflitto al rappresentante dello Stato non è punizione ma atto di ostilità, poiché appartiene alla natura della punizione l'essere inflitta dalla autorità pubblica che è unicamente quella del rappresentante stesso.
Infine, il male inflitto a uno che è apertamente un nemico non cade sotto il nome di punizione; e il motivo è che tutti i mali che possono essere a lui inferti devono essere considerati come atti di ostilità, poiché egli o non fu mai soggetto alla legge - e pertanto non poté trasgredirla - o, essendolo stato, se ne dichiarò poi svincolato - negando di conseguenza di poterla trasgredire.
Ora, nello stato di ostilità dichiarata, è legittimo infliggere qualsiasi male.
Ne segue allora che se un suddito nega, con fatti o parole, consapevolmente e deliberatamente, l'autorità del rappresentante dello Stato, è legittimamente passibile di qualsiasi pena il rappresentante voglia infliggergli (quale che sia il castigo precedentemente previsto per il tradimento), poiché nel negare la sudditanza egli non riconosce più la punizione prescritta dalla legge, e perciò subisce la pena come nemico dello Stato, cioè a discrezione del rappresentante.
Dunque, le punizioni stabilite per legge riguardano i sudditi non già i nemici; quali diventano coloro che, prima sudditi consenzienti, poi si rivoltano deliberatamente e negano il potere sovrano.
La prima e più generale ripartizione delle punizioni è in "divine" e "umane".
Delle prime avrò modo di parlare in seguito, in un luogo più opportuno.
"Umane" sono le punizioni inflitte per ordine di un uomo, e sono: pene corporali, pene pecuniarie, ignominia, incarceramento, esilio e combinazioni di queste.
"Punizioni corporali" sono quelle che vengono inferte direttamente al corpo secondo l'intenzione di colui che le infligge, quali sferzate, ferite o privazioni di quei piaceri del corpo di cui prima legittimamente si godeva.
Di queste punizioni alcune sono "capitali", altre "meno" che "capitali".
Capitale è l'inflizione della morte, sia semplicemente sia con supplizi. Meno che capitali sono le sferzate, le ferite, i ceppi e altre pene corporali di natura non mortale. Se in seguito alla somministrazione di una punizione e contrariamente all'intenzione di colui che la infligge, segue la morte, la punizione non va intesa come capitale anche se, per un incidente non previsto, il danno si è dimostrato mortale; in questo caso la morte viene non già inflitta ma anticipata.
"Punizione pecuniaria" è quella che consiste nella privazione non solo di una somma di denaro, ma anche di terre o degli altri beni che sono solitamente comprati e venduti per denaro. Nel caso in cui la legge che ordina tale punizione sia emanata con lo scopo di raccogliere denaro da quelli che la trasgrediranno, non si tratta propriamente di punizione ma del prezzo di un privilegio e dell'esenzione da una legge le cui proibizioni non sono valide in assoluto ma solo per quelli che non sono in grado di pagare; va [evidentemente] eccettuata ogni legge che faccia parte di quella naturale o della religione, giacché in questi casi non si tratterebbe di esenzioni ma di [vere e proprie] trasgressioni della legge. Ad esempio, allorché una legge prescrive una sanzione pecuniaria per chi pronuncia il nome di Dio invano, il pagamento della multa non è il pagamento della licenza di bestemmiare, ma la punizione per la trasgressione di una legge da cui non c'è dispensa. Analogamente, se la legge impone il pagamento di una somma di denaro a colui che è stato offeso, ciò rappresenta soltanto una riparazione del danno arrecatogli ed estingue l'accusa della parte lesa, non il crimine del colpevole.
L'"ignominia" è l'inflizione di qualcosa che è male in quanto reso disonorevole dallo Stato, o la privazione di qualcos'altro che è bene in quanto è inteso come onorevole ancora dallo Stato. Ci sono infatti cose onorevoli per natura, come gli effetti del coraggio, della magnanimità, della forza, della saggezza e di altre capacità del corpo e della mente; e altre cose rese onorevoli dallo Stato, quali insegne, titoli, cariche o qualsiasi altro segno particolare del favore del sovrano. Le prime (ancorché possano venire a mancare per cause naturali o per accidente) non possono essere confiscate per legge, e pertanto la loro perdita non è una punizione. Ma le seconde possono essere tolte dall'autorità pubblica che le ha rese onorevoli, e [le loro perdite] sono propriamente punizioni. Tali sono le degradazioni dei condannati con conseguente privazione di insegne, titoli e cariche, o le privazioni delle medesime cose per i tempi a venire.
L'incarceramento si ha quando un uomo viene privato della libertà dalla pubblica autorità, e può avere due scopi diversi. Il primo è quello della custodia sicura di un uomo sotto accusa; il secondo quello di infliggere una pena a un uomo condannato. Il primo [tipo di detenzione] non è una punizione, poiché nessuno è da ritenersi punito se non è stato sottoposto a giudizio e dichiarato colpevole.
Pertanto, qualunque male, oltre a quello necessario a garantire la sua custodia, sia fatto patire a un uomo - con vincoli o detenzione - prima che la sua causa sia discussa, è contro la legge di natura. Ma il secondo [tipo di detenzione] è una punizione in quanto si tratta di un male, e in quanto è inflitto dalla autorità pubblica per qualcosa che è stato dalla stessa autorità giudicato una trasgressione della legge. Sotto il nome di incarceramento comprendo ogni restrizione di movimento causata da un ostacolo esterno, sia questo una casa che è chiamata col nome generico di prigione, o un'isola nella quale gli uomini son detti confinati, o un luogo nel quale gli uomini siano forzati a lavorare – come le cave alle quali nei tempi antichi gli uomini venivano condannati, e le galee in questi tempi -, o una catena, o qualunque altro impedimento del genere.
L'"esilio" (o bando) si ha quando un uomo, in seguito a un crimine, viene condannato ad allontanarsi dal territorio dello Stato o da una certa parte di questo, e a non farvi ritorno o per un certo tempo prefissato o per sempre.
L'esilio, senza altre circostanze, non sembra essere di sua natura una punizione, ma piuttosto una fuga o un pubblico comando di sottrarsi alla punizione con la fuga. Cicerone dice che nella città di Roma non fu mai prevista tale punizione, e lo chiama piuttosto una risorsa di un uomo in pericolo.
Infatti, se a un uomo esiliato viene nondimeno concesso di godere dei propri beni e delle rendite delle proprie terre, il puro cambiamento d'aria non costituisce una punizione e, lungi dal procurare allo Stato quel beneficio per cui ogni punizione è prevista (cioè a foggiare volontà inclini all'osservanza della legge), molte volte produce piuttosto il danno dello Stato. Infatti un esiliato, non essendo più membro dello Stato che l'ha bandito, ne diviene un nemico legittimo. Se invece viene anche espropriato delle sue terre o dei suoi beni, allora la punizione consiste non già nell'esilio ma va classificata fra quelle pecuniarie.
Tutte le punizioni di sudditi innocenti, grandi o piccole che siano, sono contro la legge di natura: infatti c'è [propriamente] punizione solo per trasgressione della legge, e dunque non può esserci punizione di innocenti. Quest'ultima è pertanto una violazione, primo, di quella legge di natura che proibisce a tutti gli uomini di avere di mira nelle loro vendette qualcosa di diverso da un bene futuro - e infatti nessun bene può derivare allo Stato dalla punizione di un innocente. Secondo, di quella che proibisce l'ingratitudine, giacché la punizione di un innocente equivale a un rendere male per bene, mentre tutto il potere del sovrano è originariamente concesso dal consenso di ognuno dei sudditi allo scopo di esserne protetti finché saranno obbedienti. E, terzo, di quella legge che comanda l'equità - cioè una eguale distribuzione della giustizia - cosa che non viene rispettata nella punizione di un innocente.
Per contro, l'inflizione di qualsiasi male a un uomo innocente che non sia un suddito, se è per il bene dello Stato e senza violazione di alcun patto precedente, non rappresenta infrazione della legge di natura. Infatti, tutti gli uomini che non sono sudditi, o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo in seguito a qualche patto precedente. Ora, contro i nemici, che lo Stato giudica capaci di nuocere ai sudditi, è lecito far guerra in forza dell'originario diritto naturale - e in guerra né la spada discrimina, né il vincitore fa distinzione, sulla base delle responsabilità passate, fra nocente e innocente, né rispetta la pietà se non quando conviene al bene del suo popolo. Sempre in base a ciò, la vendetta contro i sudditi che negano deliberatamente l'autorità dello Stato costituito si estende legittimamente non solo ai padri, ma anche alla terza e alla quarta generazione, che non esistono e che sono di conseguenza innocenti del fatto per il quale sono perseguitate. E il motivo è che la natura dell'offesa consiste nel rifiuto della sudditanza; il che equivale a una ricaduta nella condizione di guerra, comunemente detta ribellione. I responsabili di tali offese ne patiscono le conseguenze non già come sudditi ma come nemici. Infatti la "ribellione" altro non è che il rinnovare la guerra [originaria].
La RICOMPENSA è data o come "dono" o per "contratto". Quando è data per contratto si chiama "retribuzione" o "stipendio", ed è la remunerazione dovuta per un servizio compiuto o promesso. Quando è data come dono è il compenso elargito dalla "grazia" di coloro che lo concedono, per invogliare o mettere in grado gli uomini di rendere loro servizi. Cosicché, quando il sovrano di uno Stato destina uno stipendio per qualche mansione pubblica, colui che lo percepisce è tenuto per giustizia a compiere il proprio ufficio, mentre altrimenti [ossia in mancanza di uno stipendio] solo l'onore vincola alla riconoscenza e a sforzarsi di contraccambiare. Infatti gli uomini, benché non abbiano alcuna possibilità di opporsi legalmente al comando di abbandonare la cura dei loro affari privati per servire lo Stato, tuttavia non vi sono tenuti né in forza della legge di natura né della costituzione dello Stato, a meno che non esista nessun altro modo per garantire quel servizio. Il motivo è che si suppone che il sovrano possa far uso di tutti i mezzi dei sudditi, cosicché il più comune dei soldati può pretendere il soldo del servizio militare come un debito.
I benefici che il sovrano concede a un suddito per timore del potere o della capacità che questi ha di nuocere in qualche modo allo Stato non sono propriamente ricompense. Non sono, infatti, stipendi poiché, essendo ognuno già obbligato a non arrecare danno allo Stato, non è pensabile in questo caso alcun contratto. Né sono grazie, poiché sono estorte con la paura, che non dovrebbe mai sfiorare il potere sovrano. Sono invece sacrifici che il sovrano (considerato come persona naturale e non come persona dello Stato) fa per placare lo scontento di uno che egli reputa più potente di sé; e lungi dal favorire l'obbedienza, invogliano per contro a protrarre e ad aumentare ulteriormente le estorsioni.
Alcuni stipendi sono sicuri e provengono dal pubblico erario, altri incerti e derivanti dall'occasionale prestazione dell'ufficio per cui il salario è previsto; i secondi sono in certi casi nocivi allo Stato, come nel caso della giudicatura. Ove, infatti, la remunerazione dei giudici e dei magistrati delle Corti di giustizia dipenda dal numero delle cause di loro competenza, seguono necessariamente due inconvenienti: il primo è che si alimentano le liti giudiziarie, poiché più sono le liti, maggiore il beneficio [per i giudici]; il secondo consiste nella contesa per la giurisdizione, ogni Corte cercando di attirare a sé quante più cause può. Per contro, negli uffici esecutivi non si presentano questi inconvenienti poiché l'impiego [e il conseguente compenso] non può essere aumentato con nessuno sforzo.
Tanto basti per quanto riguarda la natura della punizione e della ricompensa; le quali sono, per dir così, i nervi e i tendini che muovono le membra e le articolazioni dello Stato.
Fin qui ho delineato la natura dell'uomo (costretto dal suo orgoglio e dalle altre passioni a sottomettersi al governo) insieme a quella del grande potere del suo reggitore, che ho paragonato al "Leviatano", prendendo il paragone dai due ultimi versetti del quarantunesimo capitolo del "Libro di Giobbe"; dove Dio, dopo aver messo in evidenza il grande potere del "Leviatano", lo chiama re dell'orgoglio: «Non c'è nulla sulla terra - dice - che possa essere paragonato a lui. È  fatto per non aver paura. Vede sotto di sé ogni cosa, per quanto elevata; ed è re di tutti i figli dell'orgoglio». Esso è tuttavia mortale e soggetto a decadenza come tutte le cose terrene, e in cielo (anche se non in terra) esiste ciò di cui dovrebbe aver timore e alle cui leggi dovrebbe obbedire; perciò nei prossimi capitoli parlerò delle sue malattie, delle cause della sua mortalità e delle leggi di natura alle quali è tenuto ad obbedire.