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mercoledì, agosto 27, 2014

Riccardo d’Este Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna

Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna

Novembre 1994, Riccardo d’Este




1

La società del capitale, intesa come società dell'alienazione generalizzata, della riproduzione iterativa e insignificante di merci, del lavoro estorto e del profitto conquistato dai singoli capitalisti, o da gruppi di essi, ha subìto un processo modificativo che ha portato all'integrazione dei vari aspetti. Questa integrazione è un processo di integrazione.
  Sarebbe inesatto sostenere che si tratta di un fenomeno nuovo, recentissimo nel meccanismo di produzione e riproduzione capitaliste e nelle strutture sociali, politiche, ideologiche che lo inverano. Di fatto, è stata una tensione sempre interna all'ambizione totalizzante del capitale (rendere la vita un immenso mercato e tutti i soggetti e gli oggetti delle merci), così come è storica la tendenza all'integrazione delle strutture riproduttive mondiali e dei sistemi politico-ideologici che le rappresentano, pur mantenendo le differenziazioni che consentono al capitale di riprodursi e di presentarsi come “unità nelle contraddizioni” (le guerre intercapitaliste ne sono state un chiaro esempio anche dal punto di vista delle ideologie, oltre che da quello degli interessi economici).
  L'unica vera novità, se così vogliamo chiamarla, consiste nella consapevolezza collettiva, più o meno dichiarata o più o meno offuscata, che si è di fronte al tentativo di unificare materialità e immaterialità sotto il segno omogeneizzante del capitale. Se Félix Guattari cercò di identificare questo processo, peraltro sotto gli occhi di tutti, con la formula CMI (capitalismo mondiale integrato), Guy Debord, nei suoi Commentati sulla Società dello Spettacolo, parla di spettacolo integrato per indicare il percorso di unificazione tra quelli che venivano definiti lo “spettacolo diffuso” e lo “spettacolo concentrato”, vale a dire le tecniche prevalenti di produzione, riproduzione e trasmissione di rappresentazioni all'Ovest e all'Est. Ora, questa integrazione non è data certo dalla caduta del muro di Berlino, come frettolosamente cercano di spiegare alcuni sedicenti studiosi, ma è un processo che si è sviluppato, sia pure con picchi e cadute, per parecchio tempo (almeno, dichiaratamente, dagli anni Sessanta, con il colpo di coda della pretesa “rivoluzione culturale” di Mao-TseTung). Ma erroneo sarebbe vedere in questo fenomeno di integrazione la realizzazione di quel “capitale totale” che è sempre stato il cuore e l'anima dell'utopia capitalista o di quella sorta di cielo immobile in cui dovrebbero proiettarsi incessantemente e con sempre maggiore accelerazione immagini qualsivoglia, tutte accattivanti e fuorvianti, com'è nel sogno di una società dello spettacolo compiuta. Ma nei fatti si sono verificate tali forme di resistenza materiale e di senso, a vari livelli e in differenti modi, da costringere la società del capitale a continue modificazioni e riproposizioni di sé.
4 Il passaggio epocale recente più importante è la costruzione di quella che noi definiamo come società capitalista neomoderna proprio per distinguerla dalla società capitalistico-produttiva classica, dalla società dello spettacolo, che sì persiste e anzi apparentemente si afferma in maniera più interstiziale (attraverso la riduzione sempre maggiore di aspetti di vita a mere rappresentazioni e con il deperimento sempre più rapido delle immagini stesse), ma che, essendosi a tal punto generalizzata, sta progressivamente perdendo la sua funzione “innovativa” e perciò ''vivificante” e catalizzatrice, nonché da quella che taluni chiamano epoca della postmodernità, sciocchezza palese perché solo scorie marginali (arti, filosofie eccetera) possono vagare in un “vacuum” che finga di prescindere da quella che è stata la base strutturale della modernità (la vittoria della borghesia, l'avvento del capitale industriale e finanziario, le modificazioni, anche rivoluzionarie, nella produzione, nelle tecnologie eccetera) mentre la società del capitale nel suo insieme ha bisogno costante di essere moderna, e oggi neomoderna.

2

Il General Intellect, almeno nell'accezione marxiana, esprimeva un'intelligenza e dei saperi diffusi e generali, una conoscenza che, al pari della forza lavoro, veniva sottomessa alle regole del capitale e dunque della produzione. Il General Intellect, insomma, altro non è che la forza lavoro cognitiva e mentale, resa astratta ma nel contempo assorbita dal processo di sviluppo del sistema di produzione capitalista. Ciò è stato senz'altro vero sin tanto che vi è stata un' effettiva produzione capitalista intesa come capacità di percorsi innovativi ancorché fondati sullo sfruttamento materiale e intellettuale. Ormai ciò non ha più molto senso perché la produzione, pur ovviamente mantenendosi, si è trasformata essenzialmente in riproduzione, da un lato, e in amministrazione dall'altro. Il GeneraI Intellect, esprimendo capacità creative collettive, seppur sottomesse ed espropriate, poteva essere il punto di riferimento, addirittura la leva per una trasformazione radicale. In altre parole, riappropriarsi di questa intelligenza collettiva poteva significare un ribaltamento dei rapporti sociali. Oggi non è più così: nell'epoca della riproduzione è la mera funzione, ovviamente ad alto tasso di intercambiabilità, ad essere fondamentale (perciò le richieste di flessibilità non sono il frutto maligno di un padronato rapace, quanto un'esigenza precisa nel neomoderno), e non più l'intelligenza collettiva già incorporata nell' essere inorganico (il capitale). Ben altra e più drammaticamente radicale è la trincea su cui si sta giocando e si giocherà la partita. Pertanto ridicola è la pretesa di ridurre quello che venne definito General Intellect alle capacità tecnologiche o “scientifiche” di singoli o di gruppi (nella cibernetica, nella telematica eccetera) e di attendersi da lì una specie di “nuova avanguardia”: queste intelligenze sono ormai asservite alla macchina, con un singolare rovesciamento della funzione di protesi, e i suoi portatori ridotti a riproduttori, magari ad alto livello, dell' esistente.

3

  Importante è discernere tra la produzione e la riproduzione allargata. La produzione contiene in sé qualcosa di “creativo”, di “inventivo”. La riproduzione no; è, se così si può dire, null'altro che una variazione sul tema. Per esempio, il passaggio dal calesse all'automobile è stato produttivo ed epocale e ha coinvolto enormi masse di persone, mentre il passaggio dalla Uno alla Punto sta all'interno di un programma di “modernizzazione” volto a incrementare la volubilità di un mercato drogato ed è una forma della riproduzione. In altri termini, finite le innovazioni reali, autonomizzandosi sempre più lo spettacolo, tutte le apparenti innovazioni, in qualsiasi ambito, sono soltanto delle modificazioni e delle modulazioni secondo i criteri della riproduzione.
  Per questo fenomeno, fondativo del neomoderno, se dal punto di vista produttivo è corretto definirlo come passaggio alla riproduzione allargata e iterativa, se dal punto di vista macroeconomico si può parlare di fine dell'economia, intesa come suddivisione che si pretende razionale delle risorse e come loro impiego rivolto a fini di progresso, dal punto di vista sociale non si può che affermare che si tratta di glaciazione sistematica e sistemica.
  Naturalmente, ma secondo la “naturalità” del capitale, la produzione apparentemente persiste. Se non fossero state prodotte le penne che abbiamo in mano, noi non scriveremmo; se non fossero stati prodotti i computer noi non comunicheremmo attraverso tale mezzo. Ma è una produzione finalizzata a due soli scopi: la riproduzione iterativa delle stesse merci, pur con modificazioni modali, e la costanza dell'ordine societario. La costanza dell' (nell') ordine sociale implica essenzialmente una persistenza e una divisione di ruoli, anche, se non soprattutto, al di fuori del momento produttivo. La riproduzione ha da essere infinita, con sterminate variazioni, soprattutto sul terreno dello spettacolo, che però non servono più alla creazione di materialità e di ambienti che realmente superino quelli precedenti, mentre in realtà li imitano, concedendo solo nuove fantasmagoriche apparenze.
  La borghesia, senza con ciò voler riproporre dei tipi di concetti di classe che appaiono oggi obsoleti ed evidentemente senza voler dare in questa sede alcun giudizio morale o politico su di essa, in un determinato periodo storico ha espresso la forma e la forza dell'innovamento, della modificazione dei sistemi produttivi. Non a caso si è impadronita dell'Intelligenza Generale espropriandola ai suoi singoli possessori e portatori e rendendola, prima, astratta, e ritraducendola, poi, in forza produttiva. L'ultima chance della borghesia è stata la società dello spettacolo, cioè un coagulo di rappresentazioni della realtà sino ad allora prodotta e controllata. Oggi, nell' epoca del neo moderno e della riproduzione quasi sempre autoritativa, la borghesia (ammesso che questa categoria la si possa ancora impiegare) non ha più niente da produrre nell'accezione sopra espressa, ben poco da rappresentare se non sul terreno delle virtualità e pressoché nulla da dire, ormai parassitaria non soltanto di altre classi ma del suo stesso passato. Molto più da dire hanno le polizie o i supermercati.

4

  La riproduzione allargata significa l'iterazione del presente con modificazioni di piccolissima portata. Non per nulla, le più importanti e finanziate ricerche riguardano il campo della medicina, della sociologia, dell'ambiente, della comunicazione massmediatica o della bioingegneria. Il corpo umano, disossato della sua capacità di forza di lavoro, che è stata resa per lo più superflua (ma evidentemente senza che ciò sia coinciso con l'abolizione della maledizione del lavoro ), ritorna in primo piano come luogo dell' Amministrazione.
  Per Amministrazione non intendiamo solo le singole e specifiche amministrazioni, bensì il sogno utopico di amministrare una sorta di eterno presente, estendendo le forme dell'amministrazione in ogni piega della vita collettiva e individuale. Esempi buffi: se aumenta a dismisura il numero degli assicuratori è perché più nulla può venire in realtà assicurato; se cresce freneticamente il numero dei vari professionisti è perché in effetti non esistono quasi più delle reali professioni; se si gonfia quotidianamente il numero dei guardiani (in senso lato) è perché la società è obbligata a salva-guardarsi da qualsiasi rischio di trasformazione radicale.
  Vi è un processo, per il momento inarrestabile, di desertificazione stricto sensu (si pensi al concreto deperimento, a causa di incuria o di ipersfruttamento, di interi territori con tutte le conseguenze che sono ben note: carestie, epidemie, gravi squilibri nell'ecosistema eccetera, da un lato, e alla spoliazione di senso di ampie zone urbane, dall'altro). Questo processo di deser-tificazione ovviamente si ripercuote in modo pesante sulle esistenze, sulle capacità, sulle intelligenze dei vari individui: con grande fatica appaiono i nuovi beduini; che sappiano bersi il tè nel deserto.

5

  Il nihilismo è ormai essenzialmente monopolio del capitale e dello Stato. Del capitale in quanto, riscontrata la sua impossibilità innovativa (quello che sinteticamente indichiamo come la fine del Progresso), dovendo realizzare valore anche e soprattutto senza il lavoro (che rimane come imposizione autoritativa o consolatoria), volendo persistere, deve amministrare quel deserto animato da merci che ha costruito e in cui è costretto. Non si creda però che la riproduzione del nulla sia nulla. Si sviluppano le attività riproduttrici del nulla.
  Per nulla intendiamo un “qualcosa” che, pur esistendo e spesso possedendo un “valore” (a causa del processo di autonomizzazione del valore dalle sue basi materiali), è deprivato di senso intrinsecamente e profondamente umano, non allude neppure lontanamente a una passata o futura comunità umana, non attiene alla necessità della specie. In questo senso, sono più teorici, seppur involontariamente, taluni venditori di mercanzie che non filosofi o pretesi teoreti. Questi mercanti, quando proclamano: “Ma prendi questo oggetto: non costa niente!”, non intendono, ovviamente, dire che l'oggetto viene scambiato gratis e neppure, in modo più ammiccante, che costa poco. Vogliono dire: “Non cambia nulla nella tua vita né l'averlo né il non averlo, né l'esborso per averlo, né il risparmio nel non averlo”. Infatti, pur nella loro manifesta demenza, fioriscono merci materiali e immateriali, traffici di ogni tipo, ideologie comprese. Ma queste merci non possono possedere più alcun requisito qualitativo, nullificate (livello economico) in mero valore di scambio o (livello simbolico) come immagini rappresentative di una vita assente.
  Lo Stato, dal canto suo, deve tenere in piedi delle rappresentazioni collettive del nulla (la politica, con il suo codazzo di votazioni, cambi della guardia e dei controlli sui racket eccetera, ne è un esempio preclaro) e, d'altra parte, istituire un complotto costante e preventivo contro tutte le istanze di rivolta che possano o possono esprimersi, specie se con forme “antisociali”. Infatti, a dispetto delle declamazioni di molti, lo Stato è esattamente la società civile e la società civile si esplica appunto nello Stato. Un'autonomia della cosiddetta società civile è una delle ultime menzogne del neomoderno, sotto l'aspetto ideologico. Infatti, più polizia (e basta confrontare i numeri negli ultimi vent'anni) significa paradossalmente più Stato sociale e più mafia, o “lotta” ad essa. La società civile è il fuoco fatuo della società neomoderna: perciò suona tanto bene e molte bocche se ne riempiono. Nel nulla bisogna pure che appaiano dei bagliori.

6

  Nell'epoca sovversiva degli anni Venti si poteva parlare, in via di tendenza, di postcapitalismo come pretesa di costruire forme di società che fossero OLTRE il capitalismo ma non ancora approdate a un comunismo effettivo, a un'acrazia. Oggi, dal punto di vista della società e dei suoi sudditi, al contrario tutto deve rimanere sempre moderno, diventare sempre più moderno ed è per ciò che risulta improponibile parlare di postmodernità, se non nell'accezione di una superfetazione ideologica: il postmodernismo.
  Neomoderno invece è il concetto che ingloba e certifica questa, per ora, costante tendenza, mistericamente riformatrice del nulla. Il nihilismo di capitale e Stato e la società neomoderna sono esattamente la stessa cosa: amministrano l'apparenza, presuppongono il nulla, non come teleologia ma come intercambiabilità assoluta, fingono l'esistenza di una produzione che palesemente è divenuta riproduzione, cioè senza più alcun possibile progresso. Progresso inteso in più sensi: l'innovazione produttiva, come si è detto, ma anche il progredire delle conoscenze umane, dei metodi per accrescere il benessere collettivo e individuale, delle idee genialmente espresse e sostenute, delle arti e dei mestieri.
  Il neomoderno non è certo la fine del progresso, bensì l'assunzione cosciente di questa fine conclamata e dunque la coscienza organizzante della società che l'ha prodotta. Resisi conto che non c'è più la possibilità di un qualche sviluppo, che il progresso si sta trasformando in degresso, gli amministratori dell'esistente, dopo essersi giocata la carta estrema dello spettacolo, come sviluppo delle e nelle rappresentazioni che sostituissero la realtà intollerabile, di modo che il falso e il vero si confermassero a vicenda e incomprensibilmente, hanno capito cosa dovevano e potevano fare: fingere di creare valore dal capitale finanziario e circolativo, spingerci ad essere tutti consumatori di qualsiasi cosa, meglio se sprovvista di qualsivoglia utilità, ad essere tutti professionisti, operatori o artisti, ad essere umili e tracotanti al tempo stesso. La Guerra del Golfo o i fatti della Bosnia sono esempi incontrovertibili del trionfo del nulla e dunque del neomoderno. L'AIDS è la sua sintomatologia. La sua pandemia.

7

  Che cosa fare, dunque, contro l'iterazione del nulla, contro la dominazione dell'inorganico, contro l'assenza di un qualche “centro” (tutto è necroticamente diffuso, anche se effettivamente ci sono soggetti specifici che si incaricano di dirigere e controllare la necrosi) contro cui scagliarsi? La domanda, in apparenza senza possibilità di risposta, una qualche risposta invece ce l'ha: la rivolta dell'organico (dei corpi) in ogni situazione possibile, la massima resistenza, in ogni campo, al neomoderno e nessuna collaborazione con qualsivoglia espressione di esso, l'attacco virulento al Nihil organizzato, costruendo senso e sua comunicazione. Non si possono fornire delle indicazioni più precise. Ma alcune ipotesi sono già fin d'ora chiare:
  – rifiutarsi di assumere i termini della politica comunemente intesa e della democrazia come costitutivi di una qualche azione sovvertente o trasformativa;
  – respingere ogni possibile lusinga della partecipazione alla cosiddetta società civile: purtroppo ci siamo già dentro quando lavoriamo, quando pensiamo di godere del tempo libero, quando giocoforza sopportiamo il dominio;
  – cominciare, o continuare, a svivere smodatamente usando questa categoria come criterio.

Nota

  Il testo che precede, in forma assai ridotta, concentrata e spesso apodittica, è stato fatto circolare in Italia sulla rete telematica ECN nell'aprile 1994 nel corso di una polemica che vedeva opposti compagni di 415, di cui faccio parte, e alcuni neo-operaisti (i tardi profeti del GeneraI Intellect e dell' “operaio sociale” di toninegriana memoria eccetera).
  L'attuale versione ovviamente non contraddice per nulla il senso di quello scritto ma ha cercato di articolarlo, di svilupparlo, di arricchirlo di argomentazioni.
  Dopo discussioni ed incontri, è stato deciso di pubblicare questo nuovo testo in Francia su Temps Critiques e di utilizzarlo in vari modi in Italia.
  Questa nota è per la precisione storica.
Rd'E. Urbino, 3 novembre 1994

FONTE: http://tempscritiques.free.fr/spip.php

domenica, agosto 17, 2014

Chi sei? Cosa sei? Sono il figlio dell'uomo



Chi sei? Cosa sei?
Sono il figlio dell'uomo
Gesù risorto per la terza volta
che bussava nel cuore dei poveri di spirito
nel crimine nella provocazione
nello spionaggio
era scritto una profezia
ma un incantesimo distrusse la mia vita
la vendita delle indulgenze era iniziata

maledetto è il mio nome
maledetta è la mia vita

sepolta dalle sentenze della nuova Inquisizione
che si fa Stato totalitario

morto innumerevoli volte
morto ammazzato
morto suicidato
e sono sempre tornato
come il viandante dai miei figli
in cerca della verità e dell'illuminazione
sono il messaggero l'apostata dello spirito
l'apolide senza patria
l'idolatra del tempio blasfemo
porto la buona novella
che le genti non vuol sentire
quella del nichilismo che crea
nuovi valori
il vero comunismo dei sacerdoti eretici

un tempo mi sacrificai per il mio popolo
quel tempo è finito
ora penso alla mia causa
ora penso a me stesso
alla rigenerazione

sabato, agosto 09, 2014

Secondo Trattato del Grande Seth



La grandezza perfetta riposa nell'ineffabile luce, nella verità della madre del tutto. Io sono colui che è perfetto;
poiché sono unito a tutta la grandezza dello spirito - il quale è nostro compagno - e un compagno come lui non c'è - dopo ch'io pronunciai una parola a gloria del Padre nostro. E voi tutti siete giunti a me a motivo di questa parola. A causa della sua bontà, la parola che è in lui ci ha dotato di un pensiero intramontabile. La sua bontà è schiavitù, poiché «noi moriremo con Cristo», dotati di un intramontabile e incontaminato pensiero. Un miracolo incomprensibile è il segno dell'acqua: di esso non si può parlare. Questa parola deve essere detta da noi. Io sono colui che è in voi, e voi siete in me come il Padre è in me e in voi.
Col cuore puro dissi agli altri esseri celesti preesistenti: - Convochiamo una chiesa! Visitiamo la sua creazione!
Mandiamo in essa qualcuno, così come Dio visitò le ennoiai che si trovano nelle regioni inferiori. Allorché pronunciai queste parole davanti all'intera folla della numerosa chiesa della esultante grandezza, tutta la casa del Padre della verità se ne rallegrò. È perché sono uno di loro, della loro sfera, che diedi il consiglio in merito alle ennoiai emanate dallo spirito incontaminato, cioè in merito alla discesa sull'acqua, nelle regioni inferiori. Tutti ebbero un'unica ennoiai quella che procede dall'Uno. Designarono me, perché io ero pronto.
Venni per rivelare la gloria del padre ai miei compagni e agli spinti miei compagni. Poiché quelli che si trovavano nel mondo erano stati preparati per volere della nostra sorella Sofia - quella che è Prunikos a motivo della sua ingenuità. Essa non era stata mandata per questo, né in proposito aveva chiesto alcunché dal tutto né dalla grandezza della chiesa celeste, né dalla pienezza. Era venuta prima, per preparare dimore e luoghi per il figlio della luce e suoi collaboratori che essa trasse dagli elementi inferiori costruendo da essi dimore corporee; ma, essendo venuti all'esistenza in una gloria vuota, finirono in distruzione nelle dimore nelle quali si trovavano, dato che erano state preparate da Sofia. Essi erano pronti ad accogliere la parola vivificante a proposito dell’Ineffabile Monade e della grandezza della chiesa celeste di tutti coloro che sono perseveranti e di coloro che sono in me.
Entrai in una dimora corporea. Scacciai quello che era in essa, e vi entrai io. Tutta la folla degli arconti ne fu sconvolta.
Tutta la materia degli arconti e così pure le forze generate della terra furono scosse allorché videro la somiglianza dell'immagine (ilica): infatti, era mescolata. Io sono colui che era in essa; non rassomigliavo a quello che c'era prima. Quello, infatti, era un uomo mondano. Io invece, io sono dall'alto dei cieli. A loro non nascosi neppure che sarei diventato un Cristo; ma non mi manifestai loro con quell'amore che da me doveva sprigionarsi. Io manifestai che sono straniero alle regioni inferiori.
Grande apprensione, smarrimento e fuga prevalsero nell'intero luogo cosmico; e così fu pure del piano degli arconti.
Alcuni, tuttavia, si convinsero allorché videro i miracoli da me compiuti; tutti coloro che erano discesi in
basso con quella generazione, fuggirono da colui che era fuggito dal trono, e andarono verso la Sofia della speranza: prima, infatti, lei aveva dato un segno, a nostro riguardo, e di tutti quelli che sono con me, coloro cioè che sono della generazione di Adonaios. Altri, invece, fuggirono perché dal cosmocrator e dai suoi era venuto su di me ogni genere di punizione; si avverò una fuga del loro intelletto a proposito di ciò che dovevano decidere a mio riguardo: pensavano, infatti, che Lei (Sofia) fosse l'intera grandezza, e perciò adducevano una testimonianza falsa contro l'uomo e contro l'intera grandezza della chiesa celeste.
Non era loro possibile conoscerla, cioè conoscere il Padre della verità, l'uomo della grandezza. Ma costoro sono quelli che hanno rubato quel nome «uomo» per contaminarlo con l'ignoranza per consumare con un vaso che avevano preparato per la distruzione dell'Adamo che essi avevano creato per nascondere allo stesso modo quelli che sono loro. Gli arconti, poi, appartenenti al luogo di Jaldabaoth, manifestano il regno degli angeli planetari - seguito dall'umanità - affinché noi si conosca l'uomo della verità. A loro infatti, era apparso l’Adamo che avevano formato. Ma un moto di paura colpì tutta loro (degli arconti) dimora: temevano che gli angeli, i quali li circondano si ribellassero; infatti, senza quelli che lodano di continuo, essa (la dimora) sarebbe andata in rovina e il loro arcangelo sarebbe rimasto svergognato.
Allora, dal cosmocrator, venne un grido rivolto agli angeli: - Io sono Dio, e all'infuori di me non ve n'è alcun altro -. All’udire quel borioso vanto, io feci una allegra risata. Ma egli aggiunse ancora: «Chi è l’uomo?». Tutto l'esercito dei suoi angeli, alla vista di Adamo e della sua dimora, risero della sua (di Adamo) esiguità. E così la loro (degli angeli) ennoia fu distolta dalla grandezza del cielo - cioè dall'uomo della verità del quale avevano visto il nome - poiché era in una piccola dimora. Sono essi che sono piccoli e insensati nel loro riso cioè nella loro vuota ennoia.
Egli (l'uomo) era là allo scopo di scalzarli.
Tutta la grandezza della paternità dello spirito riposava nei suoi luoghi. E sono proprio io che ero presso di lui.
Poiché io ho una ennoia dall'unica e identica emanazione proveniente dagli eterni e dalle inconoscibilità incontaminate e incommensurabili, deposi nel mondo la piccola ennoia, suscitando tra loro inquietudine e incutendo paura a tutta la folla degli angeli e al loro arconte. A motivo della mia ennoia, io passai attraverso tutti, sebbene essi mi combattessero con fuoco e fiamme. Tutto ciò che mi contrapposero non ebbe successo. Eccitazione e lotta sorsero attorno ai serafini e ai cherubini che stanno ai lati di Adonaios, non appena iniziarono a sciogliersi la loro gloria e la miscela e la loro dimora, fino al cosmocrator e a colui che disse: - Togliamolo di mezzo -; altri dissero pure: - Il piano salvifico certo non riuscirà -.
Adonaios, infatti, se ne restò tranquillo in quanto sperava nella salvezza: egli mi conosce. Io ero nelle fauci dei
leoni. Il loro piano su di me, al quale essi miravano, era dissolvere il loro errore e la loro insensatezza, io però non soccombetti a  loro, come essi, invece, avevano progettato. Io non provai alcuna sofferenza. Quelli che erano là mi condannarono a morte, ma in realtà io non sono morto, bensì soltanto in apparenza, altrimenti sarei stato svergognato da loro; essi, infatti, sono parte di me stesso. Allontanai da me la vergogna; non ebbi paura di fronte a ciò che mi accadde nelle loro mani. Ero in procinto di soccombere alla paura, sarei divenuto schiavo della paura. È soltanto secondo la loro vista e il loro pensiero che io ho sofferto, affinché non andasse perduta alcuna parola, a loro riguardo. Questa mia morte che essi pensavano fosse avvenuta, avvenne su di loro. Nel loro errore e nella loro cecità, inchiodarono sulla croce il loro uomo; così lo consegnarono alla morte. I loro pensieri non mi vedevano:
essi erano sordi e ciechi. Facendo questo, essi condannarono se stessi. In verità, costoro mi videro e punirono. Non io, ma il loro padre, fu colui che bevette il fiele e l'aceto. Non io fui percosso con la canna. Era un altro colui che portò la croce sulle sue spalle, cioè Simone. Era un altro colui sul cui capo fu posta la corona di spine. Io, nelle altezze, mi divertivo di tutta l'apparente ricchezza degli arconti, del seme del loro errore, della loro boriosa gloria.
Ridevo della loro ignoranza.
Ridussi a schiavitù tutte le loro potenze. Allorché io discendevo, nessuno, infatti, mi vide. Poiché mutavo i miei aspetti esteriori, cambiando da una forma a un'altra forma. Quando giunsi alle loro porte assunsi le loro somiglianze.
Le attraversai tranquillamente, guardai i luoghi, ma non provai alcun timore né vergogna, perché ero incontaminato.
Parlai con i prigionieri, mi mescolai con essi attraverso coloro che sono miei, calpestai quanto li
tormentava, e spensi il fuoco e la fiamma. Tutto ciò lo feci di mia volontà adempiendo il volere del Padre che è in alto.
Il figlio della grandezza, che si trovava nella regione inferiore, lo portammo lassù in quelle altezze ave io mi trovo da tutte le eternità, in quelle altezze che nessuno ha visto né conosciuto, lassù ove ha luogo lo sposalizio e la vestizione dell'abito nunziale, abito nuovo e non vecchio, abito che non si logora. Quella infatti, ch'io ho manifestato è la nuova e perfetta camera nunziale celeste a tre locali. Mistero incontaminato che si realizza nello spirito dell'eòne che è senza fine, non frammentario, né descrivibile: è, invece, indivisibile, universale e duraturo. Poiché l'anima che viene dall'alto, non può parlare sotto il dominio dell'errore che signoreggia quaggiù, né può sfuggire da questo eòne; ne sarà tratta soltanto allorché sarà libera e, in questo mondo, avrà fatto uso della sua nobile origine, stando davanti al Padre instancabilmente e senza paura, sempre unita all'intelletto, affidata alla forza di un prototipo. Guarderanno a me da ogni parte, senza odio. Poiché mi vedono, saranno visti; sono uniti a me, e vi è unione tra di loro; da loro non fui umiliato, essi non furono umiliati da me; davanti a loro non ebbi alcuna paura, essi non ebbero alcuna paura davanti a me. Passeranno senza paura attraverso ogni porta e saranno perfetti nella terza gloria.
Il mondo non accolse la mia ascesa nell'altezza rivelata, il mio terzo battesimo in una immagine manifesta. Quando essi fuggirono dalla fiamma delle sette potenze, e tramontò il sole delle forze degli arconti, furono avvolti nelle tenebre. E il mondo divenne povero allorché egli fu trattenuto da una moltitudine di catene. Essi lo inchiodarono all'albero, lo fissarono con quattro chiodi di bronzo. Con le sue mani, egli strappò il velo del suo tempio. Un fremito assalì il caos della terra, poiché le anime che si trovavano laggiù nel sonno erano state liberate; si erano alzate e camminavano apertamente qua e là, dopo avere deposto nelle tombe morte lo zelo insensato e l'ignoranza, ed essersi rivestite dell'uomo nuovo, avendo esse riconosciuto quel perfetto, beato figlio dell'eterno e incomprensibile Padre e della luce infinita, che sono io. Allorché io venni dai miei e li unii a me stesso, essi si unirono a me senza bisogno di molte parole. La nostra ennoia era, infatti, con la loro ennoia. Perciò compresero tutto quanto io dicevo.
Noi, infatti, prendemmo la decisione di eliminare gli arconti. In conformità di ciò, io eseguì il volere del Padre,
cioè io - il figlio del Padre - insieme al mio seguito.
Lasciata la nostra dimora, siamo discesi in questo mondo: in questo mondo abitavamo nei corpi. Eravamo odiati e perseguitati non soltanto da coloro che sono ignoranti, ma coloro che ritengono di promuovere il nome di Cristo, sebbene siano inconsapevolmente vuoti: simili a muti animali, non sanno essi stessi chi sono. Perseguitavano, pieni di odio, anche coloro che erano stati liberati da me: quando la porta sarà chiusa, costoro piangeranno con inutili sospiri; infatti, questi non mi hanno conosciuto pienamente, e furono, invece, servi di due e più padroni. Sì, voi sarete vittoriosi nella guerra, nelle lotte e nelle divisioni causate da invidia e da rabbia. Sì, nella integrità del nostro amore noi siamo innocenti, puri e buoni, poiché abbiamo il ricordo del Padre in un mistero ineffabile.
Sì, era una cosa ridicola! Lo attesto io, era proprio una cosa ridicola. Non riconoscendo che la gnosi è una inesprimibile unione - quale si trova unicamente tra i figli della luce -, gli arconti crearono una scimiottatura di voi; diffusero l'insegnamento di un morto e le corrispondenti bugie, per contraffare la libertà e la purezza della chiesa dei perfetti e ucciderla con il loro insegnamento, per estendere la paura e la schiavitù, preoccupazioni terrene e culti abbandonati: minorenni e ignoranti, non accettano la nobile discendenza dalla verità, poiché odiano colui nel quale sono, e amano colui nel quale non sono.
Essi, infatti, non hanno afferrato la grandezza della gnosi, che ha origine dall'alto, dalla fonte della verità, e non dalla schiavitù, dall'invidia, dalla paura, e dall'amore verso la materia terrena. Perciò costoro, senza paura e liberamente, si servono di ciò che appartiene a loro e di ciò che a loro non appartiene; non bramano il potere, e una legge interiore determina ciò che essi vorranno. Mentre quelli che non la possiedono sono poveri. Si, sono poveri quelli che non l'hanno, e quelli che desiderano averla. E costoro seducono quanti si trovano tra loro dandosi l'apparenza di coloro che, in verità, possiedono la libertà, proprio come se noi fossimo condotti sotto il giogo e nella necessità dell'osservanza della legge e ci trovassimo sotto la paura di Dio.
Mentre uno è nella schiavitù, l'altro sarà difeso da Dio e guidato per mezzo di una valida costrizione e sotto minaccia, tutto il nobile seme della paternità non ha bisogno di alcuna custodia in quanto esso stesso - senza parola e senza costrizione difende ciò che gli appartiene e unisce la sua volontà a quella dell'assoluta ennoia della paternità;
cosicché questa sarà perfetta nel santo e ineffabile mistero per opera dell'acqua viva, affinché siate saggi l'un
l'altro, non soltanto nell'ascolto della parola, ma nell'esecuzione e nel compimento della parola! I perfetti, infatti, devono disporsi in tal modo e unirsi a me in buona amicizia, affinché non abbiano nulla in comune con qualsiasi inimicizia. Io ho compiuto ogni cosa per opera di colui che è buono. Questa è l'unione con la verità, affinché non sorga tra loro qualche avversario. Chiunque porta divisione - portando divisione non insegna saggezza e non è un amico – è nemico di tutti loro. Ma colui che vive, in armonia e amicizia di amore fraterno, in modo naturale e non artificioso, completamente e non in modo parziale, costui è veramente nel volere del padre, è l'amore universale e perfetto.
Oggetto di scherno fu Adamo, creato dalla ebdomade quale contraffazione del tipo di uomo: quasi che egli con ciò fosse superiore a me e ai miei fratelli; noi che siamo innocenti davanti a lui e non abbiamo peccato. Oggetto di scherno fu anche Abramo - e con lui Isacco e Giacobbe -, in quanto dalla ebdomade - quale contraffazione - furono detti «i padri»: quasi, che egli con ciò fosse superiore a me e ai miei fratelli; noi che siamo innocenti davanti a lui e non abbiamo peccato. Oggetto di scherno fu David in quanto, per influsso della ebdomade, suo figlio fu detto «il figlio dell'uomo»: quasi che egli con ciò fosse superiore a me e ai compagni della mia stirpe; noi che siamo innocenti davanti a lui e non abbiamo peccato. Oggetto di scherno fu Salomone, in quanto egli - diventato vanesio per influsso dell'ebdomade - credette di essere un Cristo: quasi che egli con ciò fosse superiore a me e ai miei fratelli;
noi che siamo innocenti davanti a lui e non abbiamo peccato. Oggetto di scherno furono i dodici profeti. In
quanto, per influsso dell'ebdomade essi che sono contraffazioni, si presentarono, come imitazioni dei veri profeti: quasi che egli con ciò fosse superiore a me e ai miei fratelli; noi che davanti a lui siamo innocenti e non abbiamo peccato. Oggetto di scherno fu Mosè, servo fedele, secondo un'empia testimonianza, il quale fu detto “amico di Dio”: né egli mi conobbe né quanti furono prima di lui. Da Adamo fino a Mosè e Giovanni Battista, nessuno ha conosciuto me né, i miei fratelli.
Tutto ciò che essi avevano era una dottrina data dagli angeli concernente prescrizioni sui cibi, e una dura schiavitù.
Non hanno mai conosciuto la verità, né mai la conosceranno. Un grave inganno pesa, infatti, sul loro animo
sicché non si trovano mai nella condizione di scoprire e riconoscere l'intelligenza della libertà, fino a quando riconosceranno il vero figlio dell'uomo. A motivo del Padre mio, io sono colui che il mondo non riconobbe; e, per questo, esso (il mondo) insorse contro di me e contro i miei fratelli. Ma noi davanti a lui siamo innocenti; non abbiamo peccato.
Oggetto di scherno fu l'arconte, poiché disse: «Io sono Dio e non v'è alcuno più grande di me. Io solo sono il Padre, il signore, e non v'è alcun altro all'infuori di me. Io sono un dio geloso, colui che addossa i peccati dei padri sui figli fino a tre e quattro generazioni». Quasi che egli fosse più grande di me e dei miei fratelli. Ma noi siamo innocenti davanti a lui e non abbiamo peccato. E così abbiamo superato la sua dottrina. Egli, infatti, era intento a presuntuosa gloria. Non è in armonia col nostro Padre, e così abbiamo neutralizzato la sua dottrina per mezzo della nostra amicizia: egli infatti è gonfio di presuntuosa gloria, e non è in armonia col nostro Padre. Sì, fu un oggetto di scherno, un giudizio e una falsa la profezia!
O voi non vedenti, voi non vedete la vostra cecità! Io, infatti, sono colui che non fu riconosciuto, né mai è riconosciuto o compreso, colui sul quale non si volle udire un messaggio sicuro. Perciò procedettero a un giudizio illusorio, e contro di lui alzarono mani contaminate e omicide: quasi a battere il vento. Gli insensati e i ciechi sono sempre ottusi, sempre schiavi della legge e della paura terrena.
Io sono Cristo, il figlio dell'uomo, che da voi proviene, che è tra voi. Per voi io sono oltraggiato, affinché voi stessi dimentichiate ciò che separa. Non diventate femmine, affinché non partoriate malvagità insieme ai suoi fratelli: invidia e divisione, collera e furore, paura e dubbio, meschina e inutile brama. Ma per voi io sono un ineffabile mistero.
Dunque, prima della fondazione del mondo, quando sui luoghi dell'ogdoade si radunò la moltitudine della chiesa celeste, quando tennero consiglio in merito a un matrimonio spirituale, cioè una unione, esso (il matrimonio) fu compiuto così spiritualmente nei luoghi ineffabili per mezzo di una parola viva; il matrimonio incontaminato fu consumato attraverso la mediazione di Gesù il quale abita in tutti loro e li possiede, egli che dimora in un efficace indiviso amore. Questo, che lo circonda, gli si manifesta come una monade di tutti, come madre e padre. Egli (Gesù) è uno e si avvicina a tutti, egli solo è irradiato di pieno splendore, emanato come vita dal Padre dell'ineffabile e perfetta verità, e come la luce di quanti ivi si trovano; egli è il fondamento della pace, amico per le persone buone vita eterna e gioia incontaminata, grande accordo di vita e di fede per mezzo della manifestazione della paternità e della maternità, della fratellanza e della sorellanza, e della sapienza spirituale. Essi conseguirono una intelligenza vasta, che si estenderà in esultante riunificazione, leale e fedele, all'ascolto di uno solo. Questo è il mistero del conseguimento della paternità, della maternità, della spirituale fratellanza e della sapienza. Questo è il matrimonio della verità; questa è l'assunzione del riposo immortale per opera di uno spirito di verità in ogni intelligenza; questo è il conseguimento della luce perfetta in un mistero ineffabile. Ma ciò non è, e non si realizzerà in noi - in alcuna regione né in alcun luogo - se vi è divisione o rottura della pace, ma è solo nell'unione e nel reciproco amore che tutti sono perfetti in colui che è, dopo che esso l'amore si realizzò, anche nei luoghi che sono al di sotto del cielo, per la loro riconciliazione.
Coloro che mi hanno riconosciuto con cuore integro e indiviso, e coloro che vissero a onore del Padre e della verità, una volta separati dal mondo prendono dimora nell'uno per mezzo della parola viva. Io sono nello spirito e nella verità della maternità; in quel luogo (cioè nel mondo) mi trovavo tra coloro che sono sempre uniti in una amicizia da amici e ignorano qualsiasi genere di inimicizia e cattiveria, bensì - avendomi conosciuto per mezzo della parola - sono uniti in una pace che, nella sua pienezza, si trova in ognuno e in tutti. Coloro che furono formati secondo la mia immagine, riceveranno forma secondo la mia parola. In verità costoro splenderanno nella luce eterna e nella reciproca amicizia nello spirito, dopo che avranno riconosciuto, sotto ogni aspetto e con cuore indiviso, che uno solo è colui che è e che tutti sono uno. Costoro saranno ammaestrati sull'uno, come lo fu la chiesa celeste e quelli che dimorano in lei. Il Padre di tutti, infatti, è incommensurabile e immutabile; è intelligenza e parola, senza divisione, senza gelosia e senza fiamma. Egli è assolutamente uno, è presso tutti come la totalità, in un'unica dottrina, poiché tutti esistono per opera di un unico spirito. O voi non-vedenti, perché non avete riconosciuto il mistero nella verità?
Ma gli arconti del seguito di Jaldabaoth disobbedirono a causa dell'ennoia discesa a lui da sua sorella, Sofia. Essi si crearono una unione con quanti si trovavano con essi nella miscela nuvolosa di fuoco, - che era la loro gelosia -, con l'ausilio di altri da loro stessi prodotti per mezzo delle loro creature, quasi che in tal modo avessero potuto estinguere la nobile gioia della chiesa celeste. Essi perciò manifestarono una miscela di ignoranza in una contraffazione di fuoco, di terra e di spirito micidiale: sono, infatti, miseri e sprovveduti, senza conoscenza. Quando osavano agire così, ignoravano che la luce si unisce soltanto alla luce, e le tenebre alle tenebre e l'impuro al transitorio e l'eterno all'incontaminato.
Questi insegnamenti ve li ho comunicati io Gesù Cristo, il figlio dell'uomo, colui che troneggia nei cieli, o voi perfetti e voi incorruttibili, a motivo del mistero perfetto, incorruttibile, e ineffabile, ve li ho comunicati per ricordare che prima della creazione del mondo abbiamo deciso che allorquando usciamo dai luoghi del mondo, ci facciamo riconoscere con quei simboli dell'incorruzione provenienti dalla unione spirituale. Voi, il padre non lo conoscete, perché siete coperti dall'ombra della nuvola carnale. Io solo sono l'amico di Sofia. Fin dall'inizio io ero nel seno del Padre, nel luogo dei figli della verità e della grandezza. Entrate, dunque, nel riposo con me, voi, miei amici spirituali ed eterni fratelli!

Secondo discorso del grande Seth

TITOLO The Second Treatise of the Great Seth
COLLEGAMENTO http://www.gnosis.org/naghamm/2seth.html
AUTORE Roger A. Bullard and Joseph A. Gibbons
TRAD. ITALIANO Sconosciuto

FONTE: http://www.scribd.com/doc/179179193/I-Codici-Di-Nag-Hammadi-ITALIANO-eBook#

IL VANGELO DI GIUDA ISCARIOTA



Il discusso testo di origini gnostiche, già oggetto delle invettive di Sant'Ireneo.
Apparso negli anni 70 sul mercato antiquario egiziano, se ne erano perse le tracce, ma nella
pasqua di quest'anno (2006) ricompare in una traduzione inglese a cura di Rudolph Kasser
elaborata, per conto della Maecenas Foundation for Ancient Art di Basilea e della National
Geographic.



IL VANGELO DI GIUDA ISCARIOTA *

INTRODUZIONE: PREMESSA


Il resoconto segreto della rivelazione che Gesù espose nella conversazione con
Giuda Iscariota durante la settimana precisamente tre giorni prima che si
celebri la Pasqua Ebraica.

IL MINISTERO TERRENO DI GESU'

Quando Gesù comparve sulla terra, fece miracoli e grandi meraviglie per la
salvezza dell' umanità. E da allora qualcuno ( ha camminato) nella via della
rettitudine mentre altri hanno camminato nella trasgressione, furono nominati
dodici discepoli . Egli cominciò a parlare con loro dei misteri dell'altro mondo e
che cosa sarebbe avvenuto alla fine. Spesso non comparve ai suoi discepoli
come se stesso, ma si trovò fra loro come un bambino.

SCENA 1: I dialoghi di Gesù con i suoi discepoli: La preghiera del
ringraziamento o dell'Eucarestia


Un giorno era con i suoi discepoli in Giudea, e li trovò riuniti assieme e assisi
nel pio rispetto. Quando si (avvicinò a) i suoi discepoli, (34) riuniti insieme
assisi ed offerenti una preghiera di ringraziamento sopra il pane,( lui) rise. I
discepoli (gli)dissero, "Maestro, perché stai ridendo (della nostra) preghiera di
ringraziamento? Abbiamo fatto ciò che è giusto." Egli rispose dicendo loro,
"Non sto ridendo di voi. Perché non state facendo ciò per vostra volontà ma
perché è attraverso di questo che il vostro Dio ( sarà ) onorato."Dissero,
"Maestro, sei (... ) il figlio del nostro Dio." Gesù rispose loro , "Come mi
conoscete? In verità ( Io) vi dico,che nessuna generazione di genti che sono fra
voi mi conoscerà."

I DISCEPOLI SI ARRABBIANO

Quando i suoi discepoli udirono questo, cominciarono ad arrabbiarsi ed
infuriarsi iniziando a bestemmiare contro di lui nei loro cuori. Quando Gesù
capì la loro mancanza di (comprensione, disse) a loro, "Perché questa
agitazione vi ha condotti alla rabbia? Il vostro Dio che è presso voi e (...) (35)
vi ha provocati per fare arrabbiare (dentro) le vostre anime.(Lasci) Chiunque di
voi che è (abbastanza forte) fra gli esseri umani metta in evidenza l' umano
perfetto e si ponga davanti alla mia faccia." Tutti dissero, "Noi abbiamo quella
forza."Ma i loro spiriti non osarono levarsi davanti (a lui), tranne Giuda
Iscariota. Egli era in grado di porsi davanti a lui, ma non poteva guardarlo negli
occhi, e girò quindi la faccia Giuda gli (disse) , "So chi sei e da dove sei
venuto. Tu provieni dal regno immortale di Barbelo. E non sono degno di
pronunciare il nome di colui che ti ha mandato."

GESU' PARLA PRIVATAMENTE A GIUDA

Sapendo che Giuda stava riflettendo su qualcosa di elevato, Gesù gli disse,
"Allontanati dagli altri e ti svelerò i misteri del regno. È possibile per te
raggiungerlo, ma dovrai soffrire molto. (36) Qualcun altro prenderà il tuo
posto, affinché i dodici (discepoli) possano venire ancora al completo con il loro
Dio." Giuda chiese, "Quando mi direte queste cose, e (quando) spunterà il
grande giorno della luce per la generazione?" Ma quando disse questo, Gesù lo
lasciò.

SCENA 2: Gesù compare ancora ai discepoli.

La mattina seguente, questi fatti, Gesù (comparve) ancora ai suoi discepoli .
Essi gli dissero, "Maestro, dove sei andato e che cosa hai fatto quando ci hai
lasciati?" Gesù gli disse, "Sono andato da un'altra generazione grande e
santa." I suoi discepoli gli dissero, "Signore, qual è la grande generazione che
ci è superiore e più santa, e non si trova adesso in questi regni?" Quando Gesù
sentì questo, rise e disse loro, "Perché state pensando nei vostri cuori a questa
generazione forte e santa? (37) In verità vi dico, nessun nato (di) questo eone
vedrà questa (generazione), e nessun padrone degli angeli delle stelle regnerà
su questa generazione, e nessun mortale di nascita può associarsi con essa
(andarci), perché questa generazione non viene da (..) quale è diventata (..).
La generazione della gente fra (voi) proviene dalla generazione dell' umanità
(..), potere, quale (..) altri poteri (..) dai (quali) regnate." Quando i
(suoi)discepoli udirono ciò, si turbarono spiritualmente. E non poterono
proferire parola. Un altro giorno Gesù venne a (loro). E gli dissero , "Maestro,
ti abbiamo visto in una (visione), quando abbiamo avuto grandi (sogni...)
notturni "( Gesù disse), "Perché avete (voi... quando) siete andati nel
nascondiglio?"(38)

I DISCEPOLI VEDONO IL TEMPIO E LO DISCUTONO.

Essi (dissero, "abbiamo visto) una grande (casa con un grande) altare( in
essa, e) dodici uomini che sono i sacerdoti, vorremmo dire un nome; e una
folla della gente sta attendendo a quell' altare, (finché) i sacerdoti (... e
ricevono) le offerte. (Ma) abbiamo continuato a attendere." (Gesù disse), "Chi
sono ( i sacerdoti) come?" Essi(dissero, "Qualcuno... ) due settimane;
(qualcuno)sacrifica i loro stessi bambini, altri le loro mogli, nella lode (e)
nell'umiltà con altri; alcune dormono con gli uomini; altri sono addetti alla
(macellazione); alcuni commettono un gran numero di peccati e di atti
criminosi. E gli uomini in piedi (davanti) l'altare invocano il tuo (nome), (39)
ed in tutti gli atti della loro mancanza, i sacrifici sono portati a completamento
(..)." Dopo aggiunsero, che erano calmi, poi si turbarono.

GESU' OFFRE UN'INTERPRETAZIONE ALLEGORICA DELLA VISIONE DEL
TEMPIO


Gesù disse loro, "Perché siete turbati? In verità vi dico, che tutti i sacerdoti che
stanno davanti all'altare invocano il mio nome. Vi dico ancora ,che il mio nome
è stato scritto su questo (..) delle generazioni delle stelle attraverso le
generazioni umane. (ed essi) hanno piantato alberi senza frutti, in mio nome,
in maniera vergognosa." Gesù disse loro, "Coloro che avete visto ricevere le
offerte all'altare sono ciò che siete. Quello è il Dio che servite, e siete quei
dodici uomini che avete visto. Il bestiame che avete visto portare per il
sacrificio è la molta gente che allontanate(40) da quell' altare. (..) si alzerà ed
userà il mio nome in questo modo, e generazioni di pii rimarranno a lui leali.
Dopo (lui) un altro uomo si leverà in piedi là dai (fornicatori), e un altro si
alzerà là dagli assassini dei bambini, ed un altro da coloro che dormono con gli
uomini, e da coloro che si astengono, ed il resto della gente impura e criminale
e sbagliata, e coloro che dicono, " Siamo come gli angeli"; sono le stelle che
portano tutto alla fine. Per le generazioni umane è stato detto, "Guardate Dio
ha ricevuto il vostro sacrificio dalle mani dei sacerdoti che è, un ministro
sbagliato. Ma è il Signore, il Signore dell'universo, che comanda, e "L'ultimo
giorno saranno messi nella vergogna .'"(41) Gesù disse (a loro), "Cessate di
sacrificare… quello che avete (..) sopra l'altare, da allora sono sopra le vostre
stelle ed i vostri angeli , là sono già arrivati alla loro fine . Così lasciateli (
intrappolati) davanti a voi, e lasciateli andare ( 15 linee mancanti)
generazioni(..). Un panettiere non può nutrire tutta la creazione (42) sotto
(paradiso). E (..)a loro (..) e (..) a noi e(..). Gesù disse loro, "Smettete di
lottare con me. Ciascuno di voi ha la sua propria stella, e ognuno (17 linee
mancanti) (43) in (..) chi è venuto(... primavera) per l'albero(..) di questo
eone (..) per un certo tempo (..) ma lui è venuto a innaffiare il paradiso di Dio,
e la (generazione) che durerà, perché (lui) non corromperà ( il cammino della
vita ) che la generazione, ma (..) per tutta l'eternità."

GIUDA CHIEDE A GESU' RIGUARDO QUELLA GENERAZIONE ED ALLE
GENERAZIONI UMANE


Giuda disse a lui, "Rabbi, che genere di frutta produce questa generazione ?"
Gesù disse, "Le anime di ogni generazione umana moriranno. Quando queste
persone, comunque, hanno completato il periodo del regno e lo spirito li lascia,
i loro corpi moriranno ma le loro anime saranno vive, e portate su (in cielo).”
Giuda disse, "E che cosa farà il resto delle generazioni umane?" Gesù disse, "E'
impossibile (44) seminare il seme sopra (la roccia) e raccogliere la sua frutta.
(questo) è anche la via(..) la generazione (corrotta) (..) e Sophia corruttibile
(..) la mano ha generato la gente mortale, in modo che le loro anime salgono
fino ai regni eterni di sopra. (In verità) vi dico,(..) l' angelo (..)potenza potrà
vedere quello (..) questi a chi(..) sante generazioni(...)."Dopo aver detto
questo, si allontanò.

SCENA 3: Giuda racconta una visione e Gesù risponde

Giuda disse, "Maestro, come hai ascoltato tutti, ora ascolta anche me. Perché
ho avuto una grande visione ." Quando Gesù udì questo, rise e gli disse, "tu sei
il tredicesimo spirito, perché ti sforzi tanto? Ma su parla, ed io ti sosterrò."
Giuda gli disse, "Nella visione mi sono visto mentre i dodici discepoli mi
stavano lapidando e (45) perseguitando ( molto duramente). Ed inoltre sono
venuto al posto dove (..) dopo di te. Io vidi (una casa.), ed i miei occhi non
poterono (comprendere) la sua grandezza. Persone straordinarie erano nei suoi
dintorni, e quella casa aveva un tetto di fogliame, e nel mezzo della casa
c'era (una folla)( 2 linee mancanti), dicendo, Maestro, prendimi insieme con
queste persone .'" (Gesù) rispose dicendo, "Giuda, la tua stella ti ha condotto
fuori strada." e continuò , "Nessuna persona mortale di nascita è degna di
entrare nella casa che hai visto, perché quel posto è riservato ai santi. Né il
sole né la luna regnerà là, né il giorno, ma solo il santo rimarrà sempre là, nel
regno eterno con i santi angeli . Vedi, io ti ho spiegato i misteri del regno (46)
e insegnato ciò che riguarda l'errore delle stelle; e(..) tramandalo(..) sui dodici
eoni."

GIUDA CHIEDE NOTIZIE SUL SUO PROPRIO DESTINO

Giuda disse, "Maestro, potrebbe essere che il mio seme sia sotto il controllo
dei regnanti?" Gesù gli rispose dicendo, "Vieni, che io (2 linee mancanti), ma ti
addolorerà molto quando vedrai il regno e tutta la sua generazione." Quando
sentì questo, Giuda gli disse, "Che cosa ho ricevuto di buono? tu mi hai
allontanato da quella generazione." Gesù rispose dicendo, "Diventerai il
tredicesimo, sarai maledetto dalle altre generazioni e andrai a regnare sopra di
loro. Negli ultimi giorni malediranno la tua ascesa (47) verso la santa
(generazione)."

GESU' INSEGNA A GIUDA LA COSMOLOGIA: LO SPIRITO E
L'AUTOGENERAZIONE


Gesù disse, "(vieni), io posso insegnarti i (segreti) che nessuna persona (ha)
mai visto. Perché là esiste un regno grande e illimitato, la cui estensione
nessuna generazione di angeli ha visto, (nel quale) c'è (un) grande (spirito)
invisibile, che nessun occhio di angelo ha mai visto, nessun pensiero del cuore
ha mai compreso, e non è mai stato chiamato con alcun nome."E là apparve
una nube luminosa. Egli disse, Che un angelo venga come mio compagno .'
"Un grande angelo, Il divino illuminato Auto-Generato emerse dalla nube. A
causa sua, altri quattro angeli si manifestarono da un'altra nube, e diventarono
i compagni per l' angelico Auto-Generato. L' Auto-Generato disse, (48) 'Che
(..) venuto in essere (..),' e venne a manifestarsi (..). Ed egli (creò) il primo
astro a regnare sopra di lui. Egli disse, Che gli angeli si manifestino per servir
(lo),'e innumerevoli miriadi si manifestarono. Egli disse, (che) che un eone
illuminato venga ad essere,'e questo venne. Egli creò un secondo astro (a)
regnare su di lui, insieme a innumerevoli miriadi di angeli, ad offrire servizio.
Questo è come ha generato il resto degli illuminati eoni. Li fece regnare sopra
di loro, e creò per loro innumerevoli miriadi di angeli, ad aiutarli.

ADAMO E GLI ASTRI

"Adamo era nella prima nube luminosa che nessun angelo aveva mai visto fra
tutte quelle chiamate 'Dio'. Egli (49) (..) che(..) a immagine(..) e dopo a
somiglianza di (questo) angelo. Fece comparire l' incorruttibile (generazione) di
Seth(..) le dodici (..)le ventiquattro(..). Creò settantadue astri nella
generazione incorruttibile, in accordo con la volontà dello Spirito. Gli stessi
settantadue astri crearono altri trecentosessanta astri nella generazione
incorruttibile, in conformità con volontà dello Spirito, così che il loro numero
fosse cinque per ciascuno. "I dodici eoni dei dodici astri (luminari) costituiscono
il loro padre, con sei cieli per ogni eone, così che ci sono settantadue cieli per i
settantadue luminari, e per ciascuno (50) (di loro cinque) firmamenti, (per un
totale di) trecentosessanta (firmamenti...). Furono dati loro l'autorità e (un
grande) innumerevole esercito di angeli, per la gloria e l'adorazione, (e dopo
questo anche) spiriti vergini, per la gloria e (l'adorazione) di tutti gli eoni dei
cieli e dei loro firmamenti.

IL COSMO, IL CAOS, E L'INFERNO

"La moltitudine di questi immortali è chiamato cosmo che è, separato- dal
Padre ed i settantadue luminari che coesistono con l'Auto-Generato ed i suoi
settantadue eoni. In lui il primo essere umano comparso con i suoi poteri
incorruttibili. E l'eone che è comparso con la sua generazione, l'eone nel quale
sono la nube della conoscenza e l'angelo, è chiamato (51) El. (..) eone (..)
dopo che (..) disse, ' Che dodici angeli si manifestino (al) dominio sul caos e l'
(inferno).'E osserva, là dalla nube è apparso un (angelo) con la faccia che
splende come il fuoco e che sembra macchiata con il sangue. Il suo nome era
Nebro, che significa il "ribelle" altri lo chiamano Yaldabaoth. Un altro angelo,
Saklas, anche lui venuto dalla nube. Così Nebro generò sei angeli -buoni come
Saklas per essere di aiuto, e questi generarono dodici angeli nel cielo, ciascuno
dei quali ricevette una parte nei cieli.

I SOVRANI E GLI ANGELI

"I dodici sovrani parlarono con i dodici angeli: Che ciascuno di voi (52) (..) e
che la loro(..) generazione (una linea perduta) angeli: Il primo è (S)eth, che è
chiamato Cristo. Il (secondo) è Harmathoth, che è (..). Il (terzo) è Galila. Il
quarto è Yobel. Il quinto (è) Adonaios. Questi sono i cinque che dominavano
sull' inferno, ed il primo di tutti sul caos.

LA CREAZIONE DELL' UMANITÀ

"Allora Saklas disse ai suoi angeli, 'Lasciateci creare un essere umano a nostra
somiglianza e immagine. 'Modellarono Adamo e sua moglie Eva, che è
chiamata, nella nube, Zoe. In questo nome tutte le generazioni cercano
l'uomo, e ciascuna di loro chiama la donna con questi nomi. Ora, Saklas non
com(anda) (53) tranne (..) le gene(razioni) questo (..). E il (sovrano) disse ad
Adamo, `Vivrai a lungo, con i tuoi bambini .'"

GIUDA CHIEDE NOTIZIE SUL DESTINO DI ADAMO E DELL' UMANITÀ

Giuda disse a Gesù, "(Quanto) a lungo nel tempo vivranno gli esseri umani?
Gesù disse, "Perché ti stai domandando questo, quell' Adamo, con la sua
generazione, ha vissuto con la longevità e con il dominio, il suo spazio di vita
nel posto dove ha ricevuto il suo regno? "Giuda disse a Gesù, "Lo spirito
umano muore?" Gesù rispose, "Ecco perché Dio ordinò a Michele di dare solo in
prestito lo spirito alle genti, in modo che potessero offrire i loro servizi, ma l'
Eccelso ordinò a Gabriele di garantire gli spiriti - cioè, lo spirito e l'anima - alla
grande generazione senza un sovrano che la domina. Di conseguenza,il
(resto)delle anime (54) (una linea mancante).

GESU' DISCUTE LA DISTRUZIONE DEL MALVAGIO CON GIUDA E GLI
ALTRI


(..) Si illuminano (quasi due linee mancanti) intorno (..) lasciate [... ] lo spirito
(che è)dentro di voi che dimorate in questa (carne) fra le generazioni degli
angeli. Ma Dio fu causa della conoscenza (concessa) ad Adamo ed a quelli con
lui, in modo che i re del caos e dell'inferno non abbiano Signore sopra di loro."
Giuda disse a Gesù, " Allora cosa faranno quelle generazioni?" Gesù rispose,
"In verità vi dico, per tutti loro le stelle portano i fatti a compimento. Quando
Saklas porta a fine il tempo che gli è stato assegnato, la prima stella comparirà
con le generazioni, e compiranno ciò che dissero che avrebbero fatto. Poi
fornicheranno in mio nome e uccideranno i loro bambini (55) e (faranno) (..) e
( mancano circa sei righe e mezzo) il mio nome, e lui (farà) (..) la vostra stella
sopra il trentesimo eone." Dopo ciò Gesù (rise).(Giuda disse), "Maestro,
(perché stai ridendo di noi)?”(Gesù) rispose a (e disse), "Non sto ridendo di
(voi) ma allo sbaglio delle stelle, perché queste sei stelle vagano con questi
cinque combattenti, e tutti saranno distrutti insieme con le loro creature."

GESU' PARLA DI COLORO CHE SONO BATTEZZATI, E DEL TRADIMENTO
DI GIUDA

Giuda disse a Gesù, "Allora, che cosa faranno quelli che sono battezzati nel
tuo nome?" Gesù rispose, "In verità (vi) dico, questo battesimo (56) (..) il mio
nome ( circa nove linee mancanti) a me. In verità (Io) ti dico, Giuda, (colui
che) offre i sacrifici a Saklas (..) Dio (tre linee che mancanti) ogni cosa che sia
diabolica. "Ma tu li supererai tutti. Perché sacrificherai l'uomo che mi riveste.
Già il vostro corno è stato alzato, la vostra collera è stato accesa, la vostra
stella brilla intensamente, ed il vostro cuore ha (..).(57) "In verità (..) il vostro
ultimo(..) diventa (circa due linee e mezzo mancanti), addolorati (circa due
linee che mancano) il sovrano, finché sarà distrutto. Ed allora l'immagine
grande della generazione di Adamo sarà innalzata, per prima al cielo, la terra e
gli angeli, quella generazione, che proviene dai regni eterni, esiste. Vedi, hai
sentito tutto. Alza in alto i tuoi occhi e guarda la nube e la luce all'interno di
essa e le stelle che la circondano. La stella che mostra il cammino è la tua
stella." Giuda alzò in alto i suoi occhi e vide la nube luminosa, e vi entrò
dentro. Quelli che si alzarono sulla terra sentirono una voce venire dalla nube,
dire, (58) (..) grande generazione (..)... immagine (..) (circa cinque linee
mancanti).

CONCLUSIONE: GIUDA DENUNCIA GESU'

(..) I loro sommi sacerdoti mormoravano perché (lui) era andato nella stanza
degli ospiti per la sua preghiera. Ma là alcuni scribi lo stavano guardando con
attenzione per arrestarlo durante preghiera, poiché erano impauriti della
gente, perché era considerato da tutti come un profeta. Si avvicinarono a
Giuda e gli dissero, "Che cosa stai facendo qui? Tu sei un discepolo di Gesù."
Giuda gli rispose quello che desideravano. Ricevette dei denari e lo consegnò a
loro.
*(Giuda Iscariota (I secolo d.C.), nel Nuovo Testamento, l'apostolo che tradisce
Gesù nell'orto di Getsemani, indicandolo ai soldati del Sinedrio. Secondo i Vangeli
di Matteo e Marco, Giuda tradì Gesù per 30 denari d'argento. Stando ai Vangeli di
Matteo, Marco e Luca, Gesù era a conoscenza del progetto di tradimento, che
predisse.)

giovedì, agosto 07, 2014

Chi ti credi di essere? Un paria dei cieli


Chi ti credi di essere? Un paria dei cieli
Ero partito pieno di emozioni
sogni, paranoie, voci notturne,
una svolta senza paragoni
nella vita di un intoccabile
quello che deve pagare come l'ebreo errante
il prezzo della provocazione
un colpo grosso
una delazione voler distruggere la gabbia
voler una cosa sola vivere

Ma il potere non smentisce
la sua fama
tu sei un paria dei cieli
e non esisti per la società civile democratica e populista

Sotto i raggi x
credo per un attimo di essere un cyborg
un entita extraterrena
ma non è così
sono il paria dei cieli
e il servo del padrone che crede ai soldi facili
ti sussurra -Non hai niente pensa alle ragazze-
e ride della propria stoltezza
addio sogni di gloria
caro amico io che ho fatto mille cerimonie di magia nera
ti mando una maledizione

Chi ti credi di essere? Un paria dei cieli
la risposta è semplice e diretta
non servono paroloni ed elucubrazioni
la storia si svolge tutta sotto il sole
la mafia di Stato non ha vergogna
violenta e uccide senza soste qualsiasi sogno
qualsiasi pensiero libero e audace
compra tutto
ma la morte del denaro la metta alla gogna
della società internazionale
mi credono finito all'ultimo stadio
che Sansone muoia con tutti i filistei

Herman Hesse IL RITORNO DI ZARATHUSTRA

IL RITORNO DI ZARATHUSTRA
Parole alla gioventù tedesca
Titolo originale:

ZARATHUSTRAS WIEDERKEHR. EIN WORT AN DIE DEUTSCHE


Traduzione di Italo Alighiero Chiusano
Prima edizione: Berlino 1919
Prima edizione italiana: Milano 1965

Quando, tra i giovani della capitale, si cominciò a sus-
surrare che Zarathustra era ricomparso e che lo si era
visto di qua e di là, per le vie e sulle piazze, alcuni si
misero alla sua ricerca. Erano giovani tornati dalla guerra
che, nella loro patria trasformata e sconvolta, vivevano
in un'ansia continua, poiché vedevano che stavano acca-
dendo grandi cose, ma il loro senso era oscuro e per molti
erano cose addirittura insensate. Tutti costoro, all'inizio
della giovinezza, avevano veduto in Zarathustra la loro
guida e il loro profeta, avevano letto col fervore della
gioventù ciò che è stato scritto su di lui, e ne avevano
discusso e meditato, nelle loro peregrinazioni sui monti e
per i campi, o nella loro camera, di notte, al lume della
lampada. E Zarathustra era stato sacro, per loro, come
per ciascuno di noi diventa sacra la voce che per prima
e più forte di ogni altra ci rivela il nostro io e il nostro
personale destino.

Quando questi giovani trovarono Zarathustra, egli era
in una larga strada, in mezzo unfolto viavai di gente,
appoggiato contro un muro e intento ad ascoltare un di-
scorso che un comiziante rivolgeva alla folla dall'alto di
una vettura. Zarathustra ascoltava, sorrideva e guardava
in faccia tutte quelle persone. Guardava quei volti come
un vecchio eremita guarda le onde del mare o le nuvole
del mattino. Vedeva la loro angoscia, vedeva la loro im-
pazienz e la loro smarrita e piagnucolosa trepidazione in-
fantile, vedeva anche il coraggio e l'odio negli occhi dei
risoluti e dei disperati, e non si stancava di guardare e,
al tempo stesso, di prestare ascolto al discorso dell'orato-
re. Ciò che lo fece riconoscere ai giovani fu il suo sorriso.
Egli non era né vecchio né giovane, non aveva l'aspetto
né di un maestro né di un soldato, sembrava solo un es-
sere umano: l'uomo, quasi fosse appena emerso dal buio
del divenire, il primo della sua specie

Ma è dal sorriso che lo riconobbero, dopo aver dubitato
alquanto se fosse o non fosse lui. Il suo sorriso era chiaro
ma non bonario; era ingenuo ma privo di benevolenza.
Era 11 sorriso di un guerriero, e più ancora il sorriso di
un vecchio che ha visto molte cose e che non crede più
al planto. Da questo lo riconobbero.

Quando il discorso fu terminato e la folla cominciò a
disperdersl vociando, i giovani si accostarono a Zarathu-
stra e lo salutarono con rispetto.

--Eccoti qui, maestro-- dissero balbettando -- final-
mente sel tornato, ora che il bisogno è maggiore. Benve-
nuto, Zarathustra! Tu ci dirai che cosa dobbiamo fare
sarai la nostra guida. Tu ci salverai da questo che è ii
plU grave di tutti I pericoli.

Sorridendo lui li invitò ad accompagnarlo e, mentre
camminavano, disse loro, che lo ascoltavano intenti: --
Sono di ottimo umore, amici miei. Sì, sono tornato, forse
per un giorno, forse per un'ora, e sto a guardarvi mentre
recltate la commedia. E sempre stato un divertimento per
me, assistere alla recita di una commedia. E l'attività in
CUI gli uomini sono più sinceri.

I glovani, a sentirlo, si guardarono l'un l'altro: secon-
do loro c'era troppa ironia, troppa allegreza, troppa di-
sinvoltura nelle parole di Zarathustra. Come poteva par-
lar di commedia, mentre il suo popolo si trovava in tanta
mlseria? Come poteva sorridere e divertirsi, quando la
sua patria era sconfitta e dissestata? Come poteva, tutto
questo, 11 popolo e il comiziante, la gravità dell'ora pre-
sente, la solennità e il rispetto di se stessi dimostrati da
quel giovani, come poteva tutto questo non essere altro
che un pascolo per i suoi occhi e i suoi orecchi, un mero
oggetto di sorridente osservazione? Non era il momento
questo, di plangere lacrime di sangue, di lanciar lamenti
e di strapparsi le vesti? E, soprattutto, non era tempo,
non era plU che tempo di agire? Di operare sul serio?
Dl dare un esempio? Di salvare il popolo e il paese dalla
slcura rovma?

-- Vedo -- disse Zarathustra, che sentiva i loro pen-
sieri prima ancora che uscissero dalle loro labbra -- che
non siete contenti di me, giovani amici. Me l'aspettavo,
eppure me ne stupisco. Quando ci si aspetta qualcosa del
genere, insieme all'attesa c'è sempre, in noi, anche 11 con-
trario: qualcosa, in noi, aspetta e qualcos'altro spera l'op-
posto. E quel che ora mi sta accadendo con voi, giovani
amici. Ma ditemi, non volevate parlare con Zarathustra?

-- Sì, lo volevamo--esclamarono tutti, bramosi.

Zarathustra, allora, sorrise e continuò: --E allora, miei
cari, parlate con Zarathustra, ascoltate Zarathustra! Colui
che vi sta dinanzi non è un oratore da comizio né un sol-
dato né un re né un generale: è Zarathustra, il vecchio
eremita e burlone, l'inventore dell'ultima risata, l'inven-
tore di tante ultime tristezze. Non è da me, amici, che
potrete imparare come si governino i popoli e si riparino
le sconfitte. Io non so insegnarvi come si comandmo I
greggi e come si plachino gli affamati. Non sono queste
le arti di Zarathustra. Non sono queste le cure di Zara-
thustra .

I giovani tacquero, e la delusione allungò le loro facce.
Continuarono a camminare accanto al profeta, costernati
e malcontenti, e per un bel po' non trovarono parole da
opporgli. Finalmente parlò uno di loro, il più giovane, e
mentre parlava i suoi occhi presero a scintillare e lo sguar-
do di Zarathustra si posava su di lui con compiacenza.

--Ebbene -- cominciò il più giovane dei giovani --
dicci allora quello che hai da dirci. Perché se sei solo ve-
nuto per ridere di noi e delle disgrazie di questo popolo,
noi abbiamo di meglio da fare che andarcene a spasso
con te e star a sentire le tue raffinatissime arguzie. Guar-
daci, Zarathustra: noi tutti, per quanto giovani, abbiamo
fatto la guerra e abbiamo visto in faccia la morte, e non
intendiamo più dedicarci ai giochi di parole e ai piace-
voli passatempi. Noi ti abbiamo venerato, maestro, e ti
abbiamo amato, ma più grande dell'amore per te è in noi
l'amore per noi stessi e il nostro popolo. E bene che tu
lo sappia.

Il viso di Zarathustra si rischiarò, sentendo parlare il
giovane a quel modo, ed egli lo guardò negli occhi adi-
rati con bontà, anzi con tenerezza.

-- Amico mio -- gli disse col suo miglior sorriso --
come fai bene a non accettare il vecchio Zarathustra sen-
za esame, a tastargli il polso e a stuzzcarlo nel punto
in cui lo credi vulnerabile! Quanto fai bene, mio caro, a
diffidar così ! Lo sai che hai detto una frase eccellente
una di quelle che Zarathustra sente così volentieri? Non
hai forse detto: « Noi amiamo noi stessi più di quantO
non amiamo Zarathustra"? Quanto mi piace questa sin-
cerità! Sei riuscito ad adescarlo, con codesta sincerità, que-
sto vecchio pesce inafferrabile, e tra poco penderò dalla
tua lenza!

Da una strada lontana, in quella, si udirono spari, gri-
da e il rumore di un combattimento: facevano uno stra-
no, assurdo effetto nel silenzio della sera. Nel vedere che
gll sguardi e i pensieri dei suoi giovani accompagnatori
correvano, come leprotti, in quella direzione, Zarathustra
cambiò tono di voce Parve, a un tratto, che la sua voce
vemsse di molto lontano, con lo stesso timbro che i gio-
vani avevano avvertito quando avevano avuto il loro pri-
mo incontro con lui: come una voce che non venga dagli
uomml, ma dagli astri o dagli dei, o, meglio ancora, come
la voce che ciascuno sente, in segreto, dentro di sé, nei
momenti in cui Dio è in lui.

Gli amici drizzrono gli orecchi e tornarono a Zara-
thustra con tutti i loro sensi e i loro pensieri, perché ora
rlconoscevano la voce che, un tempo, quasi scendesse dai
sacrl monti, aveva risuonato nella loro prima giovinezz
e che pareva la voce di un Dio ignoto.

--Ascoltatemi, figlioli -- disse Zarathustra, serio, e
sl rivolse in modo particolare al più giovane.--Se volete
udire uno squillo di campana, non percotete una latta. E
se volete suonare il flauto, non accostate le labbra a un
otre di vino. Mi capite, amici miei? Cercate di ricordare,
mlel carl, cercate di ricordare bene: Che cosa avete im-
parato, un tempo, in quelle ore di ebbrezza, dal vostro
Zarathustra? Che cosa? Forse una saggezza buona per la
bottega o per la strada o per il campo di battaglia? Vi
ho dato consigli per i re, vi ho mai parlato in chiave
regale o borghese o politica o mercantile? No, come ben
ricordate io parlavo da Zarathustra, parlavo il mio lin-
guaggio, mi spalancavo dinanzi a voi come uno specchio,
affinche VOI poteste vederci voi stessi. Avete mai « impa-
rato qualcosa » da me? Sono mai stato un maestro di
parole o di cose? Vedete, Zarathustra non è un maestro,
non lo si può interrogare, e imparare da lui, e farsi dar
da lui delle buone ricette, grandi e piccine, per i casi della
vita. Zarathustra è l'uomo, è l'io e il tu. Zarathustra è
l'uomo che andate cercando dentro voi stessi, quello sin-
cero e mai sedotto: come potrebbe farsi vostro seduttore~
Molte cose ha visto Zarathustra, molte ne ha patite, molti
ossi duri ha dovuto rodere, da molti serpenti è stato mor-
so. Ma una cosa sola ha imparato, una sola è la sua sag-
gezza, uno solo il suo orgoglio. Egli ha imparato ad essere
Zarathustra. Ed è questo che voi volete imparare da lul,
e per cui così spesso vi manca il coraggio. Dovete impa-
rare a essere voi stessi, così com'io ho imparato a essere
Zarathustra. Dovete disimparare ad essere altri, a non es-
sere nulla, a imitare le voci altrui e a credere che i VISI
altrui siano i vostri. E perciò, amici, quando Zarathustra
vi parla, non cercate, nelle sue parole, né saggezze né con-
sigli pratici né ricette né astuzie da cacciatore di ratti, ma
cercatevi lui stesso! Dalla pietra potete apprendere la du-
rezza e dall'uccello il canto. Da me potete imparare che
cosa sono l'uomo e il destino.

Così discorrendo, erano giunti ai margini della città,
dove passeggiarono insieme ancora a lungo, sotto gli al-
beri che stormivano nella sera. Molte cose gii chiesero i
giovani, spesso risero con lui, spesso si disperarono di
lui. Ma uno di loro ha trascritto e conservato per i suoi
amici ciò che Zarathustra disse loro quella sera, o almeno
una parte.

Ed ecco ciò ch'egli, ricordando Zarathustra e le sue pa-
role, ci ha tramandato:

Del destino

Così ci parlò Zarathustra:

C'è una cosa che dell'uomo fa un Dio, che gli ricorda
di essere Dio: il riconoscere il proprio destino.

Io sono Zarathustra in quanto ho riconosciuto il de-
Stino di Zarathustra, in quanto ho vissuto la sua vita.
Sono pochi a riconoscere il loro destino. Pochi a vivere
la propria vita. Imparate a vivere la vostra vita! Imparate
a riconoscere il vostro destino!

Voi gemete sul destino del vostro popolo. Ma un de-
stino di cui si geme non è ancora il nostro, è qualcosa di
estraneo e di ostile, è un dio alieno, un idolo malvagio
che ci bersaglia dal buio a colpi di destino, quasi con
frecce avvelenate.

Imparate che il destino non ci viene dagl'idoli, così
imparerete anche che non ci sono né idoli né dei! Come
il bimbo nel ventre della madre, così il destino cresce den-
tro il corpo di ogni essere umano, o, se volete, potete an-
che dire: nel suo spirito o nella sua anima. E lo stesso.

E come la donna è tutt'uno col suo bambino e lo ama
e non conosce nulla di meglio al mondo, così anche voi
dovete imparare ad amare il vostro destino e a non co-
noscere, ai mondo, nulla di meglio del vostro destino.
Dovrà essere il vostro Dio, poiché voi stessi dovreste es-
sere il vostro Dio.

Colui sul quale il destino giunge dall'esterno ne sarà
abbattuto, come la freccia abbatte la selvaggina. Colui
mvece, al quale il destino viene dall'interno, dal più in-
hmo di se stesso, ne resta rafforzato e trasmutato in Dio.
Il destino ha fatto di Zarathustra Zarathustra: che di te
faccla te stesso!

Chi ha riconosciuto il destino non tenterà mai di cam-
biarlo. Voler cambiare il destino è un vero sforzo da bam-
bim, che Cl porta ad accapigliarci e a massacrarci a vicen-
da. Voler cambiare il destino era lo sforzo e l'intento dei
vostrl Imperatori e generali, era ciò che perseguivate voi
stessl. Ma ora che il destino non siete riusciti a cambiarlo,
Vl sa di amaro e credete che sia veleno. Se non aveste cer-
cato di cambiarlo, se ne aveste fatto la vostra creatura e
fl vostro affetto, se l'aveste trasformato completamente in
voi stessi, quanto vi parrebbe mai dolce, adesso! Un de-
stmo passivamente subito, rimastoci estraneo, si converte
in ogni dolore, in ogni veleno, in ogni morte Ogni azione
invece, tutto ciò che la terra ha di buono, di lieto, di fe-
condo, è il destino quando è intimamente vissuto, quando
si è cambiato nel nostro io.

Prima della vostra lunga guerra eravate troppo ricchi
amici miei, troppo ricchi e grassi e ben pasciuti, voi e i
vostri padri, e quando avevate mal di pancia sarebbe sta-
to tempo, per voi, riconoscere in quel dolore il destino e
sentlrci la sua buona voce. Ma voi, figlioli, vi siete adi-
ratl, per quei dolori al ventre e siete andati a pensare che
a provocarli fossero la fame e l'indigenza. E allora avete
scatenato la guerra di conquista, per aver più spazio sul-
la terra e più cibo nel ventre. E ora che siete tornati in
patria e non avete conseguito ciò che volevate, ora vi la-
mentate di nuovo, sentite di nuovo una quantità di dolori
e di guai, e una volta ancora andate in cerca di quel cat-
tivone del nemico che vi ha mandato i vostri dolori e sie-
te pronti a sparargli, foss'anche vostro fratello.

Amici cari, non fareste bene a rientrare in voi stessi?
Non sarebbe bene che, almeno questa volta, trattaste i
vostri dolori con più rispetto, con animo più virile, smet-
tendola di temere e di frignare come tanti bambini? Non
potrebbero, quegli amari dolori, essere la voce del destino,
e convertirsi in dolcezza appena riconoscete quella voce?
Non potrebbe essere così?

Vi sento poi sempre lagnarvi ad alta voce, amici miei,
per gli odiosi dolori e il destino avverso che hanno col-
pito il vostro paese e il vostro popolo. Perdonate, giovani
amici, se anche su questi dolori sono un po' diffidente,
un poco lento e restio a prestarci fede! Tu e tu, e tu là
dietro, voi tutti, soffrite soltanto per il vostro popolo? Per
la vostra patria soltanto? Dov'è mai, questa patria, dov'è
la sua testa, il suo cuore, di dove volete incominciare a
curarla? Ma come! Ancora ieri era l'imperatore, era l'im-
pero universale ciò che vi faceva trepidare, di cui eravate
fieri, che consideravate sacro. Dov'è andato a finire, oggi,
tutto questo? Non dall'imperatore venivano quelle sof-
ferenze: le avreste ancora, se no? e sarebbero così ama-
re, adesso che l'imperatore non c'è più? Non era l'eser-
cito né la flotta, non era questa o quest'altra provincia,
questa o quella preda, ora ve ne rendete conto. Ma per-
ché, anche oggi, non appena soffrite, parlate subito della
patria e del popolo e di tante altre grandi e rispettabih
cose, di cui è così facile parlare e che spesso, all'improv-
viso, si dissolvono e non esistono più? Chi è il popolo? E
l'oratore o quelli che lo ascoltano, quelli che gli danno
ragiOne o quelli che gli sputano addosso e minacciano di
bastonarlo? Sentite quegli spari, laggiù? Dov'è il popolo,
fl vostro popolo? Da quale parte? E lul che spara o è
su lui che sparano? Sta attaccando o è attaccato?

Vedete, è difficile capirsi a vicenda e più ancora capir
se stessi, quando si usano parolone così grosse. Se voi,
tu e tu là dietro, state soffrendo, se non vi sentite bene
nel corpo o nell'anima, se provate angoscia, se presentite
un pericolo, perché non volete, foss'anche solo per diver-
timento e curiosita, per sana e buona curiosità, far la
prova di girar la domanda in altro modo? Perché non
volete cercare, una volta, se il dolore non fosse in voi
stessi? Ci fu un certo tempo in cui per un po' foste sicuri
e convinti che il vostro nemico e la fonte di ogni male
fossero i russi. Subito dopo furono i francesi, e poi gl'in-
glesi, e poi altri ancora, e ogni volta ne eravate convinti
e slcuri, e ogni volta era una trista commedia che andava
a finlr male. Ora che avete capito che i dolori dentro
di nol non ci guariscono dandone la colpa a un nemi-
co, perché, nemmeno adesso, vi decidete a ricercare i
vostn dolori dove sono veramente: cioè in voi stessi
Forse non è il popolo, che ti duole, e nemmeno la patria
o la potenza mondiale, e neppure la democrazia: forse
non sel che tu stesso, il tuo stomaco o il tuo fegato, un
tumore o un cancro dentro di te, e non è altro che paura
infantile di fronte alla verità e al medico, se fingi di es-
sere, personalmente, sano come un pesce, dicendo che pur-
troppo è il dolore del tuo popolo quello che tanto ti af-
fligge. Non potrebbe essere così? Non avete proprio nes-
suna curiosità, in questo senso? Non sarebbe, in fondo
un ottimo e allegro esercizio per ciascuno di voi, cercare
l'origine del proprio male e vedere dove è localizzato
e chi interessa?

Potrebbe risultare, allora, che un terzo e una metà, e
forse ben più della metà del tuo dolore è in effetti il tuo
personale, inalienabile dolore, e che faresti bene a far dei
bagni freddi o a bere meno vino, o a sottoporti a qualche
altra cura, invece di tastare e di curare continuamente la
tua patria. Potrebbe darsi, dico: e non sarebbe molto be-
ne se così fosse? Non ci sarebbe forse rimedio, in tal caso?
Non ci sarebbe speranza per l'avvenire? Non ci sarebbe
la possibilità di trasformare il dolore in beneficio e il ve-
leno in destino?

Ma a voi sembra egoistico e meschino piantar lì la
patria per curare se stessi. Ebbene, forse anche in questO
non avete poi tanta ragione come credete, amici miei!
Non vi pare che, in fondo, un paese al quale ogni amma-
lato non attribuisca i propri acciacchi, che ogni infermo
non si arroghi di voler curare, finisca per godere di mag-
gior salute e prosperità?

Ah~mè, giovani amici, quante mai cose avete imparate,
nella vostra breve esistenza! Siete stati in guerra, avete
visto cento volte in faccia la morte. Siete degli eroi. Siete
le colonne della patria. Vi chiedo una cosa sola: non ve
ne accontentate! Mirate più oltre! E ricordatevi, di tanto
in tanto, che bella cosa è l'onestà!

« Che dobbiamo fare? » mi chiedete e chiedete conti-
nuamente a voi stessi, e il « fare », per voi, vale molto,
vaie tutto. E questo è bene, amici miei, o almeno... sarebbe
bene, se voi sapeste sino in fondo che cos'è l'azione.

Ma vedete, già questa domanda: « Che cosa dobbiamo
fare? », già questa trepidante domanda infantile mi di-
mostra quanto poco ne sappiate!

Ciò che voi chiamate « fare », giovani amici, io, il vec-
chio eremita della montagna, lo chiamerei in tutt'altro
modo. Inventerei più di un nome grazioso, balzano, cari-
no, per codesto vostro « fare ». Non avrei bisogno di rl-
girarlo a lungo tra le dita, il vostro « fare », per trasfor-
marlo bellamente e spassosamente nel suo contrario. Poi-
ché, in effetti, è proprio il contrario! Il vostro « fare » è
l'opposto di ciò ch'io chiamo così.

L'azione, o amici: sentite questa sola parola, sentitela
bene, lavateci i vostri orecchi! L'azione non è mai stata
compiuta da chi prima chiedesse: « Che cosa debbo fa-
re? ». L'azione è la luce che s'irradia da un buon sole.
Se il sole non è un sole genuino, vero, dieci volte collau-
dato, se è un sole che si chiede, peritoso, che cosa debba
fare, non darà mai luce alcuna! L'azione non è agire,
l'azione non si escogita e non s'inventa. Ve lo dirò io
che cos'è l'azione. Ma prima, amici miei, permettetemi di
dirvi che cosa mi sembra che sia il vostro « fare ». Dopo
ci capiremo meglio.

Il vostro " fare », ciò che vorreste fare, che dovrebbe
nascere dalla ricerca e dal dubbio e dall'esitazione, questO
« fare », amici carissimi, è l'opposto e l'arcinemico dell'a-
zione. Il vostro « fare », se mi passate la brutta parola,
non è infatti che viltà! Vedo che vi adirate, scorgo nei
vostri occhi l'espressione che tanto mi piace, ma aspettate,
lasciatemi finire!

Voi, giovani amici, siete soldati, e prima di essere sol-
dati foste commercianti o fabbricanti o roba simile, o lo
furono i vostri padri, e loro e voi, come conseguenza di
una cattiva educazione, avete creduto a determinate anti-
tesi, di cui correva la leggenda che fossero eterne e create
dagli dei. Erano, anzi, i vostri dei, queste antitesi, come
del resto avevate anche accettato l'antitesi "uomo-Dio »,
deducendone che ciò che è uomo non può essere Dio e
viceversa. Ora, questa vecchia fede sbagliata nelle sacre
antitesi Zarathustra non ve la può smascherare in modo
più semplice nella sua profonda problematicità e nella as-
soluta inconsistenza che col porvi, a occhi aperti, di fronte
a un'antitesi in cui credete: quella tra fare e patire.

Aprite dunque gli occhi, amici, e guardatevi il fare e
il patire quali un vecchio eremita vuol mostrarveli!

Fare e patire che, uniti insieme, compongono la nostra
vita, formano un tutto, sono una cosa sola. Il bimbo pa-
tisce il suo concepimento, la sua venuta al mondo, il suo
svezamento, patisce questo e quest'altro, finché in ultimo
patisce la morte. Ma tutto il bene che c'è in lui e che lo
fa lodare e amare è solo il buon patire, la vera, piena,
viva sofferenza. Saper patir bene è più che metà della vita.
Saper patir bene è la vita intera! Nascere è patire, cre-
scere è patire, il seme patisce la terra, la radice patisce
la ploggia, il germoglio patisce lo sboccio.

E così, amici, che l'uomo patisce il destino. Il destino
è terra, è pioggia, è crescita. Il destino fa male.

Voi, invece, chiamate « fare » la fuga dal dolore, il non
voler nascere, la fuga dal patire! « Fare » per voi, o al-
meno per i vostri padri, era quando giorno e notte face-
vate chiasso nei negozi e nelle officine, quando sentivate
picchiare un'infinità di martelli, quando soffiavate in aria
nembi di fuliggine. Intendetemi bene, non ho proprio nien-
te contro i vostri martelli e la vostra fuliggine, o contrO
quelli dei vostri padri. Ma mi fa sorridere che quest'atti-
vità poteste chiamarla « fare »! Non era un fare, era solo
una fuga dal patire. Era sgradevole vivere da soli, e per-
ciò si fondavano delle società. Era sgradevole sentire den-
tro di sé tante voci che pretendevano da voi che viveste
la vostra vita, che cercaste il vostro destino, che moriste
la vostra morte: era sgradevole, sì, e perciò fuggivate via
e facevate chiasso con macchine e martelli, finché le voci
suonavano più lontane e poi ammutolivano. Così fecero i
vostri padri, così fecero i vostri maestri, così faceste voi
stessi. Vi si chiedeva di patire, e voi ne eravate indignati,
non volevate patire ma solo fare! E che cosa faceste? Pri-
ma vi sacrificaste al dio del frastuono e della confusione,
svolgendo le vostre strane attività, sovraccarichi di lavoro,
senza un attimo di tempo per patire, per ascoltare, per
succhiare il latte di vita, per bere la luce del cielo. Eh
no, dovevate fare, fare, fare. E quando tutto quell'armeg-
gio non servì a nulla e il destino, dentro di voi, invece
che dolce e maturo, divenne sempre più putrido e vele-
noso, allora allargaste il vostro raggio d'azione, vi creaste
dei nemici, prima nell'immaginazione, poi nella realtà, e
ve ne andaste in guerra, diventaste guerrieri ed eroi! Ave-
te conquistato, avete sopportato le cose più assurde, osate
le cose più immani. E adesso? Vi sentite bene, adesso?
C'è pace e letizia, adesso, nei vostri cuori? E dolce, ora,
il vostro destino? Oh no, è più amaro che mai, e perciò
correte a nuove azioni, scendete nelle vie, urlate e assalite,
eleggete consiglieri e ricaricate i fucili. E tutto ciò, per-
ché siete in continua fuga dal patire! In fuga dinanzi a
voi stessi, all'anima vostra!

So che cosa mi rispondete. Mi chiedete se ciò che avete
sopportato non è stato un patire. Se non è stato un patire,
quando i vostri fratelli vi sono morti tra le braccia, quan-
do le vostre membra si congelavano o palpitavano sotto i
ferri dei dottori. Sì, tutto questo è stato patire, un patire
scelto, voluto da voi stessi, un patire impaziente, che vo-
leva cambiare il destino. Un patire eroico, per quanto
possa considerarsi eroe chi fugge ancora il destino, chi
ancora vuol cambiarlo.

Imparare a patire è difficile. E un'arte che le donne co-
noscono più spesso e meglio degli uomini. Imparate da
loro! Imparate ad ascoltare, quando parla la voce della
vlta! Imparate a vedere, quando il sole del destino gioca
con la vostra ombra! Imparate a rispettare la vita! Impa-
rate a rispettare voi stessi!

Dalla sofferenza nasce la forza, nasce la salute. Sono
sempre gli uomini « sani » quelli che stramazzno all'im-
provviso e muoiono per una corrente d'aria. Sono coloro
che non hanno imparato a patire. La sofferenza indurisce,
la sofferenza tempra. Soltanto i bambini fuggono dinanzi
alla sofferenza. Io amo, sì, i bambini, ma come potrei
amare coloro che vogliono restar bambini per tutta la
vita? Eppure siete proprio così, voi tutti, che dal patire
fuggite nel fare, spinti dalla vecchia e triste paura infan-
tile del dolore e del buio.

Guardate un po' che cosa avete ottenuto con tutto il
vostro agitarvi e tutta la vostra diligenza e tutte le vostre
industrie fuligginose! Che cosa ne è rimasto? Il denaro è
sfumato, e col denaro tutto lo splendore della vostra vile
operosità. O dov'è l'azione generata da tutto il vostro fa-
re? Dov'è il grand'uomo, l'essere radioso e fecondo, l'e-
roe? Dov'è il vostro imperatore? Dov'è il suo successore?
Chi lo diverrà? E dov'è la vostra arte? Dove sono le opere
che giustificano il vostro tempo? Dove i grandi, gioiosi
pensieri? Ahimè, avete sofferto troppo poco e troppo male
per poter produrre cose fulgide e buone!

Poiché l'azione, l'azione fulgida e buona, amici miei,
non viene già dal fare, non viene dalla laboriosità, dal
martello zelante. Essa cresce solitaria sui monti, cresce
sulle vette, dov'è pericolo e silenzio. Nasce da patimenti
che voi dovete ancora imparare a patire.

Dello, iolitudine

Voi m'interrogate, o giovani, sulla scuola del dolore,
sulla fucina del destino. Non la conoscete? No, voi che
parlate sempre del popolo e avete sempre a che fare con
la massa e solo con la massa e che per la massa volete
soffrire, voi non la conoscete. Vi parlo della solitudine.

La solitudine è il sentiero sul quale il destino vuol ri-
condurre l'uomo a se stesso. La solitudine è il sentiero che
l'uomo teme di più. Vi stanno appiattati tutti gli orrori,
tutti i serpenti e tutti i rospi. E lì che il terribile sta in
agguato. Non si dice forse di tutti i solitari, di tutti i
pionieri del deserto della solitudine che hanno smarrito la
dritta via, che sono cattivi o malati? Le grandi azioni
eroiche non si raccontano forse come se le avessero com-
piute dei delinquenti, solo perché è bene trattenersi dal
seguirne l'esempio?

Non si racconta anche di Zarathustra che finì pazzoe
che in fondo tutto ciò che aveva detto e fatto era già
una follia? Quando sentivate parlar così, non provavate
in voi qualcosa di simile al rossore? Quasi fosse più no-
bile e più degno di voi far parte di quei pazz, e come se
vi vergognaste di non averne il coraggio?

Vorrei cantarvi degli inni sulla solitudine, o miei cari.
Senza solitudine non c'è dolore, senza solitudine non c'è
eroismo. Ma non intendo già la solitudine dei garbati poeti
e dei palcoscenici, dove la sorgente gorgoglia, idilliaca,
presso l'antro dell'eremita!

Dal bimbo all'uomo non c'è che un passo, un unico
passo. Restar soli, diventar se stessi, distaccarsi dal padre
e dalla madre: questo è il passo dal bimbo all'uomo, e
nessuno lo fa appieno. Ciascuno, anche il più austero
eremita e misantropo sulla roccia più nuda, porta con
sé un filo, si tira appresso un filo col quale è legato al
padre, alla madre e a tutto il suo diletto, caldo ambiente
familiare e originario. Quando voi, o amici, parlate con
tanto fervore del popolo e della patria, io vedo pendere
da voi quel filo, e sorrido. Quando i vostri grandi uo-
mini parlano della loro « missione » e delle loro respon-
sabilità, quel filo pende loro lungo lungo dalla bocca. Mai
che i vostri grandi uomini, i vostri capi e portavoce par-
lino di una missione verso se stessi, mai che parlino del-
la responsabilità che hanno verso il proprio destino! So-
no legati al filo che li riconduce alla madre e a tutto
quel mondo caldo e piacevole che rievocano i poeti quan-
do cantano con tanto sentimento l'infanzia e le sue puris-
sime gioie. Nessuno spezza del tutto questo filo, tranne
che con la morte, quando gli riesce di morire la propria
morte.

La maggioranza degli uomini, cioè tutti quelli del greg-
ge, non hanno mai gustato la solitudine. Si staccano,
sì, una volta da babbo e mamma, ma solo per strisciare
presso una donna e sprofondare al più presto in un calo-
re e in un legame nuovi. Mai che siano soli, mai che par-
lino con se stessi. Ma l'uomo solitario, se mai capita
loro d'incontrarlo, lo temono e lo odiano come la pe-
ste, gli lanciano sassi e non trovano pace finché non
ne sono ben lontani. Lo circonda un'aria, infatti, che
odora di stelle e di freddo astrale; gli manca, ahimè,
del tutto la dolce e calda fragran~a del focolare e del
mdo.

Zarathustra ha in sé qualcosa di questo odor di stelle
e di questo freddo ostile. Zarathustra ha percorso per
un buon tratto il sentiero della solitudine. Ha frequen-
tato la scuola del dolore. Ha visto la fucina del destino
e vi è stato fucinato.

Amici miei, non so se debbo dirvi altro sulla solitu-
dine. Vorrei tanto indurvi a battere quel sentiero, vor-
rei tanto cantarvi un inno sull'algida delizia dello spa-
zio cosmico. Ma so che ben pochi seguono questa via
senz danno. Si vive male senza madre, miei cari, si vi-
ve male senza focolare e senza patria e senza popolo e
senza gloria e senz tutte le dolcezze della società. Si vi-
ve male al freddo, e la maggior parte di coloro che han-
no iniziato questa via si sono perduti. Bisogna essere in-
differenti alla propria perdizione, se si vuol gustare la
solitudine e fare i conti col proprio destino. E più facile e
più dolce camminare con tutto un popolo, in tanti, anche
se bisogna attraversare le peggiori prove. più facile e
più consolante dedicarsi a una « missione» che il momen-
to o il tuo popolo ti affidano. Guardate come si sen-
tono a loro agio, gli uomini, nelle loro vie affollate! Si
spara e la vita è in pericolo, ma ciascuno preferisce di
gran lunga starsene con la massa e perirvi, che non va-
gare, là fuori, al freddo e al buio.

Ma come potrei sedurvi, o giovinetti! La solitudine non
si sceglie, come non si sceglie il destino. La solitudine
scende su di noi quando abbiamo la pietra magica che
attira il destino. Molti, troppi sono andati nel deserto, e
presso una bella sorgente e nel loro bell'eremo, hanno
vissuto la vita degli uomini-gregge. Altri, invece, vivono
in mezzo alla folla, ma sulla loro fronte aleggia un'aria
astrale.

Beato colui che ha trovato la sua solitudine, non una
solitudine da quadro e da poesia, ma la sua, quella ir-
ripetibile, destinata a lui solo. Beato colui che sa patire!
Beato chi porta in cuore la pietra magica! Su di lui scen-
de la solitudine, da lui s'irradia l'azione.

Spartaco

Voi volete sapere la mia opinione su coloro che si fan-
no chiamare col nome di Spartaco.

Tra tutti coloro che, nel vostro paese, vogliono ora il
bene con tanto zelo e si affannano a realiziare il futu-
ro, questi schiavi ribelli sono ancora coloro che mi di-
vertono di più. Com'è decisa, questa gente, com'è dirit-
ta e senza esitazioni la via che scelgono, come sanno ti-
rare innanzi! Davvero che se i vostri borghesi, oltre a tut-
te le loro doti, avessero anche una piccola, una piccolis-
sima parte di questa forza, la vostra patria sarebbe salva.

Comunque, non saranno questi spartachisti a distrug-
gerla. Non è strano, non è un segno del destino che co-
storo si fregino di questo nome? Loro, gl'incolti, gli uo-
mini dalle rudi mani lavoratrici, loro, che disprezzano
i latinisti e gli intellettuali, si son lasciati imporre da uno
dei loro corifei un nome che gronda addirittura di sto-
ria e di erudizione! E volete che il nome, che sono andati
a pescar così fuori mano e in tempi così antichi, non
implichi anche il loro destino ?

C'è questo, infatti, di buono, in questo nuovo nome co-
sì antico: che ricorda agli esperti una svolta storica e
un'epoca ormai matura per il declino. Come quell'antico
mondo scomparve, così deve scomparire il nostro attuale
vecchio mondo: questo vuol dire il nome, ed ha ragione.
Deve scomparire, con tutto ciò che di bello e di caro ci
legava ad esso. Sì ma: fu Spartaco, forse, colui che al-
lora distrusse quei vecchio mondo? Non fu invece Ge-
sù di Nazareth, non furono i barbari, non fu l'ondata dei
mercenari biondi? No, Spartaco fu un eccellente eroe
storico, ha scosso fieramente la catena, ha strenuamen-
te vibrato la spada. Ma non ha fatto, degli schiavi, al-
trettanti uomini, e alla caduta dei padroni del suo tempo
non ha partecipato che come manovale.

Ma non disprezztemi questa gente dalle mani rudi e
dal nome pedantesco! Si tengono pronti, presagiscono il
destino, non si ribellano alla fine. Rispettate lo spirito
che vive in questi risoluti! La disperazione non è eroismo:
non ne avete fatto prova voi stessi durante la guerra?
Ma la stessa disperazione è meglio della sorda paura del
borghese, che dà di piglio all'eroismo solo quando vede
m perlcolo la sua borsa!

Ciò ch'essi chiamano « comunismo », noi lo conoscia-
mo bene: è una vecchia, troppo vecchia ricetta, divenu-
ta un po' comica e proveniente da polverosi laboratori
alchimistici. Non badate a ciò che vi dicono! Badate in-
vece a ciò che fanno! Costoro sono capaci di azione per-
ché, seppure attraverso una sospetta via laterale, si sono
avvicinati alla maturità del destino. Voi avete maggiori
e più alte possibilità di loro, ma voi siete solo all'ini-
zio della via. Essi invece sono quasi al termine, e vi sono
superiori nella maniera incontrovertibile con cui tutti co-
loro che sono disposti alla rovina, o amici, sono superiori
ai titubanti e ai retrivi.

Troppo, amici miei, vi lamentate per la prima volta
della patria vostra! Foss'anche votata alla rovina sareb-
be più dignitoso e virile che ciò avvenisse in silenzio e
senza piagnistei! Ma dov'è questa rovina? O continuate
forse a chiamar « patria » la vostra borsa e le vostre na-
vi? O il vostro imperatore? O il vostro fasto da teatro
dell'opera, quello di ier l'altro?

Se chiamate patria ciò che i migliori di voi hanno ama-
to come il meglio del vostro popolo, ciò di cui il vostro
popolo ha arricchito e deliziato il mondo, allora non ca-
pisco come possiate parlare di rovina e di distruzione.
Avete perduto molto, in quanto a denaro e a province,
a navi e a potenza politica. Se non potete sopportarlo
andate a trafiggervi ai piedi di un monumento imperia-
le, ed io vi canterò un canto funebre. Ma non state lì
a implorare, gemendo, la pietà della storia, voi che an-
cora poco fa cantavate l'inno dell'anima tedesca che do-
vrebbe guarire il mondo; non state lì sul ciglio della via
come scolaretti in castigo, a invocar la compassione dei
passanti! Se non potete sopportare la miseria, morite! Se
non sapete governarvi senza imperatore e generali vitto-
riosi, lasciatevi governare dagli stranieri! Ma, vi prego,
non dimenticate del tutto il pudore!

Ma come, esclamate voi, non sono crudeli, i nostri ne-
mici? Non sono bassi e brutali nella loro vittoria, che è la
vittoria del numero? Non parlano di diritto e non usa-
no la forza? Non scrivono giustizia, mentre intendono
preda e rapina?

Avete ragione. Io non difendo i vostri nemici. Io non
li amo. Essi sono, come siete anche voi, brutali nel suc-
cesso, pieni di trucchi e di scappatoie. Ma, amici, non è
sempre stato così? E il nostro compito è forse quello
di constatare l'immutabile con sempre nuovi, alti lamenti?

Il nostro compito, mi sembra, è di perire da uomini o
di continuare a vivere da uomini. Non certo di frignare
come bambini. Il nostro compito è di riconoscere il no-
stro destino, di far nostra la nostra pena, di trasformare
l'amaro in dolcezza, di maturare attraverso il dolore. Il
nostro fine non è quello di ridiventar grandi e ricchi e
potenti il più presto possibile, e di avere eserciti e navi.
Il nostro fine non è un'illusione infantile: non abbiamo
sperimentato, forse, che belle sorprese ci riservano le na-
vi e gli eserciti, la potenza e il denaro? L'abbiamo già
di nuovo dimenticato?

Il nostro fine, giovani tedeschi, non si può definire con
nomi e cifre. Il nostro fine, come quello di ogni creatura
vivente, è di farci tutt'uno col nostro destino. Se ci riu-
sciamo, potremo essere grandi o piccoli, ricchi o poveri,
temuti o compatiti: non avrà alcuna importanza. Lascia-
te che ne concionino i consiglieri militari e i lavoratori
dell'intelletto! Se, attraverso la guerra e il dolore, non sie-
te entrati in voi stessi, non avete raggiunto l'essenziale,
se volete, come prima, cambiare il destino, sottrarvi alla
sofferenza, rifiutare la maturità, allora perite!

Ma voi m'intendete, lo leggo nei vostri occhi. Voi sen-
tite, nelle amare parole del vecchio della montagna, del
vecchio cattivo, una consolante promessa. Ricordate altre
parole ch'egli vi ha detto sul dolore, sul destino, sulla
solitudine. Non sentite, voi, nel dolore che vi ha colpito,
il soffio della solitudine? Non è divenuto più sensibile, il
vostro orecchio, alla voce sommessa del destino? Non
sentite come la vostra sofferenza diviene feconda? Che il
vostro dolore può significare una distinzione, uno sprone
alle più alte vette?

Ma non ponetevi un traguardo, quando avete dinanzi
l'infinito! Non prefiggetevi degli scopi, proprio adesso che
il destino ha sbriciolato tutti i vostri begli scopi di ier
l'altro! Vergognatevi, ve ne prego, ma non del fatto che
Dio vi abbia parlato! Consideratevi prescelti, considera-
tevi eletti, consideratevi predestinati! Ma non predestinati
a questo e a quest'altro, alla potenza mondiale o al com-
mercio, alla democrazia o al socialismo! Voi siete prede-
stinati a divenir voi stessi attraverso il dolore, a riacqui-
stare, mediante la sofferenza, il vostro vero respiro, il vero
battito del vostro cuore, che avete perduti. Siete predesti-
nati a respirar l'aria delle stelle e, da fanciulli, a farvi
uomini.

Cessate i lamenti, giovani amici! Cessate di piangere
come bambini perché dovete dire addio alla mamma e
al pane dolce! Imparate a mangiare il pane amaro, il pa-
ne degli uomini, il pane del destino!

Vedete, allora vi riapparirà dinanzi quella « patria »
che i migliori tra i vostri avi hanno amato e presagito.
Allora dalla solitudine farete ritorno in una comunità che
non sarà più un nido né una stalla, in una comunità di
uomini, in un regno senza confini, nel regno di Dio, co-
me lo chiamavano i vostri padri. Là c'è posto per ogni
virtù, anche se i confini del vostro paese saranno angu-
sti. Là c'è posto per ogni eroismo, anche se non avrete
più generali!

Davvero che Zarathustra ricomincia a ridere, quando
si vede costretto a consolarvi in tal modo, o fanciulli!

Migliorare il mondo.

C'è un'espressione, o giovani, che m'indispettisce un po-
co, quando la sento sulle vostre labbra: ma forse è me-
glio dire che mi fa ridere! E quella di « migliorare il mon-
do ». La cantavate volentieri, questa canzone, nelle vo-
stre associazioni e ai vostri focolari, il vostro imperatore
e tutti i vostri profeti la cantavano con amore tutto spe-
ciale, e il ritornello di questa canzone erano i versi sul-
l'anima tedesca che deve guarire il mondo.

Amici, dovremmo astenerci dal giudicare se il mondo
sia buono o cattivo, e dovremmo rinunciare alla strana
pretesa di migliorarlo.

Spesso il mondo è stato definito cattivo perché colui
che lo condannava aveva dormito male o manglato trop-
po. Spesso il mondo è stato portato alle stelle perché co-
lui che lo esaltava aveva appena baciato una ragazza.

Il mondo non è fatto per essere migliorato. Nemmeno
voi siete fatti per essere migliorati. Voi siete fatti, in-
vece, per essere voi stessi. Voi siete fatti perché il mon-
do si arricchisca di questo suono, di questo timbro, di que-
st'ombra. Sii te stesso, e il mondo sarà ricco e bello! Non
essere te stesso, sii bugiardo e codardo, e il mondo sarà
povero e ti parrà bisognoso di miglioramento.

Proprio adesso, in quest'età stravagante, la canzone del
migliorare il mondo viene cantata e berciata più forte che
mai. Non sentite come suona male, da avvinazzati? Co-
me suona poco delicata, poco felice, poco saggia e intel-
ligente! Questa canzone, poi, è come una cornice che si
può adattare a ogni quadro. Si adattava all'imperatore
e al poliziotto, si adattava ai vostri famosi professori te-
deschi, ai vecchi amici di Zarathustra! Questa brutta can-
zone si adatta alla democrazia e al socialismo, alla socie-
tà delle nazioni e alla pace universale, all'abolizione del
nazionalismo e all'instaurazione di un nazionalismo nuo-
vo. Ve la cantano i vostri nemici, in un coro nel quale
uno canta contro l'altro, e ciascuno vorrebbe cantare a
morte tutti gli altri. Non vi accorgerete che dovunque
si canti questa canzone ci son dei pugni stretti in tasca
ed è in gioco il più sfrenato egoismo: ahimè, non l'e-
goismo delle anime nobili, che pensano a innalzare e a
temprar se stesse, ma il denaro e la borsa, la vanità e l'al-
bagia. Dove l'uomo comincia a vergognarsi del proprio
egoismo, comincia a parlare di migliorare il mondo e a
nascondersi dietro tali parole.

Io non so, amici, se il mondo sia mai stato migliora-
to, se non sia stato sempre ugualmente buono e cattivo.
Non lo so, non sono un filosofo, ho troppo poca curiosità
in questa direzione. Ma so una cosa: se mai il mondo è
stato migliorato da qualcuno, se mai esseri umani l'han-
no reso più ricco, più vivo, più lieto, più pericoloso, più
allegro, non sono stati certo i riformatori, ma quei veri
egoisti di cui vorrei tanto che anche voi faceste parte.
Quei veri e decisi egoisti che non conoscono un fine, non
Sl propongono uno scopo, cui basta vivere ed essere se
stessi Soffrono molto, costoro, ma soffrono volentieri. So-
no volentieri malati, se è la loro malattia che debbono
soffrire, la loro personale, inconfondibile, inalienabile ma-
lattia. Muoiono volentieri, se è la loro morte che debbono
morire, la loro personale, inalienabile morte!

Forse, grazie a costoro, il mondo, di tanto in tanto, è
stato migliorato, così come un giorno d'autunno viene mi-
gliorato da una nuvoletta, da una piccola ombra bruna,
da un breve e rapido svolar d'uccello. Non crediate che
il mondo abbia bisogno di maggior miglioramento se non
che, di tanto in tanto, lo calchino esseri umani: non
animali, non greggi, ma esseri umani, alcuni di quei po-
chi che ci danno felicità, come ci danno felicità un volo
d'uccello o un albero presso il mare; per il solo fatto che
esistono, che il mondo li alberghi. Se volete essere am-
biziosi, o giovinetti, ambite quest'onore! Ma è un onore
perlcoloso, che passa attraverso la solitudine e facilmen-
te può costarvi la vita.

Dell'anima ted el ea

Non avete mai pensato da che cosa derivi che i tede-
schi fossero così poco amati, che fossero odiati così pro-
fondamente e sul serio, che fossero tanto temuti e così
appassionatamente evitati? Non fu strano, per voi, vedere
come in questa guerra, che pure avevate iniziato con tan-
ti soldati e con così buone prospettive, pian piano e inar-
restabilmente un popolo dopo l'altro passò ai vostri ne-
mici, vi abbandonò, vi diede torto ?

Sì, lo avete notato, con profondo sdegno, e foste anzi
fieri di essere così abbandonati, così soli, così fraintesi.

Ma sentite, non eravate fraintesi! Eravate voi a non
capire, a essere in errore.

Voi giovani tedeschi vi siete sempre vantati delle virtù
che vi mancavano, e nei vostri némici avete criticato so-
prattutto i vizi che avevano appreso da voi. Parlavate
sempre di virtù « tedesche »: la fedeltà e altre virtù vi
apparivano quasi come invenzioni del vostro imperatore
e del vostro popolo. Eppure non eravate fedeli. Eravate
infedeli, infedeli a voi stessi, ed è solo questo che vi ha
attirato l'odio del mondo. Voi dite: no, furono le nostre
ricchezze, i nostri successi! E forse la pensava così anche
il nemico, come voi stimate con la vostra logica bottegaia.
Ma le ragioni sono sempre un po' più profonde di quel
che sappia il nostro pensiero, e tanto più di quel che pos-
sa pensare codesta frettolosa e superficiale logica botte-
gaia. Ammettiamo pure che i nemlci ce l'avessero col
vostro denaro, che ve lo invidiassero. Ma ci sono anche
successi che non destano invidia e che il mondo acclama.
Perché non avete mai conseguito questi ultimi, perché
sempre soltanto i primi?

Perché voi stessi eravate infedeli. Recitavate una parte
che non era la vostra. Avevate fatto delle « virtù tede-
sche », con l'aiuto del vostro imperatore e di Riccardo
Wagner, una messinscena melodrammatica che nessuno,
al mondo, prendeva sul serio tranne voi. E dietro la bel-
la bugiarda facciata di questa pompa teatrale lasciavate
crescere e svilupparsi tutti i vostri oscuri istinti di schiavi
megalomani. Avevate sempre Dio in bocca e la mano
alla borsa. Parlavate sempre di ordine, di virtù, di orga-
nizzazione, e intendevate il far quattrini. E vi tradivate,
poi, credendo sempre di vedere la stessa impostura nei vo-
stri nemici! Udite, dicevate sempre, udite come parlano di
virtù e di diritto, e guardate come la intendono in realtà!
Vi guardavate l'un l'altro ammiccando, quando un ingle-
se o un americano faceva bei discorsi, e il vostro ammic-
care sapeva che cosa c'è, di solito, dietro tali discorsi. Co-
me facevate a saperlo così bene, se non guardando dentro
il vostro stesso cuore?

Inveite pure contro di me, dicendo che vi ferisco! Non
siete affatto abituati che vi feriscano, siete abituatissimi,
invece, a darvi scambievolmente ragione. Per aver torto,
per sparlare, per scaricare i vostri istinti aggressivi c'e-
ra il nemico, no? Ma io vi dico: bisogna dar ferite e
sopportarle, se si vuol stare dalla parte della vita e du-
rare in questo mondo. Il mondo è freddo, non è un nido
familiare, dove si stia al calduccio,, in una perpetua in-
fanzia. Il mondo è crudele, imprevedibile, non ama che
gli abili e i forti, ama coloro che restano fedeli a se stes-
si. Tutto il resto non vi procura che emmeri successi: suc-
cessi come quelli che conseguivate voi, dopo il declino spi-
rituale della Germania, con le vostre merci e le vostre or-
ganizzazioni! Dove sono andate a finire? Ma ora direi
che è tempo, per voi. Forse la miseria è grande abbastan-
za per tendere la vostra volontà: non verso nuove pose
e nuove fughe dinanzi al senso segreto della vita, ma ver-
so la virilità, verso la fede in voi stessi, verso la verità
e la fedeltà a voi stessi.

Penso che questo, infatti, o amici, l'abbiate percepito e
intravisto attraverso tutti i miei rimproveri e le mie criti-
che: cioè che vi amo, che ho in voi una certa fiducia che
sento in voi un'aura di avvenire; e, credetemi, ho un
odorato fine, a tutta prova, io, vecchio eremita e stregone.
Sì, io credo in voi, credo a qualcosa che c'è in voi, a
qualcosa che c'è nell'anima tedesca e a cui ho sempre
portato un antico e profondo amore. Credo a qualcosa,
dentro di voi, che ancora non si vede, a un avvenire, a
delle possibilità, a lm allettante « forse » che brilla dietro
a cento nubi. E ci credo proprio perché siete ancora bam-
bini e fate fanciullaggini, perché vi portate appresso que-
sta lunga, troppo lunga infanzia. Ah, divenisse mai viri-
lità, un giorno, quest'infanzia! Si trasformasse, questa cre-
dulità, in fiducia, questa tenerezza in bontà, questa strava-
ganza e ipersensibilità in carattere e in virile fermezza!

Voi siete il popolo più religioso della terra. Ma quali
dei si è foggiata la vostra religiosità! Imperatori e capo-
rali! E al loro posto, adesso, questi nuovi salvatori del
mondo! Possiate imparare a cercare il Dio che c'è in voi
stessi! Possiate sentire, un giorno, dinanzi al misterioso quid,
dinanzi all'avvenire che c'è in voi, non minor reverenza
di quella che vi ispiravano i sovrani e le bandiere! Pos-
sa la vostra religiosità, un giorno, non starsene più in gi-
nocchio, ma ritta in piedi: su piedi forti, saldi e virili!

Voi e il vostro popolo

Voi continuate, amici, a diffidare di me e mi guardate
spesso in tralice. Ma io so che cosa non vi piace, in me,
e vi rende così ombrosi: voi temete che l'acchiapparatti
Zarathustra vi adeschi lontano dal vostro popolo, che
voi amate e che vi è sacro. Non è così? Ho letto bene, in
voi?

Due dottrine insegnano i vostri maestri e i vostri libri:
la prima sostiene che il popolo è tutto e l'individuo nul
la; la seconda, il contrario.
Ma Zarathustra non è mai stato un maestro, e le vo-
stre dottrine, al massimo, lo muovono al riso. Amici ca-
ri, non potete affatto scegliere se volete essere popolo o
individui! La natura ha provveduto in modo che nessun
albero possa toccare il cielo! Il cielo della solitudine, il
cielo della virilità non l'ha ancor toccato nessuno, solo
perché ne ha trovato menzione in un libro e si è deciso
per quella scelta!

Se però vi chiedo, o giovinetti: « Che cos'è che il vostro
popolo desidera tanto? di che cosa ha bisogno? », voi mi
risponderete: « Il nostro popolo ha bisogno di uomini che
sappiano non soltanto parlare ma anche agire! ».

Ebbene, amici, sia che lo facciate per voi stessi, sia che
lo facciate per il vostro popolo, non dimenticate di dove
sgorgano le azioni e quella fredda, gioiosa e virile capar-
bietà, tutta profumata di mattino, da cui sprizzano le
azioni come i fulmini dalla nube. L'avete di nuovo di-
menticato? Ve ne ricordate, adesso?

Amici, quello di cui il vostro popolo, come ogni altro
popolo, ha bisogno, sono uomini che abbiano imparato
a essere se stessi, che abbiano riconosciuto il loro de-
stino. Essi soli saranno il destino del loro popolo. Essi so-
li non si accontentano dei discorsi e dei decreti e di tutto
il meticoloso e irresponsabile apparato burocratico. Essi
soli hanno il coraggio, la temerarietà, il sano, vegeto, gaio
umore da cui nascono le azioni.

Voi tedeschi, più di alcun altro popolo, siete abituati
a obbedire. Il vostro popolo ha obbedito con tanta faci-
lità, così volentieri, con così gioiosa prontezza! Non vo-
leva fare un passo senza provar la soddisfazione che, fa-
cendolo, obbediva a un comando, seguiva una prescrizio-
ne Il vostro buon paese era coperto di tavole della legge,
e soprattutto di cartelli di divieto, come d'una foresta.

Come obbedirebbe, questo popoloj se dopo una pausa
così interminabilmente lunga, dopo un'attesa così este-
nuante, sentisse di nuovo, una buona volta, delle voci vi-
rili? Se, invece di ordinanze e di precetti, udisse di nuovo
il tono della forz e della convinzione? Se tornasse a ve-
der delle azioni, non già grazosamente comandate e umil-
mente eseguite, ma sprizzanti, sane e liete, dal capo del
loro padre, armate e splendenti come la dea greca?

Pensateci sempre, amici miei, e non dimenticate di che
cosa il vostro popolo ha fame e sete! E non dimenticate mai in voi stessi. Eppure Egli è solo lì. Non esiste altro
che azione e virilità non crescono nei libri né nei di- Dlo se non auello che e
scorsi alle masse. Crescono sulle montagne, e la via che
Vl porta passa attraverso il dolore e la solitudine attra-
verso il dolore sopportato volentieri, attraverso ia soli-
tudine volontaria.
E, contrariamente a tutti i vostri oratori da comizio
io vi grido: non c'è fretta! Quelli vi gridano da tutti
gli angoli: « Affrettatevi! Correte! Decidetevi all'istante! Il
mondo è in fiamme! La patria è in pericolo! ». Ma crede-
temi, la patria non correrà pericolo se ve la prendete con
comodo, se lascerete che la vostra volontà, il vostro de-
stino, la vostra azione giungano, in voi, a maturità! La
precipitazione, come il gusto di obbedire, è stata conside-
rata una di quelle virtù tedesche che, in effetti, non so-
no tali.
Figlioli, non statevene così a testa bassa! Non fate ri-
dere il vecchio Zarathustra!
forse una disgrazia che siate venuti al mondo in
un'età fresca, tempestosa, rombante? Non è invece la vo-
stra fortuna ?

Il congedo

E ora, amici, vi dico addio. E voi lo sapcte bene che
quando Zarathustra prende congedo dai suoi ascoltato-
ri non è certo solito pregarli di restargli fedeli e di ri-
manere suoi devoti scolari.
Non dovete adorare Zarathustra. Non dovete imitare
Zarathustra. Non dovete voler diventare altrettanti Za-
rathustra! In ciascuno di voi c'è una forma nascosta che
e ancora immersa in un profondo sonno infantile. De-
statela alla vita! In ciascuno di voi c'è un richiamo, una
volontà e un lancio della natura, un lancio verso l'av-
venire, verso più nuove altezze. Lasciate che maturi, che
rlsuoni appleno, abbiatene cura! 11 vostro avvenire non
è questo o quest'altro, non è denaro o potenza, saggez-
za o successo industriale. Il vostro avvenire e la vostra
via difficile e pericolosa è il maturare, è il trovar Dio in
voi stessi. Non c'è nulla, o giovani tedeschi, che vi si
renda più difficile. Voi avete sempre cercato Dio, ma non

Se un glorno dovessi tornare; amici miei, si parlerà di
altre cose, più belle e più liete. Quel giorno - così spe-
ro - ce ne staremo a parlare insieme da veri uommi,
l'uno (forte e se stesso) accanto all'altro, ciascuno abitua-
to a non aver fiducia in altro, al mondo, che in se stesso
e nella fortuna, che ama i forti e gli audaci.

Ora andate, tornate alle vostre strade piene di orato-
ri. Dimenticate ciò che vi ha detto il vecchio straniero del-
la montagna. Zarathustra non è mai stato un saggio.
sempre stato un burlone e un balzano giramondo.

Non permettete che nessun oratore e nessun maestro
vi metta un uccello nell'orecchio, qualunque sia il suo no-
me In ognuno di voi c'è un solo ed unico uccello che è
necessario ascoltare: il proprio

Nel separarmi da voi vi dico soltanto: ascoltatelo!
Ascoltate la voce che viene da voi stessi! Se essa tace, sap-
piate che qualcosa è andato storto, che qualcosa non è
in ordine, che siete sulla via sbagliata.

Ma se il vostro uccello canta e parla, oh, allora segui-
telo, seguitelo dovunque vi attiri, anche nella più fredda
e lontana solitudine, anche nel più buio destino