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lunedì, giugno 30, 2014

Il capitano Misson e la libera colonia di Libertatia

Sui pirati ci sarebbe da scrivere molte cose.
Lasciando perdere le fandonie degli scribacchini di corte, i pirati, a differenza dei corsari, andavano per il mare, creavano comunità, libere ed egualitarie, attaccavano le navi degli stati europei, e il bottino veniva distribuito egualmente tra i componenti della nave. Non facevano prigionieri. Spesso quest'ultimi si associavano ai pirati. E quando sbarcavano in un luogo, non l'occupavano, come si vede nei film da quattro soldi; venivano ospitati dalla comunità locale, con la quale intrecciavano rapporti di amicizia e di collaborazione.
Molti dei pirati, contrariamente al clichè, erano persone curiose e colte. Bellissima l'introduzione dell'autrice francese al libro " La cucina dei bucanieri", casa editrice eleuthera-novembre 2003.
Il "tesoro" che ci hanno lasciato i pirati non sta in fondo al mare, ne' in qualche isola dei tropici, ma nel cuore di ogni uomo e questo tesoro si chiama liberta'... liberta' dalla schiavitu' e odio contro i tiranni.
Il figlio di Pandora
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Non intendiamo offrire questo storia del capitano Misson, del suo equipaggio e della loro libera colonia di Libertatia, come un esempio di Utopia, o come modello per la costruzione di una società líbertaria oggi. Essa è solo il resoconto di un antico tentativo di realizzare una comunità genuinamente libertaria ed egualitaria, una comunità che tentò di vivere secondo i principi di " Libertà, Uguaglianza, Fratenità " circa cento anni prima della Rivoluzione Francese.
Il capitano Misson trascorse la maggior parte della propria vita da adulto come pirata. Ma il suo vascello, che solcava i mari battendo una bandiera con il motto "Libertà", non era l'unico, tra la fine del 17° secolo e l'inizio del 18°'. Le navi pirate di quel tempo erano quasi tutte,vere e proprie repubbliche galleggianti. A bordo, le decisioni venivano prese dall'equipaggio riunito in assemblea, o da un comitato di delegati. Alcune navi pirata dei Caraibi si diedero persino dettagliate costituzioni. Diversamente dai personaggi autoritari di cui si legge nei racconti di avventure, i veri capi pirata avevano il diritto di comando solo durante il combattiemento con le navi avversarie; nelle altre occasioni, era il timoniere a svolgere il ruolo di leader della cominità, fungendo da arbitro in caso di conflitto tra i mebri del'equipaggio. Il bottino preso sulle navi catturate veniva diviso in modo egualitario. Al capitano, di solito, toccava una parte doppia, per aver fisicamente guidato l'attacco, e in certi casi una volta mezza, o una volta e un quarto, andava al timoniere, al capo cannoniere e al carpentiere. Quote fisse venivano anche pagate come indennizzo per le ferite riportate in battaglia. I capitani spietati e dittatoriali, a quel tempo, non stavano sulle navi pirate, ma sui vascelli mercantili o militari. La vita dei marisi "normali" era dura e pericolosa, e la paga scarsa. Gli ufficilai potevano comminare punizioni che includevano la catena, la frusta, e il "giro di chiglia": quest'ultima consisteva nel gettare in mare la vittima, legata a una gomena, e farla passare più volte (a seconda della gravità del "reato" commesso, sotto lo scafo della nave. Era una pena che spesso risultava fatale. Il fatto che presso i pirati non esistesse la ferrea disciplina che regnava sulle altre navi, viene spesso addotto come una delle cause della loro sconfitta. Ma questa è una strana asserzione, poiché i pirati effettivamente sconfitti furono assai pochi: sulle rotte delle Indie orientali, le probabilità di cattura erano meno dell'uno per cento, e su quelle delle Indie occidentali erano praticamente nulle.
L'unica fonte per una storia completa di Misson e del suo equipaggio è la "Storia generale delle scorrerie e dei delitti dei pirati più famosi", scritta dal capitano Charles Johnson. La storia di Misson appare nella seconda edizione ampliata di quest'opera, pubblicata nel 1726. Sfortunatamente, essa è l'unica fonte di informazioni su Misson. Di alcuni pirati citati nella "Storia generale" si parla anche in altri documenti bibliografici, ma non di Misson. A causa di tale mancanza di informazioni sicure, diversi autori negano credito al resoconto di Johnson, come se fosse solo il frutto d'invenzione. Esiste anche chi avanza il sospetto che Charlse Johnson non fosse che uno pseudonimo di Daniel Defoe. Nonostante ciò, comunque, c'è da chiedersi perchè mai, in un catalago esauriente ed autorevole, come la "Storia generale", Johnson avrebbe scelto di includere proprio un personaggio inventato. Non bisogna dimenticare, inoltre, che Johnson scriveva d'avvenimenti molto recenti, riguardanti, in certi casi, persone ancora viventi, le cui imprese vere o presunte potevano essere note ai lettori. Qualche riferimento a Misson, in particolare in relazione alla sua amicizia col pirata americano Tew, è reperibile solo su testi posteriori alla "Storia generale" di Johnson. E' possible che Johnson abbia usato Misson, vero o immaginario che fosse, come veicolo per le sue idee progressiste. Il discorso contro i profittatori della schiavitù, ad esempio, sarebbe stato certamente meno pericoloso se riportato come pronunciato da un pirata, che non scritto in prima persona, tenuto presente che anche la Famiglia Reale aveva un vasto interesse finanziario nella tratta degli schiavi. Johnson stesso dichiarava che il nocciolo della storia proveniva da un manoscritto attributo a Misson medesimo, passato a Johnson da un suo contatto francese; quand'an che ciò fosse vero, però, Johnson non sarebbe stato nè il primo nè l'ultimo storico ad essere incappato in un documento falso. Eppure, leggendo la "Storia generale", Johnson non appare come un ingenuo. A quei tempi, un altro pirata della tradizione popolare era Avery, del quale si diceva che avesse come un re in un'isola del paradiso, piena di tesori e di fanciulle indigine a disposizione. Johnson lo stanò e risultò che era un ubriacone bugiardo e senza un soldo. Allo stesso modo che ad altri eroi popolari, come Robin Hood, anche a Misson sono state accreditate, oltre alle sue imprese, anche quella degli altri, o imprese esagerate o fantastiche. E come nella storia di Robin Hood, anche in quella di Misson sono riconoscibili, al di là dei fatti, le tracce di desideri, di speranze, ed è appunto questo a renderla degna d'interesse; la storia di Misson è un tributo di 250 anni fa all'ideale di una società basata alla cooperazione e sul mutuo appoggio, una società che si prendeva cura degli anziani e degli inabili, era magnanima con i malfattori, e svolgeva le proprie attività senza bisogno di denaro o di polizziotti. Misson (un nom de guerre, quello vero è sconosciuto) nacque in Provenza da ricca e rispettata famiglia. Studiò lettere, logica e matematica, e frequentò per un anno l'Accademia di Angers. Al suo ritorno, a sedici anni, avrebbe voltuo arruolarsi nei Moschettieri, ma il giovane Misson era un appassionato lettore di racconti di viaggi e desiderava viaggiare egli stesso. Così, sfruttando il fatto che un suo parente, il signor di Fourbin, era capitano su di nave militare, la Vicotirie, riuscì a farsi assegnare ad essa come volontario e partì alla volta di Marsiglia per raggiungerla. Ben presto la Vicotire salpò, facendo rotta per il Mediterraneo e Misson si dedicò con entusiamsmo al suo lavoro. Nel tempo libero pagava il nostromo e il carpentiere perchè gli insegnassero i segreti della costruzione e della manutenzione delle navi. Quando la Victorie attraccò a Napoli, Misson ottenne il permesso di recarsi in visita a Roma, un suo particolare desiderio. Restò disgustato dalla decadenza della corte papale e giunse alla conclusione che "la religione serviva solo a tenere sotto controllo la mente dei più deboli". Confessò i suoi dubbi ad un giovane prete domenicano, il quale, con sua grande sorpresa, si dichiarò:" Per quanto mi riguarda, sono stanco di questa farsa, alla prima occasione intendo liberarmi di quest'abito da carnevale". Misson fornì l'occasione, acquistando per lui dei vestiti e conducendolo a bordo della Victoire come volontario. Il prete si chiamava Caraccioli, ed i due sarebbero restati amici per tutta la vita. Raggiunsero la nave a Livorno. Un paio di giorni dopo aver salpato, furono attaccati da due vascelli di pirati Salee. La Victoire ne affondò uno e arrembò l'altro. Misson e Caraccioli parteciparono all'assalto in prima fila, e l'ex prete, in seguito a ciò, venne colpito alla coscia e dovette essere operato.
" Un arrembaggio non è uno scherzo, ragazzo. Tu stai lì con gli altri, sul ponte, e vedi l'altra nave che si avvicina . . . piano piano . . . sempre più vicina ... E ti senti morire ... "Le parole del vecchio timoniere gli tornavano alla mente, ora. Il vascello pirata aveva ridotto la velatura e manovrava per affiancare, mentre la Victoire faceva lo stesso. Gli ufficiali giravano in mezzo agli uomini, dando ordini secchi e consigli. Si capiva che anche loro avevano paura. Voi coi moschetti, più sottò. Controlla l'innesco di quella pistola, marinaio ... " Certe volte te ne stai lì anche un'ora, e più, ad aspettare che venga il momento. E intanto quelli sparano cannonate, e il bersaglio sei tu, ragazzo. Quelli sparano e tu non puoi far niente ... senti le palle che arrivano fischiando e puoi solo sperare che prendano qualcun altro, non te...
Ora si vedevano le lacce dei pirati. Le barbe, i fazzoletti annodati sul capo. Un tipo impennacchiato come un moschettiere stava ritto sulla murata, tenendosi ad una scotta. Doveva essere il capo di combattimento, quello che guidava l'assalto. Erano tanto vicini che Misson potè distinguere gli occhi sbarrati, le labbra strette. Gli ufficiali continuavano a parlare.
- Attenti, uomini! Ci siamo... " Ma il più brutto è quando devi saltare dall'altra parte, ragazzo. Improvvisamente ti sembra di essere solo, ti sembra che nessuno stia saltando con te, e ti dici: cristo, ma solo io devo andare di là a farmi ammazzare? E poi senti qualcuno che ti grida nelle orecchie: arremba, filone, figlio di puttana, arremba, cosa aspetti... e magari ti arriva una pedata nel culo, o una frustata. E allora salti... "
Poco prima che le due navi venissero a contatto, da entrambe le parti cominciarono a volare grappi di varia loggia, per assicurare l'abbordaggio, mentre qualcuno non riusciva a trattenere l'emozione e scaricava le armi verso gli avversari. Accanto a Misson, Caraccioli farfugliava tra i denti, forse una preghiera o forse una litania di bestemmie partenopee. Poi gli ufficiali cominciarono ad urlare come forsennati e la ciurma si mosse. Misson pose un piede sulla murata, prese lo slancio e saltò...
Tornata a Marsiglia, un mese dopo la Victoire venne inviata a La Rochelle, da dove avrebbe dovuto scortare alcuni mercantili in rotta per le Indie occidentali. Ma questi non erano ancora pronti, e Misson e Caraccioli s'imbarcarono sulla Corsara Triunph, per una breve scorribanda nella Manica. Predando i mercantili inglesi, radunarono un cospicuo bottino che vendettero a Brest. I nostri due amici rientrarono sulla Victoire e qualche settimana più tardi fecero vela per le isole di Martinica e Gudalupa. Il lungo viaggio offrì loro molto tempo per discutere. Ritenendo ormai smascherata la chiesa cristiana, Caraccioli volse la sua attenzione verso le assurdità della relgione ebraica e musulmana. Anche altri membri dell'equipaggio presero ad unirsi alle discussioni, e ben presto Caraccioli si trovò ad avere un seguito di proseliti, che vedevano in lui una specie di nuovo profeta insorto a combattere gi abusi della religione. Ma Caraccioli era appena all'inizio : " (...) quando ebbe sperimentato gli effetti della sua polemica antireligiosa,si rivolse contro i governi, e mostrò allora come ogni uomo sia nato libero e abbia diritto al proprio sostentamento al pari dell'aria che respira (...) e come le grandi disparità tra uomo e uomo, alcuni viventi nel lusso e altri nell'indegenza più totale, siano esse dovute soltanto all'avarizia e all'ambizione di una parte e alla pusillamine acquiescenza dell'altra". Caraccioli si pronunciò contro la pena di morte e dichiarò che bisognava rinunciare al diritto di uccidere, eccetto che "in difesa del nostro diritto materiale, cioè il diritto a godere di quanto è necessario per il nostro sostentamento". Quindi parlò a Misson dell'idea di "mettermi per conto proprio", un'idea che andava a genio anche a molti dell'equipaggio.
Matthieu Le Tond faceva il timoniere da quasi vent'anni, ed era in mare da sempre. Aveva visto, come egli stesso diceva, tutto quanto un uomo può vedere e ben più di ciò che può sopportare. Questo lo aveva fornito, col passare del tempo, di un pessimo carattere, nonchè della convinzione che fosse suo dovere farlo apparire, se possibile, anche peggiore. Viveva dunque eternamente preoccupato che qualcuno potesse farsi di lui l'idea di un vecchio mite e bonario (il che, peraltro, assai difficilmente avrebbe potuto verificarsi) e si proteggeva da una simile eventualità coprendo di sanguinose contumelie tutti coloro che gli rivolgevano la parola, con un turpiloquio ricco e fantasioso come un esercizio di retorica. La vita di mare con le sue asprezze, gli forniva frequenti occasioni di esibizione e ciò lo teneva tranquillo, per così dire. Ma quando Misson e Caraccioli cominciarono a rendere pubbliche le proprie discussioni, e a coinvolgere in esse l'equipaggio, si trovò ben presto in grande imbarazzo. Il suo "stile" gli avrebbe imposto di mandare pittorescamente al diavolo quei due giovanotti che parlavano in modo forbito ed elegante, in particolare quell'italiano con la sua ridicola pronuncia. Eppure, quello che dicevano gli sembrava giusto, e non poteva trattenersi dal trovarsi d'accordo con loro e ammirare come sapevano ribattere alle contestazioni e chiudere la bocca anche agli ufficiali, quelle rare volte che intervenivano. E avrebbe voluto dar loro manforte, specie quando parlavano male dei preti, di cui ricordava ancora le botte che gli davano all'orfanotrofio. Ma non poteva tradire il suo "stile", e quindi si limitava a tacere. Era un silenzio, sofferto e contrastato, però. E la sera, quando in qualche angolo della coperta si formava il solito crocchio, e la discussione pian piano prendeva l'avvio, cogliendo spunto da una riflessione, o da un commento al fatto della giornata, e subito si animava mentre il commento andava allargandosi in considerazioni più generati ed impegnative, e i nomi fatidici (libertà, uguaglianza, governo . . .) cominciavano ad es-sere pronunciati, si poteva vedere la sua ombra solitaria sedere in disparte, là dove credeva di non essere notato, ad ascoltare, grugnendo fra sè e sè...
Incrociando al largo della Martinica, la Victoire intercettò una cannoniera inglese da quaranta pezzi, la Winchelsea.Le navi vennero a battaglia,e alla prima bordata del vascello britannico, il capitano, il secondo e i tre luogotenenti della Victoire restarono uccisi. Il timoniere, unico rimasto dello staff di comando, avrebbe voluto arrendersi, ma Misson e Caraccioli riorganizzarono l'equipaggio e per tre ore continuarono il combattimento. Improvvisamente, per qualche sconosciuto motivo, a bordo della Winchelsea ci fu una tremenda esplosione, e la nave in pochi minuti affondò. Dalla Victoire vennero calate alcune scialuppe, ma si recuperò un unico sopravvissuto, il luogotenente Franklin, che morì due giorni dopo per le ferite riportate. L'equipaggio della Victoire si trovò, di colpo, ad avere in mano il controllo della nave. Caraccioli parlò agli uomini, evocando gli inizi della fortuna di Maometto e di Dario, ma non c'era bisogno della sua capacità persuasiva perché tutti si rendessero conto della potenzialità di quella situazione. Misson annunciò la sua intenzione di condurre una vita di libertà, e molti dell'equipaggio lo invitarono ad eccettare il ruolo di capitano. Egli si disse d'accordo, a patto che coloro che non intendevano seguire il suo destino fossero sbarcati in qualche località civilizzata. Nessuno volle avvalersi di questa possibilità. Venne quindi eletto un "consiglio di vascello", formato da Caraccioli in qualità di luogotenente, dal mastro d'istruzione come secondo e da Jean Besace come terzo. Il timoniere Matthieu Le Tondu e il capo-cannoniere vennero nominati rappresentanti dell'equipaggio in seno al consiglio. Il nuovo consiglio si riunì subito nel quadrato, per decidere la rotta da seguire. Tutti furono d'accordo che la costa spagnola era con tutta probabilità la direzione più conveniente. Mattieu Le Tondu pose il problema della scelta della bandiera e ne suggerì una nera come la più terrificante. Ma Caraccioli obbiettò: essi non erano pirati, ma vigili guardiani dei diritti e delle libertà popolari, quindi una bandiera bianca con la parola "Libertà " nel centro sarebbe stata assai più adatta. Il consiglio accettò. Il tendone dei quadrato era stato arrotolato, in modo da permetere all'equipaggio di ascoltare lo svolgersi della riunione. A questo punto, i marinai levarono tutti insieme il grido: "Libertà!". Le proprietà degli ufficiali deceduti vennero portate sul ponte. Chi aveva bisogno di vestiti ne ebbe di nuovi, e il denaro fu posto in un forziere comune, ben chiuso con un lucchetto di cui ogni membro del consiglio aveva la chiave. Misson prese dal quadrato tutta l'argenteria della mensa ufficiali e la depose nel forziere, ma l'equipaggio insistette che la tenesse per uso proprio. Egli si rivolse allora alla comunità della nave e la invitò, in nome dell'amore fraterno a "bandire tutte le liti personali e i malcontenti. Stavano liberandosi dal giogo della tirannia ... ed egli sperava che nessuno avrebbe seguito l'esempio dei tiranni, e avrebbe volto le spalle alla giustizia; perchè quando la giustizia viene calpestata, la miseria, la confusione e la sfiducia a reciproca seguono naturalmente". Misson avvertì i marinai che avrebbero trovato ben pochi amici nel mondo. Disse che la maggioranza degli suoi viveva in schiavitù, e da ciò la loro volontà "era spezzata", rendendoli incapaci di pensieri generosi. "Essi danzano alla musica delle loro catene, e darebbero a questo prode equipaggio l'infame appellativo di pirati, e riterrebbero meritorio partecipare alla sua distruzione". La ciurma della Victoire contava duecento braccia abili e trentacinque uomini malati o feriti. Al largo di S. Cristoforo catturarono una corvetta inglese: da essa presero due barilotti di rhum e sei sacchi di zucchero,quindi la lasciarono andare. Il capitano della corvetta, Thomas Butler, riconobbe di non aver mai incontrato, prima d'allora, un nemico così onesto.
Dopo alcune avventure di minor conto, tra cui il tentativo, fallito, di una nave corsara di prendere la Victoire, i pirati della libertà riuscirono a catturare un vascello olandese. Giunti a Cartagena, Misson e Caraccioli si travestirono da ufficiali della marina francese, presentandosi come Fourbin e il suo primo ufficiale, e poterono vendere il bottino e sbarcare i prigionieri. Il governatore, tal Don Giovanni de La Zerda, restò così favorevolmente impressionato dai due, che, conclusi gli affari, chiese loro un piccolo favore: avrebbe gradito che la Victoire si recasse a Porto Bello per scortare il St. Joseph, un galeone da settanta cannoni, lì ancorato. L'ingenuo funzionario era preoccupato per l'incolumita' del suo carico, che consisteva in 800.000 pezzi da otto e un cospicuo quantitativo di oro in lingotti.
La Victoire partì per prendere contatto con il St. Joseph, ma giunse a Porto Bello che questo aveva già salpato da due giorni. Lo scafo della Victoire era incrostato e ciò rallentava l'andatura e rendeva difficile tenere la rotta. Le tiepide acque dei Caraibi, infatti, favorivano la crescita di alghe sulla parte immersa delle navi, nonchè di molluschi come il "taredo", che si attaccano allo scafo corrodendo il legno. Per tali ragioni, le navi dovevano essere ricarenate da tre a sei volte all'anno, il che implicava tirare in secco le imbarcazioni, raschiare lo scafo e sostituire le parti danneggiate del fasciame. Le navi migliori avevano lo scafo ricoperto di piombo, o rame, ma i pirati dovevano accontentarsi di calafatare la carena con una miscela di catrame, sego e zolfo. Non avendo accesso a bacini di carenaggio, i pirati usavano tirare a riva le navi, e le inclinavano prima su un fianco, poi sull'altro, per mezzo di gomene assicurate agli alberi vicini. A volte riuscivano a fare soltanto un carenaggio parziale, quando erano di fretta.
Nelle condizioni in cui era, la Victoire aveva scarse probabilità di intercettare il St. Joseph, così i pirati abbandonarono la caccia e si diressero verso una baia chiusa. Qui, spostando i cannoni alternativamente dall'uno e dall'altro lato della nave, riuscirono ad inclinarla in modo da esporre la maggior parte dello scafo, raschiandolo e catramandolo meglio che potevano, ma senza che fosse possibile, però, eseguire un carenaggio completo della chiglia.
Il vascello era ora in grado di riprendere il mare, e il consiglio si riunì per decidere la rotta da seguire. Misson e Caraccioli insistevano per dirigere verso la costa africana, mentre gli altri erano per il New England, sostenendo che la Victoire non poteva comunque affrontare una traversata atlantica. Poichè il consiglio non riusciva ad esprimere un parere unanime, fu indetta un'assemblea generale dell'intera comunità della nave: la scelta fu per l'Africa. Dopo una traversata senza inconvenienti, in prossimità della Costa D'oro i pirati si imbatterono nel Nieuwstadt, un vascello schiavista di nazionalità olandese. Lo presero dopo una battaglia di due ore e mezzo. La nave aveva appena incominciato la tratta, e aveva a bordo soltanto diciassette schiavi. Misson li fece liberare dalle catene e diede loro dei vestiti presi dall'equipaggiamento degli olandesi. Quindi proclamò all'equipaggio che "nessun uomo aveva potere sulla libertà altrui, e il fatto che coloro che vantavano una più illuminata conoscenza della divinità vendevano gli uomini al pari delle bestie, provava che la loro religione ero solo un inganno ipocrita ". Dal canto suo, "egli non aveva sottratto il suo collo al giogo della schiavitù e reclamato la sua libertà, per poi rendere schiavi altri uomini". Ogni ex-schiavo venne affidato ad un gruppo di marinai della Victoire, in modo da rendere più agevole l'apprendimento della lingua e delle attività necessarie alla conduzione della nave. Lo scopo, evidentemente, era di favorire l'inserimento dei nuovi venuti in seno all'equipaggio. Dopo la traversata dell'Atlantico, la Victoire era nuovamente in pessima stato: "Essa era sempre più incrostata di alghe e conchiglie, e navigava quindi con difficoltà, sicchè i pirati risalirono per un tratto il fiume Lagos, e quivi la tirarono in secco, onde sostituire con legname nuovo le parti più malandate del fasciame e carenare lo scafo". Poi carenarono anche il vascello olandese e si diressero a sud. Durante il viaggio, Misson, si trovò costretto a riunire l'assemblea della nave per tenere all'equipaggio un discorso sul turpiloquio e l'ubriachezza. Gli olandesi prigionieri stavano trasmettendo cattive abitudini ai francesi, e ciò aveva ripercussioni sul morale generale. Al largo dell'Angola, i pirati presero un'altra imbarcazione olandese, che portava un carico di tessuti. Con esso, i velai della Victoire poterono rivestire decentemente gli uomini, poichè "tutto l'equipaggio aveva ormai gli abiti a brandelli. In totale, Misson aveva ora novanta prigionieri, che lasciò sul Nieuwstadt con viveri sufficienti per raggiungere un insediamento olandese lungo la costa. Undici olandesi scelsero di rimanere sulla Victoire. A nord di Table Bay la Victoire venne attaccata da una cannoniera inglese della sua stessa classe (quaranta pezzi). Con un'audace manovra, Misson l'abbordò e la prese.
- Le andiamo incontro sul filo del vento !- disse il veccbio timoniere con strana esultanza. - Signor Le Tondu, siete pazzo! - ribattè Misson - La Victoire non può andare di bolina come un catter. Ce la metteremo per cappello ... Per cappello ci metteremo i vostri coglioni di menagramo, signor Misson! Preparate gli uomini per l'arrembaggio e non venite ad insegnarmi come si fa a navigare!
Piccato, Misson tacque, mentre il timoniere dava mano alla barra. La prua continuò a spostarsi, cercando la rotta, e in un attimo il vento aveva riempito le vele con tutta la sua gagliardia. La Victoire si inclinò di lato per rovesciarsi, tanto che il mare parve sul punto di ottrepassare la murata di sottovento per venire in coperta a inghiottire l'equipaggio nelle sue liquide fauci. Ma la nave prese a filare sulle onde, e sembrava un enorme castello incantato spinto dalla magia di mille demoni, che gemevano straziati dal fasciame in tensione, stridevano dalle sartie, ululavano, prigionieri nel ventre gonfio delle vele. E sopra quelli inferno di suoni laceranti si levò la voce di Le Tondu, aspra e tonante insieme, a rassicurare gli uomini ammutoliti con orgoglio della propria abilità di navigatore:
- Non temete marinai, figli di uno squalo! Fidatevi dei vostro nocchiero che vi porta a spasso per il mare! Mezz'ora quasi, durò la lotta bolina della Victoire. Il vascello inglese tentò un traverso per sottrarsi all'appuntamento con i pirati, ma questi viaggiavano a velocità quasi doppia, e gli furono addosso quando non aveva allargato nemmeno di un miglio. Poco prima di giungere a tiro dei cannoni, Matthieu Le Tondu virò, puntando dritto contro gli avversati, prua contro prua, in rotta di collisione. In quel modo, nessuna delle due navi poteva, sparare: il timoniere stava evitando uno scontro a fuoco e manovrava per l'arrembaggio. All'ultimo momento, Le Tondu virò di nuovo. La prua della Victoire si spostò, evitò quella della nave inglese, strisciò contro il bordo di questa, affiancandola e frenandola col proprio slancio. - Io ho fatto la mia parte, Misson! Ora tocca a te, ragazzo! Misson stava ritto sulla murata in equilibrio tra le sartie, una pistola in una mano, una sciabola da carpentiere nell'altra. - All'arrembaggio! - Mentre saltava, sentì l'urto degli uomini che lo seguivano...
Quasi tutti i marinai inglesi, tranne gli ufficiali, passarono dalla sua parte. Caraccioli fu posto a capo del vascello catturato, ribattezzatò Bijoux, e la ciurma elesse i suoi ufficiali. In seguito, le due navi fecero vela per l'isola di Johanna, a nord del Madagascar. Questa era un approdo comune per le imbarcazioni che e facevano rotta per le Indie, grazie alla possibilità di ricchi rifornimenti d'acqua potabile e frutta anti scorbuto, nonché della natura amichevole dei nativi. I pirati stabilirono buone relazioni con gli indigeni e li aiutarono a difendere l'isola da un tentativo di invasasione da parte dei vicini dell'isola Mobilian. Durante la loro permanenza, molti dei marinai, compresi Misson e Caraccioli, scelsero una compagna tra le fanciulle del posto, delle quali, dopo tanti mesi di navigazione, non si poteva fare a meno di apprezzare la bellezza e la spontaneità.
Le ragazze danzavano languide, alla luce rosseggiante dei falò. Sorridenti ed esplicite, e pur candide, ammiccavano agli uomini senza vergogna, tendendo loro le mani, ancheggiando invitanti di fronte ai più timidi. Anche i maschi, i padri, i fratelli, ridevano: osservavano divertiti l'intrecciarsi delle schermaglie, commentavano con grandi sghignazzi l'intraprendenza delle loro donne e il comico imbarazzo dei bianchi, si davano di gomito additando le coppie che andavano a concludere la festa nel fitto della boscaglia.
Dov'erano finiti, i tristi amori dei marinai a terra? I vicoli puzzolenti degli angiporti, i rapidi amplessi al piano superiore di infami taverne, con i compagni ubriachi che aspettavano il loro turno fuori della porta? Dov'era l'alito pesante delle meretrici, la frustante passività di quelle carni sfatte, di quelgi occhi assenti, di quelle dita strette sulla moneta appena consegnata? E i ruffiani con i loro randelli, pronti a intervenire se ti attardavi oltre la tariffa, dov'erano andati? Tutto sparito, tutto dimenticato. L'abbiezione, lo squallore, la violenza dei congressi carnali offerti dalla "civiltà", sembravano, ed erano, lontani centinaia di miglia. Unica traccia di essi, non restava che l'attonito stupore con cui gli uomini con cui gli uomini accoglievano ora l'ebrezza purificatrice di quella pagana sensualità, la felice meraviglia di fronte a quel donarsi gratuito e spontaneo, di fronte alla bellezza e alla gioia che per la prima volta vedevano far corona all'amore. E questo temperava la foia, che in altre occasioni sarebbe scoppiata selvaggia, condita dall'astinenza e dalle privazioni della vita sul mare, e dava loro una sorta di scontrosa gentilezza che esaltava le fanciulle indigene.
Matthieu Le Tondu, dopo una resistenza di circostanza, accettò la corte di una bruna bellezza che seppe conquistarlo accarezzandogli maliziosamente la pelata. Si alzò, e prese parte alle danze fra gli applausi dei compagni. Un vecchio indigeno sdentato, quasi un suo sosia malgascio, lo apostrofò con gesti che alludevano evidentemente alla qualità delle prestazioni che l'età gli consentiva. Il vecchio navigatore stava per rispondere come suo solito, con qualche sequenza di sconcezze, ma la ragazza scoppiò in una risata squillante, lo prese per mano e, prima che potesse profferir parola, lo trascinò via, tra gli alberi ...
Usando Johanna come base, Misson corse la zona in cerca di prede. Intercettò un battello portoghese, e, nonostante fosse la metà della Victoire, fu necessario un lungo e sanguinoso combattimento, prima di poterlo prendere. Portava un carico di polvere d'oro pari ad un valore di un quarto di milione di sterline. Un ricco bottino, che costò però un alto prezzo in vite umane: trenta morti e ventisette feriti, compreso Caraccioli, al quale si dovette amputare la gamba destra. Mentre Caraccioli stava a Johanna a rimettersi dalle ferite, Misson salpò nuovamente con la Victoire. Diresse verso il Madagascar, e costeggiò quest'isola da sud a nord, fino alla punta estrema di essa, quindi volse indietro la prua. A nord di Diego Suarez, scoprì una baia, e all'interno di essa individuò un porto ampio e sicuro, con acqua potabile in abbondanza. Gettata l'ancora, sbarcò e poté constatare che "la terra era buona, l'aria salubre, e la zona pianeggiante". Disse ai suoi uomini che quello era un luogo eccellente per un rifugio e che era sua intenzione costruirvi una piccola città fortificata, con docks per le navi, dove dove essi avrebbero potuto trovare asilo qunado l'eta' e le ferite li avessero resi inabili ad andare per mare,un posto tutto per loro dove avrebbero potuto godere i frutti della loro fatica e aspettare la morte serennamente.
Ritornato a Johanna, Misson espose il suo piano agli equipaggi delle due navi e ottenne la loro approvazione. Inoltre, la regina dell'isola, in cambio della promessa di venire in soccorso a Johanna in caso di attacco, gli offrì trecento uomini per aiutarlo a costruire la nuova base. L'unica condizione posta era che gli uomini tornassero a Johanna entro quattro mesi. l pirati chiamarono la loro nuova patria Libertatia, e a se stessi diedero l'appellativo di Liberi, rinunciando a definirsi Inglesi, Francesi, Olandesi o Africani. Per prima cosa, costruirono due forti, uno per ogni lato dei porto. Questi erano armati con quaranta cannoni, presi alla nave portoghese. Poi si diedero a costruire case e magazzini. Un gruppo andò in missione nell'interno, per stringere rapporti amichevoli con i nativi e scambiare doni. Quando i lavori erano ormai avviati, Misson spinse la Victoire fino alla costa di Zanzibar e intercettò un'altra nave portoghese che portava un carico d'oro. La Victoire viaggiava con armamento ed equipaggio ridotti, cosicché Misson, comprendendo di aver addentato un boccone troppo grosso, tentò di sganciarsi. Ma il vascello portoghese insegui la Victoire e attaccò battaglia. Lo scontro durò quattro ore: alla fine, i pirati riuscirono ad abbordare la nave e a prenderla. I marinai portoghesi vennero rinchiusi sottocoperta e, con l' indispensabile di equipaggio, la preda seguì la Victoire a Libertatia. In vista del Madagascar, incrociarono una corvetta che inalberava una bandiera nera su cui era dipinto, in bianco, un braccio che brandiva una scimitarra. Era il veliero del pirata Thomas Tew. Le due navi si affiancarono, e i francesi si recarono in visita a conoscere i "colleghi" americani. Dopo qualche discussione, Tew e i suoi uomini decisero di accompagnare la Victoire a Libertatia.
Tew sembrava uscito da un racconto d'osteria. Portava un cappello a tesa larga, ornato con penne d'albatros e di pappagallo, piantato alla brava su di una massa di riccioli che avevano raramente conosciuto il sapone. Addosso aveva un giustacuore di marocchina ricamata, con una fusciacca rossa alla vita, tanto alta e stretta da sembrare una specie di busto femminile, e sotto un paio di brache da gran signore, di seta rilucente, tutte sbuffi e pizzi, frutto evidentemente di qualcbe recentissima ruberia, perchè apparivano nuove come appena uscite dalla bottega del sarto. Era armato fino ai denti. Oltre a due mazzagatti infilati nella fascia, ben quattro pistole di notevoli proporzioni gli pendevano dalla cintura, appese per la dragona, e al collo teneva una vera collezione di fiaschette da innesco, cariche predosate, loading blocks all'uso americano e altre piriche attrezzature.
Parlava forte, con frequenti risate e grandi pacche sulle spalle dell'interlocutore. A Misson, all'inizio, non piacque. Gli sembrava la rappresentazione di ciò che lui non voleva essere, il pirata tipico così come lo dipingono i capitani in pensione nei loro resoconti, quello che a sentirlo descrivere viene voglia di impiccarlo all'albero di maestra. E Tew, con la sua ostentata tracotanza, col suo repertorio di inutili millanterie (" Puoi contarci, uomo! ", " So quel che dico, fratello! " ... ) suscitava a volte desideri di quel genere. Ma i suoi uomini lo trattavano con affettuosa condiscendenza, e di tanto in tanto lo motteggiavano, ed egli faceva lo stesso nei loro confronti, con cameratesca familiarità, più che una banda di pirati, quell'equipaggio sembrava la brigata di amici reduci da una via crucis per le taverne. Eppure tutti portavano sulle carni i segni di aspre battaglie. Tew stesso recava una ferita ancor fresca sul braccio, rabberciata alla meglio con una pezza. Misson cominciò a pensare che, sotto quell'improbabile costume variopinto, poteva esserci un buon compagno. Disse Caracciolí: "Sti americani... sonò nu poco strunzi, ma sò guaglioni 'e core . . .
L'ideale di una libera colonia come quella che Misson stava costruendo, non era nuovo per questi pirati. Poco tempo prima, dall'equipaggio di Tew si era staccato un nucleo di ventitrè uomini, compreso il timoniere, che erano andati, anch'essi ad impiantare una loro comunità sulla costa malgascia, non distante da Libertatia.
Quando la piccola flotta giunse in porto, Tew sparò una salva di nove colpi di cannone, come saluto, e il primo forte rispose allo stesso modo. Il loro arrivò però, poneva a Libertatia un problema. Essi avevano adesso centonovanta prigionieri portoghesi, di fronte a una popolazione della comunità di soli duecento uomini, a parte gli isolani di Johanna. Circa settanta dei prigionieri portoghesi si unirono ai Liberi, dopo un discorso di Caraccioli (che Johnson descrive come un uomo che aveva "l'arte della persuasione"). Il resto venne adibito alla costruzione di un nuovo dock, mezzo miglio sotto l'imboccatura del porto. Essi erano tenuti isolati in quell'area, e Libertatia non aveva comunicazione con loro, come precauzione nel caso si fossero resi conto della forza del proprio numero e si fossero ribellati. Tra le due comunità stava il Bijoux, di sentinella.
Col passare del tempo i pirati divennero agricoltori, seminando mais, grano ed altre piante di cui avevano trovato le sementi a bordo dei vascelli catturati. I campi erano coltivati in comune e "non c'erano recinti di alcun genere a segnare le proprietà di ciascuno". Venne il momento che gli uomini di Johanna dovettero tornare alla propria isola, secondo gli accordi. Ciò poneva un nuovo problema: mandar fuori una nave con equipaggio ridotto significava rischiare di perderla, e, d'altro canto, equipaggiarla completamente significava sguarnire Libertatia e rischiare che i prigionieri portoghesi si prendessero la città. Misson propose di consegnare l'ultimo vascello catturato ai prigionieri, e lasciarli liberi. Tew e Caraccioli si opposero, sostenendo che in tal modo l'esistenza della loro base sarebbe divenuta ben presto di dominio pubblico, e sarebbero stati attaccati. Come al solito, venne indetta un'assemblea per decidere: venne accettata la proposta di Misson, non essendovi altra alternativa se non massacrare tutti i prigionieri. Misson parlò a costoro, dicendo che si rendeva conto che dare loro la libertà avrebbe avuto come conseguenza l'aggressione di Libertatia, non appena la sua ubicazione fosse stata resa nota. Ma, aggiunse, "egli non faceva guerra agli oppressi, bensì agli oppressori". Si interessò dei problemi di ciascuno e, nei limiti del possibile, fornì loro aiuto. In cambio, chiese che ognuno giurasse solennemente che non si sarebbe mai arruolato per combattere contro Libertatia. La nave, privata dei cannoni, fu approvvigionata per un viaggio fino alla costa di Zanzibar, e partì. Qualche giorno dopo, giunse in visita una cinquantina di indigeni delle tribù locali, per commerciare bestiame e schiavi. Vennero intavolate trattative e gli schiavi che poterono essere affrancati "furono immediatamente forniti di abiti e posti sotto la protezione dei bianchi che, con ogni dimostrazione possibile, si sforzarono di far loro comprendere quanto fossero avversi ad ogni forma di schiavitù".
Risolto il problema dei prigionieri portoghesi, il Biioux poté riportare a casa gli uomini di Johanna. Ci vollero tre viaggi, per completare l'operazione. Alcuni membri dell'equipaggio di Misson, che erano rimasti colà, approfittarono dell'ultimo viaggio per trasferirsi a Libertatia con le proprie donne e bambini. Dopo il loro ritorno, Misson e Ceraccioli si diedero da fare per portate a termine la costruzione dei docks, mentre Tew partiva col Bíjoux per un raid alla volta della costa della Guinea.
Subito a nord dei Capo di Buona Speranza, Tew prese una galea delle Indie occidentali olandesi e trovò, a bordo una grande quantità di corone inglesi. Queste furono "destinate al tesoro comune, poiché a Libertatia di nessun servizio era il denaro, ogni cosa essendo in comune". Al largo della costa dell'Angola, poi, venne catturata, una nave schiavista, con duecentoquaranta tra uomini, donne e bambini, rinchiusi sottocoperta. I marinai africani del Bijoux, che a suo tempo erano anch'essi stati fatti schiavi su quella costa, scoprirono fra essi molti parenti ed amici. Dando a Tew ampie garanzie della loro buona condotta, gli africani liberarono i prigionieri dalle catene e li accolsero a condividere le glorie della loro nuova vita.
A Libertatia, dopo il completamento del nuovo dock, venne iniziata la costruzione di due corvette da ottanta tonnellate, armate ciascuna con otto cannoni, che vennero battezzate rispettivamente Gioventù e Libertà. Dovevano servire per una spedizione incaricata di compilare una carta nautica dell'isola del Madagascar, con l'indicazione delle coste, dei lidi, delle secche e delle fosse, nonché come naviscuola per l'addestramento degli schiavi liberati.
I tentativi di insegnare agli africani un pò di francese, finirono per produrre una specie di utile esperanto, una sorta di lingua-franca fatta di una mescolanza di vocaboli africani, francesi, inglesi, olandesi, portoghesi, ed anche alcune parole malgasce che provenivano dalle sei famiglie indigene che erano entrate a far parte della comunità. Le due corvette, con ufficiali eletti da equipaggio misto, composto di bianchi e neri in parti uguali, cominciarono il loro giro d'esplorazione intorno all'isola. Occorsero quattro mesi per completare il tutto, e il mastro d'istruzione poté compilare delle carte assai dettagliate. Molti degli ex-schiavi africani erano divenuti ormai pratici di navigazione. Così, Misson e Tew, con due navi, andarono bordeggiando lungo la costa araba. Qui, ben presto, intercettarono un vascello del Gran Mogol, un enorme veliero con centodieci cannoni e millecinquecento persone a bordo tra marinai e pellegrini in viaggio verso la Mecca.
A dispetto della stazza, la nave oppose una debole resistenza, poiché l'equipaggio non poteva agevolmente manovrare a causa della folla di gente e bagagli che ingombrava il ponte. I due battelli pirata la affiancarono e si apprestarono ad arrembarla. I difensori spararono una scarica con armi di piccolo calibro, senza usare i cannoni, e poi si arresero, senz'altra resistenza.
Si decise di tenere il vascello e di portarlo a Libertatia. I cannoni sarebbero stati utili e inoltre si poteva procedere con maggiore cura alla ricerca degli oggetti preziosi che spesso gli Indiani nascondevano nelle intercapedini dello scafo e tra la zavorra. I passeggeri e l'equipaggio furono sbarcati tra Ain e Aden, a un tiro di schioppo dalla civiltà. Durante lo sbarco dei passeggeri, ci fu un incidente che, visto a posteriori, può essere interpretato come un primo sintomo della perdita dell'influenza di Misson sullo sviluppo di Libertatia come comunità libertaria. L'equipaggio pirata, infatti, volle tenere con sé un centinaio di ragazze di età tra i dodici e i diciotto anni, per portarle a Libertatia come "mogli" per i celibi. Misson si oppose fieramente a ciò, e riunì l'assemblea per discutere il problema, ma si trovò in minorenza. La nave indiana era un vero e proprio mostro ligneo, e si rivelò assai lenta e pesante durante la navigazione verso il Madagascar. In una tempesta, poco mancò che venisse perduta. Una volta a Libertatia, venne demolita con cura, recuperando tutto "il sartiame, il legno, le viti, i chiodi, i gangi, lecatene e le altre attrezzature in ferro". I centodieci cannoni vennero installati in due batterie, su ciascun lato dell'imboccatura del porto.
A quell'epoca, i coloni avevano un buon quantitativo di terra coltivata, e circa trecento bestie comprate dai commercianti indigeni. I docks erano finiti e la prima nave messa m cantiere fu la Victoire. Essa infatti era ormai vecchia e inadatta a lunghi viaggi; venne perciò demolita, e ricostruita con lo stesso nome. La nuova Victoire si preparava a far vela verso la Guinea, quando una delle corvette entrò nella baia. L'equipaggio africano era in grande agitazione. Gli uomini dissero che, mentre erano in viaggio d'addestramento, avevano incrociato cinque grosse navi che dirigevano verso Libertatia. A giudicare dall'aspetto, erano vascelli portoghesi, con cinquanta pezzi ciascuno e traboccanti di uomini armati. Era arrivato il momento dell'inevitabile aggressione. L'intera colonia di Libertatia corse a posti di combattimento, mentre le cinque navi puntavano verso il porto, alzando i colori portoghesi. I due forti non erano efficenti come sperato. I loro cannoni riuscirono ad aprire una gran falla in una delle imbarcazioni, ma le altre veleggiarono indenni. Una volta dentro il porto, i portoghesi erano convinti di aver ormai raggiunto il proprio scopo, e si apprestarono a calare le scialuppe, piene di uomini armati, per procedere all'occupazione della colonia. Ma avevano fatto male i conti: una pioggia di cannonate si abbatté su di loro, da ogni parte. Sparavano contemporaneamente le batterie a terra, i due forti, le due corvette, la Victoire e il Bijoux. Due navi colarono a picco, le altre volsero la prua e cercarono di sottrarsi a quell'inferno. Fortunatamente per loro, i portoghesi erano arrivati, poco prima del cambio della marea e "guadagnarono l'uscita assai più rapidamente di quanto non avessero impiegato per entrare".
Il Bijoux e la Victoire si gettarono all'inseguimento. La nave fallata rimaneva indietro e fu ben presto raggiunta dai pirati, mentre gli altri vascelli l'abbandonavano al suo destino. L'equipaggio si difese fieramente, ma alla fine chiese quartiere, che venne concesso. Disgraziatamente, tra i prigionieri portoghesi i pirati scovarono due degli uomini che erano stati, a suo tempo, rilasciati da Alisson sulla parola che non si sarebbero arruolati contro Libertatia. Costoro ebbero un pubblico processo per "spergiuro e ingratitudine": Misson e Caraccioli chiesero una punizione corporale, ma Tew insistette perché fossero impiccati, sostenendo che il delitto di cui si erano macchiati richiedeva una pena esemplare. Le sue argomentazioni riuscirono a convincere anche Caraccioli, il quale si rivolse al popolo di Libertatia, dando atto a Misson della sua generosità nei confronti dei malfattori ma rilevando, altresì che "non avvi regola che non ammetta eccezioni". Al termine del discorso, la folla rumoreggiò, gridando che "l'impiccagione era pena lieve per quei ribaldi". Vennero appesi ai pennoni dei due forti. Il sogno libertario di Misson cominciava a svanire. Nel tentativo di dirimere una contesa tra il proprio equipaggio e quello di Tew, si trovò coinvolto in una sfida a duello con Tew stesso, che venne evitata in extremis dal conciliatorio intervento di Caraccioli. Questi suggerì, al fine di impedire che tali inconvenienti avessero a ripetersi in futuro, che si istituisse un governo formale, il quale avrebbe provveduto ad emanare "leggi giuste ". Il giorno dopo, il problema dell'istituzione di un governo venne sottoposto all'assemblea dell'intera comunità riunita. Johnson descrive Caraccioli come dotato di "un'argomentazione persuasiva ed insinuante". Il risultato fu che tutti convenirono sulla necessità di eleggere un Presidente e un governo, nonché di ripartire in parti uguali tra i membri di Libertatia il tesoro comune e il bestiame. La terra avrebbe potuto essere cintata e sarebbe diventata proprietà privata di colui che la cintava. Fu costruita una Sala del Parlamento, in legno, e la prima riunione durò ben dieci giorni e promulgò un notevole numero di leggi. Misson venne eletto Presidente, con diritto al titolo di Suprema Eccellenza. Tew fu nominato Ammiraglio della Flotta e Caraccioli Segretario di Stato.
Bestiame e tesoro fuorono divisi. Gli appezzamenti di terreno vennero cintati. Coloro che recitavano più terra di quanto fossero in grado di coltivare da soli, ora potevano, e col beneplacito della legge, assumere altri membri di Libertatia come lavoranti. Nel giro di un mese dall'attacco portoghese, la "libera colonia" aveva istituito la pena capitale, la moneta, la proprietà privata e il lavoro salariato.
Libertatia, comunque, aveva bisogno di altre braccia per mantenere la propria economia agricola e sopperire alle necessità della flotta. Sulla costa era ancora in vita la comunità fondata, come si è visto, dal timoniere di Tew con una ventina di uomini. Tew decise di recarsi colà in visita, per indurre i partecipanti ad unirsi a Libertatia. Il parlamento, però, si pronunciò contro un invito indiscriminato, e, rinnegando le proprie origini in nome della neo-acquisita rispettabilità, dichiarò che coloro che seguivano il vecchio timoniere erano "d'indole sediziosa, e avrebbero potuto contagiare gli altri con uno spirito di disordine". Tew ricevette istruzioni di accettare soltanto quelli seriamente intenzionati ad unirsi a Libertatia e per i quali avrebbe potuto garantire, sul suo onore, che si sarebbero comportati degnamente.Tew salpò con la Victoire, e dopo qualche giorno di navigazione gettò l'ancora di fronte al luogo dove si erano stabiliti gli ex-membri della sua durma. Issò un'insegna e sparò una salva, ma non ottenne risposta. Allora sbarcò,con una scialuppa, e finalmente incontrò due uomini, che lo condussero al loro insediamento nei boschi. Tew parlò ai suoi antichi compagni, invitandoli a tornare con lui a Libertatia e spiegando i vantaggi che avrebbe portato. Il vecchio timoniere non ebbe difficoltà ad ammettere che la cosa avrebbe portato grandi vantaggi a Libertatia, ma disse che questi non lo sarebbero stati altrettanto per sé ed i suoi compagni, dal momento che "essi godevano colà di tutto quanto abbisognavano per la loro esistenza, ed erano liberi e indipendenti da chiunque". E aggiunse significativamente che "sarebbe invero una follia assoggettarsi nuovamente ad un governo il quale, per quanto mite, esercita pur sempre un'imperio sui governati". Il gruppo, infatti, si era dato una forma di governo molto semplice, consistente unicamente in un Governatore che restava in carica tre mesi ed era scelto a sorte. Il potere di tale Governatore si limitava ad una funzione di arbitraggio nelle questioni d'ordinaria amministrazione. La "lotteria" per l'elezione era aperta ad ogni membro che non avesse ancora avuto la carica: "con un simile sistema ognuno avrebbe ottenuto, prima o poi, l'opportunità di esercitare il supremo comando". Ciò, era ritenuto preferibile ad un'elezione vera e propria, poiché in tal modo "venivano evitati i problemi delle operazioni di voto e di scrutinio, nonché l'insorgere di divisioni e partite tra i membri della colonia, ed era quindi possibile mantenere tra essi quell'armonia inseparabile dall'unità". Gli excompagni di Tew, comunque, erano consapevoli della propria posizione nei confronti del mondo esterno. Non erano una colonia ufficialmente riconosciuta, e quindi non potevano dedicarsi ad attività commerciali legali, a causa delle sanzioni che colpivano chi prestava aiuto ai pirati. Inoltre, appunto perché pirati potevano essere impunemente aggrediti da ogni vascello militare che si fosse trovato a passare da quelle parti, qualunque fosse la sua nazionalità, o da qualche nave di avventurieri. A questo proposito, il timoniere disse che essi erano disponibili a che qualche rappresentanza inglese, dall'America o dall'Europa, impiantasse lì una colonia, purificandoli dall'odioso status di pirati. Ma su ciò non si facevano illusioni. "è buffo, pensare che finiremo per cacciarci in guai più grandi di noi", concluse il timoniere.
Tew fece ritorno sulla Víctoire, e il giorno dopo si recò nuovamente dai suoi antichi compagni portando rum e brandy. Mentre stavano "facendo fuori" un gamellone di punch, scoppiò improvvisamente un uragano. Tew segnalò da riva che voleva tornare a bordo, ma il mare era troppo agitato perché si potesse rischiare di mettere in acqua una barca. L'uragano aumentò di intensità, colpendo in pieno la Victoire ancorata al largo. Da terra, Tew e gli altri non poterono far altro che stare a guardare, impotenti, come la nave cercava di trarsi d'impiccio. Due ore, durò la lotta disperata contro l'infuriare deli ormeggi, fu spinta contro gli scogli e colò a picco con tutto l'equipaggio.
Tew non poteva più tornare a Libertatia, ora, e fu costretto ad accettare l'ospitalità dei suoi ex-marinai. Di lì a tre mesi, venne avvistata al largo una grossa imbarcazione che sembrava il Bijoux, ma questa ignorò i fuochi accesi in segnalazione e proseguì per la sua strada. Un mese più tardi, giunto di buon'ora sulla spiaggia, Tew trovò due corvette ancorate a breve distanza del litorale: erano la Gioventù e la Libertà. Venne a riva una scialuppa. A bordo c'era Misson, e la gioia del ritrovamento fu rapidamente cancellata dalle notizie che questi recava. In piena notte, senza la minima provocazione, due folti drappelli di indigeni avevano attaccato Libertatia, sguarnita di uomini poiché sia la Victoire, che il Bijoux erano per mare. Caraccioli aveva radunato i pochi rimasti per una estrema resistenza, ma era stato massacrato. Gli indigeni avevano invaso la città uccidendo tutti quelli che incontravano, uomini, donne o bambini che fossero. Misson, con quarantasei scampati, e quel poco che avevano potuto portare con sé, era riuscito a raggiungere le due corvette e prendere il largo. Libertatia era perduta. Tew suggerì di far vela per l'America, dove Misson non era conosciuto e poteva ricostruirsi un'esistenza pacifica, e l'idea piacque al timoniere, che sperava di poter ottenere in quel modo una concessione per la fondazione di una colonia ufficialmente riconosciuta. Ma Misson, dopo il fallimento di Libertatia, aveva perso ogni entusiasmo. Così, decise di tornare in Europa per visitare in segreto la sua famiglia e ritirarsi dal mondo. Quanto restava del suo sogno di libertà, tesoro e uomini, venne diviso tra le due corvette. I più scelsero di stare con Tew.
I pirati attesero una settimana, nella speranza che il Bijoux tornasse, ma inutilmente. Allora partirono verso la costa della Guinea, dove forse anche il Bijoux si era diretto e avrebbero potuto incontrarlo. Durante il viaggio, le due navi furono sorprese da un uragano: l'imbarcazione di Misson naufragò e colò a picco, senza che gli altri potessero fare alcunché per aiutarla. Non ci furono superstiti. Tew fece rotta per l'isola di Santa Maria, al largo della costa malgascia, dove l'ex-pirata Adam Baldridge aveva impiantato un centro commerciale. Al riparo del forte di Baldridge, la corvetta (iscritta col nome di Amity, il vecchio nome dell'imbarcazione di Tew) venne carenata e preparata per una traversata atlantica. Secondo i registri di Baldridge, l'Amity lasciò Santa Maria nel dicembre 1693. Arrivò all'isola di Rodi nell'aprile 1694.
Tew se ne stette tranquillo per parecchi anni, ma i suoi vecchi compagni continuavano ad assillarlo, proponendogli di fare un ultimo viaggio. Alla fine non seppe resistere, comprò una piccola corvetta e riprese il mare. Durante una battaglia contro una nave del Gran Mogol, nel Mar Rosso, fu colpito in pieno da una palla di cannone e morì di lì a poco.
(Traduzione di Gisetta De Amici)
Tratto da Volontà n. 2 del 1986

Il libro dei piaceri di Raoul Vaneigem

Prefazione
TABULA RASA
All'aurora in cui spunta la vita , si spegne la lunga notte della merce unica e derisoria luce di una storia inumana. Non basta che le passioni siano state piegate sul filo dei secoli sotto lo sguardo obliquo della morte, avvitati i desideri, in senso contrario alla vita e fondata la maggior parte dell'esistenza sulla ricerca sanguinosa del profitto e del potere?
Non basta che le vostre rivoluzioni portino sulla fronte una macchia intellettuale di sangue? Anche la violenza cambia di base.
La sopravvivenza svenduta oggi nella disfatta del mercato di scambio, è la produzione della miseria quotidiana, una specie di industria totalitaria se lo e’, e soccombe a sua volta a quella che voi chiamate la crisi, e che è solo il crollo della vostra civilizzazione mortifera.
La società mercantile non ha plasmato niente di umano, all'infuori dello stampo parodistico che è servito ad estenderla dappertutto. La parcellizzazione che il valore di scambio impone al vivente non tollera che dei frammenti di uomini, degli embrioni pazientemente disseccati nella provetta sociale della redditività, degli esseri condannati a non appartenersi ma perché appartengono a una potenza,prima spogliata del mantello divino e poi denudata della sua carne ideologica fino a rivelare il meccanismo scheletrico della sua astrazione: l’Economia. Tutto si e’ giocato su di essa , in un destino che doveva da allora giocare contro di noi.
E’ forse vero che la vita trae il suo senso dalla morte, che l'energia individuale è necessariamente votata al lavoro, che nessuno sfugge al giudizio degli dei, degli uomini, della storia, che tutto si paga presto o tardi, che ragione e sragione guidano il corpo, che una esistenza vale per la sua assenza - per il suo sacrificio, la sua utilità, la sua immagine di riguardo -, e che l'autorità e il denaro vincono, in fin dei conti, sull'amplesso amoroso, sul sorso di vino fresco, il sogno, il profumo del timo delle Alpilles , perché ne regolano il prezzo? Se le cose stanno così, si tratta delle verità di un mondo alla rovescia, con cui non ho niente a che fare.

La vera vita non è ancora venuta alla luce . Essa spunta fra i passi degli ultimi uomini incompiuti, fra i nostri passi. Poiché abbiamo imparato bene a stancarci di tutto ci stanchiamo ora di morire sotto le apparenze del vivente.
Alla fine della disperazione, la strada si ferma o risale. Alla vostra società, dove la volontà diventa stupro e lo slancio vitale riflesso di morte, sarò irrimediabilmente solo a opporle il godimento che non si mercanteggia, a opporre il desiderio irriducibile all'economia, la gratuità del piacere strappato alle leggi del dare-avere? Anche lo scoraggiamento e la mancanza di fiducia istillatami dall'infanzia hanno perso il potere di persuadermene.
Se il progresso dell'umano nella merce ha potuto un tempo dissimulare il progresso della merce nell'umano, non fatevi ingannare, il comportamento individuale verificato sullo stato dei conti e del bilancio quotidiani non resisterà di più all'irruzione della vita nella storia. Sulla supremazia economica al declino si alza la clava collettiva della volontà di vivere.

La noia crescente per i piaceri della sopravvivenza -che sono i piaceri del mondo alla rovescia- reclama la scoperta e l'emancipazione dei piaceri della vita che vi si trovano inghiottiti. La loro creazione implica la distruzione di un sistema dominante che essi non riusciranno a distruggere senza prima avere avviato immediatamente la loro realizzazione. La rivoluzione non è più nel rifiuto della sopravvivenza. Ma in un godimento_di_sé che tutto congiura a interdire, a cominciare dai sostenitori del rifiuto .Contro la proletarizzazione del corpo e dei desideri , la sola arma alla portata di tutti e’ il piacere senza partita.

Vivere controcorrente la vita, questa è stata la norma. Pertanto il rovesciamento di prospettiva si opera oggi sotto i nostri occhi scombussolando gli architetti dell'inversione. Esso segna la fine dell'era economica alla soglia dell'autogestione generalizzata. Tiene occupato il cuore di tutti e sta al centro delle condizioni storiche. E
Fonda sulla gratuità dei godimenti il sabotaggio del circuito mercantile che paralizza i muscoli e spezza i nervi per inibire il desiderio in nome del lavoro, del dovere, della costrizione, dello scambio,del senso di colpa, del controllo intellettuale, della volontà di potenza. In esso , ciò che mi uccide con le migliori delle ragioni, si separa da quello che mi spinge a vivere senza ragioni. In esso , il rifiuto della sopravvivenza è vinto dall'affermazione della vita insaziabile.

La gente è così abituata ad avere paura, a uccidere, a disprezzare e odiare che tende ad annientare chiunque le dica che forse si sbaglia e che il suo atteggiamento e’ solo odio della propria vita. Essa preferisce le droghe che sopprimono la disperazione, e l'illusione di averla guarita la entusiasma, ma il male è sempre là che la divora

L'emancipazione non ha peggiore nemico di chi pretende di cambiare la società e non smette di dissimulare, esorcizzandolo, il vecchio mondo che si porta dentro. Procuratori della rivoluzione, sniffatori di radicalità, bottegai del merito e del demerito, questi sono gli avversari corazzati di nevrosi contro cui va a urtare, con incredibile violenza, tutto quello che comincia a muoversi al ritmo di una vita senza coercizioni
Gli uomini del rifiuto, io li conosco, essendo stato uno di essi per diverse ragioni. Sotto le vesti del loro eccesso di critica si agita il braccio secolare delle peggiori inquisizioni.
Che disprezzo di sé c'è in chi si traveste facendosi lustro di quello che proietta in negativo sugli altri!
In un sistema che prolifera distruggendo i suoi produttori, e dunque, distruggendosi, come non diventare alleati della merce quando, celebrando il godimento con le grida della impossibilità a godere, si rinuncia a emancipare i propri desideri dall'impresa economica
Che li capovolge?

I suicidi hanno un bel vituperare il mondo dominante, essi vi si comportano da servi spingendo lo zelo fino a rinnovare il letamaio sociale lasciandosi marcire dentro. A forza di patire perché niente cambia, si sono adattati ad andare d’accordo nel non cambiare niente. Il tramonto del vecchio mondo, loro l'hanno fatto così bene da mescolare al suo de profundis la propria orazione funebre. « Vivere - dicono - significa consumarsi alle evocazioni dell'amore e dell'amicizia senza riscaldarsi ». Queste storie invecchiate puzzano di chiuso. E per questo che le si rispettano , di più, sia che vengano da uno junker moribondo che da un burocrate incallito. Anche la putrefazione rende nobili.
Lavoratori dell'ordine e del disordine, della rimozione e della disinibizione , il processo autodistruttore della merce programma la vostra constatazione d'inesistenza. La morte vi coglierà come siete usciti dalla vita con la malinconia del contabile che fa i suoi bilanci quotidiani della miseria, o con il pennacchio dell’ambulante che si esalta allo spettacolo critico della sua fine esemplare. Voi avete appreso dal potere, esecrato e venerato a un tempo,l'altezzosità del rifiuto che autorizza a tutte le bassezze, ma la vita si prende gioco dell'ipocrisia dei migliori nel bicchier d'acqua della teoria. Dai piaceri nascerà l'audacia, e il riso che ignora gli ordini, le leggi, la misura, abbatterà, con l'innocenza del bambino, tutto quello che giudica, reprime , calcola, e governa ancora.
Mentre l'intellettuale si dà da fare per passare dal buco della serratura, a chi preme un mondo dei desideri spalanca la porta, volgarità imperdonabile per chi attende l’avvento del pensiero, là dove la vita soltanto può raggiungere il
compimento. L'astrazione progressiva del processo mercantile ha fatto della testa il rifugio del vivente, ma non rimane, per regnare su una parvenza di corpo, che un'ombra di potere in una torre di crani. Le ferite dell'invecchiamento, fonte di tante nostalgie, sono la rinuncia di se’ , la scarificazione del piacere segnato nel vivo dalla rabbia della parvenza, il biso-gno di dominare, la volontà di potenza.
La maggior parte delle vostre verità non hanno per esse che la forza del disprezzo che le ha versate. Esse s'impongono con durezza, da quando delle generazioni hanno appreso ad ammettere le cose a forza di schiaffi e di mortificazioni. Il primo argomento che arriva soggioga d'autorità lo spirito, dal momento che lo viola, in modo che lo spirito possa violarlo a sua volta. Cos'è un sapere fondato sul tacito postulato che non si è mai così bene serviti come da se stessi?

L'uomo influente si accorge presto che, mentre agisce su di loro, è un fantasma nella testa degli altri. Se spera di salvare questo fantasma di sé « per il bene dei suoi simili » si perde e si sbaglia con loro. E’ per questo che non ho l'intenzione di convincervi. Non mi preoccupo affatto di aggiungere disprezzo al disprezzo che già portate per interposte persone. Per quanto scrupolosi siate a prestare orecchio ai messaggeri della vostra autodistruzione, orecchio che vi sarà restituito con l'interesse, preferisco, con disinvoltura, attendere che il piacere vi renda sordi prima o poi a tutto quello che non viene ad accrescerlo
Noi ci siamo troppo battuti per mancanza, non abbastanza per abbondanza. Che i morti seppelliscano i loro morti! La mia felicità non si nutre di virtù, soprattutto non di virtù rivoluzionarie. Prendo il mio piacere da ciò che vive. Chi rinuncia al suoi desideri muore avvelenato dalle verità morte.
La buona terra sa vedere in tutte le cose, in tutti gli eventi e in tutti gli uomini una semenza, una pioggia, un raggio di sole benvenuti. Si arricchisce di quello che prende come di quello che offre.
Cos'è un libro che non conduce al di là di tutti i libri? Le cose che rimandano a se stessi si scrivono con il gusto della pienezza e non sotto la sferza degli imperativi .
Sicuramente il libro dei piaceri non sfugge alla menzogna della intellettualità, del pensiero separato che regna sul corpo e lo reprime, ma è la menzogna che ciascuno porta in sé e che il godimento accettato senza riserve ha la facoltà di dissolvere. Le tracce che ne rimangono qui, ebbene, che i vostri desideri le cancellino nello stesso momento che cancellano il grande inquisitore della vostra cerebralità !
In ogni essere, in ogni creazione, io non prendo che quello che mi piace e lascio il resto.
Alla larga, giudici integri ! -Questo non è per voi. Perché dovrei essere tollerato da uno che non sopporta se stesso? Quello che pensate del libro, non m’interessa, quello che ne farete riguarda solo voi. Non ho niente da scambiare. Se voi sapeste queste cose e di migliori, non le fareste sapere?
Chi impara ad amarsi, al di là dei sensi di colpa e della paura di gioire, sa che a dispetto dei miei errori non retrocedo di un pollice dalla mia volontà di creare, con la sovversione totale di una società che la inverte una società fondata sulla volontà di vivere individuale. E non ignoro che il suo desiderio è uguale al mio.
Cogliere il più gran piacere a essere quel che sono, ho mai cercato un presente diverso? Rallegrarmi così che la mia gioia non si sciupi più nel malessere limaccioso degli altri . Se sapessero questi bravi cittadini che razza di dinamite si portano dietro! Gli stracci dell'umiltà e gli orpelli della megalomania li hanno così bene convinti di non valere niente, perché sono vestiti di niente, che i loro occhi sono spenti a ciò che resiste di vivo sotto il blocco affettivo e le sue disinibizioni compensatorie . Chi spezzerà la pietra millenaria posta sopra l'autonomia individuale? E’ da troppo tempo che imparare a vivere significa imparare a morire.
« Quando faccio una ruota - dice il carradore - se la faccio con dolcezza, sarà molle e poco solida, se la faccio con durezza, sarà solida, ma rozza. Se non faccio uso né di troppa dolcezza, né di troppa durezza, ma come va spontaneamente la mano, essa sarà costruita secondo le mie intenzioni. Non si può spiegare a parole ». Come le parole cominciano qui dove tace la mia esperienza vissuta, così l'esperienza di ciascuno nel prenderle « nel loro verso » mi offre la possibilità di raggiungerla e di avanzare con essa . Solo la volontà di vivere individuale farà del libro dei piaceri ciò che è per me, un impulso a godere non imposto dall'esterno.
Mi piace ridere con l'umorista viennese che dichiarava: « molti sperano di farmi fuori, molti di passare un'oretta di conversazione in mia compagnia. Sono generalmente gli stessi ». Cercarmi o rifiutarmi, che derisione! Ma non posso difendermi, di contro, dal sentimento che chiunque si reprime, si rifiuta e si volge verso la morte aggiunge alla mia emancipazione un ostacolo di cui farei ben a meno.
La chiave è in ciascuno. Non ci sono istruzioni per l'uso. Quando avrete scelto di non riferirvi che a voi stessi, riderete del riferimento a un nome - il mio, il vostro - a un giudizio, a una categoria, cesserete di imparentarvi a quella gente a cui il rimpianto astioso per non aver partecipato a un movimento della storia impedisce ancora di inventarsi una vita per se stessi.

Dipende solo da noi diventare gl'inventori della nostra vita
. Quanta energia gettata in questa vera fatica che è vivere in virtù degli altri, quando sarebbe sufficiente applicarla per amore di sé, al compimento dell'essere incompiuto.

Voglio darmi all'anonimato dei desideri , lasciarmi sommergere dalla mia propria abbondanza.
A forza di snaturare ciò che pareva ancora naturale, la storia della merce tocca il punto dove bisogna deperire con essa, o ricreare una natura, una umanità totali. Sotto l'inversione dove il morto mangia il vivo, il soprassalto dell'autenticità abbozza una società dove il piacere va da sé.
A ogni momento, il mio io si scopre intimamente mescolato ai residui di ciò che l'ha represso e un dialogo appassionato incomincia a sciogliere il nodo per liberare questo impulso sessuale globale, questo soffio vivificante che niente dovrebbe soffocare. Il mio godimento implica Così la fine del lavoro, della costrizione, dello -scambio, dell’intellettualità, del senso di colpa, della volontà di potenza.
Non vedo alcuna giustificazione –se non economica- alla sofferenza alla separazione, agli imperativi, ai rimproveri, al potere. Nella mia lotta per l'autonomia, c’e’ la lotta dei proletari contro la loro proletarizzazione crescente, la lotta degli individui contro la dittatura onnipresente della merce. L'irruzione della vita ha aperto la breccia nella vostra civilizzazione di morte.
Voi incriminate la mia soggettività? Come vi pare, ma fate attenzione che la vostra non vi batta un giorno o l'altro sulla spalla e vi ricordi la vita che state penosamente perdendo. La mia ingenuità ha sul vostro candore un vantaggio incomparabile, essa trabocca di piacevoli mostri, mentre voi chiamate chiaroveggenza l'ingenuità che vi abitua a vivere da millenni nel disprezzo del godimento.
La rinascita degli individui io l'anticipo in me con una gioia che è come l'emanazione della primavera dalla terra . E anche se fossi solo a sentirla, mi resterebbe la piacevole follia d'aver voluto vincere la morte liberando i desideri dal suo ascendente. « 0 mia volontà, tregua di ogni miseria, che sei in me e sopra di me, volontà di vivere che chiamo destino, preservami dalla vittoria e dalle sue disfatte, riservami per insaziabili godimenti».
Prosegue qui (in versione .pdf)
Dal libro Il libro dei piaceri
di Raoul Vaneigem
Arcana editrice, 1980

Lettura de "L'Unico e la sua Proprietà" di Max Stirner di Enrico Voccia

Premessa
L'eterodossia del pensiero stirneriano Tra i testi "classici" della tradizione del pensiero filosofico contemporaneo, L'unico e la sua proprietà di Max Stirner viene a trovarsi in una condizione paradossale. La sua valenza di testo politico gli dona da sempre lettura e diffusione notevole negli ambiti più disparati, mentre l'insegnamento e la ricerca accademica - attenti talvolta a vere e proprie cineserie e/o ad autori che l'argomentazione filosofica non sanno nemmeno dove sia di casa - si può dire che lo ignori pressoché completamente. Eppure i manuali di Storia della Filosofia citano, unanimemente, questo testo come un momento fondamentale della riflessione sui fondamenti dell'agire sociale portata avanti dalla cosiddetta "sinistra hegeliana". Il motivo di questa esclusione/ rimozione è in realtà facilmente comprensibile, purché sì tenga conto della preminenza pressoché assoluta, nella cultura contemporanea, della critica romantica del moderno. La società moderna, secondo questa diffusissima visione, sarebbe caratterizzata da valori puramente materiali quali la produzione, la tecnica, il profitto, la merce, ecc. tale situazione precipiterebbe l'uomo in una condizione di alienazione, di perdita della sua essenza umana, di incapacità a riconoscere il vero senso della vita. Questa visione della modernità nasce per l'appunto nel movimento romantico, ma si è rapidamente diffusa ed ha trovato una assai vasta rispondenza nella cultura contemporanea.
Tenendo presente una tale condizione, è comprensibile come qualunque voce che si ponga fuori dal coro sia guardata con sospetto e sottoposta a meccanismi di esclusione/ rimozione. Max Stirner, in effetti, sostiene la tesi esattamente contraria a quella appena esposta: a suo giudizio, lungi dall'essere dominata da valori puramente materiali, la società contemporanea è totalmente ideologizzata e sacralizzata. Secondo l'autore de L'unico e la sua proprietà, infatti, noi non ci troviamo immersi nel regno dei valori materiali bensì in quello degli " spiriti", dei "fantasmi", delle "idee fisse". E, se ciò non bastasse, la tesi stirneriana ha come corollario diretto l'idea che i critici romantici del moderno non sono nemmeno dei critici ma, al contrario, gli ideologi (nel senso marxiano del termine) maggiormente autentici della società contemporanea. Su cosa si fonda questa tesi decisamente eterodossa rispetto alla corrente dominante del pensiero contemporaneo? Stirner sostiene esplicitamente che ciò che è accaduto con il passaggio dall'età medievale/ moderna a quella contemporanea non è stato un processo di desacralizzazione, di pura e semplice messa fuori gioco della potenza politica della mentalità religiosa, ma semplicemente un mutamento dell'oggetto sacralizzato. Utilizzando a piene mani l'armamentario concettuale della critica hegeliana al "dover essere " Stirner conclude che l' " Uomo" ha scalzato Dio dall'altare dei meccanismi ideologici.
Che cos'è l'ideale se non l'io di cui si va in cerca e che resta sempre lontano? Si cerca se stessi, perciò non si ha ancora se stessi, si aspira a ciò che si deve essere, perciò non si è. Si vive nello struggimento: per secoli si è vissuti in esso, si è vissuti nella speranza. ( ... ) Forse che questo riguarda solo la cosiddetta gente pia? No, riguarda tutti quelli che appartengono a quest'epoca storica che sta tramontando, anche quelli di cui si dice che sono l'uomini di vita". Anche per loro c'è sempre una Domenica, attesa dopo i giorni di lavoro, e oltre all'agitazione mondana c'è il sogno di un mondo migliore, di una felicità universale per l'uomo, insomma un ideale. ( ... ) Ovunque struggimento, speranza, e nient'altro. Chiamatelo pure, per quel che mi riguarda, romanticismo.
Nel caso di queste persone religiose che sperano nella vita eterna e considerano la vita terrena come una semplice preparazione per l'altra, salta subito agli occhi la subordinazione della loro esistenza terrena, da loro posta completamente al servizio della speranza in quella celeste, ma ci si sbaglierebbe di grosso se si attribuisse ai più illuminati meno spirito di sacrificio. Forse che, per presentarne subito il concetto liberale, la vita "umana" e "veramente umana" non è la vera vita? Forse che ognuno ha già in partenza questa vita veramente umana o non deve piuttosto innalzarsi a tanto con grandi fatiche? Ce l'ha già come sua vita presente o non deve piuttosto raggiungerla come sua vita futura, di cui parteciperà solo quando "non sarà più macchiato da nessuna forma di egoismo"? Secondo questa concezione la vita è fatta solo per acquistarsi la vita, e si vive solo per rendere viva in noi l'essenza dell'uomo, si vive per amore di questa essenza. Si ha la propria vita solo per acquistarsi, per mezzo di essa, la vita "vera", depurata da ogni forma di egoismo. Per questo si ha paura di fare della propria vita l'uso che più ci piacerebbe: di essa si deve fare il "giusto uso" e nessun altro. Insomma, si ha una missione nella vita, un compito per la vita, si ha da realizzare e attuare qualcosa con la propria vita, un qualcosa per il quale la nostra vita è solo un mezzo e uno strumento, un qualcosa che vale più di questa vita, un qualcosa a cui si deve tutta la vita. Si ha un Dio che pretende vittime vive. Soltanto la brutalità del sacrificio umano è andata perduta col tempo; il sacrificio umano stesso è rimasto inalterato noi "poveri peccatori" ci portiamo al macello in sacrificio per l' " essenza dell'uomo", per 1' " idea dell'umanità " per 1` " umanitarismo" e come altrimenti si chiamano idoli e dei..
Il linguaggio e l' egoismo come fondamenti dell'agire normativo "Linguaggio" ed "egoismo" sono i concetti chiave utilizzati da Stirner nella sua analisi del fondamento dell'agire sociale umano regolato da norme. L'unico e la sua proprietà svolge incessantemente l'idea che dietro qualunque comportamento sociale, ivi compresi quelli apparentemente "altruistici" e/o l'ascetici, vi siano interessi assolutamente egoistici. La posizione stirneriana coniuga e porta alle estreme conseguenze le tradizioni filosofiche dell'intellettualismo etico e dell'utilitarismo: ogni essere umano regola la sua azione in base a ciò che, in un momento dato, gli appare essere il comportamento migliore in vista della soddisfazione dei suoi interessi egoistici. Quando Stirner parla di interessi egoistici non vuole intendere che il singolo potrebbe operare una scelta tra interessi "privati" ed interessi "pubblici"; la sua tesi anzi è proprio che gli "interessi pubblici ", il "bene comune", ecc. siano oggettivamente inesistenti, pure funzioni linguistico/ ideologiche con le quali si portano avanti i propri interessi privati depotenziando le altrui volontà. Ma se l'egoismo è il fondamento ultimo di ogni azione umana, come spiegare il fatto che la grande maggioranza degli uomini acconsente a formazioni politiche, modi di produzione, idee religiose e morali sfacciatamente contrari ai loro interessi? La risposta di Stirner è che l'attuale sistema di dominio deve necessariamente fondarsi sul linguaggio. Infatti gli esseri umani, per portare avanti i loro interessi, devono cooperare con i loro simili; e lo strumento indispensabile per tale cooperazione è per l'appunto il linguaggio. I meccanismi del dominio dell'uomo sull'uomo passeranno perciò anch'essi per lo strumento principe defia comunicazione intersoggettiva: la "parola". Se si tratta d'intendersi e comunicare con gli altri, posso ovviamente far uso solo dei mezzi uniani, di cui dispongo perché sono anche uomo, oltre ad essere me stesso. ( ... ) Il linguaggio o 1a parola" ci tiranneggiano nel modo più brutale perché ci sollevano contro un intero esercito di ideefisse.
Il meccanismo ideologico delle idee fisse Prima di andare avanti occorre sgomberare preliminarmente il campo da un possibile equivoco. La riflessione stirneriana non è rivolta a mettere in evidenza il fatto banale che alcuni uomini possano ingannare coscientemente altri uomini attraverso l'utilizzo di una particolare dialettica; il meccanismo linguistico /ideologico che viene analizzato è invece del tutto inconscio, al punto tale che i personaggi che ricevono evidenti vantaggi dal suo funzionamento e coloro che altrettanto evidentemente ne vengono svantaggiati possono essere accomunati dalla " fede" in esso. Torquemada e la sua vittima possono entrambi credere in perfetta buona fede nella validità del cristianesimo; anzi il potere del torturatore si basa proprio sul fatto che esiste tale condivisione. In quest'ottica il potere ottenuto di fatto da una parte della società contro la maggior parte degli uomini è un risultato del processo, non un suo scopo coscientemente perseguito . Questo meccanismo, vero e proprio fondamento della "societa gerarchica", ha molto a che fare per Stirner con la logica della follia - tant'è vero che il termine che egli utilizza per definirlo è fissazione.
Che cos'è che chiamiamo "idea fissa" ? Un'idea che ha soggiogato l'uomo. Se voi riconoscete che una tale idea fissa è sintomo di pazzia, rinchiudete chi ne è schiavo in un manicomio. E forse che la verità di fede di cui non si può dubitare, la maestà, per esempio, del popolo alla quale non si può attentare (chi lo fa è reo di lesa maestà), la virtù contro la quale il censore non può permettere una sola parola, affinché la moralità si mantenga pura, ecc., non sono tutte Idee fisse"? ( ... ) Un povero matto del manicomio è convinto,nel suo delirio, di essere Dio Padre o l'Imperatore del Giappone o lo Spirito Santo, ecc.; un bravo borghese è convinto di essere chiamato ad essere un buon cristiano, un protestante credente, un cittadino fedele, un uomo virtuoso, ecc. - bene nell'un caso come nell'altro si tratta esattamente della stessa cosa: di un "idea fissa". Chi non ha mai tentato e osato non essere un buon cristiano, un protestante credente, un uomo virtuoso, ecc, è schiavo e succube della fede, della virtuosità, ecc. Gli scolastici filosofavano solo all'interno dei dogmi della Chiesa; papa Benedetto XIV scrisse opere ponderose restando sempre all'interno delle superstizioni papistiche, senza mai metterle in dubbio; allo stesso modo ci sono scrittori che riempiono grossi in-folio sullo Stato, senza mai mettere in questione la stessa idea fissa dello Stato e i nostri giornali rigurgitano di politica, perché sono fissati sull'idea che l'uomo sia fatto per diventare uno zoon politikón; e così i sudditi vegetano nella sudditanza, i virtuosi nella virtù, i liberali nell"'umanità", ecc., senza provar mai sulle loro idee fisse il coltello tagliente della critica. E cosi quei pensieri sono ostinati e irremovibili come le manie di un pazzo: chi li mette in dubbio, compie atto sacrilego. Ecco cos'è veramente sacro: l'idea fissa.
Il meccanismo che Stirner descrive è fondato sostanzialmente su di un meccanismo di depotenziamento della volontà politica delle classi subalterne. Il testo stirneriano inizia difatti proprio con la constatazione che le classi superiori - "coloro per la cui causa noi dobbiamo lavorare, sacrificarci ed entusiasmarci, posseggono la capacità politica di far passare i propri interessi privati per interessi pubblici. Le religioni di tutti i tempi, ivi compresa l'attuale "religione dell'Uomo", sono interpretate da Stirner come puri meccanismi ideologici. Le classi superiori non affermano affatto di voler portare avanti i propri interessi privati e di subordinare a questi ogni interesse altrui, e in primo luogo gli interessi dei senza potere: esse affermano al contrario di voler portare avanti obiettivi per quest'ultimi psicologicamente e/o socialmente desiderabili, almeno all'apparenza. Questi obiettivi vengono ampiamente sbandierati ed utilizzati come collante sociale, meccanismo ideologico unificante dei desideri di tutti gli strati della società: il servo e il padrone hanno tutti uguale interesse a salvarsi l'anima, a captare la benevolenza della divinità sulla società nel suo complesso, a mostrarsi potenti verso i nemici esterni, a combattere la disoccupazione... Le classi dominanti si fanno allora benignamente carico del compito di portare a compimento tali obiettivi, "sacrificandosi" per essi. Per un puro caso, però, le strategie volte a conseguire tali obiettivi "collettivi" coincidono stranamente con gli interessi privati dei potenti. Come è possibile che le classi subalterne caschino da millenni in un simile inganno, apparentemente facile da smascherare? Questo accade perché gli interessi privati delle classi subalterne vengono accusati di egoismo,ovvero di voler sabotare in maniera bieca il "bene pubblico". Le classi subalterne vengono educate ad aver vergogna di sé, dei propri desideri,della loro stessa vita; qualunque loro azione non subordinata agli interessi dei ceti dominanti è bollata come "asociale", " dominata da volgari interessi privati" e additata al pubblico ludibrio. La richiesta di un piccolo aumento salariale da parte dei lavoratori viene negata come contraria agli interessi della società, dello sviluppo dell'economia, della creazione di nuova occupazione, ecc., mentre l'arricchimento dei grandi proprietari e dei burocrati statali viene fatta apparire come un mezzo per conseguire il "bene pubblico". Accade così che le stesse classi subalterne educate partecipino alla repressione di quelle sue componenti che vogliono, coscientemente o perché giunte alla disperazione, dar libero sfogo al loro egoismo; esse per prime credono infatti che il perseguimento degli "Interessi pubblici" comporti la loro subalternità. " Le cose vanno male perché finora abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità ": un tale modo di pensare,implicitamente autodenigratorio, ha necessariamente come corollario che gli interessi della iiazione possono venire realizzati solo attraverso l'arricchimento di chi è già ricco ed il contemporaneo impoverimento ulteriore di chi povero già è. I poveri, i senza potere, vengono così intrappolati nel meccanismo inutile ed anzi controproducente della denuncia morale: invece di perseguire coerentemente e senza remore i propri interessi privati, si limitano di solito ad accusare i potenti di "cattiveria", di "immoralità", insomma di egoismo. Ma condannando la prassi dell'egoismo essi non fanno che introiettare sempre di più quel meccanismo che li ha depotenziati politicamente, portandoli a rinnegare i propri interessi, a farli vergognare di se stessi e a credere che - se non l'azione del singolo potente - gli interessi privati delle classi dominanti coincidano proprio con l'interesse generale della società".
Secondo la borghesia ognuno è possessore o "proprietario". Come mai, allora, i più non hanno praticamente niente? Dipende dal fatto che i più sono contenti già solo del fatto di essere possessori, anche se quel che posseggono non sono che i loro stracci.
Poiché nella società si manifestano i peggiori disagi, soprattutto gli oppressi, cioè gli appartenenti alle classi sociali inferiori, pensano di trovare la colpa nella società stessa e si pongono il compito di scoprire la società giusta. Solo il vecchio fenomeno per cui si cerca la colpa in tutti gli altri prima che in se stessi; la si cerca quindi nello Stato, nell'egoismo dei ricchi, ecc. i quali invece debbono la loro esistenza proprio alla nostra colpa".
Voi ripetete sempre meccanicamente a voi stessi la domanda che avete sentito porre: "A che cosa sono chiamato? Che cosa devo fare?". Basta che vi poniate queste domande e vi fate dire e ordinare ciò che dovete fare, vi farete prescrivere la vostra vocazione
Questo, secondo Stirner, è il meccanismo ideologico con il quale le classi subalterne vengono depotenziate políticamente e instradate in un vicolo cieco. Credendo di perseguire il loro interesse, esse in realtà inseguono solo dei fantasmi senza esistenza oggettiva - la volontà di Dio, l'essenza dell'Uomo, il bene pubblico, la giustizia, l'altruismo, ecc. - e così facendo consentono paradossalmente all'interesse delle classi dominanti: ' il bene comune può esultare mentre io devo 'chinare la testa', lo Stato può prosperare nel modo più splendido mentre io faccio la farne.
Il consenso come fondmaento dello stato Il potere politico, lo Stato, è quindi nell'analisi di Stirner l'esatto contrario di unafunzione pubblica. Vale la pena di specificare che la gestione privatistica delle funzioni di governo appare essere un momento strutturale del potere politico e non un dato storico contingente - una sorta di usurpazione in vista dei loro scopi privati che alcuni uomini fanno di quelle che dovrebbero essere delle istituzioni dedite alla cura degli interessi collettivi. Quest'ultimo ragionamento Stirner lo bolla come un cedimento alla retorica del "dover essere": gli uomini di Stato dovrebbero accantonare i loro interessi particolari, e dovrebbero dedicarsi agli interessi pubblici. Sta di fatto che ogni singolo ha interessi diversi da quelli di ciascun altro, che gli " nteressi generali della società" e cose simili si sono dimostrati essere nientr'altro che meccanismi ideologici per portare avanti al meglio determinati interessi privati. Dal momento quindi che esistono solo ed esclusivamente interessi privati, lo Stato nell'analisi stirneriana non è altro che il privato più "forte" - così forte proprio perché riesce a convincere il resto della società che il perseguimento dei suoi scopi privati coincide proprio con il "bene pubblico".
Tutti i tipi di governo partono dal principio che tutto il diritto e tutto il potere appartengono al popolo preso nella sua collettività. Nessuno di essi, infatti, tralascia di richiamarsi alla collettività e il despota agisce e comanda In nome del popolo" esattamente come il presidente o qualsiasi aristocrazia.
Il fondamento della potenza dello Stato è dunque il paradossale consenso alla sua politica - in primo luogo alla "necessità" della sua esistenza -che questi riesce ad estorcere all'intera società, soprattutto alle classi inferiori che ne subiscono gli effetti negativi.
L'operaio starebbe davvero molto meglio se il padrone, con le sue leggi, le sue istituzioni, ecc. - tutte cose poi che è l'operaio a pagare - non esistesse affatto. Ma con tutto ciò il povero diavolo arna lo stesso il suo padrone.
Come nella cinquecentesca analisi di La Boétie' anche per Stirner quindi il vero fondamento della tirannia - che per lui coincide tout court con lo Stato - non sono i pur importanti apparati militari e burocratici, bensì il paradossale consenso che questi riesce ad estorcere ai dominati. Senza l'educazione dei sudditi a quella paradossale forma di consenso che egli chiama fissazione, "credenza nei fantasmi", "idee fisse", il potere politico resterebbe in piedi ben poco.
L'egoismo come fondamento dell'uguaglianza reale e del rifiuto del consenso Se le classi dominanti fanno leva sull'egoismo altrui - cercano infatti di convincere le classi dominate che i loro interessi coincidono con quelli del potere - è segno evidente per Stirner che questa è l'unica molla dell'agire umano. Unica possibile strategia di rifiuto del consenso dovrà perciò passare a sua volta proprio per " l'egoismo", per i " biechi interessi materiali del singolo". In effetti, la tesi di Stirner è che l'egoismo è distruttivo se e solo se una parte della società è depotenziata in questo suo egoismo, a tutto vantaggio della parte restante. Un egoismo generalizzato, invece, eguaglierebbe di fatto le condizioni umane, impedendo la formazione della gerarchia sociale. "Ciò che Stirner vuol dire è evidente: la scelta che si pone non è tra arbitrio personale da un lato e ordine legale/morale dall'altro. La scelta effettiva è fra un arbitrio personale nudo e quindi non pericoloso, ed un arbitrio personale che, grazie alle armi della morale e della legge, può assumere una legittimazione, una potenza e una impunità, e può quindi esaltare a dismisura la sua componente distruttiva, che sarebbe rimasta, altrimenti, di dimensioni innocue". La generalizzazione dell'egoismo porterebbe quindi di fatto ad una società egualitaria, anche se Stirner non ama questo termine. Il riconoscimento dell'unicità dei singoli, delle loro aspirazioni, dei loro interessi e desideri, impedirebbe infatti la formazione delle gerarchie sociali. Se non hanno fantasmi da adorare e/o da temere, idoli cui sacrificarsi, gli individui venderanno a caro prezzo la loro merce, e nessuno sarà perciò più in grado di sfruttare il lavoro altrui. ll "proletario" Stirner suggerisce perciò alla classe sociale di cui sociologicamente fa parte di valorizzare al massimo le proprie capacità lavorative, di non svenderle a nessun costo nei confronti delle classi dominanti, impedendo così il perpetuarsi del meccanismo gerarchico.
Noi non vogliamo regali da voi, ma non vogliamo nemmeno regalarvi niente. Per secoli vi abbiamo fatto l'elemosina per generosa stupidità, abbiamo dato l'obolo di noi poveri a voi ricchi, vi abbiamo dato ciò che non vi appartiene, è giunto il momento che apriate la vostra borsa, perché d'ora in poi la nostra merce comincerà a salire vertiginosamente di prezzo.
Una tale azione presuppone il rifiuto del consenso non alla singola politica statale e/o padronale ma all'idea di potere politico in quanto tale, in altre parole la fuga dai meccanismi ideologici su cui si fondano i legami "religiosi" della società gerarchica. Va tenuto presente che per Stirner la borghesia non è la classe detentrice del potere statale, bensì una classe vassalla nei confronti del potere dello Stato. Lo Stato è per Stirner l'unico vero proprietario che concede in feudo ad alcuni dei suoi servi più fidati alcune parti della sua proprietà, sapendo di poterle avere indietro in ogni momento attraverso il diritto di esproprio (per questo egli vede nei progetti di Weitling e Marx di statalizzazione dei mezzi di produzione una semplice variante del capitalismo). La classe "proprietaria", in cambio del suo feudo, svolge funzioni di controllo sulla classe lavoratrice e attira su di sé gli odi di questa, che spesso vedono nello Stato un possibile difensore contro le angherie dei suoi feudatari. La concessione in feudo della proprietà dei mezzi di produzione permette così allo Stato di diffondere nella società una sorta di versione moderna della favola del Re Buono e dei Ministri Cattivi. Rifiutare il consenso alla società gerarchica significa dunque, per Stirner, rompere il meccanismo ideologico di autodenigrazione che porta il singolo a rinnegarsi, a credersi un essere abietto, le cui inclinazioni e i cui desideri devono necessariamente passare in secondo piano davanti a Dio, alla Patria, alla Nazione, al Bene Pubblico, all'Interesse Generale, alla Società, alla Comunità, alla Chiesa, all'Uomo, alla Verità, alla Santità e via all'infinito. Per questo Stirner afferma che noi viviamo ancora pienamente immersi in una cultura mitico /religiosa: dal suo punto di vista è assolutamente indifferente inginocchiarsi davanti alla volontà di Dio o all'essenza dell'Uomo, alla Fede o alla 'Ubertà". Avremo sempre a che fare con meccanismi ideologici che depotenzieranno alcuni individui a tutto favore di altri, creando servi e padroni - la società gerarchica. Negare il consenso a tali meccanismi ideologici appare a Stirner come l'unica strada dotata di senso per la costruzione di una società in cui la follia non sia la norma dominante, al punto tale da far apparire degni di alta considerazione ed offerti a modelli di comportamento i comportamenti più assurdi ed autolesionisti.
Come non esaltare la coscienza di Socrate, che gli fa rifiutare il consiglio di evadere dal carcere? Ma non capite che Socrate è pazzo a concedere agli ateniesi il diritto di condannarlo? (...) Il fatto di non fuggire fu appunto la sua debolezza, il suo delirio, per cui credeva di avere ancora qualcosa in comune con gli ateniesi, ossia l'idea di essere un membro (e solo un membro) di quel popolo. (...) Avrebbe dovuto restare sulle sue posizioni e, dato che non aveva pronunciato contro se stesso una sentenza di morte, avrebbe fatto bene a disprezzare la sentenza degli ateniesi e a fuggire. Ma egli, invece, si sottomise, riconoscendo nel popolo il suo giudice,immaginando di essere piccola cosa di fronte alla maestà del popolo. Il fatto di sottomettersi, come a un "diritto", al potere violento al quale in realtà soggiaceva, fu tradimento di se stesso: fu virtù.
Stirner vede dunque nella Società senza Stato - in quella che lui chiama l' " Associazione degli Egoisti", il compimento definitivo del processo storico di demitizzazione avviato al tempo dell'antica Grecia. Gli esseri umani hanno imparato col tempo che gli esseri supremi delle religioni non erano altro che fantasmi; ora è auspicabile che ogni singolo giunga finalmente a comprendere di non avere un fine nella vita cui tendere, diverso dai suoi desideri e dalle sue aspirazioni. L'uomo singolo non deve diventare un "vero Uomo" più di quanto un cane deve diventare un "vero Cane". t questo l'in- segnamento più interessante che la lettura di un testo come L'unico e la stia proprietà può dare: il gioco dell'autodenigrazione, del sentirsi impotenti ed umili di fronte ad entità esterne, qualunque esse siano, di rinnegare la propria individualità, il proprio specifico senso della vita a favore di sensi a noi estranei è un gioco senza senso; che, infine, dietro l'apparente razionalità del consenso all'ideologia "umanistica", alla società capitalistico /liberale moderna, può nascondersi una lucida - ma non per questo meno distruttiva - follia.
Appendice
Chiarimenti innescati dal dibattito seminariale a) Stirner e la Tradizione Filosofica. Stirner ha subito, nel corso degli anni, una lettura sostanzialmente legata al cosiddetto "irrazionalismo" o, per utilizzare una terminologia maggiormente in voga, al "pensiero debole": in particolare, il nome cui è stato più frequentemente legato è stato quello di Nietzsche. Mi sembra invece evidente che una tale lettura sia inconsistente e, in larga misura, dovuta ad un sostanziale fraintendimento del suo pensiero. Alcuni chiarimenti preliminari: il termine "Filosofia", come molti altri, è usato in svariate accezioni, sia "colte" sia "popolaresche". Lo si usa talvolta per indicare la complessiva "visione del mondo" di una persona, in altre parole l'insieme delle sue idee sul mondo, sulla conoscenza, sulla politica, sulla vita sociale, sulla religione... Altre volte, invece, lo si usa per indicare una qual certa abilità nel sapersi muovere tra le cose del mondo, nelle difficoltà della vita quotidiana, nell'adattarsi alle circostanze senza però lasciarsene sopraffare. Altre volte, invece, si usa il termine per indicare una visione del mondo argomentata razionalmente e con estremo rigore concettuale. Si usa il termine in questo senso - sostanzialmente come sinonimo di "scienza" soprattutto in area linguistica anglosassone. Il termine è usato talvolta anche per indicare un atteggiamento di pensiero "aperto" rivolto continuamente all'indagine, "critico". Altre volte, infine, si usa il termine 'Filosofia" per indicare una particolare scienza, nata in Grecia più di duemilacinquecento anni fa in contrapposizione alle forme del pensiero mitico, che cerca di trovare e analizzare il fondamento logico di verità di qualsiasi conoscenza (scientifica, morale, religiosa, politica, ecc.). Si usa allora il termine con questo significato quando si fa riferimento - come abbiamo già accennato - ad un sapere scientifico che indaga soprattutto - anche se non esclusivamente - le verità "assolute", in quanto esse, essendo valide sempre e comunque, indipendentemente dal particolare linguaggio usato o dal contesto cui si applicano, possono essere usate come fondamento logico, criterio ultimo di giudizio di validità, per tutte le altre verità. Ovviamente qui non si tratta di stabilire un uso "giusto" o "sbagliato" del termine; gli usi di un termine sono usi, e basta. Una comunità di parlanti può utilizzare quel suono o quel segno grafico attribuendogli il significato che gli pare, purché sia cosciente di ciò e non cada negli equivoci. Quello che, però, può essere evidenziato in maniera oggettiva è che l'ultimo significato del termine - Scienza del Fondamento - è qualcosa di assolutamente peculiare nella cultura umana: mentre tutti gli altri significati lo portano verso la confluenza con altri aspetti culturali ("visione del mondo", "scienza", "saggezza", "atteggiamento critico"),l'aspetto di riflessionefondazionale è invece unico ed in confondibile. Stirner, mi pare evidente, rientra a pieno in questa concezione,"forte",fondazionalistica, della Filosofia: il suo argomentare si basa proprio sul non dare per scontato nulla, nel richiedere ad ogni concetto di andare ben oltre l'accettazione del senso comune, e da questo punto di vista i suoi debiti con Hegel sono enormi21. Lungi dal riconoscersi in un generico e banale appello ad un nichilismo gnoseologico e/o ontologico, la sua causa è fondata "sul Nulla" dell'inconsistenza delle argomentazioni ideologiche, delle "dee fisse" che sostanziano la società gerarchica, che egli sottopone ad un'analisi stringente e "nullificante".
b) Il Linguaggio come Fondamento della Società. Di là da tutto ciò, è poi lo stesso contenuto della sua opera maggiore, come abbiamo visto, ad essere tipicamente "fondazionalistico". Stimer, come abbiamo visto, svaluta sia il livello politico, sia il livello economico, sia il livello culturale, come strutture portanti dell'essere sociale: tutte queste strutture, infatti, non potrebbero essere quelle che sono indipendentemente dal linguaggio. Il linguaggio, dunque, non è per nulla un semplice strumento, più o meno accidentale, bensì è il vero fondamento dell'agire sociale umano, ciò che ne caratterizza l'essenza, e per comprendere i paradossi della società - il consenso sostanziale dei sudditi alla loro penosa condizione, in primo luogo - è nelle sue caratteristiche, nelle sue potenzialità che egli indaga. Il linguaggio gli appare dotato di caratteristiche distruttive - le "idee fisse" - ma anche foriero di potenzialità positive enormi. In effetti, egli ritiene che la società gerarchica sia una società assurda, delirante, non in quanto fondata sul linguaggio tout court, bensì in quanto fondata su di un uso folle e iniproprio del linguaggio stesso. La sua idea di una Associazione degli Egoisti è legata, a doppio filo, al concetto che un uso diretto e proprio del linguaggio - della comunicazione intersoggettiva - sia lo strumento per la creazione di una società radicalmente egualitaria. Per abbattere le "fissazioni", per guarire l'umanità dalla follia, Stirner invita ad un uso ampio e senza remore della razionalità, del principio logico di causalità e di quello di non contraddizione. L'uso "folle" del linguaggio - e la conseguente follia sociale che ne consegue - sono per lui proprio il risultato della rinuncia, implicita od esplicita, dei principi logici alla base del linguaggio corretto. Il "sacro" è per lui proprio questo, e vale la pena di richiamare, stavolta a questo riguardo, una precedente citazione di un passo della sua opera maggiore:
Che cos'è che chiamiamo " idea fissa"? Un'idea che ha soggiogato l'uomo. Se voi riconoscete che una tale idea fissa è sintomo di pazzia, rinchiudete chi ne è schiavo in un manicomio. E forse che la verità di fede di cui non si può dubitare, la maestà, per esempio, del popolo alla quale non si può attentare (chi lo fa è reo di lesa maestà), la virtù contro la quale il censore non può permettere una sola parola, affinché la moralità si mantenga pura, ecc., non sono tutte " dee fisse"? (...) Un povero matto del manicomio è convinto, nel suo delirio, di essere Dio Padre o l'Imperatore del Giappone o lo Spirito Santo, ecc.; un bravo borghese è convinto di essere chiamato ad essere un buon cristiano, un protestante credente, un cittadino fedele, un uomo virtuoso, ecc. - bene nell'un caso come nell'altro si tratta esattamente della stessa cosa: di un "idea fissa". Chi non ha mai tentato e osato non essere un buon cristiano, un protestante credente, un uomo virtuoso, ecc. è schiavo e succubo della fede, della virtuosità, ecc. Gli scolastici filosofavano solo all'interno dei dogmi della Chiesa; papa Benedetto XIV scrisse opere ponderose restando sempre all'interno delle superstizioni papìstiche, senza mai metterle in dubbio; allo stesso modo ci sono scrittori che riempiono grossi ín-folio sullo Stato, senza mai mettere in questione la stessa idea fissa dello Stato e i nostri giornali rigurgitano di politica, perché sono fissati sull'idea che l'uomo sia fatto per diventare uno zóon politikón; e così i sudditi vegetano nella sudditanza, i virtuosi nella virtù, i liberali nell "'umanità", ecc., senza provar mai sulle loro idee fisse il coltello tagliente della critica. E cosi quei pensieri sono ostinati e irremovibili come le manie di un pazzo: chi li mette in dubbio, compie atto sacrilego. Ecco cos'è veramente sacro: l'ídeafissa
Lo stato di follia causato dall'uso improprio del linguaggio è per lui fondamentale: se i meccanismi ideologici del dominio possono agire con dilaniante potenza, creando i sommi deliri e dolori della società gerarchica, è proprio perché essi agiscono in una collettività che è stata educata a svalutare gli strumenti sommi del linguaggio, i suoi principi logici di base. La potenza dell'analisi stirneriana è evidente se solo si pone attenzione al fatto che, oggi, l'Occidente industrializzato, nonostante gli indubbi progressi in tutti i campi del sapere oggettivo, ha adottato, come "principio dell'opinione pubblica% non solo un generico umanesimo retorico, ma addirittura posizioni irrazionalistiche, emarginando di fatto, nell'ambito della disciplina filosofica, qualunque riflessione coerentemente razionale. La spiegazione da dare a questo dato di fatto non può essere altro che la necessità del controllo ideologico delle classi subalterne. I meccanismi ideologici del dominio hanno bisogno, in altri termini, di persone educate ad accettare per vere conclusioni contraddittorie con le premesse, a non notare la contraddizione tra mezzi e fini, ecc. Nel passato, questo ruolo "educativo" era svolto esclusivamente dalla religione. La pratica religiosa era quasi sempre, per la stragrande maggioranza delle persone tenute fuori di qualunque processo di scolarizzazione, la fonte principale di acculturazione. Una fonte, questa, che combatteva strenuamente, persino nelle classi dominanti, la diffusione di una cultura scientifica e filosofica seria, portatrice in altri termini di una prassi coerente di ricerca della verità oggettiva. La Rivoluzione Industriale, però, ha imposto una sempre maggiore scolarizzazione delle classi subalterne, accrescendo le potenzialità di un loro accesso ad una forma mentis razionale e, di conseguenza, di un loro sganciamento dal controllo ideologico del dominio. L'apologia contemporanea delle varie forme di irrazionalismo, allora, può essere letta come una sorta di "meccanismo di assicurazione" da parte delle classi dominanti nei confronti del rischio di essere costrette ad "esporre" le classi dominate ai meccanismi logici della razionalità. Le masse vengono " istruite", in altre parole introdotte ad una serie di contenuti e di strutture argomentative valide nell'ottica di un sapere oggettivo forte. Al tempo stesso, però, questi stessi contenuti e strutture argomentative vengono, ad un livello metalinguistico e con una enorme pressione sociale, fortemente negati e svaltitati in quanto tali. L'obiettivo cardine di un tale processo è stato l'infiltrarsi nella stessa cultura del movimento operaio e socialista di tensioni irrazionalistiche, allo scopo di depotenziarne le poten~ zialità sovversive dello stato di cose presente. La cultura contemporanea è perciò rinchiusa in un tipico "doppio legame", resa schizofrenica, immersa in un contesto dove, alla fine dei conti, l'unica "verità" che conta - e che resta sostanzialmente indiscussa, nonostante le sue palesi contraddizioni - è quella del potere.
c) La Questione dell'Uguaglianza. Ho già ricordato che Stirner usa raramente il termine "uguaglianza", eppure non v'è filosofo che prima di lui abbia così radicalmente sostenuto la tesi della perfetta equipollenza di tutti gli esseri umani - detto per inciso, questo è uno dei punti che più rendono difficile il suo accostamento a Nietzsche, che sostiene con altrettanta radicalità la tesi opposta. Il paradosso è facile da spiegare: sinora si è cercato, a giudizio di Stirner, di comparare l'uomo all'Uomo, alla sua idea o, meglio, ad un suo ideale. Uguaglianza, allora, diveniva un compito: occorreva adeguarsi ad un modello, divenire un "vero uomo" e, anche se si presupponeva l'uguaglianza radicale di tutti gli uomini, in realtà si finiva sempre in un nuovo modello cui, di là dalle belle intenzioni dei suoi autori, alcuni uomini corrispondevano, altri meno... Per Stirner, invece, noi siamo già uguali ora perché siamo sin da ora tutti diversi. Nulla dell'umano - dell'homo sapiens sapiens - ci è alieno, ma ognuno di noi ha declinato la propria umanità in modo unico, irripetibile ed imparagonabile. Di conseguenza, nessuno di noi è "più o meno" uomo di altri, proprio perché un modello della declinazione dell'umano, cui paragonare i singoli individui effettivamente esistenti, non esiste. Di conseguenza, la società gerarchica non ha fondamento se non sul Nulla. Unica società che possa vantare credito nei confronti della ragione o, meglio, di un uso proprio del pensiero, è solo quella egualitaria. Non a caso perciò, più che alla cosiddetta corrente " Individualista" - ben più influenzata dal superominismo nietzscheano e, dunque, da un dover essere modellizzante dell'Uomo - Engels vede l'eredità stirneriana nella corrente comunista dell'anarchismo, l'unica, in effetti, teoria politica che ha provato a sostanziare concretamente l'idea di un' " Associazione degli Egoisti": un Unione senza Valore, radicalmente egualitaria, non basata su di un modello dell'umano da raggiungere, ma solo sulla reciproca e pianificata cooperazione per il raggiungimento del maggior benessere possibile del singolo, che è sempre libero di scindersi da essa e di riorganizzarsi al meglio con chi gli pare, dove le decisioni valgono solo per chi le accetta. Stirner, d'altronde, per quanto la cosa possa sembrare paradossale, è ben poco "individualista" e notevolmente "realista" nel delineare il rapporto tra gli "unici" e le loro associazioni egualitarie: lo è certamente, ed ecco un nuovo apparente paradosso, ben più del suo antagonista Karl Marx. E nota,infatti, la riflessione del pensatore socialista tedesco volta al rifiuto della elaborazione utopistica. Nel suo rifiuto di "prefigurare il futuro" egli però si costringe, ogni qualvolta è portato a descrivere in qualche modo l'obiettivo del movimento socialista, ad una notevole genericità o, talvolta, ad una sorta di pseudo-utopismo del tutto irrazionale, privo in pratica di quell'aspetto di progettazione sociale razionale che caratterizza il pensiero utopico. Quest'aspetto è stato messo in rilievo soprattutto da Domenico Losurdo:
Nella società comunista, in cui nessuno ha una sfera di attività esclusiva ma ciascuno può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo rende possibile fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico" [MEW, vol. III, p. 331). Se accogliamo tale definizione, allora il comunismo presuppone uno sviluppo così prodigioso delle forze produttive da cancellare i problemi e i conflitti relativi alla distribuzione della ricchezza sociale e quindi relativi al lavoro, e alla misurazione e al controllo del lavoro, necessario alla sua produzione; anzi, così configurato, il comunismo sembra presupporre la scomparsa, oltre che dello Stato, della divisione del lavoro, e in realtà dello stesso lavoro, il dileguare, in ultima analisi, di ogni forma di potere e di obbligazione.
La tesi generale di Losurdo è che Marx sarebbe condizinato da posizioni "anarchiche : egli dimentica però che queste posizioni marxiane nascono proprio come critica all'anarchismo. Le pagine citate, che s'inseriscono nella tematica della "abolizione del lavoro ", sono nate, infatti, proprio all'interno della Polemica antistirneriana. Stirner, infatti, riteneva impossibile tale abolizione e poneva invece ad obiettivo della unione degli Egoisti", dell'azione dei proletari, la liberazione del lavoro" dal capitalismo e dallo Stato: " Lo Stato si fonda sulla schiavitù del lavoro; se il lavoro diventerà libero, lo Stato sarà perduto. Anche la prefigurazione della scomparsa di ogni forma di potere e di obbligazione fa parte della polemica antianarchica di Marx: Stirner, infatti, affermava che: " è ben vero che una società a cui aderisco mi toglie alcune libertà, ma in compenso me ne concede altre; non c'è niente da dire nemmeno sul fatto che io stesso mi privo di questa o di quel la libertà ( ... ). Per quel che riguarda la libertà, non vi è differenza essenziale tra lo Stato e l'unione. Neppure la seconda può nascere o conservarsi senza che la libertà venga limitata ( ... ). La religione e in particolare il cristianesimo, hanno tormentato i uomo con la pretesa di realizzare ciò che è contro la natura e contro il buon senso; l'autentica conseguenza di questa esaltazione religiosa, di questa tensione esagerata è nel fatto che la libertà stessa, la libertà assoluta, venne alla fine innalzata ad ideale ( ... ). Stirner, insomma, una volta analizzato con l'attenzione che merita, fa piazza pulita di un'infinità di preconcetti - anche quelli nati all'interno di coloro che pretendono di ripeterne il pensiero. Un motivo di più per leggerlo con occhi naiv.
Questioni di Fondazione della Società
Lettura de "L'Unico e la sua Proprietà" di Max Stirner
di Enrico Voccia
tratto da "Antosofia-Potere 1"
edizione Mimesis Eterotopie, 2003