Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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domenica, ottobre 26, 2014

Toni Negri Arte e multitudo



Pubblichiamo qui un estratto dal libro di Toni Negri, Arte e multitudo (a cura di Nicolas Martino, DeriveApprodi 2014) in libreria nei prossimi giorni. Che cos’è l’arte nella postmodernità? Cosa ne è del bello nel passaggio dal moderno al postmoderno? Cos’è il sublime quando la sussunzione reale del lavoro al capitale e l’astrazione completa del mondo si sono compiute? Sono le domande a cui risponde Toni Negri con dieci lettere ad altrettanti amici (tra i quali Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Nanni Balestrini). Quello che presentiamo qui è un estratto dalla Lettera ad Agamben.

Caro Giorgio,
Postmoderno è dunque il mercato. Noi prendiamo il moderno per quello che è – un destino di deiezione – e il postmoderno come il suo limite astratto e forte, l’unico dei mondi oggi possibile. Non ti sarò mai abbastanza grato per quello che mi hai ricordato: la solida realtà di questo mondo vuoto, questo rincorrersi di forme che, per essere fantasmi, non sono meno reali. Mondo di fantasmi, ma vero.
La differenza fra reazionari e rivoluzionari consiste in questo: che i primi negano, i secondi affermano la massiccia ontologica vuotezza del mondo. I primi dunque sono votati alla retorica, i secondi all’ontologia. I primi tacciono, i secondi soffrono del vuoto. I primi riducono la scena del mondo a un orpello estetico, i secondi l’apprendono praticamente. Solo i rivoluzionari possono dunque praticare la critica del mondo, perché hanno un rapporto vero con l’essere. Perché riconoscono che questo mondo inumano pure l’abbiamo fatto noi. Che la sua mancanza di senso è nostra mancanza di senso e la sua vuotezza nostro vuoto. Solo questo? Il limite non è mai solo un limite, è anche un ostacolo. Il limite determina un’angoscia terribile, una feroce paura, ma è in questo, nella radicalita dell’angoscia, che il limite si sente come possibilità di superamento. Come ostacolo da sormontare, come deriva da bloccare. Superamento dialettico, esaltazione eroica della ragione? No davvero, come possiamo pensare che la ragione astratta ci permetta di lasciare alle spalle il turbamento, la paura, l’incubo e di ricominciare a provare sentimenti gioiosi e sensi aperti? No, non è la ragione che toglie il disagio ma l’immaginazione: una specie di ragione concreta e sottile che attraversa il vuoto e la paura, l’infinita serie matematica del funzionamento del mercato, per determinare un evento di rottura. Quella modernità che abbiamo costruito ci annichilisce per la sua enorme quantità di vuoto, per la spaventosa sequenza di eventi insensati, eppure quotidiani e continui, nella quale si presenta. Ma questa dura consapevolezza nello stesso tempo libera in noi la potenza dell’immaginazione. Per andare dove? Nessuno lo sa.
Eccoci ancora a riguardare quest’essere. Fin qui lo abbiamo considerato come una grande liquida massa. Dobbiamo considerarlo anche come una massa solida, enorme e solida, un grande marmo sul quale cerchiamo di leggere, attraverso le venature, come una figura scolpita possa nascerne – o come un arido deserto, le cui sole differenze sono lunghe siepi di pietrose dune. Ci muoviamo su queste pianure cercando impossibili rotture. Potrebbe essere linguaggio questa montagna di marmo, questa pianura di sabbia: linguaggio che solo di tanto in tanto mostra una scintilla di senso. Variazioni impreviste, irraggiungibili. Quest’orizzonte della più straordinaria aridità ontologica lo chiamiamo Wittgenstein, così come quel mare dell’essere il cui squallore non impediva il sublime, bene, quel mare voglio chiamarlo Heidegger. Ma perché cerchiamo, o fingiamo di cercare, qua e là, bricolage dispersivo, – quando conosciamo benissimo tutto questo? Quando la nostra vita intera ne è stata prima un’attesa, poi una testimonianza? Wittgenstein e Heidegger sono il postmoderno, la base non del nostro pensiero ma della nostra sensibilità, non della filosofia ma dell’esistere – e del nostro poetare.
Una nuova esperienza della potenza è dunque quella che noi qui veniamo facendo, una potenza tanto solida e forte quanto quella dell’essere che ci schiacciava. No, la liberazione non sarà piu un Blitz-Zeit, un’insurrezione del senso – non perciò essa sarà tolta – essa avrà bensì quella potenza che l’ontologia dal profondo produce. Un evento. Eccoci dunque di nuovo su questo bordo potente. La potenza che è azione discrimina il mondo. Essa dunque non nomina solamente ma divide l’essere. In questa differenza fra il dar nome e il discriminare l’essere sta il passaggio dalla teoria all’etica, ed è anche il superamento del postmoderno. […] Il passaggio all’etico, e cioe alla potenza di costruire un mondo sensato, questa è la fuoruscita dal postmoderno. Oltrepassare il sublime sarà dunque uscire dalla macchina del mercato, romperne la circolarità insignificante, rimettere i piedi sulla materialità del vero. Una nuova verità, certo, così come un nuovo mondo, quello che sta nell’astrazione liberata.
Eccoci dunque dove anche tu, Giorgio carissimo, cerchi sempre di arrivare. Ma senza riuscirvi, perché anche tu, come Heidegger, vedi il senso dell’essere volto verso il vuoto. Non è in verità quello che possiamo concludere dalla nostra analisi, non è vero che vuoto sia il concetto dell’essere. E bensì la potenza del suo concetto. La sua immaginazione – perché l’essere immagina, crea. Vi è un limite, ma su di esso l’essere si tende in potenza. Non soffre la vertigine del vuoto ma quella dell’avanti, del futuro, di quello che ancora non è. Se inseguiamo l’esperienza della grande pittura astratta, lo vediamo bene, corteggiando quegli infiniti fili che legano forme essenziali e progetti innovativi dell’immaginazione, eccoci davanti a una macchina che – tra tensioni, cadute, superamenti, come se un disegno potesse prendere corpo in uno spazio metafisico – costruisce un nuovo mondo potente. La pittura astratta e parabola del sempre nuovo rincorrersi dell’essere, del vuoto e della potenza. Non possiamo fermarci a mezza strada. Il vuoto non è limite, è un passaggio. Heidegger non e l’ontologia, e ancora fenomenologia. Il mercato è superato dalla potenza, il postmoderno e superato dall’etico: l’arte è insieme potenza ed etica. Eccoci finalmente a un punto positivo.
L’arte è creazione e riproduzione del singolare assoluto. Esattamente come l’atto etico. E in seguito vedremo perciò come l’atto artistico, esattamente come l’atto etico, sia definibile quale moltitudine. La singolarità dell’opera d’arte non è medietà né intercambiabilità, e bensì riproducibilità dell’assoluto. La pittura come la musica come la poesia mostrano la loro universalità in quanto fruibilità da parte di una moltitudine di individui e di esperienze singolari. Il mercato e la proprietà privata stravolgono quest’essenza dell’arte. Riappropriarsi privatamente dell’arte, rendere l’opera d’arte un prezzo, è distruggere l’arte. Queste chiusure non sono accettabili: l’arte è formalmente tanto aperta quanto lo è una democrazia vera e radicale. La riproducibilità dell’opera d’arte non è volgare, ma costituisce un’esperienza etica – rottura del compatto insieme della nullità esistenziale del mercato. L’arte è l’antimercato in quanto pone la moltitudine delle singolarità contro l’unicità ridotta a prezzo. La critica rivoluzionaria dell’economia politica del mercato costruisce un terreno di fruibilità dell’arte per la moltitudine delle singolarità.
Non so, caro Giorgio, se tu sia d’accordo con la mia concretissima utopia. Sono convinto che l’umiliazione quotidiana della riduzione dell’atto artistico (di creazione o di fruizione) al mercato possa essere evitata. E per questo che non accetto che la forma dell’essere possa correre verso il vuoto. In linguaggio più esplicito, questo potrebbe voler dire eternità del mercato. No, si deve andare al di là del vuoto, attraversarlo, riassumerlo nel meccanismo di costruzione della potenza. Dunamis che viene dal nulla.
dicembre 1988

domenica, ottobre 19, 2014

Non sono razionale



E' assurdo ma non sono razionale
leggo ed ascolto di continuo cose che non capisco
digerisco fino al parossismo
elucubrazioni all'insegna del valore del denaro
della famiglia delle virtù del Capitale, dello Stato e del Partito
rispondo con critica del valore lavoro
e sogno l'empiriocriticismo di Bogdanov il postfordismo e le vacche magre
ma non posso vivere in questo modo
datemi un appiglio
per non affogare perchè so appena nuotare
ho contro nelle mie psicosi uno Paese intero
ho perso l'onore ma cosa può essere un capro espiatorio
se non un delatore fuggiasco, il provocatore dei provocatori
che non hanno pena del ragazzo dal sangue impuro

e credo nei miraggi e nelle nuvole elettrificate
in oggetti volanti volanti non identificati
nel buon popolo degli elfi e degli gnomi
nella fratellanza del Vero Comunismo
nella saggezza dell'innocenza
perduta nel crimine
degli anarchici stirneriani
issati a simbolo di un intero mondo
per il loro peccato originale
di non appartenere al popolo di Cristo
ma discendenti di demoni implacabili
gli uomini più antichi
ormai animali estinti da leggi speciali

E' assurdo ma non sono razionale
mi estraneo dal mondo
ascoltando musica fuori dal confine
dalla linea di condotta
dove nemmeno un nichilista
può sognare la sua agape

Dopo il trattamento dei servizi segreti
dopo le siringate di eroina
dopo la vendetta e l'oblio
dopo la scelta del fratello ebreo
la fine di un icona
un marsigliese

mercoledì, ottobre 15, 2014

Passaporto per Magonia



«Dominando la legge del valore, il capitale domina gli uomini; più precisamente, a mano a mano che si incarna e si antropomorfizza, esso succhia agli uomini tutte le forze e la loro materialità. Essi vengono in tal modo ridotti a puri spiriti che ricevono, adesso, la propria sostanza dal capitale il quale, in quanto comunità materiale, è divenuto anche natura»
(Camatte, «A proposito del capitale», in appendice a II capitolo VI del Capitale e l’opera economica di Karl Marx 


Sono indeciso sul da farsi
non so dove andare
che autobus prendere
in sogno prendo il volo delle nove per Parigi
per un aperitivo
mi dico
solo un bicchierino e poi torno soddisfatto
ma io non posso più bere
me l'ha detto il dottore
me l'hanno detto in tanti
anche il mio corpo

coi psicofarmaci non si scherzazero tolleranza
c'è una strana aria in giro
e non è solo la crisi del nuvo eone
che ha perso la fede, ma da
quando il capitale si è fatto uomo
non c'è più scampo
tranne l'esodo
bisogna proprio abbandore questo mondo
come gli eretici, come le streghe nel medioevo in combutta col demonio,
e ora gli alieni in procinto di creare una nuova specie (sic)
sperando in Magonia
Sono cresciuto dimenticando Magonia
o meglio dire hanno cancellato, gli uomini in nero,
 dalla mia mente l'altro mondo, l'altra dimensione
e non è stato un piacere
sono caduto dentro un brodo di giuggiole
un bad trip
chi l'ha fatto sa di cosa parlo
Non c'è alternativa non c'è una possibilità per noi che Magonia
l'uomo non ci permetterà di vivere in pace
solo tra noi solo nelle nostre comunità
se ancora esistono? le nostre isole di Tortuga

dedicato ai miei fratelli e le mie sorelle a Magonia 


 Se accendo il televisore
venditori ambulanti comprano e vendono tutto
anche la vita delle persone
voglio ridere per ridere
se spengo la mia mente
e mi avvicino al sonno gioisco
una droga naturale mi pervade il corpo
voglio ridere per ridere
se affogo nell'alcol
e divento un straccio d'uomo
alla terza birra
voglio ridere per ridere

domenica, ottobre 12, 2014

Oltre il determinismo: una storicità sovversiva di Antonio Negri

Oltre il determinismo: una storicità sovversiva

di Antonio Negri

Recensione di P. Dardot e C. Laval, Marx. Prenom: Karl, Edizioni Gallimard, Parigi, 2012
Quali sono i nodi più rilevanti di questo poderoso libro? È necessario chiederselo perché (essendo appunto troppo voluminoso – 800 pagine – da poter esser letto di un solo colpo) solo apprestando dei dispositivi di lettura, esso può essere scorso utilmente e permettere approssimazioni per una lettura centrata sui temi fondamentali e che venga, per così dire, sempre più precisandosi.
Il primo grande nodo consiste nell’espressione della necessità di rompere con la tradizione sempre parziale e settaria (quando non fosse introvabile) degli studi francesi su Marx. Qui invece Marx viene preso per intero, il filosofo l’economista il politico, ed è solo questa lettura, storicamente e filologicamente impiantata, senza “cesure” storiche né teoriche, che può permetterci di riprendere solidamente in mano l’interezza del discorso marxiano e di avanzare ipotesi nuove che si confrontino con quelle marxiane, attorno ad un progetto di emancipazione per l’attualità. Questa distanza critica dalla continuità della tradizione francese (ed in particolare dall’althusserismo), questo sentirsi in un’altra epoca dal XIX e XX secolo, non impedisce che gli autori si impegnino attorno a talune difficoltà ereditate dal passato. Solo per fare un paio di esempi, Dardot-Laval puntano criticamente molto in alto quando, ad esempio, in una polemica che sembra solo terminologica ma non lo è, traducono il concetto marxiano di Mehrwert, con plus-de-value. Non si tratta semplicemente di un’elegante reminiscenza lacaniana ma di una forte polemica, non solo contro un uso consolidato ma (ci sembra) anche contro le concezioni quasi metafisiche del plusvalore che tanto hanno afflitto i comunismi religiosi (cosa che non può lasciare indifferente un “operaista” e rende senz’altro felice chi nell’oggi, nell’epoca del capitalismo cognitivo, considera il Mehrwert senz’altro come una “eccedenza”). Non meno decisiva sembra la presa di distanza, solo per fare un altro esempio, dalla discussione di un tema, indubbiamente centrale per i marxisti, qui preso nel rinnovamento della discussione fra Séve e Fischbach, sulla maggiore o minore rilevanza delle determinazioni oggettive o di quelle soggettive nella costruzione del progetto marxiano di comunismo.
È evidente che su questa critica si dovrà ritornare più tardi al termine nella nostra riflessione.
Il secondo nodo sta nell’esporre positivamente la novità del compito di una lettura di Marx oggi. Deve essere una lettura che si confronta con problemi contemporanei e ne propone soluzioni adeguate. Il percorso marxiano va confrontato al fallimento del “socialismo reale”, la dialettica del materialismo storico va messa in tensione con le metodologie genealogiche contemporanee, ed infine la critica economica e le prospettive politiche del marxismo vanno fatte reagire non con modelli astratti ma con le nuove pratiche politiche del proletariato. La definizione del campo di ricerca, attorno alle nuove condizioni dell’emancipazione, esibisce qui una forza critica esuberante, talora distruttiva di vecchi miti, ma costruttiva d’ipotesi feconde. La tensione che qui si apre è molto forte poiché lo stacco metodologico è radicale. Dardot e Laval dichiarano che bisogna leggere Marx per rendere conto di “quello che nel suo pensiero si è rifiutato d’essere pensato” – intendendo con ciò il rifiuto, l’esclusione dal materialismo storico di ogni tendenza evoluzionista, di ogni dialettica chiusa, di ogni teleologia determinista. Perciò si riparte qui da “La Sacra Famiglia”: “La storia non fa nulla, essa non ha dei fini perché essa non è null’altro che l’attività degli uomini che perseguono i loro fini.” Dunque “Il Capitale” va sottoposto ad una critica serrata laddove esso espone una legge che conduce il capitale alla sua propria distruzione. L’affermazione che il capitale è l’ostacolo definitivo allo sviluppo capitalistico e che ciò automaticamente apre al comunismo, negazione della negazione, le determinazioni dall’accumulazione che conducono alla soppressione del capitale – bene, queste sono tutte posizioni che il pensiero marxiano ha subìto piuttosto che elaborato. L’evoluzionismo radicale dell’epoca, una sorta di darwinismo che investe e naturalizza la dialettica hegeliana, le metafore continuamente riprese dall’ostetricia, laddove il capitale genera, concepisce, partorisce il comunismo, si rivelano dannosi per comprendere lo sviluppo reale del capitalismo. Per Dardot e Laval “Il Capitale” non è un trattato di economia politica: è un trattato politico che costruisce una prospettiva di emancipazione; come tale esso va considerato. Il suo metodo non è “trascendentale”, neppure è “induttivo” (non procede cioè per generalizzazioni successive), non è neppure “ipotetico deduttivo” (non trae conseguenze da astrazioni empiriche) e neppure si tratta infine della variante di una pragmatica di “approssimazioni successive”.  “Il Capitale” è piuttosto lo studio di un tessuto storico e va analizzato a partire da un punto di vista genealogico che assume la rivoluzione proletaria (e cioè, contemporaneamente, la storia, il mercato, la critica) dal basso dei movimenti di massa, proletari ed operai. La potenza del metodo foucaultiano va qui assolutamente rivendicata.
Non bisogna credere che questo programma sia facile da sviluppare. Si tratta, di impostare una lettura di Marx che comprenda un progetto di una rivoluzione contro “das Kapital” (come ebbe – felicemente – a scrivere Gramsci nel 1917). Che cosa significa questo? Significa partire da una premessa fondamentale – ma estranea ad una troppo lunga tradizione – e cioè dalla demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo costituisca una necessità iscritta nel suo stesso sviluppo. In questo quadro il comunismo è un’idea che si è affermata fra l’ordine necessario dello sviluppo (e della crisi) del capitalismo e, d’altra parte, l’evento di una rivoluzione altrettanto necessaria, quasi naturalisticamente predeterminata. Una volta invece rotto questo nesso e accettata l’ipotesi dell’insolubilità del rapporto fra sviluppo teorico ed effettività storica del comunismo, bisognerà lavorare a definire un nuovo terreno “antropologico” che dia base e spazio all’ipotesi comunista. Questa impostazione non è nuova in Dardot-Laval. Già in “Sauver Marx?” (scritto con El Mouhoub Mouhoud, dal sottotitolo “Epire, multitude, travail immateriel” La Dècouverte, Paris, 2007) si erano posti questo interrogativo andando oltre la demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo fosse iscritta nel suo stesso sviluppo. Ma rivendicando il fatto che la rivoluzione non è necessaria, che la dialettica del processo storico si presenta irrisolta, per non cadere in una deriva nihilista è necessario reintrodurre una intuizione strategica che eviti la retorica o l’utopia. Il fondamento antropologico è probabilmente quello che permette questo passaggio, poiché esso scava processi di soggettivazione della lotta di classe. Già nel passato: Edward P. Thompson e Jacques Rancière sono stati, da questo punto di vista, dei maestri. Ma di nuovo, non più nel passato ma nel presente, è soprattutto riferendosi a Foucault che il “farsi” della classe operaia attraverso processi di soggettivazione può essere seguito con efficacia. Inutile sottolineare quanto nella tradizione socialista (e soprattutto in quella francese) questa dinamica antropologica (meglio, il “farsi”  e la trasformazione antropologica della classe operaia attraverso le lotte) sia stata dimenticata. Di contro, sottolineano Dardot-Laval, è solo un’interpretazione “espressiva” della storia dei conflitti di classe che può aprire ad una proiezione “strategica” del comunismo. La Comune di Parigi è un enigma se la si vuole assumere dal punto di vista storico; nulla di quanto ne sappiamo può darci la garanzia teorica di una ideale forma di governo; essa è piuttosto una matrice di soggettività, una potenza dell’immaginazione collettiva che investe l’a-venire.
Vi sono delle pagine bellissime su questa ipotesi, nel libro di Dardot e Laval,  nelle quali si tenta di recuperare, meglio, di riproporre, il tema dell’emancipazione, rompendo con ogni ipotesi riduttiva (naturalistica, comunitaria, organica, ecc.) e agganciando invece un concetto di “produzione del comune” – di cui Rousseau ha (Dardot – Laval ritengono) forse approssimato meglio di ogni altro la figura – e che va ora sviluppato attraverso nuove esperienze di lotta, tanto riformiste quanto sovversive. Qualche riflessione in proposito. È chiaro che si può perfettamente assumere Rousseau e fargli sostenere questa figura del “comune”: è un Rousseau che denaturalizza la natura, che impone al contratto una dimensione di solidarietà irriducibile all’alienazione individuale (che pur del contratto è all’origine!), che mostra l’emancipazione non come una “riduzione” all’uno ma come “produzione” plurima, etica. Ma questo resta pur sempre un aspetto del rousseauismo, legittimo eppure parziale, ed accompagnato ben più massicciamente da un altro Rousseau – giacobino, hobbesiano, piuttosto che spinozista. Il socialismo (soprattutto quello francese) si è sempre mosso mantenendo questa ambiguità. Quale dei due Rousseau Marx ha assunto? Come Dardot e Laval, sono convinto che si trattasse del Rousseau solidale – riservandosi tuttavia, Marx, di far assumere anche a Rousseau quel fondamento oggettivo del comunismo che gli era proprio. Ragioniamoci su un momento. Sul terreno marxiano, risultava più semplice chiamare “comune” quel centro di imputazione che in Rousseau la realizzazione del contratto sociale definisce come “repubblica” o “sovranità popolare”. Ma questo ci rinvia di nuovo alla concezione moderna dello Stato piuttosto che dentro la vicenda utopica del comunismo, nell’attualità “postmoderna”. E allora, mantenere il riferimento all’ambiguo Rousseau ed attribuirne la faccia “buona” a Marx, non ci aiuta a semplificare il problema. Non è meglio assumere che esistano condizioni “comuni” (nel caso: i movimenti e le trasformazioni della forza-lavoro che divengono sempre più comuni, in quanto linguistiche, cognitive, affettive, ecc.) a determinare così il campo oggettivo della solidarietà, dell’emancipazione e del comune? Certo, non è detto che questi movimenti e trasformazioni determinino necessariamente un’evoluzione verso il comunismo – la distanza fra il sociale e il politico è in ogni caso massima – ma le probabilità aumentano, nuove condizioni si presentano, l’evento è possibile. Insomma, se il comune non è una mediazione oggettiva (che resterebbe comunque astratta), lo sviluppo storico della forza-lavoro e le trasformazioni tecniche, politiche ed antropologiche della sua composizione (sospinte dalle lotte contro lo sfruttamento) gliene propone maggiori potenzialità. La mediazione fra storia e decisione si approssima. Senza di nuovo ricorrere, come troppo spesso hanno fatto inutilmente gli interpreti francesi, al buon Rousseau.
L’affermazione fondamentale di Dardot e Laval sull’irrisolta dialettica del processo storico, comprende un’ampia serie di complementi metodologici. Analizzando il rapporto Hegel/Marx, si mette qui in discussione la dialettica hegeliana (nelle forme in cui Marx la recepisce – e qui la critica  non avrebbe potuto andare più a fondo) ed in particolare la crisi che la dialettica recepita da Marx conosce ogni qual volta essa definisca nessi lineari o addirittura tautologici fra presupposti e risultati del processo storico, destituendone radicalmente ogni possibilità di originalità e/o di innovazione. La relazione fra “esser-la” e “divenire” è sempre ripetitiva, ipostatizza il Dasein, l’effettività, determina analogie sistemiche sempre corrotte, insomma non riesce a darci la realtà profonda, la chiave dello sviluppo, del conflitto, dell’emancipazione. Questo nesso, lasciato da Hegel in eredità a Marx, inficia pesantemente la sua opera. Abbiamo già accennato al fatto che Dardot e Laval studiano il meglio dell’attuale critica hegelo-marxista (il new turn of dialectics di Chr. Arthur e di M. Postone ed in generale quel che avviene a Francoforte e nei suoi paraggi) per attaccare quel nesso dialettico, non solo dunque nella sua “esposizione lineare” ma anche in quella “sistematica”. Essi evidentemente lo fanno per liberare da ogni riduzionismo logico o sistematico quelle categorie hegelo-marxiste che falsificano la figura genealogica di un possibile procedere marxiano. Infatti, se ci teniamo alla logica dialettica, se confondiamo l’astrazione delle sue categorie e le determinazioni dello sviluppo storico reale, noi non usciamo da quel circolo magico nel quale “il presupposto del capitale (per esempio il valore) è nello stesso tempo il risultato del capitalismo” (ed altrettanto vale per il denaro). La dialettica del presupposto destituisce radicalmente ogni proposta speculativa, ogni verità originaria ed ogni azione originale di chi consiste e si muove nella realtà.
Tutto ci dice che Marx abbiamo sofferto questo limite della teoria come uno vero e proprio shock – che forse (aggiungono Dardot-Laval) l’avrebbe costretto a sospendere la scrittura del terzo volume de Il Capitale e a rinunciare alla stesura di quel capitolo sul concetto di “classe” che doveva rintrodurre la soggettività nel processo di emancipazione rivoluzionaria. Forse… È certo che negli anni 1870-80 Marx comincia a studiare (accanto a mille altri argomenti) l’etnologia – e si appassiona (Dardot-Laval giustamente raccomandano di non sopravvalutare l’episodio) allo studio delle forme di comunità estranee allo sviluppo capitalista. Sono state l’esperienza della Comune o quella delle lotte in Russia (che allora entrano nel giro socialista europeo) che gli hanno fatto sentire l’insufficienza delle piste definite nel Capitale e l’urgenza di mettere i piedi per terra, non attraverso la dialettica ma attraverso l’antropologia? Forse… È certo che ogni qual volta ci si scontri con le modificazioni del modo di produzione o con le trasformazioni della composizione di classe, coloro che insieme sono comunisti e marxisti sentono la necessità di rompere quell’“incantesimo del metodo” di cui lo stesso Marx è autore e prigioniero. Mi si permetta qui di ricordare come, nello stesso modo Dardot e Laval sentono quest’urgenza critica, la sentirono gli operaisti italiani fra il ’60 e il ’70 – concludendo, i primi come i secondi, alla costruzione di un nuovo approccio antropologico alla realtà della lotta di classe, ad un nuovo punto di vista dal basso che rinnovando la critica antagonista costruiva materialmente le armi dell’emancipazione. Dire quanto l’insegnamento di Foucault sia stato importante, in vari momenti di questo cammino critico, per considerare la prospettiva, è evidentemente un pleonasmo.
“Io non sono marxista”: non è dunque una boutade di Marx contro i suoi fedeli e i suoi adulatori ma il riconoscimento che l’opera andava conclusa e che la sua conclusione doveva andare oltre l’opera stessa. Marx vive e soffre l’insolubilità della connessione fra “sviluppo teorico” ed “effettività storica” del comunismo. Che cosa potremo aggiungere noi che abbiamo vissuto e sofferto il fallimento del “socialismo reale” e delle politiche dei partiti comunisti come esperienza centrale nella nostra militanza? Nulla – noi possiamo solo consentire, proseguendo tuttavia nell’approfondimento dello studio e della pratica della lotta di classe. Non curiamoci dunque dei filologi marxisti che accuseranno Dardot e Laval di avere spaccato in due Il Capitale. Il problema semmai, al contrario, è quello di chiedersi se non abbiano ancora abbastanza separato la classe dal capitale, se non abbiano, nell’attualità, sufficientemente “spezzato l’uno in due”: ma questo è un altro discorso e diventa legittimo farlo solo dentro le lotte, una volta che il cammino indicato da Dardot e Laval sia stato percorso e digerito. Quel che è sicuro è che questa introduzione critica e metodica risulta pregiudizialmente necessaria alla questione: possiamo uscire dal capitalismo? Per ora, se siamo riusciti a disarticolare la logica del capitale e la logica delle lotte, la risposta definitiva ce la daranno coloro che vogliono procedere sulla via dell’emancipazione collettiva, nella costruzione dunque del comunismo. Queste riposte saranno allora intese a rafforzare, non a chiudere dentro un nesso riformista (e dialettico), la tensione fra Stato-capitale (strutture ormai indistinguibili) e la forza-lavoro globalmente sfruttata, fra quel capitale-mondo (che i processi di globalizzazione e di sussunzione reale hanno costruito) ed una forza di resistenza che si proponga a quell’altezza. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente se non si apprende a mettere in moto quei processi di soggettivazione, descritti da Foucault, “per mezzo dei quali gli ‘attori’ che sono impegnati nei rapporti conflittuali trasformano se stessi a misura dello sviluppo della lotta, nel medesimo tempo in cui essi trasformano la situazione e creano così le condizioni di una loro eventuale vittoria. Il legame fra la natura “strategica” dei rapporti sociali e la formazione delle soggettività di classe è precisamente uno degli aspetti più originali e più interessanti del pensiero di Marx.” Questo riconoscimento onora la profonda originalità dell’opera di Dardot e Laval.
Resta un problema da discutere – lo accennavamo all’inizio – quello cioè del rapporto fra logica politica, storica, dell’immanenza strategica delle lotte e logica di sistema in Marx. Ricomporre queste due logiche è, secondo Dardot e Laval, impossibile. Ma, essi aggiungono, è da questa impossibilità che nasce oggi il nostro compito politico di comunisti, non più costretti al determinismo bensì aperti all’attualizzazione del comunismo. Ma, si può obbiettare, questo dualismo non è eccessivo? Come si può negare che su molti punti (per esempio, la narrativa del passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, oppure quella della trasformazione della sussunzione da formale a reale, ecc.) le due logiche si incrocino? Dardot-Laval non lo negano ma ritengono questo incrocio privo di risonanze strutturali nello sviluppo del discorso marxiano. Questa conclusione ci sembra tuttavia povera. Se Marx è – come Dardot e Laval sostengono – “una macchina” di pensiero e di azione, anche il rapporto fra quelle due linee della critica dell’economica politica lo deve essere; e quando si incrociano, quelle due linee, non è semplicemente per scavalcarsi ma piuttosto per determinare nuovi punti di partenza, nuove aperture su nuove accumulazioni di eventi storici e di trasformazioni tecnologiche. La storia del tempo presente – in maniera non determinista ma semplicemente perché è essa stessa “storicità” – si nutre del tempo passato: della storia delle lotte come dell’accumularsi delle trasformazioni tecnologiche. La “composizione tecnica” del proletariato, quella della classe operaia, quella della moltitudine, riposano su temporalità diverse, quindi su una storia di lotte dentro diverse composizioni tecniche del comando capitalista – il cui accumularsi, così come avviene per gli eventi storico-politici, determina differenti processi di soggettivazione, diverse condensazioni antropologiche, nuove “composizioni politiche”. Non c’è determinismo nel tracciare queste relazioni ma semplicemente il riconoscimento della potenza della storicità: quod factum infectum fieri nequit. Il proletariato, oggi, scopre la storia nel rapporto con la nuova “composizione organica” del capitale che ha sussunto società e vita: è qui dentro che si ribella e reinventa il comunismo. Siamo d’accordo con Dardot-Laval che qui dentro c’è di nuovo Marx – non ci sono né Proudhon né i marxismi di una vulgata corrotta e traditrice. Ed è qui che il lavoro politico comune può procedere.

FONTE: http://www.uninomade.org/

martedì, ottobre 07, 2014

Robert Kurz Il Medio Oriente e la sindrome dell’antisemitismo


(Cap. IV del libro LA GUERRA PER L’ORDINE MONDIALE, Robert Kurz, Gennaio 2003)



Nel processo di barbarie e di autodistruzione del sistema mondiale dominante esiste un punto focale in cui si aggrovigliano in modo speciale la globalizzazione distruttiva capitalista, la storia e la costituzione ideologica del mondo moderno nei suoi limiti sistemici storici – è il Medio Oriente, con Israele e il cosiddetto conflitto della Palestina al centro. A prima vista sembra trattarsi del campo più importante dell’imperialismo occidentale del petrolio. Il che è certo, mettendo in conto il grezzo interesse della cultura della combustione capitalista. Ma questo conflitto non è circoscritto affatto a questo aspetto; al contrario, esso include anche un’altra dimensione essenziale, completamente differente, che è la logica dell’antisemitismo quale ideologia centrale della crisi capitalista, e la relativa costituzione dello Stato di Israele, Stato che per questa ragione non è uno Stato come gli altri.

La religione della combustione capitalista e i regimi del petrolio

Tuttavia, il quadro sarebbe incompleto e fuorviante se ignorassimo totalmente lo sfondo degli interessi dell’imperialismo occidentale del petrolio. Come il Medio Oriente, per motivi naturali e geografici dovuti alla localizzazione dei giacimenti, è e continua a essere la fonte principale di combustibile per la macchina mondiale capitalista, è qui che si deve concentrare l’intervento dell’"imperialista globale ideale" quale polizia mondiale. Questo è un aspetto non trascurabile della definizione culturalista del nemico applicata all’Islam; poiché è proprio insieme alle sorgenti sacre della religione della combustione capitalista, dove il fine in sé irrazionale della “valorizzazione del valore”, per così dire, si materializza in termini energetici, che i prodotti islamici dell’imbarbarimento indotto dalla globalizzazione vengono inevitabilmente percepiti come particolarmente “inquietanti” e pericolosi (molto di più, per esempio, che in Pakistan o in Indonesia).

Come in ogni altro aspetto, l’”imperialismo globale ideale”, anche e soprattutto su questo terreno specifico della globalizzazione e d’intervento di un’auto-proclamata polizia mondiale, si avvolge in contraddizioni inestricabili che lasciano intravedere, dietro il pragmatismo della razionalità dell’obiettivo, il delirio oggettivato nel sistema e nei suoi protagonisti.

Si tratta innanzitutto del posizionamento di fronte al mondo arabo e musulmano. Un’aperta dittatura occidentale su tutta l’area principale dell’estrazione del petrolio consisterebbe in uno stato d’emergenza difficilmente sostenibile in forma duratura e avrebbe con ogni probabilità ripercussioni catastrofiche sul fragile edificio-Babele costituito dal capitale finanziario transnazionale. Perciò, la polizia mondiale dell’imperialismo globale deve prodigarsi in ogni sforzo, secondo un criterio ben  tradizionale, per attrarre alla sua sfera di influenza i regimi autoctoni della regione, allo scopo di utilizzarli come sotto-sovrani legittimi, “porta-aerei” e sceriffi militari ausiliari.

Nel calderone bollente di uno spazio in cui vivono centinaia di milioni di individui, i quali sempre più sono tutti gli anni socialmente schiacciati sotto le ruote della Juggernaut della globalizzazione capitalistica, tale strategia di sorveglianza mondiale non può finire non dando pessimi risultati. La ricchezza del petrolio, che per il suo statuto speciale nella struttura del sistema mondiale è un oggetto speculativo materializzato a un livello di prezzi soggetti a imprevedibili oscillazioni, ha un carattere estremamente propizio all’esclusione: la maggioranza oppressa degli arabi è spinta a un livello di povertà e di miseria, mentre la minuscola classe superiore della ricchezza dell’energia di crisi si presenta come un’eccezione oscena perfino nel terzo mondo. I “progetti di sviluppo” della politica economica interna dei diversi regimi petroliferi arabi, specialmente nelle regioni del Golfo che contano da tempo i maggiori livelli di estrazione di riserve, malgrado la loro immensa forza di capitale, perlopiù non vanno oltre le dichiarazioni e la cosmetica, poiché la maggior parte dei “petroldollari” è stata e viene orientata senza indugio verso i mercati finanziari transnazionali, invece di essere applicata agli investimenti reali, costituendo un segmento di “capitale fittizio” nella sovrastruttura speculativa della terza rivoluzione industriale.

Visti nel loro insieme, i regimi petroliferi del Medio Oriente, inclusi i paesi arabi e l’Iran, si suddividono in due forme differenti ancora oggi visibili, anche se in forma mitigata, e che risalgono a punti di partenza diametralmente opposti. Da un lato abbiamo i vecchi regimi della modernizzazione in ritardo, con progetti di industrializzazione falliti senza eccezione ma che un tempo furono portati avanti in tutta serietà, i quali presentano una costituzione repubblicana e un dittatoriale “culto del leader”, di cui Saddam Hussein e Gheddafi sono esempi. Dall’altro lato abbiamo monarchie formalmente arcaiche, che costituiscono regimi di terrore clerico-feudale e che sembrano uscite da una versione hollywoodiana delle “secoli bui” o dalla fantasia adolescenziale di un Karl May. Se i regimi repubblicani e dittatoriali della modernizzazione, come in Egitto, in Iraq, in Algeria etc, sono stati di regola laici, le monarchie (tutte sunnite), i sultanati, gli emirati etc, con le loro bizzarre linee di prìncipi hanno costituito fin dall’inizio “teocrazie” sintetiche, con una legittimazione islamista arci-reazionaria, la cui espressione religiosa non risale in alcun modo all’Islam premoderno, ma al contrario risulta dal suo inserimento assurdo e intrinsecamente contraddittorio nella modernità e nel mercato globale capitalisti.

Ciò è particolarmente vero per il regime del deserto saudita che nella sua forma statale attuale sorse appena nel XX° secolo. La dinastia saudita deriva dal movimento sunnita Wahhabita, fondato nel XVIII° secolo dal leader della setta Abd-al-Wahhab e alla quale aderì lo sceicco del deserto Ibn Saud. I Wahhabiti si impegnarono fin dal principio nel “ritorno” reazionario a una fantasmagorica “forma originale” dell’Islam, concepita come interpretazione rudemente letterale delle scritture e associata ad aspetti esteriori rituali estremamente rigidi, un dominio dei carnefici fortemente rigido e un’oppressione esacerbata delle donne. Nella forma della monarchia saudita, questa delirante costruzione religiosa – una versione musulmana precoce delle sette quasi politiche e religiose che oggi si espandono su scala globale come movimenti di massa nell’ambito del processo di disgregazione postmoderno – ha assunto la forma esteriore di uno Stato moderno, sostenuto dalla ricchezza del petrolio mediata dal capitalismo.

Una posizione intermedia tra i regimi della modernizzazione laici falliti e le teocrazie monarchiche e reazionarie, che dall’inizio costituirono solo forme di nicchia politico-religiose e allo stesso tempo un segmento del tutto dipendente dal capitalismo finanziario globale, è quella del regime dell’islamismo sciita in Iran, sorto dalla deposizione violenta della monarchia dello Scià (1979): qui si intersecano tentativi di modernizzazione, in forma di progetti industriali, con una teocrazia retrograda, così come un regime formalmente repubblicano con una costituzione quasi religiosa, il che ha impedito (a parte la consacrazione più religiosa che politica della figura di Khomeini) la formazione di un culto del leader come nel caso delle dittature laiche.

Ora, nel processo di crisi della globalizzazione, anche in Medio Oriente i tentativi indipendenti di modernizzazione sono finiti  completamente nella rovina e nella devastazione, tanto che in tutti i regimi della regione è iniziato un processo di inselvatichimento e riconversione. Gli ultimi dittatori-dinosauri dell’industrializzazione fallita, che allo stesso tempo ora si vedono impossibilitati a oscillare tra le superpotenze come durante la guerra fredda, diventano imprevedibili e si prestano ad avventure fantasmagoriche, come per esempio Saddam Hussein; sotto le facciate caduche delle forme dello Stato, come nel resto del mondo, si va stabilendo il dominio dei clan e delle bande armate; e l’ideologia sociale si va spostando sempre di più verso la forma della follia pseudo-religiosa militante.

In questo contesto, la religione, collocata nella base della produzione di merci capitalista e del mercato mondiale, non può tornare a costituire la riproduzione della società come nelle società agrarie premoderne, né può sostituirsi alla politica moderna; piuttosto si converte, in Medio Oriente in una forma più estrema che altrove, in un’ideologia di crisi distruttiva e assassina che, lungi dal superare l’insostenibile regime delle relazioni capitaliste della concorrenza, lo intensifica in forme e dimensioni spettrali, dando espressione alla pulsione di morte della ragione moderna nel momento del suo fallimento globale. Dal momento che il Medio Oriente costituisce per molti aspetti un fuoco di contraddizioni del capitalismo mondiale attuale, allora è lì che la manifesta pulsione di morte assume proporzioni sociali particolarmente drastiche. In questo senso tutti i paesi mussulmani del Medio Oriente, anche quelli che finora sono stati laici, scivolano verso un processo di decomposizione islamista e si caricano di idee di odio pseudo-religiose.

E’ eloquente il fatto che l’imperialismo del petrolio e securitario di tutto l’Occidente sotto l’egida degli Stati Uniti ha, fin dal principio, tentato di cimentare il suo dominio su questo spazio eminentemente strategico appoggiandosi in prima linea alle teocrazie monarchiche reazionarie. Riguardo la scelta dei sotto-rappresentanti autoctoni, non si è certo data preferenza ai regimi laici della modernizzazione, che a prima vista erano molto più prossimi allo stile di via occidentale, ma piuttosto ai regimi dell’incubo politico-clericale della monarchia saudita, dei sultanati, degli emirati e dei regni della tortura, perfettamente disfunzionali quanto alla modernizzazione; e questo è accaduto non malgrado, ma proprio perché nella loro essenza si presentano come particolarmente sinistri e, allo stesso tempo, assolutamente incapaci di un’indipendenza sia economica che militare. E non è stato in alcun modo per caso che, d’altro lato, Stati come l’Iraq, la Libia e la repubblica sciita dell’Iran sono stati dichiarati “Stati canaglia”, anche se è provato che in questi paesi, per esempio, ancora oggi la posizione della donna è relativamente migliore che nelle monarchie teocratiche reazionarie.

L’"imperialismo globale ideale" ha scelto per "potenze amiche" della regione petrolifera centrale, con una mira infallibile, i regimi della follia e del terrore più instabili e più assurdi, come fossero usciti da fiabe sanguinarie. In forma indiretta e inconfessata, si tratta di una duplice confessione: in primo luogo, del fatto che la pretesa occidentale di domino è nella sua essenza essa stessa maligna e irrazionale; e, in secondo luogo, che lo “sviluppo” e la “modernizzazione” in realtà non sono mai stati previsti per la regione più importante dell’estrazione del petrolio, contrariamente all’ideologia ufficiale. Sono stati necessari patti diabolici con i peggiori e più reazionari mostri feudali, caratterizzati dal fanatismo islamico e dal regno del terrore di una “Charia” interpretata in modo arcaico, per coprire le spalle al vile e pseudo-razionale materialismo degli interessi della cultura della combustione capitalista nella regione petrolifera centrale. Quanti più paesi l’Occidente definisce come “Stati canaglia”, più i suoi stessi amici e aiutanti nelle regioni della crisi assomigliano a cattivi hollywoodiani o a figure partorite dall’immaginazione di Hieronymus Bosch.

La nemesi di questa specie di mostri con legittimazione imperiale non si è fatta attendere. Nelle fratture e sotto l’impatto della globalizzazione, che hanno destabilizzato o spazzato via le basi economiche e sociali di tutti i regimi del Medio Oriente, i regimi clerico-feudali amici dell’Occidente costituiscono precisamente il seno da dove germinano i demoni dell’islamismo “anti-occidentale”, senza alcuna prospettiva di vita emancipatoria. A somiglianza di quel che accade in tutto il mondo e al suo interno, qui sono soprattutto le stesse creature dell’”imperialismo globale ideale” che, di fronte alla nuova qualità dei processi di decomposizione sociale, fuggono dai loro laboratori politico-strategici per errare con particolare intensità attraverso l’impero del petrolio, come “fattori perturbatori” che spargono un terrore cieco.

Non è certo un caso che proprio la versione Wahhabita dell’Islam, un credo settario particolarmente primitivo e brutale che allo stesso tempo costituisce la religione di Stato del regno saudita, è diventato il terreno da dove è nato gran parte del sottomondo del terrorismo islamico e delle sue varie correnti. I principi del terrore, guidati dal famigerato Osama bin Laden, i loro ideologi e collaboratori più vicini, sono al 90% discendenti degli stessi clan clerico-feudali a cui l’Occidente si appoggia, così adeguando alle migliori figure dell’orrore la propria pretesa di dominio imperiale. Nel decorrere della crisi economico-sociale però, che sempre più sfugge a qualsiasi controllo, i demoni della propria creazione rapidamente diventano molto più imprevedibili e pericolosi dei dinosauri dei regimi della modernizzazione fallita. L’Occidente, come le società segrete del terrore, Wahhabiti e affini, riceve non solo quel che si merita, ma anche ciò che esso stesso ha alimentato ed educato.

L’antimperialismo e l’ideologia di crisi antisemita

Dal momento che i regimi petroliferi, nel modo del tutto anacronistico clerico-feudale quanto allo stesso tempo del capitalismo finanziario, hanno sempre costituito un sostegno comunque troppo pericolante, c’è voluta una seconda e differente potenza ordinatrice nella regione petrolifera centrale; e non è un segreto che lo Stato di Israele, come prezzo amaro della sua esistenza, sebbene in grande misura non senza contraddizioni, debba esercitare questa funzione di manganello dell’”imperialismo globale ideale” occidentale puntato contro i luogotenenti insicuri dei regimi arabi, minacciati nei loro paesi dai risentimenti anti-occidentali. E’ solo per questo che Israele è stata protetta dagli Stati Uniti e ha ricevuto quantità generose di armi ad alta tecnologia e appoggio materiale massiccio dagli Stati occidentali. Di per sé, Israele da sola ancora oggi non sarebbe economicamente sostenibile, o in ogni caso non sarebbe al livello di vita attuale che, con i suoi elevati standard in stile occidentale (benché con le stesse disparità interne tra ricchi e poveri che nel frattempo si diffondono in Occidente) si distacca in maniera spiccata dai paesi arabi circostanti.

Questi fatti economici e politico-militari sono stati e continuano a essere portati come argomenti, spesso sconsideratamente, contro Israele, con sintomi di un’aggressività furiosa a partire dalle posizioni tradizionali della sinistra “antimperialista”; un’identificazione del nemico che si radica nel contesto del paradigma, da tempo fallito, della “liberazione nazionale”, quale forma di modernizzazione in ritardo nella periferia sud del mercato mondiale. Fino a oggi, in tutto il terzo mondo Israele è stato tenuto in conto come boia dell’imperialismo e come “Stato illegale” che in fondo nemmeno dovrebbe esistere. Gli interessi propri difesi da Israele in questo contesto sono percepiti come una mera pretesa sub-imperiale o quasi coloniale; il nazionalismo di Israele e il suo espansionismo attraverso i movimenti dei coloni e la conquista militare sono considerati quasi l’incarnazione del nazionalismo puro e duro, mentre la definizione etnico-religiosa dello Stato di Israele (inclusa la discriminazione ufficiale e giuridica dei cittadini non-ebrei) è considerata come l’incarnazione del peggior razzismo.

La contro-superpotenza sovietica, che aggregava i ritardatari storici della periferia del mercato mondiale, munita di un’ideologia di legittimazione “marxista”, si è sempre sforzata di forgiare un’alleanza con i regimi arabi laici della modernizzazione e ha costruito, sotto la sigla del  "sionismo", un’immagine del nemico anti-israeliano che rifletteva specularmente l’alleanza di Israele con il capitalismo e l’imperialismo occidentale  – "Israele è stata, durante la guerra fredda, un alleato militare stimato (degli Usa), le sue forze armate ne testavano i sistemi di armamento e i suoi servizi segreti erano disponibili per operazioni di cui la CIA non riusciva a venire a capo" (Birnbaum 2002). Nell’epoca della guerra fredda, gran parte della sinistra politica mondiale si adattò a questa immagine del nemico sotto la parola d’ordine dell’"antisionismo". Israele fu interamente sussunta alla costellazione del conflitto allora prevalente dei movimenti antimperialisti “rivoluzionari nazionali” del terzo mondo contro l’impero occidentale della pax americana. Il prezzo che Israele deve pagare all’imperialismo per la sua esistenza è stato convertito in argomento “antimperialista” contro la sua stessa esistenza.

Ciò ha fatto si che rimanessero offuscati un aspetto completamente differente e una dimensione molto più essenziale dello sviluppo del capitalismo mondiale, che l’antimperialismo tradizionale, con la sua prospettiva riduttiva, non ha potuto neanche  percepire. Ciò che sfuggiva a questo modo di vedere il mondo era il ruolo decisivo dell’antisemitismo nel contesto della costituzione ideologica borghese e, di conseguenza, un piano di contraddizione centrale dell’imperialismo stesso. Sebbene la sinistra avesse sempre segnalato Auschwitz e l’olocausto come un grande crimine paradigmatico dei nazisti, essa ha sempre minimizzato il ruolo dell’antisemitismo e non lo ha mai voluto comprendere come elemento essenziale o costituente del nazional-socialismo in particolare e del capitalismo in generale.

Questa mancanza specifica di concetti e di comprensione, d’altra parte, si spiega in ultima istanza con il deficit generale patito dalle sinistre marxiste, dal movimento operaio e antimperialista, tanto nel centro come nella periferia, e che consiste nel permanere circoscritte alle categorie sociali della relazione del capitale (del moderno sistema produttore di merci): ossia, proprio questa opzione per un’equiparazione, partecipazione e co-governo giuridico-politici della “classe operaia” e delle sue istituzioni come cittadini dello Stato, da un lato; e l’opzione per la cosiddetta modernizzazione in ritardo e partecipazione indipendente al mercato mondiale come soggetto economico nazionale e stato-nazionale, dall’altro. Sotto questa prospettiva, nella quale un limite e una crisi oggettive delle categorie sociali capitaliste sembravano impensabili (tanto ai socialisti quanto ai leninisti), l’attenzione doveva concentrarsi sui contenuti e gli orizzonti dell’interesse socio-economico e politico apparentemente razionale delle elaborazioni ideologiche. In altre parole: l’ideologia era associata al contenuto dell’interesse dei soggetti del sistema produttore di merci – la “classe operaia” contro la “classe capitalista”, la “liberazione nazionale” contro l’”imperialismo”.

L’antisemitismo moderno è stato quindi, nella migliore delle ipotesi, interpretato come una specie di manovra di diversione ideologica secondaria della “classe dominante”, o come ideologia dell’interesse concorrenziale specifico della “piccola borghesia”, che avrebbe avuto lo scopo di distrarre la “classe operaia” o i “popoli oppressi” dai loro reali interessi (teoria della manipolazione). Quel che rimaneva completamente fuori era la dimensione ideologica della connessione della forma sociale, che va oltre le classi e le nazioni ed è oggettivata in termini storici nel lavoro astratto, nel valore, nella forma merce, nel denaro, nella produzione in regime economico imprenditoriale, nel mercato (mondiale) e nello Stato. Piuttosto, questa connessione della forma si presentava, sia in termini teorici che in termini pratici, come fondamento ontologico insormontabile di ogni vita sociale.

Così veniva ignorato che cercando di superare il moderno sistema produttore di merci, smascherando e rivestendo in questa modo “interessi” apparentemente e superficialmente divergenti, accade che dalle contraddizioni e dalle crisi della costituzione formale moderna comune, cioè inclusiva di tutte le categorie sociali, sorgono anche creazioni ideologiche comuni, trasversali alle classi, che sono molto più essenziali e pericolose della trasparente e superficiale legittimazione degli “interessi” costituiti nel capitalismo dalle varie classi, ceti e funzionari. Tutti le “visioni del mondo”, i modelli di spiegazione e le idee guida dell’azione non suscettibili di deduzione nell’ambito della sociologia delle classi, furono così fraintesi e disprezzati come mero inganno e manovre di diversione.

Così, la sinistra del movimento operaio e marxista, così come ancor di più la sinistra radicale (e non di meno la sinistra anarchica), nemmeno si resero conto che avevano esse stesse interiorizzato positivamente parti essenziali dell’ideologia borghese, come “eredità” della storia ideologica e intellettuale protestante e illuminista nella formazione del sistema produttore di merci. Tra cui in particolare la canonizzazione dell’astrazione “lavoro” che, con il suo carattere di fine in sé repressivo, era passato direttamente dalle idee del protestantesimo e del cosiddetto illuminismo del XVIII° secolo all’ideologia del movimento operaio. Nell’invocare precisamente il “lavoro” come punto di riferimento centrale presumibilmente opposto al capitale, la sinistra non fece altro che giocare uno stadio di aggregazione del capitale contro l’altro. In questo modo, il “lavoro” non si presentava come quello che di fatto è, ossia, la forma di attività specificatamente capitalistica (il “lavoro astratto” in Marx), pertanto un concetto interamente appartenente al capitale e una relazione reale corrispondente, ma come una categoria ontologica dell’umanità.

Da questa comunanza ideologica centrale con il capitale, definito come avversario in modo meramente superficiale e ideologicamente troncato, dovevano per forza nascere, da un lato, altre caratteristiche in comune inconfessate, così come, d’altro lato, la totale sottostima delle ideologie di crisi e di distruzione che sono il razzismo e l’antisemitismo. Una volta che il movimento operaio occidentale, i regimi della modernizzazione in ritardo dell’est e i “movimenti di liberazione nazionale” del sud si limitarono ad agire entro l’ambito delle forme sociali comuni, affermando con il “lavoro” la forma di attività capitalista, furono capaci solo di formulare una critica troncata della relazione del capitale, arretrata rispetto alla concezione di Marx del capitale come una relazione di feticcio irrazionale. In parte ci si lamentava solo della mancanza di capacità di regolazione statale del sistema produttore di merci a causa della sua rappresentanza borghese, in parte si criticava la subordinazione del “lavoro produttivo” al “capitale finanziario”, senza capire il legame intrinseco, mediato (e sempre più in crisi) tra il “lavoro produttivo” e il “capitale finanziario” (capitale monetario che rende interessi e speculativo).

Notoriamente, questa critica del capitalismo ha sempre presentato punti di contatto con l’ideologia antisemita. Poiché l’antisemitismo poté ascendere allo statuto di una pericolosa ideologia di crisi della modernità proprio per il fatto di esteriorizzare e naturalizzare in termini socio-biologisti le contraddizioni interne della società costituita in forma capitalista e di tutti i suoi soggetti: "gli ebrei" divennero la rappresentazione negativa del capitalismo finanziario “improduttivo” e l’incarnazione di tutte le manifestazioni distruttive della moderna società produttrice di merci, intrecciandosi con le attribuzioni originarie di questo genere già dell’Età Media e dei primordi della modernità (come fu il caso, per esempio, delle invettive di un Martin Lutero). A cui si doveva contrapporre, come polo opposto e positivo, il “lavoro onesto” e il “capitale produttivo”; nel caso dei nazisti, ciò accadde, com’è noto, nella forma della contrapposizione del capitale "rapace" ("ebraico") al capitale "creatore" ("tedesco" o "nazionale"). In luogo della critica delle forme reali, trasversali alle classi, del sistema produttore di merci, sorge così la colpevolizzazione maliziosa imputata a un gruppo specifico di soggetti, definito per la “razza”, secondo il motto: il “lavoro”, il valore, il denaro e la forma del capitale sarebbero una meraviglia e una benedizione se non fosse per gli ebrei. Questa attribuzione, che fingeva di “spiegare” la relazione sistemica,  già di per sé irrazionale, con il ricorso a una dimensione addizionale di irrazionalità, ascese a statuto di spiegazione del mondo ideologicamente assassina per eccellenza.

E’ vero che l’ideologia del movimento operaio e dei “movimenti di liberazione nazionale” anticoloniali prese sempre le distanze dalle correnti apertamente antisemite invocando, invece della fantasmatica “opposizione tra razze”, l’opposizione sociale tra le classi e l’opposizione nazionale di interessi tra economie o Stati nazionali, coloniali o post-coloniali e l’imperialismo occidentale.

Tuttavia, in primo luogo, anche questa “ideologia della liberazione” sociale, apparentemente più razionale, si limita, in modo somigliante all’antisemitismo, al piano soggettivo delle mere relazioni di volontà e di potere, senza affiorare al piano della costituzione di questi soggetti (ossia, il modo in cui questi sono stati formati dalle categorie del sistema produttore di merci). Non è stata la negatività della relazione formale comune, cioè, della forma-soggetto dell’individuo stesso, ciò che divenne il bersaglio della critica, ma solo il “potere” negativo di “soggetti contrari”: nel caso degli antisemiti, era il potere putativo e il male della “contro-razza ebraica”; nel caso dei “movimenti di liberazione nazionale”, il potere soggettivo e il potere di ingerenza globale delle potenze imperiali centrali.

Dal momento che paradossi come l’antisemitismo rimanevano sullo stesso piano logico di una soggettività della volontà "stabilita" solo per definizione e non derivata dalla relazione della forma sociale, piano, questo, risultato di una critica del capitalismo troncata simile (sebbene non identica), il movimento operaio, il “movimento di liberazione nazionale” e la sinistra radicale non giungevano a percepire i loro punti di contatto impliciti con l’antisemitismo. Stesso discorso, e a maggiore ragione, per  l’ontologizzazione e l’adorazione del “lavoro produttivo”, che ugualmente condividevano con gli antisemiti.

Così però, e in secondo luogo, doveva rimanere incompresa anche la pericolosità trasversale alle classi dell’ideologia antisemita. La riduzione all’orizzonte sociologico delle classi d’interesse costituito nel capitalismo e l’ontologia sovrastorica del “lavoro”, diedero adito all’illusione che la “classe operaia” e i “popoli oppressi”, a causa dei loro interessi imposti dal capitalismo e della loro ontologia esistenziale, già fossero “in sé” (indipendentemente dalla loro coscienza reale) forze trascendenti, la cui potenza presumibilmente sostitutrice del sistema necessitava di essere canalizzata attraverso le “lotte” sociali. La forma della concorrenza, inerente alla loro forma costituita di soggetto, parve essere solo un comportamento imposto da fuori, dal “contro-potere” soggettivo, “non autentico”, in fondo alieno; stando così le cose, anche l’antisemitismo figurava essere un’ideologia “estranea alla classe”, semplicemente imposta per errore o manipolazione.

Doveva passare completamente al lato di questo pensiero che l’emancipazione sociale dalla relazione del capitale, benché fosse possibile di principio, in nessun modo si incontra prefigurata “in sé” dalla posizione “oggettiva” di determinate classi o di altri soggetti moderni nella struttura del sistema produttore di merci; si tratta qui di un’illusione oggettivista che lo stesso Marx aveva formulato, in contrasto con la sua stessa teoria critica della modernità quale relazione di feticcio sociale. Al contrario, tutti i soggetti di questo sistema e senza eccezione, vale a dire la stessa “classe operaia” e gli stessi “popoli oppressi” etc si trovano, a causa della loro forma costituita dal sistema (forma di riproduzione e del soggetto), ben lungi dal passaggio verso l’emancipazione da questa forma sociale negativa. La formazione di una coscienza radicalmente critica contro questa forma (coscienza, questa, a cui la sinistra radicale fino a oggi non si è avvicinata, e ancor meno i movimenti sociali) è possibile; ma unicamente dalla trasformazione delle esperienze negative di sofferenza e vergogna in seno a questa forma, e non grazie a una qualche base ontologica positiva. Non esiste nessuna determinazione ontologica presumibilmente “fuori” o “sotto” il sistema (per esempio nella forma del lavoro) che possa servire da leva obiettiva per rovesciare la relazione sociale repressiva e distruttiva.

Perciò, le “lotte” sociali e altre non sono di per sé emancipatrici, né le stesse “lotte” della classe operaia, dei gruppi e delle minoranze oppresse etc. Al contrario, la “lotta”, sotto la forma della concorrenza, è la forma generale del movimento del sistema capitalista. Lo stesso vale per le diverse forme di continuazione della concorrenza con altri mezzi, particolarmente la violenza immediata.

Andare al di là della forma della concorrenza, cioè andare al di là della propria forma-soggetto esige, come una volta si espresse Marx, una “coscienza enorme”, cosa che in nessun modo è vicina allo stato delle cose. Piuttosto, ciò che si sviluppa spontaneamente è la concorrenza fino alle ultime conseguenze nell’ambito della forma costituita comune del soggetto. In questo contesto, la concorrenza tra lavoratori salariati e entità rappresentanti del capitale (amministrazione, associazioni imprenditoriali etc) costituisce soltanto un livello delle molteplici dimensioni di sviluppo della concorrenza. Qui si inquadra evidentemente la stessa concorrenza tra i vari capitali, tra i vari rami, tra le fazioni e i raggruppamenti dei lavoratori salariati, tra le economie e gli Stati nazionali etc, ma anche le connotazioni “etniche” e razziste delle relazioni della concorrenza e, infine (come reazione estrema), la trascendenza apparente dell’antisemitismo.

Proprio questa connessione di una rete complessa di multiple linee della concorrenza non ha in alcun modo una base soggettiva e manipolatrice, ma piuttosto una base obiettiva nella forma generale del soggetto del sistema produttore di merci, attraverso il lavoro, il denaro e lo Stato, mentre la rottura emancipatoria della “gabbia di ferro” di questa forma non può avere una base oggettiva nel senso di una determinazione del comportamento. Prendendo come presupposto il sistema produttore di merci e la sua forma di attuazione astratta e irrazionale come definizione ontologica insormontabile, può benissimo essere l’interesse “obiettivo” dei lavoratori salariati a fornire alla concorrenza una connotazione nazionalista, razzista etc o il voler sottrarsi fantasmaticamente a questa ricorrendo a un’ideologia antisemita.

Va da sé che anche nella storia del movimento operaio è esistito qualcosa come un disegno trascendente di liberazione dal gioco della concorrenza, disegno di una società solidale oltre il sistema moderno. Tuttavia, questi momenti stravaganti dovevano rimanere senza risposta, proprio perché i movimenti sociali della modernità non arrivarono a raggiungere un concetto di questa trascendenza, né perciò ad agire conseguentemente.

La critica limitata del capitalismo all’ambito delle forme dello stesso capitale s’impantanò inevitabilmente nelle forme di sviluppo della concorrenza. Il massacro reciproco dei lavoratori salariati nelle due guerre mondiali non fu perciò un tradimento né un comportamento contrario alla loro natura ontologica, ma piuttosto la conseguenza della loro stessa forma-soggetto, affermata invece che criticata. Né i partiti politici operai né i sindacati (già solo questa divisione in una rappresentazione politica e in un’altra sociale rimanda alla forma della costituzione borghese del movimento operaio) riuscirono mai a sviluppare una forza solidale che andasse oltre le relazioni della concorrenza. Il superamento della concorrenza rimaneva parziale e limitato al motivo dell’eguaglianza borghese, mentre l’inserimento nelle relazioni della concorrenza continuava ad essere universale.

Così come già nella lotta quotidiana degli interessi, regolamentata in forma istituzionale, i movimenti sociali erano immersi nella logica della concorrenza, lo stesso accadde nell’esplosione di violenza delle guerre mondiali tra potenze imperiali nazionali. In questo quadro, il rischio sociale della concorrenza universale divenne immediatamente manifesto come rischio di morte, e con esso divenne evidente la conseguenza ultima della forma-soggetto generale della modernità. Lo stesso si può dire riguardo al potere dell’antisemitismo e alla sconfitta del movimento operaio europeo di fronte al fascismo e al nazional-socialismo. Anche questa catastrofe è stata una conseguenza del coinvolgimento nel sistema della concorrenza internazionale. Esiste perfino una relazione diretta tra la continuazione della concorrenza delle guerre mondiali e l’emergere dell’antisemitismo in tutte le classi e ceti sociali.

I sindacati, i partiti marxisti e la stessa sinistra radicale furono concepiti solo per risolvere il conflitto di interessi, presumibilmente “razionale”, nell’involucro formale del sistema produttore di merci. Anche l’intensificazione militante della lotta non lasciò mai lo spazio della razionalità borghese. La sinistra si chiuse al carattere irrazionale in sé del sistema e perciò nelle crisi si rendeva regolarmente vulnerabile all’eruzione poderosa di questa irrazionalità. Mentre la sinistra, anche nel mezzo delle crisi più gravi, continuava a voler mantenere un piede nell’”interesse razionale” ormai non più realizzabile in forma borghese malgrado il crollo temporaneo di questa forma, l’antisemitismo affermava la propria irrazionalità dell’interesse come volontà di esclusione e annichilimento, e quindi otteneva un potente effetto sociale.

L’antisemitismo non è (contrariamente al razzismo comune) una figura della concorrenza tra le altre, ma piuttosto l’ultima ratio della concorrenza nella situazione in cui la risoluzione immanente e apparentemente razionale della concorrenza smette di essere sostenibile. In tale situazione, la stessa forma del soggetto borghese generale rischia di rompersi. L’antisemitismo promette una via d’uscita senza porre in questione questa forma del soggetto comune del sistema, esteriorizzando il problema in una forma irrazionale e assassina. E’ così che, nonostante e proprio a causa del suo carattere intellettualmente elementare, può esercitare un’attrazione trasversale alle classi su una gran massa di individui costituiti dal capitalismo, dal disoccupato al direttore, dall’agricoltore senza terra del terzo mondo al principe del petrolio, dal fabbro meccanico al banchiere investitore, dalla madre solitaria all’indossatore, dallo studente dell’istituto professionale all’intellettuale di formazione accademica.

In altre parole: la sindrome antisemita costituisce l’ultima ed estrema riserva ideologica di crisi del sistema produttore di merci moderno. L’antisemitismo è in agguato nella forma stessa del soggetto borghese generale; esso è invocato regolarmente quando la crisi erompe, e lo è in un modo tanto più massiccio quanto più violentemente si manifesta la crisi. Così, l’epoca delle due guerre mondiali e della grande crisi economica mondiale fu accompagnata da un’ondata di antisemitismo senza precedenti. In Germania, che nella storia specifica della sua costituzione capitalista come nazione aveva incubato una versione particolarmente aggressiva ed eliminatoria della sindrome antisemita, con un particolare effetto di profondità sociale, questa ondata sommerse le stesse istituzioni dello Stato; qui, l’antisemitismo, nella situazione della crisi mondiale, non solo fu impiegato come valvola di sfogo per l’aggressività sociale accumulata dalle relazioni della concorrenza, ma fu elevato a dottrina dello Stato e realizzato nella forma del crimine contro l’umanità dell’olocausto.

Non fu in alcun modo per caso che il nazional-socialismo tedesco rappresentò una formazione sociale in cui la pulsione di morte della forma vuota della soggettività capitalista si manifestò in una dimensione fin allora mai vista. Questo perché la logica dell’antisemitismo e la pulsione di morte e di annichilimento della soggettività capitalista sono strettamente vicine l’una all’altra; il latente e irrazionale disegno di distruzione del mondo nel vuoto metafisico del valore e del suo movimento di valorizzazione come fine in sé si esprime nell’acutizzazione estrema come disegno di annichilimento diretto contro gli ebrei e contemporaneamente come disegno di auto-annichilimento, come disegno di distruzione di qualsiasi esistenza fisica in generale. 

In termini puramente esteriori, militari e di potere politico, i nazisti persero la seconda guerra mondiale; ma nel senso più ampio di realizzazione del disegno di annichilimento del mondo che si annida nel cuore del capitale, essi ebbero un enorme successo nell’identificazione tra l’annichilimento industriale degli ebrei e l’auto-annichilimento organizzato. La sinistra, aggrappata alla superficiale razionalità borghese, e che non poteva avvicinarsi alla critica delle forme fondamentali del capitalismo, e quindi neanche alla critica né all’abbandono della sua stessa forma-soggetto costituita in modo capitalista, dovette così necessariamente passare al lato del vuoto di questa forma e del potenziale demoniaco della pura irrazionalità che gli è inerente, così come delle sue conseguenze distruttive, e così anche al lato dell’essenza dell’antisemitismo moderno.

Il rovescio di questa catastrofica insufficienza è stato, dopo la seconda guerra mondiale, l’altrettanto carente e spensierato antisionismo della sinistra, che non volle riconoscere la dimensione dello Stato ebraico quale conseguenza dell’antisemitismo moderno nella storia mondiale e nel capitalismo mondiale, ma che sussume Israele al paradigma antimperialista dei movimenti rivoluzionari nazionali del terzo mondo, la cui critica del capitalismo era molto più pesantemente riduttiva di quella del movimento operaio occidentale.

Lo Stato di Israele e il suo statuto paradossale nel mondo capitalista

Certamente anche allo Stato di Israele, che evidentemente è parte integrante dell’economia mondiale capitalista, può essere attribuita la forma dello Stato moderno e del sistema produttore di merci moderno con tutti i suoi attributi negativi. Ma, a causa del suo carattere singolare, poiché consiste in ultima istanza un prodotto involontario dei nazisti e della logica di annichilimento della soggettività capitalista nella sua intensificazione finale, questo Stato è il primo, l’ultimo e l’unico a contenere un momento decisivo di giustificazione che è mancato fin dall’inizio a tutti gli Stati rivoluzionari nazionali del terzo mondo (i quali, in fin dei conti, cominciarono molto rapidamente tutti ad assumere una brutta faccia). Si tratta di uno Stato capitalista che si, è espressione della forma-soggetto capitalista, ma che allo stesso tempo e in un modo paradossalmente articolato rappresenta l’estrema necessità e l’ultima legittima difesa contro questa stessa forma-soggetto.

Ed evidentemente,  in linea di principio, può valere contro il sionismo – che era, dopo tutto, al livello di idee, un prodotto della formazione nazionalista europea del XIX° secolo e dell’inizio del XX° secolo – lo stesso tipo di critica di quella contro il nazionalismo moderno in generale; tuttavia questa critica è possibile solo se ignoriamo il contesto specifico della sua genesi e lo analizziamo in modo perfettamente astratto ed isolato, come poco più di un nazionalismo al pari di tanti altri. Ora, il sionismo non stava sullo stesso piano dei restanti nazionalismi. Al contrario, era eminentemente un prodotto secondario dell’esperienza della grande sofferenza ebraica, con particolare rilievo riguardo l’esclusione sentita in Germania e in Austria, determinata dal fatto che le nazioni europee non possedevano né la volontà né la capacità di integrare gli ebrei, ma piuttosto necessitavano dell’antisemitismo come costruzione dell’”altro” (dell’alterità), per poter autodefinirsi come identità nazionale positiva.

Questa definizione dell’alterità assunse anche altre espressioni, come il razzismo coloniale e la delimitazione culturalista delle nazioni europee tra di loro; ma l’antisemitismo costituì la sua espressione più estrema. Così, ciò che vale per lo Stato ebraico in quanto Stato, vale anche per il nazionalismo sionista in quanto nazionalismo: in quanto legittima difesa contro lo stesso nazionalismo europeo primordiale e la forma nella quale questo definì l’alterità, esso può essere solo ciò che è, in un’articolazione paradossale con la sua stessa negazione.

Lo stesso vale per le componenti socialiste del sionismo, componenti queste che rimasero insufficienti dal momento che non trascesero decisivamente il moderno sistema produttore di merci. Evidentemente, queste permasero ugualmente troncate e integrate nel sistema di riferimento dello Stato-nazione, così come la critica del capitalismo del movimento operaio occidentale (le cui idee ed elementi socialisti furono in effetti presi in prestito) e, ancora di più, la critica dei movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo. In collaborazione con l’apparato dello Stato e con il pathos nazionale, il socialismo sionista, così come i partiti operai del resto del mondo, dovette approssimarsi a questa tendenza di regolamentazione sociale che accompagnava la costituzione delle nazionalità europee e che, dalla fine del XIX° secolo fino alla seconda guerra mondiale, determinò la storia generale dei centri capitalistici; così accadde, per esempio, durante lo Stato sociale di Bismarck e la successiva partecipazione della socialdemocrazia al governo, e in generale nella formazione delle burocrazie del lavoro e sociali, del welfare state etc  – sviluppo questo che, com’è noto, caratterizzò, nella forma della regolazione fordista, il fascismo e il nazismo. E’ tuttavia un perfido travisamento recriminare specialmente al sionismo la sua quota-parte specifica in uno sviluppo strutturale generale e inclusivo, associando allo stesso tempo il momento socialista troncato al socialismo nazionale degli assassini nazisti.

Tutto questo comincia ad aver senso se visto in una prospettiva rovesciata. Per quanto riguarda la qualità socialista del sionismo (o meglio: del cosiddetto sionismo laburista) se ne può constatare, in termini empirici, un aspetto emancipatorio particolare: sotto la forma del kibbutz, questo momento in Israele finì per non assumere una forma capitalista di Stato e repressiva come in ogni altro luogo, ma assunse una forma cooperativa e di autogestione che in nessun altro luogo riuscì ad acquisire un significato simile. Evidentemente, anche questa forma ancora permaneva legata al sistema produttore di merci; tuttavia, nell’aspirazione a una relazione interna che fuggisse alla forma merce, nei suoi aspetti di riproduzione al di là del denaro e dello Stato, conteneva un elemento trascendente, per quanto associato a un’ideologia comunitaria per molti aspetti gretta.

Così, tutto quello che si può dire contro il nazionalismo in generale si applica solo al sionismo in modo condizionale e paradossalmente articolato come il suo contrario. Malgrado le sue relazioni quasi coloniali e la situazione nella regione mondiale del Medioriente, Israele non è essenzialmente un progetto coloniale, come tante volte è stata considerata dal discorso rivoluzionario nazionale dei movimenti terzomondisti, esso stesso da molto tempo fallito; piuttosto è, soprattutto, un progetto di emergenza e di salvezza di fronte alla sindrome antisemita associata alla moderna forma-soggetto.

E’ per questo che da un punto di vista emancipatorio non si può instaurare il processo a Israele per il fatto che nella realtà deve tanto la sua fondazione quanto la sua esistenza e la sua sicurezza militare all’imperialismo del petrolio occidentale. Esattamente al contrario, c’è da constatare quanto sia vergognoso e deprimente che il diritto all’esistenza di Israele non abbia altra garanzia che questa infamia; vergogna inevitabilmente per la sinistra del mondo intero, la quale non è mai stata capace di concedere a questo diritto all’esistenza una garanzia migliore, o anche solo un appoggio, considerato che si è sempre sottratta al porre il riconoscimento di questo diritto all’esistenza come una questione di principio. La critica troncata, superficiale del capitalismo, agendo in modo irriflessivo all’interno della forma-soggetto e dell’interesse capitalista, formulata dal movimento operaio, dai movimenti di liberazione nazionale e dal radicalismo di sinistra fino ad oggi, ha costituito essa stessa una condizione storica per cui Israele non aveva altra scelta per raggiungere il suo diritto dell’esistenza che appoggiarsi all’imperialismo del petrolio occidentale.

Tuttavia, proprio una garanzia di questo tipo è estremamente contraddittoria e per questo insicura. L’”imperialismo globale ideale” dell’occidente non appoggia l’esistenza di Israele sulla base di una coscienza del vero legame tra l’antisemitismo e il sionismo, cosa che del resto gli è perfettamente indifferente. Di più: una volta che l’antisemitismo costituisce allo stesso tempo l’ultima riserva ideologica del sistema, la motivazione dell’imperialismo del petrolio, da un lato, e la tolleranza della sindrome antisemita o perfino il suo scatenamento per la “gestione della crisi”, dall’altro, entrano in una contraddizione che non può essere mediata.

In una situazione globale esacerbata non è di certo impensabile (benché attualmente nulla miri a questo) che l’”imperialismo globale ideale” lasci cadere Israele e apra la valvola dell’antisemitismo in considerazione delle sue contraddizioni interne. Del resto, nella misura in cui l’attenzione occidentale si volge verso le riserve del Mar Caspio, anche il piano dell’interesse volgare minaccia di far cadere la precaria garanzia del diritto all’esistenza di Israele. Un’altra variante di abbandono di Israele potrebbe consistere nel fatto che l’Occidente, nel caso di una crisi petrolifera che minacciasse il capitalismo mondiale nella sua esistenza (per esempio per una destabilizzazione grave che provocasse il rovesciamento delle monarchie del petrolio), getterebbe Israele in pasto ai mostri feudali arabi del capitale allo scopo di salvare la sua economia mondiale.

La fine dei “movimenti di liberazione nazionale” e il fantasma della fondazione dello Stato palestinese

La critica di sinistra e antimperialista del sionismo (il concetto di critica è in questo contesto fuori luogo; si tratta semmai di un odio che cuoce a fuoco lento, spesso nutrendosi anche dell’intuizione del carattere dubbio delle proprie ragioni) deve così passare completamente al largo della vera natura del problema. Tutto quello che i cosiddetti movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale del terzo mondo sono stati in grado di presentare come argomenti contro il sionismo, si applicava in primo luogo a essi stessi in forma potenziata; e, in secondo luogo, gli mancava completamente questa dimensione più profonda di giustificazione che per il sionismo decorreva necessariamente dal potenziale antisemita del capitalismo mondiale, in special modo del crimine tedesco contro l’umanità. La legittimazione -  del resto ormai da molto tempo dimostratasi illusoria – di una partecipazione come economia nazionale e come Stato-nazione quale soggetto nel mercato mondiale non è stata solo molto più debole di quella invocata per il sionismo, ma sin dall’inizio e in tutte le aree del terzo mondo (indipendentemente dal colore ideologico) si è andata associando a situazioni di costrizione repressiva dall’aspetto tipico del capitalismo di Stato e ad estremi profondamente anti-emancipatori come il culto del “leader”.

Dopo che il paradigma della "liberazione nazionale" antimperialista è rimasto senza sostegno a causa delle condizioni della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione, e dopo che gli stessi regimi, o movimenti corrispondenti, sono da tempo scivolati verso processi barbarici di decomposizione, anche il relativo discorso di sinistra e marxista ha perso la sua ragion d’essere, oppure ha assunto tratti apertamente antisemiti in relazione al sionismo e alla critica del capitalismo, ed è rifuggito invece dalle intenzioni emancipatorie originarie: sviluppo questo che, comunque, era latente nella concezione categoriale troncata e negativamente immanente del pensiero antimperialista e socialista e che adesso, nel momento della sua caduta, si rende manifesto.

La fine ingloriosa del paradigma della rivoluzione nazionale antimperialista nell’era della globalizzazione è caratterizzata da molteplici manifestazioni di squallore morale e imbarbarimento dei regimi sviluppisti crollati nel mercato mondiale, dalla trasformazione dei leader rimanenti di una guerriglia che un tempo rivendicava ideali di sinistra in volgari signori della guerra dell’economia del saccheggio, baroni della droga, sequestratori in cerca di riscatti etc. In quei paesi in cui l’aspirazione alla costituzione di uno Stato basato in una rivoluzione nazionale è rimasta incompiuta, ma malgrado tutto è mantenuta, benché lo sviluppo del capitalismo mondiale l’abbia ormai da tempo superata, l’inselvatichimento e l’abbrutimento di questa pretesa assurda assume forme particolarmente drastiche e orribili. 

Ciò si applica in maniera del tutto indipendente dalle caratteristiche specifiche nazionali e dalle differenze culturali, sia nel caso del movimento dei curdi che dei ribelli ceceni, o dei separatisti tamil, solo per citare alcuni esempi. Questo non può giustificare né la repressione barbara da parte dei grandi Stati dal passato imperiale come la Turchia e la Russia, essi stessi perfettamente resi instabili dal mercato mondiale, o da un regime etnico come quello dei cingalesi in Sri Lanka, né gli interventi non meno barbari della nuova polizia dell’imperialismo globale. Ma nelle condizioni globali modificate, i "movimenti di liberazione nazionale" non costituiscono più un'alternativa, nemmeno illusoria, il che significa che ormai nessuna "modernizzazione" può essere portatrice di pretese emancipanti, dal momento che la base del moderno sistema produttore di merci e dello Stato-nazione da esso generato non ha più sviluppo possibile, restando solo la disintegrazione sociale e la barbarie.

Questa situazione storica modificata in nessuno dei non realizzati progetti rivoluzionari nazionali restanti della vecchia epoca si rende tanto evidente come nel caso palestinese, che si trova paradossalmente legato a Israele in un’intimità ostile. Se gli Stati realmente fondati sulla scia dei movimenti tricontinentali (Asia, Africa, America Latina; n.d.t.), e che un tempo erano carichi di ideali borghesi e illuministi più che comunisti, sono intanto falliti sul mercato mondiale e nella loro stessa costituzione e forma del soggetto borghese, il progetto palestinese diventato irreale, al di là di questo orizzonte di realizzazione, assume tratti orrendi. Si tratta di un progetto zombie di un’epoca defunta a cui non rimane nessun momento emancipatorio e che ormai inquieta il mondo come un sosia maligno.

La pietrificazione dell’OLP, incarnata da Yasser Arafat quale figura tragica di un non-morto storico, risale intanto al carattere da sempre negativo delle presunte emancipanti costituzioni statali della modernizzazione in ritardo. Dopo che questa illusione è definitivamente svanita nel decorso della globalizzazione capitalista, si rivela anche che il “diritto a uno Stato proprio” o il “diritto di fondare uno Stato” rappresenta l’esatto opposto della liberazione nazionale. Sotto le condizioni dell’inizio del XXI° secolo, questa parola d’ordine può manifestarsi solo come il “diritto” a capitolare in forma “autonoma” di fronte alle leggi della logica della valorizzazione capitalista globale, e di “potere” eseguire per propria mano il processo di degrado sociale. Con la stessa logica si può reclamare il "diritto a un curatore fallimentare proprio" o il "diritto a un torturatore proprio" della stessa carne e sangue etnici.

In questa misura, la visione dello Stato dell’OLP costituisce realmente uno degli ultimi fortini dell’ideologia borghese dell’Illuminismo, che si mostra fino al riconoscimento del suo contenuto profondamente repressivo e distruttivo. Quello che manca ai palestinesi non è uno “Stato proprio”, ma piuttosto l’accesso autonomo alle risorse materiali, sociali e culturali che oggi sono oggetto di restrizioni tanto rigide quanto insensate imposte dalla forma “Stato”, proprio in nome del terrore economico globalizzato. L’insistenza nell’opzione dello Stato-nazione già da tempo obsoleta, che nel caso degli abitanti della Palestina è una costruzione ideologica tardiva di un rivestimento istituzionale e culturale del sistema produttore di merci e pertanto il più trasparente in termini storici, assume tratti profondamente patologici.

Lo Stato-fantasma palestinese è di conseguenza il primo che, già prima della sua fondazione ufficiale, è entrato in un processo di decomposizione e putrefazione. La costituzione di uno Stato e la sua decomposizione coincidono qui immediatamente, il che costituisce un paradosso storico. Ancor prima che possa svilupparsi un apparato statale completo, con una propria legittimazione e una propria storia, prendono il suo posto strutture di clan, signori della guerra e strutture mafiose.

Contemporaneamente lo Stato secolare palestinese è schiacciato dall’islamizzazione pseudo-religiosa ancor prima della sua fondazione. Come residuo degli impulsi verso una modernizzazione laica, l’OLP frena una lotta persa in anticipo. I movimenti islamisti di Hamas e della Jihad cominciano a sostituirla e, ora che l’OLP si vede costretta a fare concessioni a entrambe, il suo progetto di fondazione di uno Stato va sempre più perdendo la legittimazione stabilita nella politica della modernizzazione.

Quel che resta è l’irrazionalità pura dell’odio cieco senza alcuna prospettiva politico-sociale. La costruzione ideologica moderna del “popolo” formata sulla base di criteri etnico-politici trova nella versione palestinese la sua orrenda decostruzione reale: nel rifugiarsi nell’universalismo astratto della guerra religiosa e nel mandare i propri figli alle “accademie del suicidio”, questo “popolo” costruito ammette coi fatti che ormai non ha alcuna speranza nel futuro, che ormai ha smesso di costituire un “popolo di Stato” per convertirsi in una massa amorfa di disperati senza obiettivo.

Questa versione palestinese di una società postmoderna al collasso, e che ormai nemmeno è una società, è anche permeata dalle strutture della violenza maschile senza freni e dall’”inselvatichimento del patriarcato”. Da un lato, non smette di costituire il cumulo dell’individualizzazione postmoderna delle “opportunità”, tanto che l’uno o l’altro adolescente palestinese ormai spreca la sua vita non vissuta come kamikaze (ed è il cumulo di inselvatichimento del patriarcato che è stato addestrato a questo da uomini barbuti). Ma, ancora, l’identità palestinese distruttiva e auto-distruttiva non smette di essere essenzialmente quella della soggettività concorrenziale di sesso maschile.

In questo clima di assoluta caduta di obiettivi e di futuro, nell’impossibilità di pensare oltre la costituzione di una nazione, l’antisemitismo che da tempo anima l’odio palestinese (trattati nazisti di ogni specie circolano nel “sistema educativo” palestinese così come l’ineffabile pamphlet della falsificazione dei cosiddetti “Protocollo dei Savi di Sion” etc) è di natura differente dall’antisemitismo europeo e tedesco. Nel processo di costituzione nazionale, che soprattutto nel caso della Germania degli inizi del XIX° secolo, in ritardo storicamente, fu accompagnata da un’ideologia etnico-culturalista e biologista che risale a Herder e Fichte, l’antisemitismo (eliminatorio in Germania e in Austria) costituì il fermento di questa formazione “etnica” dello Stato-nazione, rappresentando l’ebreo come alterità negativa.

Tuttavia, nella versione palestinese questo fermento non può più avere effetto, neanche con una connotazione culturale differente, perché il parto statale della costruzione nazionale palestinese nell’epoca della globalizzazione e del capitalismo di crisi potrebbe solo dare origine a un nato morto. La formazione “etnica” sta già cadendo a pezzi nei suoi prodotti di decomposizione post-nazionali (in questo caso islamici) prima di potersi affermare a livello istituzionale. L’antisemitismo nella sua versione attuale arabo-palestinese ormai non contiene alcuna forza di formazione sociale, trasformandosi quindi direttamente, molto più apertamente che nel caso dei nazisti, nel momento della pulsione di morte di una soggettività capitalista completamente disorientata; per questa ragione si manifesta immediatamente come ossessione degli attentati suicidi.

La distruzione fisica dell’infrastruttura palestinese, già scarsa, a causa della guerra condotta da Sharon, potrà contribuire alla creazione di leggende di una “lotta eroica”; tuttavia, non sono stati necessari i crimini di guerra dell’esercito israeliano e dell’odiosa politica israeliana di frammentazione in relazione al territorio potenzialmente palestinese per rovinare completamente lo Stato della Palestina ancor prima della sua fondazione. Ormai da sé, uno Stato palestinese, con le sue proprie forze (si legga: capacità di partecipazione al mercato mondiale, ormai nient’altro conta) è ancor meno capace di sopravvivere di quello israeliano, anche a un livello medio arabo di povertà. In assenza di possibilità di sviluppo reali, l’apparato dell’OLP sin dall’inizio si è visto ridotto al rango di un destinatario delle elemosine dalla lega araba (com’è ovvio soprattutto dai principi del petrolio), dall’Unione Europea, dagli Usa etc (approssimativamente in quest’ordine) e come tale, facendo fede di innumerevoli testimonianze, è totalmente marcito nella corruzione. Prima dell’ultimo capitolo dell’Intifada, le sparatorie e gli omicidi su commissione tra gruppi rivali erano ormai talmente quotidiani come in qualsiasi altra regione in disgregazione. I “regolamenti di conti” interni palestinesi eseguiti dai propri prodotti di imbarbarimento poco o nulla si devono alla repressione israeliana, e solo la politica di guerra di Sharon li ha fatti passare temporaneamente in secondo piano.

Il fatto che non solo gli stessi palestinesi ma anche l’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’”imperialismo globale ideale” dell’Occidente, e perfino in parte la politica israeliana, abbiano insistito nell’opzione del tutto obsoleta della fondazione di uno Stato palestinese dimostra solo il grado di disorientamento e allontanamento dalla realtà a cui è giunto il “realismo” ufficiale. Nessuno vuole accettare come vero che le vecchie formule dell’emancipazione, dello “sviluppo”, della democrazia etc sono del tutto svalutate e invalidate. Mentre non sorge un movimento di opposizione sociale qualitativamente nuovo, radicalmente anticapitalista e, nella sua propria auto-comprensione, transnazionale e post-statale, la fatalità dei processi di dissoluzione e di autodistruzione può solo seguire il suo percorso; e in Palestina in un modo letteralmente suicida e senza prospettive più che in qualsiasi altro luogo. Gli enunciati spaventosamente  isolati e senza concetti dei pochi rappresentanti rimasti dell’intelligenza critica nello spazio palestinese e arabo in nulla potranno alterare questa realtà, dato che sono solo espressione del fatto che fino ad ora neanche l’afflizione estrema ha spinto a incoraggiare il pensiero a liberarsi dai paradigmi obsoleti di un’epoca transitata.

Israele come "alieno" nel mondo capitalista e il neo-antisemitismo arabo

Israele non costituisce di certo un’eccezione di questa diagnosi amara. Ciò è tanto più tragico perché Israele non è esattamente uno Stato tra gli Stati e un concorrente dello Stato palestinese virtuale, ma è soprattutto un paradigma di riferimento per il mondo intero contro l’antisemitismo inseparabilmente legato alle forme capitaliste di riproduzione e , nonostante il suo coinvolgimento nella struttura imperiale occidentale, è allo stesso tempo un potenziale di resistenza contro l’ultima riserva ideologica di crisi del capitale mondiale. La semplice esistenza di Israele costituisce una specie di garanzia che la marcia del sistema produttore di merci ancora non può finire nella barbarie; non perché lo Stato di Israele sia immanente a una qualità metafisica in sé speciale, ma proprio al contrario, perché l’esistenza reale di Israele è inconciliabile con le ultime conseguenze della metafisica reale capitalista.

In questo senso il significato (involontario) di Israele rispetto alla crisi mondiale capitalista merita un’analisi molto più dettagliata di quella per esempio della società palestinese o di qualsiasi altra società in crisi nella periferia; perché nel caso dello sviluppo israeliano, sebbene si tratti di un processo di crisi analogo, questo è caricato di un significato addizionale che influenza in forma diretta il destino del mondo intero.

Tuttavia, Israele può sopravvivere solo per quello che è, nella sua esistenza statale moderna,  intanto che non ha coscienza dell’essenza di questa esistenza nell’ambito della storia mondiale. Il paradosso di questa esistenza trova la sua base nell’esistenza capitalista degli ebrei in generale. In un modo tanto irriflessivo come tutti gli altri individui nel quotidiano (o, nel campo del pensiero concettuale, in un modo tanto troncato come tutti i teorici moderni), anche loro, nella loro falsa immediatezza, non vogliono null’altro che “lavorare”, “guadagnare denaro”, “essere scienziati” etc ed acquisire in qualsiasi modo un’identità capitalista normale. Tuttavia, l’antisemitismo profondamente radicato nella modernità non lo permette. Quanto più normali vogliono essere gli individui ebrei, più crudelmente sono contrariati dalla definizione aliena che li tratta come un cumulo di alterità. La loro pura volontà di normalità si scontra con la pura anormalità o mostruosità della relazione del capitale.

Il conformismo ebraico, anche nella sua forma di Stato membro dell’ipocrita “comunità delle nazioni” (cioè: la comunità concorrenziale e assassina dei mostri nazionali e statali), si vede sempre più confrontato con il problema, malgrado ogni sforzo di adattamento, anche sovradeterminato, di essere allo stesso tempo definito a priori come un “alieno”. Questa rappresentazione dell’ebreo come mostro, rappresentando diabolicamente l’autocontraddizione lacerante della soggettività capitalista, ve ben oltre le relazioni concorrenziali, rivalità e razzismi “normali” e anche oltre l’”esotizzazione” culturale colonialista.

In tutte queste relazioni negative e definizioni di alterità, comunque, l’umanità formata nel capitalismo si riconosce attraverso tutti i conflitti nella sua umanità borghese e negativa. L’antisemitismo, però, è l’altro della stessa concorrenza: essa stabilisce una stranezza assoluta che altro non è se non l’auto-alienazione sociale dell’essere produttore di merci, che come soggetto metafisico della forma vuota del valore non è di questo mondo senza smettere di stare in questo mondo; ed essa proietta questa auto-alienazione assoluta nella figura dell’ebreo, come l’assolutamente altro e l’inconciliabilmente strano, ossia, come colui che non può essere mediato o pacificato politicamente.

Lo stesso vale anche per lo Stato di Israele in quanto Stato. Per cui gli israeliani possono essere un popolo di Stato e uno Stato tra gli Stati solo se allo stesso tempo rappresentano per tutti gli altri l’assolutamente altro come negatività astratta, piaccia o meno. Questa situazione è stata spiegata e con tutto l’acume del caso da autori ebrei, tanto dentro come fuori Israele, com’è il caso di Nathan Glaser nel  1975: "La maggior parte del tempo, gli ebrei hanno voluto essere come tutti gli altri. La fondazione dello Stato di Israele è stata ironicamente frutto dello sforzo per far si che gli ebrei potessero essere uguali a tutti gli altri: da ora in avanti avrebbero avuto uno Stato e così avrebbero smesso di essere uno strano popolo senza patria per essere un popolo come tutti gli altri. Ma non è questo che è accaduto. Israele ha rafforzato lo statuto speciale degli ebrei, non lo ha ridotto. Nessun altro Stato sa in una forma tanto definitiva che una guerra perduta significherebbe la sua distruzione e la sua scomparsa (Eisenstadt 1987/1985, 576).

In questo contesto si deve tuttavia distinguere tra lo “statuto speciale” degli ebrei, nel senso della posizione dello Stato di Israele nell’ambito della storia e della politica mondiale nel contesto dell’antisemitismo moderno e della sua funzione sociale, per un lato, e la relazione concorrenziale specifica e immediatamente ostile verso tutti i suoi vicini arabi, dall’altro, che in nessun modo era associata dal principio all’antisemitismo moderno (principalmente occidentale). Perciò l’ostilità araba verso Israele, almeno ai suoi inizi, non può essere equiparata in modo immediato allo “statuto specifico” degli ebrei nella società mondiale, neanche quindi all’antisemitismo eliminatorio dei nazisti.

In origine, il non riconoscimento di Israele da parte degli arabi (soprattutto quando ufficiale) si riferisce solo all’esistenza come Stato e non all’esistenza fisica o sociale degli esseri umani che lo compongono. In altre parole: agli ebrei in Palestina non si riconosce (all’inverso del problema palestinese) il “diritto a uno Stato proprio”, ma non gli si nega il diritto alla vita. L’idea è vivere come cittadini di un immaginario Stato arabo-palestinese, secondo la prospettiva subalterna e chiusa del “bantustan”, come è il caso dei palestinesi sotto la sovranità israeliana. Ciò significherebbe evidentemente che Israele smetterebbe di esistere come luogo di rifugio per i perseguitati dall’antisemitismo globale. Ma questo lato del problema non ha mai interessato il lato arabo-palestinese. I rappresentanti palestinesi parlano di sé stessi, nel migliore dei casi, come “vittime delle vittime”, senza voler riflettere sul contesto della società mondiale capitalista e delle sue contraddizioni distruttive.

Ma questo atteggiamento fin dall’inizio non è la stessa cosa dell’antisemitismo eliminatorio dei nazisti o dell’antisemitismo occidentale in senso generale. Nello spazio arabo, gli ebrei non si trovano in partenza definiti come alterità assoluta nel processo nazionale di costituzione di uno Stato e della modernizzazione. Tutt’ora esistono, nella maggior parte dei paesi del Medioriente, comunità ebraiche con sinagoghe e con possibilità di vivere relativamente tranquilli, anche nella repubblica islamica dell’Iran. La pressione migratoria in direzione di Israele, che evidentemente esiste, non si deve a grandi ondate di persecuzioni, ma ha origine in altre ragioni (culturali e soprattutto sociali). Anche allo stato attuale dell’escalation di odio, una sconfitta militare di Israele, benché comporterebbe le tradizionali catene della vendetta, saccheggi ed espulsioni, il che sarebbe abbastanza orribile, probabilmente non condurrebbe, oltre alla perdita della sua esistenza come Stato, anche a un assassinio industriale degli ebrei secondo il modello dei nazisti, che non era in ultima analisi il risultato di un tipico moderno conflitto di interessi in un’area di confluenza e attrito di contraddizioni reali, ma ha avuto la sua origine direttamente nelle viscere della metafisica generale del soggetto capitalista – ossia, si trovava a un livello di astrazione completamente differente e proprio per questo fu eseguito in modo tanto estremo quanto sprovvisto di sentimenti. La singolarità di Aushwitz non è superata dall’inimicizia araba nei confronti degli ebrei.

Se il potenziale di odio arabo-palestinese verso Israele si carica intanto realmente di momenti dell’antisemitismo importato dall’Europa e dall’Occidente, per esempio nelle invettive di alcuni media palestinesi e nel “sistema educativo” dell’autorità autonoma, ciò non si deve tanto alla contraddizione reale causata dai conflitti d’interessi riguardo il possesso della terra, dell’acqua etc, quanto all’identificazione negativa di entrambe le parti in conflitto con il processo distruttivo della globalizzazione capitalista, che trasforma la realtà del conflitto in quel che tocca gli interessi in qualcosa di irreale o surreale e che rende obsoleta la forma del soggetto insieme a tutti gli interessi.

Ma anche quando si trattasse di antisemitismo moderno, gli arabi, come parte integrante del mondo capitalista, in un certo modo arrivano in ritardo. Essi ormai non potrebbero mobilitare questa riserva ideologica di crisi, a emulazione dei nazisti, in un processo di formazione sociale. Nelle condizioni della globalizzazione, la spiegazione irrazionale del mondo e della crisi attraverso l’antisemitismo non può più assumere la forma statale di un programma di annichilimento organizzato su scala sociale, e molto meno in Palestina. Proprio per questo l’impulso eliminatorio è in questo caso immediatamente auto-aggressivo (attentati suicidi); si confonde, in pratica, con le relazioni elementari della concorrenza capitalista della riproduzione materiale in loco e, ideologicamente, con i prodotti politico-religiosi della decomposizione dello Stato: anche questo costituisce una differenza in relazione ai nazisti; senza contare la differenza tra il primo e il terzo mondo che si manifesta anche nello spazio formalmente omogeneo della globalizzazione e che tinge i modelli ideologici.

Dal sionismo al dominio degli ultras: la crisi interna della società israeliana

Israele a sua volta, come Stato capitalista tra Stati capitalisti, oltre a non liberarsi dall’alterità assoluta, è anche soggetto agli stessi processi di crisi come tutti gli altri Stati capitalisti nello spazio capitalista planetario; e con particolari potenziali di rischio in confronto all’occidente, dovuti alla sua esistenza sovvenzionata e precaria. Tuttavia, una volta che Israele, per poter esser uno Stato capitalista, non deve conoscere la sua vera legittimazione, o la può conoscere solo in un modo completamente superficiale (in un modo positivo, come luogo di rifugio per gli ebrei perseguitati dall’antisemitismo, ma solo in una comprensione superficiale e troncata della natura di questo antisemitismo), deve reagire alla crisi in un modo tanto regressivo e perverso come tutti gli altri, in relazione ai quali è definito come alterità assoluta: l’ansia degli ebrei per la normalità borghese si riproduce anche in forma negativa. Israele, stabilito come alterità, di fatto e com’è ovvio non può mobilitare l’antisemitismo come ultima riserva interna della soggettività borghese, ma in realtà sta in questo mondo ed è di questo mondo, essendo parte integrante del suo sviluppo e dunque del suo sviluppo verso la barbarie.

L’alterità imposta non fa di Israele un’alternativa storico-sociale positiva, né degli esseri umani che la compongono persone differenti. Se il razzismo anti-arabo permane in Occidente una manifestazione razzista tra le altre nell’ambito dell’autodistruzione imminente del soggetto borghese e non serve come proiezione dell’auto-alienazione in un oggetto esteriore, in Israele deve servire da espediente e sostituto per la forma di crisi antisemita della soggettività capitalista, che qui non è possibile. In questo modo, Israele traccia il suo cammino verso la barbarie, che comunque poco o nulla si differenzia dai suoi vicini arabi quanto alle loro forme di manifestazione.

Come ovunque nel mondo, anche in Israele la mobilitazione politico-religiosa reazionaria si rivela come genuino prodotto del crollo della soggettività capitalistica e di Stato; solo che qui è caricata di proiezioni anti-arabe. E anche in Israele il processo di imbarbarimento conseguente al processo di globalizzazione ha una preistoria; più precisamente: antagonismi interni antichi e apparentemente perduti nel passato sono ridiretti e, proprio in questo caso speciale, aggressivamente amalgamati con quelli esterni. Il distaccato sociologo e storico israeliano Shmuel N. Eisenstadt (Università ebraica di Gerusalemme) ha presentato a metà anni ’80 una completa indagine sulla “Trasformazione della società israeliana” (Eisenstadt, 1987/1985) che, da questo punto di vista, può essere considerata estremamente delucidativa.

Qui è decisiva la circostanza per cui il secolare sionismo laburista ha urtato fin dal principio, nelle comunità ebraiche,  con la resistenza trincerata dei religiosi ultraortodossi, tanto nelle diverse regioni del mondo come all’interno dello Stato di Israele. Di fatto, gli ultraortodossi (i cosiddetti Haredim), che in Israele non costituiscono di certo una piccola minoranza, così come i gruppi palestinesi più militanti e gli Stati islamici, fino a oggi non hanno riconosciuto lo Stato di Israele. Questo conflitto interno ebraico viene da molto lontano; esso si è sempre nutrito del furore dei reazionari clericali contro la secolarizzazione moderna e contro la politica interna capitalista degli interessi  – corrispondendo in un certo modo alla versione ebraica dell’”anti-modernità moderna”, vale a dire, del contro-illuminismo borghese meramente regressivo e autoritario, senza alcun momento di critica emancipante.

Tuttavia, a differenza del mondo occidentale, queste forze autoritarie e reazionarie in Israele non si sono integrate semplicemente nella politica borghese come una corrente radicale di destra. Costituiscono partiti e partecipano alla politica, ma in modo del tutto esteriore e puramente tattico, considerato che di principio si mantengono anti-statali. Tuttavia, ovviamente, non anti-statali in un qualche senso di emancipazione anarchica, ma puramente e semplicemente come programma di una subordinazione diretta della vita al feticismo specificamente religioso, con una mobilitazione politica quasi religiosa.

Come risalta dall’investigazione di Eisenstadt, nel corso dello sviluppo israeliano gli ultraortodossi sono stati considerati una specie di dinosauri dell’ebraismo, che presto o tardi avrebbero dovuto estinguersi. Sotto l’impressione dell’olocausto, essi ricevettero come immigrati ampie concessioni istituzionali, di modo che potessero vivere in Israele, malgrado la negassero in quanto Stato. Niente di tutto questo dovette apparire gravoso o funesto, in quanto Israele, malgrado la sua posizione particolare nella storia mondiale e malgrado il coinvolgimento dell’ostilità araba, si poté sviluppare come Stato capitalista tra gli Stati capitalisti nel contesto dell’accumulazione fordista globale. La posizione degli ultraortodossi si presenta, tuttavia, in modo completamente differente nel contesto della globalizzazione e della crisi capitalistica mondiale. A ogni scoppio della crisi postmoderna, questa forza sociale reazionaria si rivela sempre più come fermento di autodistruzione sociale interna ad Israele. Lungi dall’estinguersi poco a poco, questo segmento politico-religioso della società israeliana, che si presumeva solo grottesco, ha cominciato ad assumere le proporzioni di un tipico fondamentalismo religioso postmoderno.

Due momenti hanno dato a questa tendenza una forza particolare. Da un lato, gli ultraortodossi non dovevano inventarsi da zero quali rappresentanti dello “Stato teocratico”; così come i Wahhabiti dell’Arabia Saudita, gli ultraortodossi non sono mai stati disposti a coltivare la loro nicchia nello spazio della tolleranza religiosa borghese, ma, al contrario, sono stati in attesa di imporre alla società secolare la sua “legge di Dio” come movimento militante. D’altro lato, si sono resi sempre più capaci di farlo in termini istituzionali grazie alle concessioni statali; al contrario della maggioranza dei loro fratelli spirituali islamici, essi non si sono visti obbligati – ancora una volta a somiglianza di quanto accaduto in Arabia Saudita – a formarsi a partire dalla clandestinità. Sotto la protezione dell’onorato cavaliere di Stato “…essi hanno insistito sempre sull’autorità superiore delle loro proprie istituzioni, dei loro centri studio e delle decisioni del loro Consiglio degli Anziani, di fronte al quale erano responsabili i suoi deputati in parlamento. Allo stesso temo presentavano allo Stato numerose richieste, di ordine di principio e religiose; da un lato dovrebbero essere imposte alla popolazione tante limitazioni religiose quanto più possibile, dall’altro, però, hanno chiesto anche diverse concessioni e donativi terreni per le loro necessità, soprattutto per il loro sistema scolastico separato… Inoltre hanno chiesto determinati privilegi e una specie di immunità limitata di fronte alle leggi statali…" (Eisenstadt, op. cit., p. 531).

In altre parole: gli ultraortodossi hanno costituito all’interno dello Stato di Israele fin dalla sua fondazione uno Stato teocratico separato, nemico per principio del sionismo laico; una posizione che, nelle condizioni della nuova crisi mondiale capitalista, si presta ottimamente a dare inizio al processo postmoderno e post-statale di barbarie. Il parallelismo con i vicini nemici di questa regione del mondo non potrebbe essere più chiaro e imbarazzante. Per poter funzionare come fermento di questo processo distruttivo, le forze ultraortodosse devono uscire dall’isolamento senza abbandonare le loro pretese reazionarie clericali e contaminarsi con le altre tendenze sociali che operano nella stessa direzione. 

In primo luogo  è avvenuta “… in connessione stretta con la tendenza generale nella diaspora…una forte espansione dei gruppi ortodossi in Israele. Comunità ultraortodosse e circoli ortodossi di ogni specie sono cresciuti di numero e si sono resi più visibili" (Eisenstadt, op. cit., p. 533). Così come nel resto del mondo in forme diverse, anche in tutto il mondo ebraico e in Israele sono cresciute in termini quantitativi le forme politico-religiose e settarie di lotta con le manifestazioni della crisi sociale.

Sotto questa pressione, non sono tardate a comparire rotture all’interno del sionismo fondatore dello Stato nella sua composizione precedente. Originariamente il sionismo era formato da un’ala laica e socialista e da un’altra nazionale e religiosa. I nazionalisti religiosi, diversamente dagli ultraortodossi, riconoscevano lo Stato di Israele come tale e quindi anche la sua manifestazione secolare; essi agivano come forza politica di partito con vesti ideologiche religiose, come per esempio i democratico-cristiani in Europa. Ma sotto la pressione della crisi tanto all’esterno quanto all’interno e sotto la pressione del forte sollevamento degli ultraortodossi, l’”Alleanza Storica” dei religiosi nazionalisti con la corrente principale laica del sionismo laburista ha cominciato a disfarsi a vista d’occhio. I nazionalisti religiosi si sono avvicinati agli ultraortodossi e viceversa, il che ha significato che ai primi è cominciato a essere imposto il fanatismo religioso e ai secondi il nazionalismo militante. Già solo questa convergenza ha costituito un detonatore della società israeliana, con effetto esplosivo tanto all’esterno quanto all’interno.

Si sono in seguito aggiunti altri fenomeni distruttivi, venuti sulla scia dell’immigrazione degli ebrei verso Israele. Se delle ondate migratorie furono protagonisti, soprattutto al tempo dell’olocausto e immediatamente dopo, soprattutto gli ebrei dell’Europa centrale e orientale (Ashkenaziti), in maggioranza di orientamento laico e occidentalizzato (il che, al dunque, corrisponde all’ideologia sionista), poco a poco il grosso dell’immigrazione ha cominciato a essere costituito da immigrati asiatici e africani, i cosiddetti “orientali” (Sefarditi). La maggior parte di questi nuovi arrivati, in un’epoca di accumulazione capitalista in raffreddamento globale, non ha tardato a costituire la classe sociale inferiore della società israeliana. La contraddizione sociale da qui emersa, comunque, è stata sempre più articolata, non in modo socio-economico, ma piuttosto “etnico-politico”, così com’è tipico del culturalismo postmoderno. Questa etnicizzazione del sociale, specifica dentro Israele, non si è conclusa con un semplice multiculturalismo, ma si è trasformata, sotto la crescente pressione interna ed esterna, in una tendenza in favore di una militante “orientalizzazione” della società israeliana, accompagnata da una mobilitazione dell’odio contro il sionismo laico europeo: è così che già all’inizio degli anni ’80 si vedevano “nelle periferie…a nord di Tel Aviv, molti graffiti con la parola ‘Asquenazi’ (una congiunzione di Asquenaze con nazi) …" (Eisenstadt, op. cit., p. 783).

Come non poteva non accadere, la reazionaria mobilitazione politico-religiosa, nel corso della fusione tra fanatici ultraortodossi e ultranazionalisti religiosi, ha cominciato a legarsi con l’”orientalizzazione” etnico-politica: una miscela di fondamentalismo religioso, nazionalismo estremista ed etnico-politica in un legame unico; a rigore, un esempio paradigmatico dell’attuazione distruttiva della politica di imbarbarimento nelle zone di crisi.

Quantomeno altrettanto problematico, è stato l’arricchimento della società israeliana con un secondo potenziale razzista con motivazione differente, cioè attraverso l’immigrazione catapultata dalla Russia e dagli Stati del C.S.I dopo il collasso dell’Unione Sovietica. “Tutti i giorni si può vedere nell’aeroporto Ben Gurion un aereo dell’Aeroflot o della Trans-Aero depositare un carico di immigrati dalle classi più basse dall’ex-Unione Sovietica” (Kampfner, 2002). Il carattere “ebraico” (del resto un costrutto storico come tutte le altre definizioni etniche e, come lo Stato di Israele, legittimato solo dall’antisemitismo esistente in tutto il mondo) di molti di questi immigrati è più che dubbio; al dunque, le condizioni sono talmente orribili in molti luoghi della società ex-sovietica al collasso che perfino l’immigrazione nella minacciata Israele si presenta come un’occasione sociale. D’accordo con la legge israeliana del ritorno, gli immigrati devono “dimostrare di avere un avo ebreo. Nella maggior parte degli Stati ex-sovietici, i documenti necessari possono essere facilmente acquistati in cambio di denaro" (Kampfner, 2002). Così come nel caso dell’emigrazione dei cosiddetti russi con ascendenza tedesca verso la Germania occidentale, qui si mostra il carattere ambiguo e la doppiezza dei criteri “etnici” in generale; questi sono sempre suscettibili di acquisire un contenuto razzista di significato duplice, tanto includente quanto escludente.

Gli immigrati russi con ascendenza ebraica reale o falsa, in maggioranza originari della classe inferiore russa dei cosiddetti “sovs", hanno modificato ancora di più il profilo della società israeliana: "Oggi costituiscono un sesto della popolazione totale. Influenzati per generazioni dalla dittatura sovietica e mentalmente condizionati in modo conforme, questi “sovs” poco sapevano riguardo Israele e molto meno riguardo gli arabi. Mentre prima odiavano i “negri” delle repubbliche sovietiche del sud o dell’Asia centrale e transcaucasica, ora virano il loro odio contro i palestinesi e contro i paesi musulmani che circondano Israele… Gli unici sovs che hanno contatti regolari con i palestinesi sono i membri  delle organizzazioni criminali dediti ad attività molto redditizie come la ricettazione di automobili rubate o il traffico di armi verso la Cisgiordania e verso la Striscia di Gaza. Le armi le ottengono dai soldati israeliani che così finanziano il loro consumo di droga” (Kampfner, 2002).

Quasi tutti gli immigrati "sovs" sono di orientamento fortemente laico e non hanno nulla a che fare con l’allucinazione religiosa degli ultraortodossi. Ma in nessun modo hanno modificato la parte laica degli israeliani in un senso emancipatorio. Poiché ciò che portano con sé, e riorientano, è il residuo razzismo laico dei ceti inferiori del capitalismo che si fonde contraddittoriamente con il razzismo su base religiosa: “Non è la religione che li muove. La maggioranza dei sovs non possiede alcuna religione. Essi costituiscono con gli altri gruppi della società israeliana un’informale e diabolica alleanza che ha modificato profondamente il panorama politico" (Kampfner, 2002).

Quello che deve inevitabilmente contribuire quale aggravante addizionale è il fatto che Israele, come parte integrante della società mondiale capitalista, è evidentemente sottoposta alle sue tendenze economiche ed ideologiche principali. Sotto l’egida globale del neoliberismo, coi suoi principi fondamentali di privatizzazione, deregolamentazione e globalizzazione, tutti i momenti socialisti del sionismo dovevano perdere la loro forza agglutinante. In particolare l’idea del kibbutz non è stata rinnovata in accordo coi tempi, né in termini intellettuali né in termini pratici, ma ha sofferto un declino quantitativo e sostanziale. Alla ristretta ideologia della comunità non si è sostituita alcuna critica avanzata della forma del soggetto capitalista ma, come in tutto il mondo, la progressiva capitolazione di fronte a due manifestazioni postmoderne strettamente interrelate, quali, da un lato, l’individualizzazione astratta per la coercizione del mercato e della concorrenza, e, dall’altro, il culturalismo religioso o etnico militante.

In termini a prima vista politici, tutti questi sviluppi non hanno tardato molto a provocare un cambiamento completo delle relazioni di potere in Israele: il laico sionismo laburista è stato sempre più messo con le spalle al muro; è avvenuta una “crescita inizialmente lenta ma continuativa del Gachal, che più tardi ha dato origine al blocco del Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 526), il centro politico della tendenza reazionaria all’imbarbarimento con tutta la coda di cometa dei partiti ultra-religiosi, ultra-nazionalisti, etnico-politici, gruppi scissi, sette e organizzazioni di lotta fanatiche che oggi costituiscono, come minimo, l’ago della bilancia per la costituzione del governo: Il governo Likud di Ariel Sharon si poggia sugli immigrati sovietici, sugli ebrei sefarditi e sugli ultra-ortodossi" (Kampfner, 2002).

Questi fatti sullo sviluppo politico-sociale di Israele a maggior ragione gettano una luce incandescente sulla sconvolgente ignoranza dell’”antimperialismo” tradizionale della sinistra: mentre questo continua a urlare le sue parole d’ordine “antisioniste”  (da sempre con una carica antisemita che oggi si mostra ovvia), in realtà è ormai da molto tempo che il sionismo laico è stato fiaccato dalle stesse forze antisioniste e anti-civilizzatrici postmoderne di Israele. Anche da questo punto di vista, l’antimperialismo “rivoluzionario nazionale” ormai è meramente anacronistico. La salita del blocco Likud è stata accompagnata da una delegittimazione sistematica del pensiero sionista originario e ha equivalso in larga misura a un processo di erosione della società israeliana orientato tanto verso l’esterno che al proprio interno.

Per quanto riguarda l’orientamento verso l’esterno, la posizione difensiva di fronte agli arabi si è convertita in ostilità militante, arroganza culturalista e idee aggressive di conquista. Questo orientamento ideologico degli ultras per guadagnare visibile influenza si è riflettuto nella pratica di un programma di colonizzazione nuovo formato da estremisti di destra. Il Gush Emunim ("Blocco dei credenti"), fondato nel 1974, ha predicato un nuovo ideale di "pionierismo", ormai non socialista, ma religioso e nazionalista, con l’obiettivo di espellere i residenti arabi e, in ultima istanza, incorporare ad Israele le aree occupate: “La politica dei coloni in Giudea e Samaria si è incamminata infatti in una nuova direzione dopo l’arrivo al potere del governo Likud… Il processo di colonizzazione sotto il governo Likud ha mostrato alcune caratteristiche tipiche. La prima è stata la sua enorme dimensione. Mentre tra il 1967 e il 1977 furono fondate circa quaranta nuovi insediamenti, tra il 1976 e il 1983 ne sono sorti quasi il doppio… La seconda caratteristica del processo di colonizzazione sotto i governi Likud riguarda la localizzazione dei nuovi insediamenti. Ai tempi del blocco laburista, gli insediamenti furono collocati in aree senza residenti arabi o con molto pochi di loro… La scelta del luogo per i nuovi insediamenti è mutata profondamente sotto il governo Likud. L’obiettivo era ora quello di ottenere il massimo della presenza ebraica in tutte le parti della Cisgiordania. Invece di risparmiare le regioni con una densa popolazione araba hanno preferito esattamente queste aree per la fondazione di insediamenti, arrivando perfino a collocare insediamenti in grandi città arabe come Nablus, Ramallah e Hebron. La localizzazione esatta dei nuovi insediamenti si è orientata in base all’identificazione di una determinata località con un villaggio biblico…" (Eisenstadt, op. cit., p. 754 sg.).

Questa colonizzazione non obbedisce più a un qualsiasi tipo di ideale universale, come nel caso del sionismo laburista, e dunque non esprime più, implicitamente, l’esigenza che si abbia un luogo per tutti i perseguitati e che inoltre tutti gli esseri umani possano insediarsi in qualsiasi luogo, basta che non sia a scapito di altri. Ben al contrario, il Gush Emunim rappresenta una politica di "purga" ed espropriazione etnico-politica, con un fondamento di legittimazione del tutto irrazionale  (biblico). A questo paradigma, l’ora capo del governo israeliano ha corrisposto già dai primi anni ‘80: "La politica generale di colonizzazione…era sotto la direzione dinamica di Ariel Sharon…" (Eisenstadt, op. cit., p. 757). Non per caso sotto la direzione di Sharon, quale ministro della difesa, nel 1982 è stata condotta l’incursione in Libano, per la prima volta puramente aggressiva e non imposta dall’esterno, culminata nel famigerato massacro di Sabra e Chatila, vicino Beirut: qui le milizie cristiane alleate di Israele hanno assassinato più di 800 civili palestinesi sotto lo sguardo dell’esercito israeliano, con l’evidente tacita approvazione di Sharon.

Quanto all’orientamento verso l’interno, come in qualsiasi altra parte del mondo, la svolta a destra della società israeliana è stata accompagnata in misura crescente da casi di corruzione e soprattutto da un’inconciliabile scissione, che già negli anni ’80 ha condotto a una retorica della violenza sempre più aggressiva della destra contro la sinistra israeliana: “Queste tendenze di scissione si sono associate in una misura considerevole a una violenza quantomeno verbale e a illegalità a diversi livelli che…in molte aree della vita si sono prolungate nel tempo. Ciò si è manifestato nelle relazioni quotidiane, nel traffico stradale e nell’alto tasso di incidenti. In stretto legame con questa violenza c’era la crescente intolleranza contro gli avversari, inclusa la tendenza a coprirli con designazioni estremamente sprezzanti… Questi sentimenti di discordia e ostilità, espressi con veemenza, si sono incontrati soprattutto nei gruppi prossimi al Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 745).

La delegittimazione del sionismo laburista non ha risparmiato nessun aspetto, sia i kibbutz sia la Centrale Sindacale Histadrut: "Di particolare importanza sono state le invettive d’odio improvviso… contro i kibbutz, questo simbolo centrale del modello sionista…" (Eisenstadt, op. cit., p. 735). Così come i kibbutz, anche il movimento sindacale ha sofferto sotto la duplice pressione della crisi capitalistica e della globalizzazione neoliberale, da un lato, e dell’odio politico religioso dei radicali di destra, dall’altro: “In generale, l’Histadrut stava perdendo sempre più il suo posto come partner del governo nella formulazione della politica economica. Molto spesso è stata emarginata…" (Eisenstadt, op. cit., p. 771). Nemmeno il ruolo storico dell’Hagana sionista, il nucleo militare della fondazione dello Stato di Israele, è stato risparmiato in questo processo di delegittimazione: “Anche la storia della lotta contro gli inglesi e per l’indipendenza è stata riscritta – soprattutto con l’obiettivo di minimizzare il ruolo di Hagana in tutto questo processo” (Eisenstadt, op. cit., p. 767).

Alla fine della sua indagine, Eisenstadt manifesta la speranza che Israele, malgrado questo sviluppo, possa raggiungere un nuovo "equilibrio dinamico" e superare le tendenze verso l’autodistruzione. Purtroppo gli anni ’90 hanno dimostrato esattamente il contrario. L’omicidio del primo ministro Yitzhak Rabin nel novembre del 1995 per mano di un giovane fanatico ebreo nazionalista-religioso ha costituito solo la punta dell’iceberg che minaccia di far naufragare Israele a causa del suo imbarbarimento fondamentalista. In questo senso, l’indagine di Michael Karpin e Ina Friedman "La morte di Yitzhak Rabin" (1998), pubblicata in originale con il titolo d "Murder in the name of God [Assassinio in nome di Dio]", si legge come un’inquietante prosecuzione dell’analisi di Eisenstadt. Karpin e Friedman, che sono tra i più conosciuti giornalisti israeliani, mostrano con audace chiarezza quanto sia progredita nel frattempo la distruzione fondamentalista religiosa e nazionalista radicale di destra della società israeliana, e, ancora una volta, tanto verso l’esterno quanto al proprio interno. Il fatto che con Yitzhak Rabin fosse arrivato al potere più volte un governo laico-sionista poteva essere attribuito alla volontà di pace e di conciliazione della maggioranza degli israeliani; ma la fine sanguinosa di questa politica, per quanto sia rimasto un semplice episodio, risale al potere ormai maturato dalla tendenza fondamentalista.

Tanto prima come dopo l’omicidio di Rabin, era visibile un rafforzamento, che si prolunga fino a ora, della politica di colonizzazione ed espropriazione militante contro la popolazione araba, la cui dimensione ha preoccupato frequentemente perfino i negoziatori statunitensi. Già Eisenstadt ha rilevato, nell’ultima parte della sua indagine, il carattere razzista dell’ideologia della colonizzazione e del suo appoggio da parte delle alte sfere della società israeliana; come egli scrive, “alcuni gruppi religiosi giustificavano un comportamento estremamente xenofobo che invocava le accuse bibliche contro Amalek" (Eisenstadt, op. cit., p. 787). Il primo ministro del governo Likud, Begin, disumanizzerà pubblicamente i palestinesi come “animali a due zampe”; e, nella stessa misura in cui la maggioranza dei rabbini ortodossi di Israele sempre più apertamente propagandavano lo “Stato teocratico” ebraico, anche questo razzismo è salito di tono. Il rabbino Yitzhak Ginsburg, uno degli estremisti della linea dura, ha pubblicato un decreto “secondo il quale sangue ebraico e sangue non ebraico non sono identici” (Karpin/Friedman, 1998, p. 18). E il famoso rabbino Meir Kahane, uno degli ideologi della destra fondamentalista, egli stesso assassinato nel 1990 in un’apparizione pubblica a New York, “ha definito…tutti gli arabi come un’epidemia di batteri che ci avvelena” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 69).

Ormai da più di dieci anni, gente di quest’epoca era tanto “emarginata” in Israele quanto più o meno un Jörg Haider in Austria; per il funerale di Kahane a Gerusalemme “sono venute più di 15.000 ospiti e il discorso funebre è stato pronunciato niente di meno che dal rabbino capo di Israele Mordechai Eliyahu… Tra i presenti a rendere l’ultimo saluto a Kahane vanno inclusi anche due ministri e una serie di deputati di destra alla Knesset" (Karpin/Friedman, 1998, p. 70).

La motivazione razzista è diventata il propulsore per una serie infinita di atti di violenza dei coloni israeliani. E’ stato il caso, per dare solo un esempio, dell’assalto nell’estate del 1983 di un gruppo di estremisti mascherati all’Università di Hebron, che hanno ammazzato tre palestinesi e ferito molti altri col fuoco di fucili e bombe. In seguito è stato perpetrata un’innumerevole quantità di attentati con le bombe contro presidenti arabi della camera. Sono stati pianificati grandi attentati contro la moschea Al-Aksa di Gerusalemme e altri simboli islamici, anche se evitati in tempo. Perfino conosciuti leader politici di destra hanno partecipato personalmente ad atti di violenza, come nel caso del membro della “centrale d’azione” della destra contro Rabin, Gadi Ben-Zimra. Nel quotidiano sono stati proprio i gruppi dei coloni più esposti, frequentemente minuscoli, che, sotto la protezione dell’esercito, hanno terrorizzato i vicini palestinesi, rovesciando le loro vendite di ortaggi, mirando alle loro case, distruggendo le loro auto etc. Spaventoso è stato l’attentato suicida del medico Dr. Baruch Goldstein, del famoso insediamento di Kiryat Arba, vicino ad Hebron, che nel 25 febbraio del 1994 ha ammazzato 30 palestinesi con un fucile automatico durante l’orazione del mattino per poi finire linciato dai sopravvissuti inferociti. Goldestein ha raggiunto lo status di “martire” in ampi circoli ortodossi e nazionalisti, nei quali è arrivato ad essere definito “vittima del terrore arabo”, e nello stesso “equiparato alle vittime dell’olocausto nazista” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 104, 177).

Tutte queste violente eruzioni di odio razzista-nazionalista e di allucinazione religiosa sono state organizzate e non atti isolati. I coloni hanno costituito milizie private proprie, con armi fornite dall’esercito su mandato del governo  Likud, e rapidamente hanno cominciato ad autonomizzarsi dalla stessa amministrazione Likud, e ad agire illegalmente e arbitrariamente come “resistenza clandestina armata”: ancora una volta, ciò è accaduto in palese analogia con i loro vicini arabi e palestinesi. La distruzione interna di Israele ormai raggiunge il livello dei signori della guerra. La stampa laica israeliana così non ha tardato a definire “i fuochi di violenza dei coloni come confine del selvaggio west…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 64).

Paradossalmente, gli haredim e gli ultra-nazionalisti, nella stessa misura in cui hanno esautorato e distrutto l’autorità e le istituzioni dello Stato di Israele, hanno reinterpretato radicalmente il fondamento legittimatorio di questo Stato: mentre il loro attivismo fondamentalista ha distrutto lo Stato al suo interno, questo ha dovuto assumere verso l’esterno la sproporzionata dimensione di una “grande Israele”. Da luogo di rifugio secolare dei sionisti si è trasformato nel luogo biblicamente mistificato di una promessa di salvezza nazionalista e religiosa; e da questo punto di vista di un’”antipolitica” fondamentalista religiosa dei radicali di destra, l’insediamento delle frontiere non può essere nemmeno il risultato di negoziazioni.  Invece di queste, la convinzione fanatica afferma che “c’è solo una direttiva per fissare i confini: la promessa di Dio al patriarca Abramo (!): Io darò ai tuoi discendenti la terra che va dal fiume d’Egitto al grande fiume Eufrate (Moisés I, 15,18). Tali frontiere comprendono oggi la maggior parte del Medioriente, dall’Egitto fino all’Iraq (!)…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 15).

Nel processo di fusione di fondamentalismo religioso, nazionalismo secolare, razzismo e politica etnica, la dottrina della salvezza dal Messia si è trasformata in un costrutto post-politico, che si autodefinisce come “rivoluzionamento” politico-religioso della società israeliana: “La rivoluzione neo-messianica è stata imposta dalle sinagoghe e dalle scuole degli insediamenti. Le sinagoghe ormai non erano luoghi di preghiera, ma centri di indottrinamento politico, le scuole talmudiche non erano più i luoghi dell’erudizione, ma forgiavano i quadri del movimento della grande Israele… E’ stato costruito un enorme apparato di propaganda, sotto l’apparenza di associazioni presumibilmente apolitiche, favorite dall’esenzione fiscale… Un risveglio di questa dimensione non accadeva nel mondo ebraico dall’ascesa del sionismo un secolo prima…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 291).

Il movimento teocratico neo-messianico in favore di una spettrale grande Israele ha agito con la stessa violenza crescente, legittimata dalla teologia talmudica, verso l’interno così come verso l’esterno. Anche questa violenza interna, diretta soprattutto contro la sinistra laica, è cominciata presto, in parallelo con la violenza razzista dei coloni nelle zone occupate. Il pretesto è stato dato da un incidente nel febbraio del 1983: "Yonah Abrushmi, un giovane guidato dalla retorica sfrenata della destra, lanciò dalla sede della presidenza del consiglio dei ministri una bomba a mano contro una moltitudine di manifestanti del movimento Pace ora. Nell’attentato morì un uomo, Emil Grunzweig, e altre undici persone rimasero ferite" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 155).

La violenza e la retorica della violenza della destra teocratica e/o nazionalista, in forme in parte esplicite, in parte subliminali, non sono diminuite da allora. L’assassinio di Rabin è stato preceduto da una lunga campagna di agitazione in cui varie volte la sua morte è stata reclamata pubblicamente; nei giorni seguenti,  "turbe spettrali" di rabbini fondamentalisti hanno declamato in un modo pseudo-medievale, di fronte alla sede del loro governo, d’accordo con la cosiddetta Din Rodef, la sentenza di morte talmudica verso gli ebrei traditori. E per una parte spaventosamente grande della società israeliana, questo assassinio è stato in parte accettato passivamente, in parte motivo di giubilo mascherato e in molti casi perfino aperto. L’assassino, Jigal Amir, è stato considerato un “eroe” da molti teenagers e ha ricevuto una massa di congratulazioni per posta etc. E l’approvazione più o meno tacita o, quantomeno, la banalizzazione di questo omicidio penetra profondamente nei più alti circoli della destra politica: “Quasi due anni dopo l’assassinio, Sharon, come ministro del governo di Netanyahu, ha ripetuto l’affermazione dei radicali di destra e dei rabbini estremisti: colpa di Yitzhak Rabin della propria morte, dovuta alla sua testardaggine" (Karpin/Friedman, ob. cit., p. 301).

In analogia con la cultura globale dell’amoque [attentatore-suicida; n.d.t.], con il suo amalgama di aggressività e auto-annichilimento, anche la destra nazionalista teocratica di Israele, come gli islamisti, ha elaborato giustificazioni dell’attentato suicida, di cui il caso dell’omicidio di massa per mano di Goldstein ha costituito un precedente. E così come nel caso degli islamisti, la reinterpretazione militante dei concetti religiosi è servita a questa impresa: "Kidush ha-Shem, piuttosto che essere associato al fervore messianico dei coloni di Gush-Emunim, era un martire che sceglieva la morte invece della conversione forzata... La trasformazione aggressiva di questo martirio in Goldstein è stata rapidamente lodata dai fanatici ebrei... In un libro intitolato Baruch ha-Gever (Uomo benedetto) si elogia il suo martirio come la più elevata espressione di convinzione religiosa e si esorta ad imitarlo. Il rabbino Elitzur Selga... ha scritto che i santi rabbini non hanno mai condannato il modello di missione suicida di Goldstein. Evidentemente una morte ancor più certa, per esempio quando una persona si fa esplodere con i suoi nemici con una bomba, è ugualmente lodata come un atto nobile..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 67). Non si poteva dire con più chiarezza che l’acuta e manifesta pulsione di morte della ragione capitalista può indossare qualsiasi veste ideologica.

Anche dal punto di vista culturale e politico-sociale, si è intensificata negli anni ‘90 la pretesa teocratica radicale di fronte alla società israeliana e contro la sinistra laica; e ciò accade di nuovo con un’imbarazzante analogia con i loro vicini nemici arabi. Così come i Wahhabiti e tutti gli altri islamisti, anche le forze ultraortodosse nazionaliste religiose oggi non solo fulminano verbalmente “la cultura vuota dell’occidente” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 23), il materialismo moderno, l’erosione dei valori patriarcali etc, ma pretendono di sottomettere la società ai loro comandamenti irrazionali come mai prima. Esattamente come tra gli islamisti, emerge qui in primo luogo un’ostilità militante nei confronti della sessualità. Gli stessi ortodossi moderati sono atterriti dalla pressione istituzionale che gli haredim puritani esercitano nel frattempo in questo senso. Così citava per esempio nel 1997 il professore Jehuda Friedländer, retore dell’Università di Bar-Ilan, "esempi delle mutazioni nella propria cerchia familiare... E’ strettamente osservata l’etichetta esterna in modo che si vietano alle ragazze i calzini corti... La lunghezza della gonna e l’altezza dello spacco sono rigidamente vigilate... E’ stato proibito ai padri di recarsi alla cerimonia di laurea delle loro figlie perché qui si esibiva un coro di ragazze... Il preside della scuola elementare di suo figlio ha proibito al giovane di frequentare in estate un campo di ferie scientifico organizzato dall’università ebraica... Cento anni fa non frugavano (negli affari privati), oggi si gettano sulle più piccole minuzie, per quanto personali siano..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 73).

Il potere istituzionale dell’ortodossia e dell’ultraortodossia dei rabbini domina ampi settori del diritto civile, dal momento che non sono mai stati secolarizzati. Questo potere comporta seccature insopportabili alla vita personale, anche per coloro che non hanno nulla a che vedere con la religione: "Per gli ebrei di Israele questo significa che essi sono controllati dall’establishment religioso ortodosso e che, con il passare degli anni, questa regolamentazione ha avuto un effetto devastante sui diritti civili di innumerevoli cittadini. A causa dell’asfissia dei clericali ortodossi, nessun ebreo israeliano, nemmeno l’ateo più consolidato, può sposarsi fuori dalla loro fede... Alle migliaia di bambini israeliani che sono stati adottati dall’estero è vietata la conversione all’ebraismo perché i loro genitori non professano lo stile di vita ortodosso. E’ severamente proibito alle donne deporre davanti al tribunale rabbinico, al quale si deve ricorrere per il divorzio..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 76).

Anche il disprezzo e la repressione delle donne da parte dei rabbini sono del tutto identici a quelli degli islamisti (e naturalmente anche a quelli dei cristiani tradizionali e in generale ai patriarcati e neo-patriarcati delle ideologie di crisi in tutto il mondo). Nelle comunità dei credenti rigorosi il comportamento misogino è la legge pratica del quotidiano che cade come il gelo sulle relazioni della vita degli individui, come per esempio mostra l’angosciante film di Amos Gitai, "Kadosh". E questa pseudo-arcaica legge quotidiana della repressione delle donne si estende in molti modi, con l’intermediazione del potere istituzionale, sulla vita secolare israeliana.

Lo stesso vale per il disprezzo e la persecuzione dei gay, diffusi tanto dai credenti ultraortodossi quanto dai razzisti laici "sovs". Gli attacchi di odio a Rabin, prima del suo assassinio politico, includevano regolarmente lo slogan "Rabin è gay" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 113). La stessa omofobia militante degli islamisti non si trova solo tra gli ultras israeliani, ma anche tra i loro sostenitori e mentori nella diaspora ebraica, non da ultimo negli Usa, dove i gay sono apertamente considerati dubbi. E’ stato così che il rabbino radicale di New York Abraham Hecht (un eroe anche per la destra israeliana) ha appoggiato con invettive demagogiche anti-gay l’elezione del sindaco Giuliani, che più tardi ha guadagnato notorietà attraverso misure draconiane contro i poveri. “Quando egli ha appoggiato Giuliani nel 1989, ha annunciato che il suo candidato avrebbe pulito finalmente una città corrotta da mali come il sesso prima del matrimonio, gli aborti e i crimini dell’omosessualità (!), e ha sostenuto (così come la sezione locale del Ku-Klux-Klan) la pena lieve a un assassino da un giudice del Texas perché le vittime erano effemminate, secondo le parole del giudice" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 220).

L’ideologia neo-arcaica, aggravata dal razzismo e dal nazionalismo, è accompagnata da un comportamento rituale compulsivo, di nuovo analogo all’islamismo, così come alle sette sincretiche occidentali. Per esempio, dopo i devastanti attentati suicidi palestinesi, i fanatici ultraortodossi cercano di separare “etnicamente” i resti dei corpi, così che ogni pezzo del corpo del suicida dell’altra “razza” non venga per errore a essere sotterrato insieme con i corpi degli ebrei. Contro la volontà della popolazione laica, sono imposti dalla destra religiosa sempre più vincoli religiosi alla vita quotidiana, i quali man mano traboccano al di là dell’immediata competenza istituzionale degli ultraortodossi.  Il volto di Israele va cambiando a ogni nuova concessione ai partiti religiosi attraverso la tecnica della politica di coalizione. Da un lato, quanto al suo sistema politico, il paese è una democrazia capitalista di impronta occidentale, che, tuttavia, come già osservato, non è ma stata riconosciuta dagli haredim; dall’altro, il quotidiano israeliano eguaglia sotto molti aspetti quello di uno Stato teocratico secondo il modello dei talebani.

E’ perfettamente chiaro che qui si prepara un catastrofico confronto decisivo tra due progetti di mondo e di vita che si escludono a vicenda. Se Eisenstadt, nella sua inchiesta storico-sociale del 1984, ancora concludeva con la speranza di un compromesso interno, ormai la valutazione dello stato interno di Israele per Karpin/Friedman, 14 anni più tardi, è nera come la pace: "Gli israeliani vedono il paese sempre di più come un barile di polvere esplosiva con la miccia accesa. La maggiore minaccia per loro non è il terrorismo fondamentalista, né la guerra con i vicini, ma la dissoluzione interna... Quando in un sondaggio Gallup per il giornale Ma’ariv nel secondo anniversario dell’attentato, si è domandato agli intervistati se il paese sarebbe più vicino all’unità o alla guerra civile, più del doppio degli israeliani (56 contra 21%) ha risposto che sarebbe più vicino all’omicidio fratricida che alla pace interna" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 427).

Se l’imminente scarica violenta delle contraddizioni interne è stata finora ritardata in Israele, ciò è da attribuire in prima linea all’aggravamento della situazione all’esterno con i palestinesi, dall’inizio della cosiddetta Intifada di Al-Aqsa. I proclami di odio antisemita, gli attentati suicidi e le formazioni quasi militari delle milizie dei signori della guerra palestinesi non solo hanno portato in primo piano le contraddizioni esterne, ma hanno anche deviato per ora verso l’esterno l’energia razzista, fondamentalista e nazionalista della destra israeliana, tanto più che al momento questa destra costituisce il mainstream sociale e tiene fermamente in mano il timone istituzionale.

Anche il procedere dell’esercito israeliano nei territori occupati sotto il governo di Sharon è corrispondente, e ormai non può essere interpretato come atto di autodifesa da parte di un potere largamente superiore in termini tecno-militari. Naturalmente, così come in tutto il mondo, le tendenze dell’estrema destra della società si sono impiantate con maggiore forza nell’esercito. Quando le relazioni dei giornalisti occidentali, così come dei gruppi di opposizione e delle organizzazioni umanitarie israeliane, riportano tutta una serie di crimini di guerra dell’esercito israeliano, non si tratta solo di disinformazione della propaganda palestinese.

Così, sono state deliberatamente distrutte case private, monumenti storici e obiettivi senza alcun interesse militare: "A Ramallah i soldati hanno devastato il centro di salute dell’Unione Europea, distruggendo la sezione ottica, l’ufficio delle attrezzature mediche e il centro giovanile… Il ministero della Cultura di Ramallah... è stato evacuato dagli occupanti solo il 2 maggio. Hanno lasciato dietro di sé uffici devastati, sudici  e pieni di terra, computer distrutti e scaffali vuoti… perfino i sanitari del bagno sono stati distrutti. Nell’amministrazione della città di Ramallah i soldati hanno fatto esplodere le casseforti delle finanze locali e hanno spaccato tutti i dischi rigidi dei computer. Al Ministero dell’Educazione… hanno fatto sparire i documenti per i vicini esami finali e i timbri di convalida dei certificati d’esame; per concludere la loro opera, hanno arato i giardini con i loro carrarmati. Secondo le informazioni fornite dal ministro dell’Educazione Abderabboh, i soldati hanno rubato tutti i documenti del registro catastale sulla proprietà della terra, il che è un’amara perdita, alla luce della crescente espropriazione a favore dei coloni ebrei… Secondo numerose testimonianze… i soldati hanno anche causato distruzioni e sottratto oggetti di valore  e denaro nelle scuole e in molte residenze private" (Neue Zürcher Zeitung, 8.5.2002).

Le relazioni sulle perquisizioni e sui saccheggi nei grandi centri commerciali, non solo a Ramallah, sull’assalto ai civili etc, sono talmente numerose e concordanti che si possono considerare veritiere. Si dice, riguardo gli equipaggi dei blindati israeliani, che questi  "si fermavano davanti a negozi, gioiellerie, banche e case di computer e le saccheggiavano" (Wieland/Schäfer 2002). Con il pretesto della ricerca di armi, studenti sono stati espropriati del portafogli. Parte dell’esercito israeliano si comporta nella “terra del nemico etnico” corrispondendo perfettamente a tutto lo sviluppo globale; il procedimento nelle zone palestinesi comincia a diventare parte dell’economia del saccheggio sociale.

Ma non si è trattato solo di ruberie e saccheggi. Nell’aprile del 2002, i portavoce di otto gruppi internazionali dei diritti umani hanno presentato, in una conferenza stampa a Gerusalemme, relazioni su esecuzioni extra-giudiziali e torture effettuate dai soldati israeliani. "Si è saputo di un gruppo di dieci donne che si sono avventurate in strada dopo una sparatoria: con le braccia in alto, hanno implorato i soldati per poter assistere i feriti indifesi. La loro leader, il medico Dott.ssa Kadah, è stata abbattuta a vista, le altre donne sono state gravemente ferite" (Neue Zürcher Zeitung, 17.4.2002).

La Corte Suprema israeliana ha proibito espressamente la tortura dei prigionieri palestinesi, il che equivale a una confessione del fatto che la tortura a diversi gradi già in passato faceva parte del quotidiano in Israele, così come nelle dittature militari del terzo mondo. Carmi Gillon, ambasciatore israeliano in Danimarca, ha provocato proteste quando ha difeso pubblicamente la tortura ai prigionieri palestinesi anche dopo questa sentenza. Il fatto che l’accusa di tortura è stata formulata di nuovo, in forma massiccia e con dettagli, anche nel caso della più recente offensiva militare israeliana, dimostra che queste pratiche continuano a essere utilizzate. Del destino di Marwan Barghuti, membro del Consiglio Esecutivo palestinese, che è stato detenuto dall’esercito israeliano nell’aprile del 2002, se ne può leggere nelle relazioni della stampa: "Barghuti è vittima della tortura del sonno applicata dal servizio segreto interno israeliano Shin Beth... Inoltre è ripetutamente legato per molte ore a una sedia coperta di chiodi. Ha le mani e i piedi fissati in modo che non può stare dritto. Ha ricevuto ferite talmente gravi alle spalle e alle mani che è stato portato in un’infermeria. E’ stato qui che è avvenuto il contatto con i rappresentanti delle associazioni dei diritti umani. I torturatori hanno minacciato Barghuti di uccidergli il figlio, prigioniero nella città israeliana di Ashkelon" (Neue Zürcher Zeitung, 25.5.2002).

Eventi quali i crimini di guerra, torture etc non possono essere attribuiti solo a trasgressori individuali, come unici colpevoli, tanto più che questi crimini di regola non sono oggetto di condanna, o lo sono solo come “crimini d’onore” (in Israele come in Russia, nel resto della Jugoslavia e in altri luoghi); questi crimini, in realtà, sono sempre anche lo specchio della società da dove provengono. Le atrocità dell’esercito israeliano, che non possono essere giustificate con l’imbarbarimento della società palestinese, si riferiscono all’imbarbarimento della società israeliana stessa, che proprio in questo aspetto è parte integrante della società mondiale capitalista.

Se la contraddizione interna di Israele ancora non si è manifestata in forma violenta in grande scala, ciò non si deve attribuire solo all’”esportazione” della violenza e dei potenziali di odio radicale di destra e teocratici attraverso il rinnovato confronto esterno con gli avversari palestinesi complementarmente imbarbariti. Un fattore addizionale è il declino della sinistra secolare e anche delle forze laiche in Israele. Non c’è da stupirsi se il partito dei lavoratori ha seguito già da molto temo il cammino di tutte le società socialdemocratiche. L’assassinio di Rabin non ha liberato alcun potenziale di critica, ma ha spinto, piuttosto, verso destra i resti del sionismo dei lavoratori, da molto tempo indebolito; a somiglianza dell’evoluzione di tutte le socialdemocrazie all’inizio della prima guerra mondiale. Anche allora, nonostante tutti i leader socialdemocratici fossero morti assassinati per mano dei radicali di destra (ciò che accadde in Francia, con Jean Jaurès), la politica delle tregue continuò.

Inoltre, la coscienza della gioventù israeliana laicamente orientata, soprattutto dalla sinistra, così come dei loro coetanei europei e nord-americani, è fortemente impregnata dall’individualizzazione astratta edonista del consumo di merci della cosiddetta postmodernità, che ha pochi argomenti da opporre all’avanzamento dell’altra faccia della stessa tendenza, il fondamentalismo etnico-culturalista. Una sinistra inoltre completamente disarmata di idee dalle teorie postmoderne, che rende inoffensivi il capitalismo e la barbarie come semplici “eventi del discorso” (eventi linguistici), deve diventare essa stessa inoffensiva, il che naturalmente si rivela fatale, particolarmente nelle regioni di crisi, come constata il professore universitario israeliano di sinistra Ren HaCohen: "Questi giovani israeliani si considerano radicali, orientati alla pace, contro l’occupazione e tuttavia condannati a vivere sottomessi a fanatici retrivi. Allo stesso tempo però la stessa struttura della coscienza gli rende possibile adeguarsi all’occupazione… La moda intellettuale del cosiddetto postmodernismo – in occidente ormai in declino, ma ancora vivissima nella provinciale Israele – gioca qui un ruolo importante… Dal momento che non esiste alcuna verità, non possiamo opporre una qualsiasi resistenza a nulla senza appoggiare realmente nulla. Le parole sono più importanti delle azioni. Il linguaggio è il fondamento di tutto, l’analisi del discorso la chiave per tutto… Il caso di Israele rappresenta un’impressionante dimostrazione di quanto pericolosa sia questa ideologia" (HaCohen 2002).

In queste circostanze è possibile che ormai l’esclusione dell’indebolita sinistra laica proceda a freddo. E’ quel che dice, per esempio, la direttrice dell’Istituto Cohn nell’Università di Tel Aviv, Rivka Feldhay, sulla situazione degli intellettuali laici e di sinistra nelle università: “La ministra per le questioni dell’educazione in Israele, l’ultranazionalista Limor Livnat, cerca di isolarci e di boicottarci. La ricerca e l’istruzione in Israele sono finanziate da un consiglio per l’istruzione superiore. La nuova ministra ha ricomposto questa commissione per indebolire le università a beneficio degli scienziati vicino al governo. Ha avuto un buon successo… Ci troviamo nella necessità di chiedere aiuto agli europei. Non con i boicottaggi. Ma perché mettano il loro buon nome sul piatto della bilancia per protestare contro la politica del governo” (Feldhay 2002).

Anche nella vita di tutti i giorni, i rappresentanti della sinistra laica devono fare i conti sempre di più con molestie ed insulti; artisti e intellettuali si sono gradualmente ritirati da determinati quartieri dominati dagli ultraortodossi, a Gerusalemme e in altre città. Ciononostante, l’opposizione di sinistra ancora porta centinaia di migliaia di manifestanti in strada. Secondo le informazioni dell’organizzazione Yesh Gvul (“Esiste una frontiera"), fondata nel 1982 (come reazione all’invasione del Libano ordinata da Sharon), dall’autunno del 2000 più di mille soldati israeliani, tra cui alti ufficiali, hanno rifiutato di prestare servizio sotto il governo di Sharon nelle regioni occupate: “Non è la prima volta che gli israeliani rifiutano il servizio armato, tuttavia mai tanti membri delle unità di combattimento – ufficiali e soldati di riserva – si sono pronunciati pubblicamente per l’obiezione di coscienza nelle zone occupate" (Dachs 2002).

Questa resistenza, che tutt’ora si mantiene, non cambia comunque il fatto che la sinistra nel suo insieme è indebolita e che ha da temere per il suo futuro sociale e istituzionale, e per la stessa propria propria vita, nel caso di una regressione interna ai potenziali di aggressione nazionalista e teocratica. L’accrescimento delle contraddizioni interne minaccia di scatenarsi non per ultimo attraverso una crisi economica catastrofica che è all’orizzonte. Israele che, insieme alla Palestina, come molte altre regioni del mondo, malgrado tutti gli appoggi, ha già grandi difficoltà a causa del processo della globalizzazione capitalista e della dipendenza dall’entrata del capitale finanziario transnazionale, si rovina sommamente con gli enormi costi militari che si ripercuotono nella riproduzione sociale. Anche il governo di Sharon sta seduto sopra un barile di polvere da sparo economico-sociale. La crisi economica, che porta a periodiche crisi di governo, pone inesorabilmente la questione di quale parte della popolazione israeliana debba essere socialmente passata per le armi. E per i partiti degli ultras ormai è diventato inequivocabilmente chiaro che devono essere tutti i ceti secolari, che a loro non piacciono; un disegno che può essere scatenato dai potenziali di odio interno.

La conoscenza di questo sviluppo si riflette in un "voto coi piedi": centinaia di migliaia di israeliani secolari emigrano o pensano di farlo: “Mai si è avuto tanta emigrazione nella storia recente di un paese di immigrazione tradizionale… Non solo il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti hanno attratto molti israeliani come una calamita: perfino Vanuatu, ex-Nuove Ebridi, Stato insulare repubblicano nell’oceano pacifico… A Tel Aviv... 2.000 famiglie già si sono iscritte alla cooperativa ‘Mondragon’ che per 4.500 dollari vende porzioni di terreno di 3.000 metri quadri a Vanuatu. Questo è solo l’inizio, poiché la ‘Mondragon’ ha affittato circa 80.000 ettari di terra per 150 anni da ripartire e vendere agli israeliani desiderosi di emigrare. Il che dà più di 50.000 porzioni, cioè uno spazio per più di un milione di persone" (Landsmann 2001).

C’è qualcosa di profondamente deprimente e commovente nel modo in cui sempre più ebrei secolari voltano le spalle al presunto luogo di rifugio e alla presunta patria di Israele, spinti tanto dai comandi terroristi palestinesi quanto dalla funesta alleanza interna di fanatici religiosi, ultranazionalisti, politici etnici e razzisti secolari. Quanto più la sinistra secolare di Israele si dilegua con questo tragico esodo, più rapido procede necessariamente il collasso e l’imbarbarimento della società israeliana.

Naturalmente si pone la questione di valutare questo triste sviluppo in relazione all’”imperialismo globale ideale” del centro capitalista. In nessun caso una posizione emancipatoria e anticapitalista può consistere in un’”equidistanza” tra israeliani e palestinesi, nel senso di riferirsi solo all’imbarbarimento complementare delle due società mutuamente interrelate nel contesto della crisi generale della globalizzazione. Questo sarebbe avanzare ben poco, perché con tale positivismo di crisi sarebbe offuscata la funzione dell’antisemitismo a livello mondiale e, con essa, il significato particolare dello Stato di Israele.

Israele è sempre entrambe le cose allo stesso tempo: da un lato, uno Stato capitalista periferico sotto le condizioni capitaliste in una regione centrale della crisi; dall’altro, un prodotto specifico della resistenza contro l’ultima riserva dell’ideologia di crisi dell’imperialismo, di segno antisemita. Dunque l’esistenza di Israele, come già osservato, ha una qualità differente da tutti gli altri Stati. Mentre ormai non può più rappresentare un orizzonte di emancipazione sociale  il fatto che i palestinesi costituiscano uno Stato proprio, poiché ormai qui è divenuta attuale la prospettiva post-statale di liberazione, l’esistenza e difesa dello Stato di Israele rimane una condizione decisiva per sostenere la costituzione di un movimento di emancipazione globale e transnazionale di tipo nuovo, che non lasci disperdere l’ansia di libertà attraverso l’apertura della valvola di sfogo dell’ideologia antisemita. In altre parole: di tutti i paesi, Israele è l’ultimo a poter lasciarsi dietro l’esistenza statale e “nazionale”, nel quadro di un nuovo movimento emancipatorio.

L’esistenza in un certo modo duplice di Israele, come volgare Stato capitalista di crisi e come punto di riferimento globale dell’ideologia della crisi capitalista, esige di conseguenza una duplice approssimazione della critica sociale radicale. La difesa di Israele deve essere incondizionata verso una nuova critica del capitalismo; poiché questa difesa costituisce una conditio sine qua non per il contenuto emancipatorio della critica. La difesa incondizionata di Israele, allo stesso tempo, non può astrarre dal reale sviluppo sociale di Israele come una regione capitalista di crisi. Poiché la riduzione dello sviluppo sociale a sfera ideologica e, con essa, la riduzione della critica a critica dell’ideologia, magari ulteriormente ristretta alla sindrome antisemita, manderebbe a gambe all’aria la relazione tra la società e l’ideologia e trasformerebbe la stessa critica dell’ideologia in ideologia.

In questa misura è anche errato, nella prospettiva della critica radicale, sussumere gli avvenimenti in Medioriente esclusivamente allo sbocciare dell’ideologia di crisi dell’antisemitismo in Occidente e soprattutto in Germania, e così, con il pretesto che la tematizzazione dell’evoluzione sociale in Israele “serve” solo all’antisemitismo, nascondere questo sviluppo reale o tingerlo di rosa.

L’antisemitismo non può essere analizzato e combattuto indipendentemente dal suo fondamento sociale, il moderno sistema produttore di merci. Slegata dalla realtà sociale, la critica si trasforma in affermazione, come dimostra la discussione sull’antisemitismo ideologicamente ridotta dentro la sinistra radicale. Se la teoria critica ha sempre sottolineato il nesso interno essenziale tra il capitalismo e l’antisemitismo, tra Auschwitz e la storia tedesca del capitalismo, ora si vorrebbe esattamente al contrario stigmatizzare la critica del capitalismo in quanto tale perché macchiata di antisemitismo, così da costringere la sinistra al silenzio. Una sinistra che ceda a questa pressione deve desistere da sé stessa: il riduzionismo nella critica dell’ideologia, cioè la totale sussunzione della critica sociale a critica dell’antisemitismo, si rivela allora come banale difesa del capitalismo mondiale imperiale globale, sotto il falso pretesto di una critica dell’antisemitismo, che proprio per questo in sé stessa deve smettere di essere vera.

Il ruolo della teoria critica non può essere quello di inventare “piani di pace” per il Medioriente sulla base del  "realismo" capitalista. Su questa base, in qualsiasi modo, non si avrà pace mai, da nessun lato. Il ruolo della critica è l’analisi incorruttibile delle relazioni sociali, dalla quale risulta come conseguenza immanente la critica radicale di queste relazioni. In questo senso, relativamente alle complesse relazioni tra l’ideologia di crisi antisemita (in tutto il mondo, in Occidente e specialmente in Germania e in Austria), l’evoluzione sociale in Israele e il cosiddetto conflitto della Palestina, si può solo trattare di legare la difesa dell’esistenza di Israele all’appoggio della sinistra secolare israeliana e a una lotta comune contro il processo di imbarbarimento del sistema produttore di merci a livello mondiale.

Questa necessaria connessione ha il suo contenuto obiettivo primario proprio nella difesa di Israele, in quanto esistenza diventata Stato di resistenza contro la sindrome globale dell’antisemitismo; poiché questa esistenza si trova minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno. Negli anni ‘90 è avvenuta una rottura nella società israeliana, al punto da mettere in discussione il riferimento comune alla memoria dell’olocausto. Così ha dichiarato il rabbino ultrà Chaim Miller: "La nostra intenzione è quella di una netta separazione tra credenti e non credenti sulla questione dell’olocausto" (cit.: Der Spiegel 8/1995). Il capo del partito ultra-religioso Agu-dat-Israel, Mosche Feldmann, "ha preteso l’istituzione di un luogo della memoria alternativo per i credenti" (ibidem). Questa dissociazione minaccia gli ebrei secolari vittime dei nazisti di essere eliminati dalla memoria: le “vere” vittime ormai sarebbero allora solo gli strettamente religiosi, così come i “veri” ebrei vivi devono essere solo gli ultras. Una tale delegittimazione interna del progetto sionista mette in discussione il luogo storico di Israele, dal momento che i criteri di inclusione e di esclusione sono sostanzialmente  spostati e il fondamento (negativo) della legittimazione cessa di essere l’antisemitismo globale, per diventarlo il nazionalismo etnico positivo, escludente la sinistra ebraica secolare.

Non si prevede che nel breve o medio periodo Israele possa essere vinta militarmente in senso tradizionale dal mondo arabo, che è rimasto molto indietro in termini capitalistici. Invece di ciò, Israele è messa in discussione dalla pulsione di morte della ragione capitalistica, sia fuori che all’interno; dai comandi suicidi, magari con cariche esplosivi atomiche o biologiche, così come dall’autodistruzione teocratica e razzista. Il calcolo dell’imperialismo occidentale del petrolio potrebbe accettare esattamente una distruzione violenta della società israeliana dall’interno per una riorganizzazione regionale, che allo stesso tempo lascerebbe libero il cammino all’ideologia di crisi antisemita nello stesso occidente.

(Cap. IV del Libro La Guerra per l’ordine mondiale, Robert Kurz, 2003)

traduzione by lpz