(Cap. IV del libro LA GUERRA PER
L’ORDINE MONDIALE, Robert Kurz, Gennaio 2003)
Nel processo di barbarie e di autodistruzione
del sistema mondiale dominante esiste un punto focale in cui si aggrovigliano
in modo speciale la globalizzazione distruttiva capitalista, la storia e la
costituzione ideologica del mondo moderno nei suoi limiti sistemici storici – è
il Medio Oriente, con Israele e il cosiddetto conflitto della Palestina al centro.
A prima vista sembra trattarsi del campo più importante dell’imperialismo
occidentale del petrolio. Il che è certo, mettendo in conto il grezzo interesse
della cultura della combustione capitalista. Ma questo conflitto non è
circoscritto affatto a questo aspetto; al contrario, esso include anche
un’altra dimensione essenziale, completamente differente, che è la logica
dell’antisemitismo quale ideologia centrale della crisi capitalista, e la relativa
costituzione dello Stato di Israele, Stato che per questa ragione non è uno
Stato come gli altri.
La religione della
combustione capitalista e i regimi del petrolio
Tuttavia, il quadro sarebbe
incompleto e fuorviante se ignorassimo totalmente lo sfondo degli interessi
dell’imperialismo occidentale del petrolio. Come il Medio Oriente, per motivi
naturali e geografici dovuti alla localizzazione dei giacimenti, è e continua a
essere la fonte principale di combustibile per la macchina mondiale
capitalista, è qui che si deve concentrare l’intervento dell’"imperialista
globale ideale" quale polizia mondiale. Questo è un aspetto non trascurabile
della definizione culturalista del nemico applicata all’Islam; poiché è proprio
insieme alle sorgenti sacre della religione della combustione capitalista, dove
il fine in sé irrazionale della “valorizzazione del valore”, per così dire, si
materializza in termini energetici, che i prodotti islamici dell’imbarbarimento
indotto dalla globalizzazione vengono inevitabilmente percepiti come particolarmente
“inquietanti” e pericolosi (molto di più, per esempio, che in Pakistan o in
Indonesia).
Come in ogni altro aspetto,
l’”imperialismo globale ideale”, anche e soprattutto su questo terreno
specifico della globalizzazione e d’intervento di un’auto-proclamata polizia
mondiale, si avvolge in contraddizioni inestricabili che lasciano intravedere,
dietro il pragmatismo della razionalità dell’obiettivo, il delirio oggettivato nel
sistema e nei suoi protagonisti.
Si tratta innanzitutto del
posizionamento di fronte al mondo arabo e musulmano. Un’aperta dittatura
occidentale su tutta l’area principale dell’estrazione del petrolio consisterebbe
in uno stato d’emergenza difficilmente sostenibile in forma duratura e avrebbe
con ogni probabilità ripercussioni catastrofiche sul fragile edificio-Babele
costituito dal capitale finanziario transnazionale. Perciò, la polizia mondiale
dell’imperialismo globale deve prodigarsi in ogni sforzo, secondo un criterio ben tradizionale, per attrarre alla sua sfera di
influenza i regimi autoctoni della regione, allo scopo di utilizzarli come
sotto-sovrani legittimi, “porta-aerei” e sceriffi militari ausiliari.
Nel calderone bollente di uno
spazio in cui vivono centinaia di milioni di individui, i quali sempre più sono
tutti gli anni socialmente schiacciati sotto le ruote della Juggernaut della
globalizzazione capitalistica, tale strategia di sorveglianza mondiale non può
finire non dando pessimi risultati. La ricchezza del petrolio, che per il suo
statuto speciale nella struttura del sistema mondiale è un oggetto speculativo
materializzato a un livello di prezzi soggetti a imprevedibili oscillazioni, ha
un carattere estremamente propizio all’esclusione: la maggioranza oppressa degli
arabi è spinta a un livello di povertà e di miseria, mentre la minuscola classe
superiore della ricchezza dell’energia di crisi si presenta come un’eccezione
oscena perfino nel terzo mondo. I “progetti di sviluppo” della politica economica
interna dei diversi regimi petroliferi arabi, specialmente nelle regioni del
Golfo che contano da tempo i maggiori livelli di estrazione di riserve,
malgrado la loro immensa forza di capitale, perlopiù non vanno oltre le dichiarazioni
e la cosmetica, poiché la maggior parte dei “petroldollari” è stata e viene
orientata senza indugio verso i mercati finanziari transnazionali, invece di
essere applicata agli investimenti reali, costituendo un segmento di “capitale
fittizio” nella sovrastruttura speculativa della terza rivoluzione industriale.
Visti nel loro insieme, i regimi
petroliferi del Medio Oriente, inclusi i paesi arabi e l’Iran, si suddividono
in due forme differenti ancora oggi visibili, anche se in forma mitigata, e che
risalgono a punti di partenza diametralmente opposti. Da un lato abbiamo i vecchi
regimi della modernizzazione in ritardo, con progetti di industrializzazione
falliti senza eccezione ma che un tempo furono portati avanti in tutta serietà,
i quali presentano una costituzione repubblicana e un dittatoriale “culto del
leader”, di cui Saddam Hussein e Gheddafi sono esempi. Dall’altro lato abbiamo
monarchie formalmente arcaiche, che costituiscono regimi di terrore
clerico-feudale e che sembrano uscite da una versione hollywoodiana delle “secoli
bui” o dalla fantasia adolescenziale di un Karl May. Se i regimi repubblicani e
dittatoriali della modernizzazione, come in Egitto, in Iraq, in Algeria etc,
sono stati di regola laici, le monarchie (tutte sunnite), i sultanati, gli emirati
etc, con le loro bizzarre linee di prìncipi hanno costituito fin dall’inizio
“teocrazie” sintetiche, con una legittimazione islamista arci-reazionaria, la
cui espressione religiosa non risale in alcun modo all’Islam premoderno, ma al
contrario risulta dal suo inserimento assurdo e intrinsecamente contraddittorio
nella modernità e nel mercato globale capitalisti.
Ciò è particolarmente vero per il
regime del deserto saudita che nella sua forma statale attuale sorse appena nel
XX° secolo. La dinastia saudita deriva dal movimento sunnita Wahhabita, fondato
nel XVIII° secolo dal leader della setta Abd-al-Wahhab e alla quale aderì lo
sceicco del deserto Ibn Saud. I Wahhabiti si impegnarono fin dal principio nel
“ritorno” reazionario a una fantasmagorica “forma originale” dell’Islam,
concepita come interpretazione rudemente letterale delle scritture e associata ad
aspetti esteriori rituali estremamente rigidi, un dominio dei carnefici
fortemente rigido e un’oppressione esacerbata delle donne. Nella forma della
monarchia saudita, questa delirante costruzione religiosa – una versione
musulmana precoce delle sette quasi politiche e religiose che oggi si espandono
su scala globale come movimenti di massa nell’ambito del processo di
disgregazione postmoderno – ha assunto la forma esteriore di uno Stato moderno,
sostenuto dalla ricchezza del petrolio mediata dal capitalismo.
Una posizione intermedia tra i
regimi della modernizzazione laici falliti e le teocrazie monarchiche e
reazionarie, che dall’inizio costituirono solo forme di nicchia
politico-religiose e allo stesso tempo un segmento del tutto dipendente dal
capitalismo finanziario globale, è quella del regime dell’islamismo sciita in
Iran, sorto dalla deposizione violenta della monarchia dello Scià (1979): qui
si intersecano tentativi di modernizzazione, in forma di progetti industriali,
con una teocrazia retrograda, così come un regime formalmente repubblicano con
una costituzione quasi religiosa, il che ha impedito (a parte la consacrazione più
religiosa che politica della figura di Khomeini) la formazione di un culto del
leader come nel caso delle dittature laiche.
Ora, nel processo di crisi della
globalizzazione, anche in Medio Oriente i tentativi indipendenti di
modernizzazione sono finiti
completamente nella rovina e nella devastazione, tanto che in tutti i
regimi della regione è iniziato un processo di inselvatichimento e
riconversione. Gli ultimi dittatori-dinosauri dell’industrializzazione fallita,
che allo stesso tempo ora si vedono impossibilitati a oscillare tra le
superpotenze come durante la guerra fredda, diventano imprevedibili e si
prestano ad avventure fantasmagoriche, come per esempio Saddam Hussein; sotto
le facciate caduche delle forme dello Stato, come nel resto del mondo, si va
stabilendo il dominio dei clan e delle bande armate; e l’ideologia sociale si
va spostando sempre di più verso la forma della follia pseudo-religiosa
militante.
In questo contesto, la religione,
collocata nella base della produzione di merci capitalista e del mercato
mondiale, non può tornare a costituire la riproduzione della società come nelle
società agrarie premoderne, né può sostituirsi alla politica moderna; piuttosto
si converte, in Medio Oriente in una forma più estrema che altrove, in un’ideologia
di crisi distruttiva e assassina che, lungi dal superare l’insostenibile regime
delle relazioni capitaliste della concorrenza, lo intensifica in forme e
dimensioni spettrali, dando espressione alla pulsione di morte della ragione
moderna nel momento del suo fallimento globale. Dal momento che il Medio
Oriente costituisce per molti aspetti un fuoco di contraddizioni del
capitalismo mondiale attuale, allora è lì che la manifesta pulsione di morte
assume proporzioni sociali particolarmente drastiche. In questo senso tutti i
paesi mussulmani del Medio Oriente, anche quelli che finora sono stati laici,
scivolano verso un processo di decomposizione islamista e si caricano di idee
di odio pseudo-religiose.
E’ eloquente il fatto che
l’imperialismo del petrolio e securitario di tutto l’Occidente sotto l’egida
degli Stati Uniti ha, fin dal principio, tentato di cimentare il suo dominio su
questo spazio eminentemente strategico appoggiandosi in prima linea alle
teocrazie monarchiche reazionarie. Riguardo la scelta dei sotto-rappresentanti
autoctoni, non si è certo data preferenza ai regimi laici della
modernizzazione, che a prima vista erano molto più prossimi allo stile di via
occidentale, ma piuttosto ai regimi dell’incubo politico-clericale della
monarchia saudita, dei sultanati, degli emirati e dei regni della tortura,
perfettamente disfunzionali quanto alla modernizzazione; e questo è accaduto
non malgrado, ma proprio perché nella loro essenza si presentano come
particolarmente sinistri e, allo stesso tempo, assolutamente incapaci di
un’indipendenza sia economica che militare. E non è stato in alcun modo per
caso che, d’altro lato, Stati come l’Iraq, la Libia e la repubblica sciita
dell’Iran sono stati dichiarati “Stati canaglia”, anche se è provato che in questi
paesi, per esempio, ancora oggi la posizione della donna è relativamente
migliore che nelle monarchie teocratiche reazionarie.
L’"imperialismo globale
ideale" ha scelto per "potenze amiche" della regione petrolifera
centrale, con una mira infallibile, i regimi della follia e del terrore più
instabili e più assurdi, come fossero usciti da fiabe sanguinarie. In forma
indiretta e inconfessata, si tratta di una duplice confessione: in primo luogo,
del fatto che la pretesa occidentale di domino è nella sua essenza essa stessa
maligna e irrazionale; e, in secondo luogo, che lo “sviluppo” e la
“modernizzazione” in realtà non sono mai stati previsti per la regione più
importante dell’estrazione del petrolio, contrariamente all’ideologia
ufficiale. Sono stati necessari patti diabolici con i peggiori e più reazionari
mostri feudali, caratterizzati dal fanatismo islamico e dal regno del terrore
di una “Charia” interpretata in modo arcaico, per coprire le spalle al vile e
pseudo-razionale materialismo degli interessi della cultura della combustione
capitalista nella regione petrolifera centrale. Quanti più paesi l’Occidente
definisce come “Stati canaglia”, più i suoi stessi amici e aiutanti nelle
regioni della crisi assomigliano a cattivi hollywoodiani o a figure partorite
dall’immaginazione di Hieronymus Bosch.
La nemesi di questa specie di
mostri con legittimazione imperiale non si è fatta attendere. Nelle fratture e
sotto l’impatto della globalizzazione, che hanno destabilizzato o spazzato via le
basi economiche e sociali di tutti i regimi del Medio Oriente, i regimi
clerico-feudali amici dell’Occidente costituiscono precisamente il seno da dove
germinano i demoni dell’islamismo “anti-occidentale”, senza alcuna prospettiva
di vita emancipatoria. A somiglianza di quel che accade in tutto il mondo e al
suo interno, qui sono soprattutto le stesse creature dell’”imperialismo globale
ideale” che, di fronte alla nuova qualità dei processi di decomposizione
sociale, fuggono dai loro laboratori politico-strategici per errare con
particolare intensità attraverso l’impero del petrolio, come “fattori
perturbatori” che spargono un terrore cieco.
Non è certo un caso che proprio
la versione Wahhabita dell’Islam, un credo settario particolarmente primitivo e
brutale che allo stesso tempo costituisce la religione di Stato del regno
saudita, è diventato il terreno da dove è nato gran parte del sottomondo del
terrorismo islamico e delle sue varie correnti. I principi del terrore, guidati
dal famigerato Osama bin Laden, i loro ideologi e collaboratori più vicini,
sono al 90% discendenti degli stessi clan clerico-feudali a cui l’Occidente si
appoggia, così adeguando alle migliori figure dell’orrore la propria pretesa di
dominio imperiale. Nel decorrere della crisi economico-sociale però, che sempre
più sfugge a qualsiasi controllo, i demoni della propria creazione rapidamente
diventano molto più imprevedibili e pericolosi dei dinosauri dei regimi della
modernizzazione fallita. L’Occidente, come le società segrete del terrore,
Wahhabiti e affini, riceve non solo quel che si merita, ma anche ciò che esso
stesso ha alimentato ed educato.
L’antimperialismo e
l’ideologia di crisi antisemita
Dal momento che i regimi
petroliferi, nel modo del tutto anacronistico clerico-feudale quanto allo
stesso tempo del capitalismo finanziario, hanno sempre costituito un sostegno comunque
troppo pericolante, c’è voluta una seconda e differente potenza ordinatrice
nella regione petrolifera centrale; e non è un segreto che lo Stato di Israele,
come prezzo amaro della sua esistenza, sebbene in grande misura non senza
contraddizioni, debba esercitare questa funzione di manganello
dell’”imperialismo globale ideale” occidentale puntato contro i luogotenenti
insicuri dei regimi arabi, minacciati nei loro paesi dai risentimenti
anti-occidentali. E’ solo per questo che Israele è stata protetta dagli Stati
Uniti e ha ricevuto quantità generose di armi ad alta tecnologia e appoggio
materiale massiccio dagli Stati occidentali. Di per sé, Israele da sola ancora
oggi non sarebbe economicamente sostenibile, o in ogni caso non sarebbe al
livello di vita attuale che, con i suoi elevati standard in stile occidentale
(benché con le stesse disparità interne tra ricchi e poveri che nel frattempo
si diffondono in Occidente) si distacca in maniera spiccata dai paesi arabi
circostanti.
Questi fatti economici e
politico-militari sono stati e continuano a essere portati come argomenti, spesso
sconsideratamente, contro Israele, con sintomi di un’aggressività furiosa a
partire dalle posizioni tradizionali della sinistra “antimperialista”;
un’identificazione del nemico che si radica nel contesto del paradigma, da
tempo fallito, della “liberazione nazionale”, quale forma di modernizzazione in
ritardo nella periferia sud del mercato mondiale. Fino a oggi, in tutto il
terzo mondo Israele è stato tenuto in conto come boia dell’imperialismo e come
“Stato illegale” che in fondo nemmeno dovrebbe esistere. Gli interessi propri
difesi da Israele in questo contesto sono percepiti come una mera pretesa sub-imperiale
o quasi coloniale; il nazionalismo di Israele e il suo espansionismo attraverso
i movimenti dei coloni e la conquista militare sono considerati quasi
l’incarnazione del nazionalismo puro e duro, mentre la definizione etnico-religiosa
dello Stato di Israele (inclusa la discriminazione ufficiale e giuridica dei
cittadini non-ebrei) è considerata come l’incarnazione del peggior razzismo.
La contro-superpotenza sovietica,
che aggregava i ritardatari storici della periferia del mercato mondiale, munita
di un’ideologia di legittimazione “marxista”, si è sempre sforzata di forgiare
un’alleanza con i regimi arabi laici della modernizzazione e ha costruito,
sotto la sigla del "sionismo",
un’immagine del nemico anti-israeliano che rifletteva specularmente l’alleanza
di Israele con il capitalismo e l’imperialismo occidentale – "Israele è stata, durante la guerra
fredda, un alleato militare stimato (degli Usa), le sue forze armate ne
testavano i sistemi di armamento e i suoi servizi segreti erano disponibili per
operazioni di cui la CIA non riusciva a venire a capo" (Birnbaum 2002).
Nell’epoca della guerra fredda, gran parte della sinistra politica mondiale si
adattò a questa immagine del nemico sotto la parola d’ordine
dell’"antisionismo". Israele fu interamente sussunta alla
costellazione del conflitto allora prevalente dei movimenti antimperialisti
“rivoluzionari nazionali” del terzo mondo contro l’impero occidentale della pax
americana. Il prezzo che Israele deve pagare all’imperialismo per la sua
esistenza è stato convertito in argomento “antimperialista” contro la sua
stessa esistenza.
Ciò ha fatto si che rimanessero
offuscati un aspetto completamente differente e una dimensione molto più
essenziale dello sviluppo del capitalismo mondiale, che l’antimperialismo
tradizionale, con la sua prospettiva riduttiva, non ha potuto neanche percepire. Ciò che sfuggiva a questo modo di
vedere il mondo era il ruolo decisivo dell’antisemitismo nel contesto della
costituzione ideologica borghese e, di conseguenza, un piano di contraddizione
centrale dell’imperialismo stesso. Sebbene la sinistra avesse sempre segnalato
Auschwitz e l’olocausto come un grande crimine paradigmatico dei nazisti, essa
ha sempre minimizzato il ruolo dell’antisemitismo e non lo ha mai voluto
comprendere come elemento essenziale o costituente del nazional-socialismo in
particolare e del capitalismo in generale.
Questa mancanza specifica di
concetti e di comprensione, d’altra parte, si spiega in ultima istanza con il
deficit generale patito dalle sinistre marxiste, dal movimento operaio e
antimperialista, tanto nel centro come nella periferia, e che consiste nel
permanere circoscritte alle categorie sociali della relazione del capitale (del
moderno sistema produttore di merci): ossia, proprio questa opzione per
un’equiparazione, partecipazione e co-governo giuridico-politici della “classe
operaia” e delle sue istituzioni come cittadini dello Stato, da un lato; e
l’opzione per la cosiddetta modernizzazione in ritardo e partecipazione
indipendente al mercato mondiale come soggetto economico nazionale e stato-nazionale,
dall’altro. Sotto questa prospettiva, nella quale un limite e una crisi
oggettive delle categorie sociali capitaliste sembravano impensabili (tanto ai
socialisti quanto ai leninisti), l’attenzione doveva concentrarsi sui contenuti
e gli orizzonti dell’interesse socio-economico e politico apparentemente
razionale delle elaborazioni ideologiche. In altre parole: l’ideologia era
associata al contenuto dell’interesse dei soggetti del sistema produttore di
merci – la “classe operaia” contro la “classe capitalista”, la “liberazione
nazionale” contro l’”imperialismo”.
L’antisemitismo moderno è stato
quindi, nella migliore delle ipotesi, interpretato come una specie di manovra
di diversione ideologica secondaria della “classe dominante”, o come ideologia
dell’interesse concorrenziale specifico della “piccola borghesia”, che avrebbe avuto
lo scopo di distrarre la “classe operaia” o i “popoli oppressi” dai loro reali
interessi (teoria della manipolazione). Quel che rimaneva completamente fuori
era la dimensione ideologica della connessione della forma sociale, che va
oltre le classi e le nazioni ed è oggettivata in termini storici nel lavoro
astratto, nel valore, nella forma merce, nel denaro, nella produzione in regime
economico imprenditoriale, nel mercato (mondiale) e nello Stato. Piuttosto, questa
connessione della forma si presentava, sia in termini teorici che in termini
pratici, come fondamento ontologico insormontabile di ogni vita sociale.
Così veniva ignorato che cercando
di superare il moderno sistema produttore di merci, smascherando e rivestendo
in questa modo “interessi” apparentemente e superficialmente divergenti, accade
che dalle contraddizioni e dalle crisi della costituzione formale moderna
comune, cioè inclusiva di tutte le categorie sociali, sorgono anche creazioni
ideologiche comuni, trasversali alle classi, che sono molto più essenziali e
pericolose della trasparente e superficiale legittimazione degli “interessi”
costituiti nel capitalismo dalle varie classi, ceti e funzionari. Tutti le
“visioni del mondo”, i modelli di spiegazione e le idee guida dell’azione non
suscettibili di deduzione nell’ambito della sociologia delle classi, furono
così fraintesi e disprezzati come mero inganno e manovre di diversione.
Così, la sinistra del movimento
operaio e marxista, così come ancor di più la sinistra radicale (e non di meno
la sinistra anarchica), nemmeno si resero conto che avevano esse stesse interiorizzato
positivamente parti essenziali dell’ideologia borghese, come “eredità” della
storia ideologica e intellettuale protestante e illuminista nella formazione
del sistema produttore di merci. Tra cui in particolare la canonizzazione
dell’astrazione “lavoro” che, con il suo carattere di fine in sé repressivo,
era passato direttamente dalle idee del protestantesimo e del cosiddetto
illuminismo del XVIII° secolo all’ideologia del movimento operaio.
Nell’invocare precisamente il “lavoro” come punto di riferimento centrale presumibilmente
opposto al capitale, la sinistra non fece altro che giocare uno stadio di
aggregazione del capitale contro l’altro. In questo modo, il “lavoro” non si
presentava come quello che di fatto è, ossia, la forma di attività
specificatamente capitalistica (il “lavoro astratto” in Marx), pertanto un
concetto interamente appartenente al capitale e una relazione reale
corrispondente, ma come una categoria ontologica dell’umanità.
Da questa comunanza ideologica
centrale con il capitale, definito come avversario in modo meramente
superficiale e ideologicamente troncato, dovevano per forza nascere, da un
lato, altre caratteristiche in comune inconfessate, così come, d’altro lato, la
totale sottostima delle ideologie di crisi e di distruzione che sono il
razzismo e l’antisemitismo. Una volta che il movimento operaio occidentale, i
regimi della modernizzazione in ritardo dell’est e i “movimenti di liberazione
nazionale” del sud si limitarono ad agire entro l’ambito delle forme sociali
comuni, affermando con il “lavoro” la forma di attività capitalista, furono
capaci solo di formulare una critica troncata della relazione del capitale, arretrata
rispetto alla concezione di Marx del capitale come una relazione di feticcio
irrazionale. In parte ci si lamentava solo della mancanza di capacità di
regolazione statale del sistema produttore di merci a causa della sua
rappresentanza borghese, in parte si criticava la subordinazione del “lavoro
produttivo” al “capitale finanziario”, senza capire il legame intrinseco,
mediato (e sempre più in crisi) tra il “lavoro produttivo” e il “capitale
finanziario” (capitale monetario che rende interessi e speculativo).
Notoriamente, questa critica del
capitalismo ha sempre presentato punti di contatto con l’ideologia antisemita.
Poiché l’antisemitismo poté ascendere allo statuto di una pericolosa ideologia
di crisi della modernità proprio per il fatto di esteriorizzare e naturalizzare
in termini socio-biologisti le contraddizioni interne della società costituita
in forma capitalista e di tutti i suoi soggetti: "gli ebrei"
divennero la rappresentazione negativa del capitalismo finanziario
“improduttivo” e l’incarnazione di tutte le manifestazioni distruttive della
moderna società produttrice di merci, intrecciandosi con le attribuzioni
originarie di questo genere già dell’Età Media e dei primordi della modernità
(come fu il caso, per esempio, delle invettive di un Martin Lutero). A cui si
doveva contrapporre, come polo opposto e positivo, il “lavoro onesto” e il
“capitale produttivo”; nel caso dei nazisti, ciò accadde, com’è noto, nella
forma della contrapposizione del capitale "rapace"
("ebraico") al capitale "creatore" ("tedesco" o
"nazionale"). In luogo della critica delle forme reali, trasversali
alle classi, del sistema produttore di merci, sorge così la colpevolizzazione
maliziosa imputata a un gruppo specifico di soggetti, definito per la “razza”,
secondo il motto: il “lavoro”, il valore, il denaro e la forma del capitale
sarebbero una meraviglia e una benedizione se non fosse per gli ebrei. Questa
attribuzione, che fingeva di “spiegare” la relazione sistemica, già di per sé irrazionale, con il ricorso a
una dimensione addizionale di irrazionalità, ascese a statuto di spiegazione
del mondo ideologicamente assassina per eccellenza.
E’ vero che l’ideologia del
movimento operaio e dei “movimenti di liberazione nazionale” anticoloniali prese
sempre le distanze dalle correnti apertamente antisemite invocando, invece
della fantasmatica “opposizione tra razze”, l’opposizione sociale tra le classi
e l’opposizione nazionale di interessi tra economie o Stati nazionali,
coloniali o post-coloniali e l’imperialismo occidentale.
Tuttavia, in primo luogo, anche
questa “ideologia della liberazione” sociale, apparentemente più razionale, si limita,
in modo somigliante all’antisemitismo, al piano soggettivo delle mere relazioni
di volontà e di potere, senza affiorare al piano della costituzione di questi
soggetti (ossia, il modo in cui questi sono stati formati dalle categorie del
sistema produttore di merci). Non è stata la negatività della relazione formale
comune, cioè, della forma-soggetto dell’individuo stesso, ciò che divenne il
bersaglio della critica, ma solo il “potere” negativo di “soggetti contrari”:
nel caso degli antisemiti, era il potere putativo e il male della “contro-razza
ebraica”; nel caso dei “movimenti di liberazione nazionale”, il potere
soggettivo e il potere di ingerenza globale delle potenze imperiali centrali.
Dal momento che paradossi come
l’antisemitismo rimanevano sullo stesso piano logico di una soggettività della
volontà "stabilita" solo per definizione e non derivata dalla
relazione della forma sociale, piano, questo, risultato di una critica del
capitalismo troncata simile (sebbene non identica), il movimento operaio, il
“movimento di liberazione nazionale” e la sinistra radicale non giungevano a
percepire i loro punti di contatto impliciti con l’antisemitismo. Stesso
discorso, e a maggiore ragione, per l’ontologizzazione
e l’adorazione del “lavoro produttivo”, che ugualmente condividevano con gli
antisemiti.
Così però, e in secondo luogo, doveva
rimanere incompresa anche la pericolosità trasversale alle classi
dell’ideologia antisemita. La riduzione all’orizzonte sociologico delle classi
d’interesse costituito nel capitalismo e l’ontologia sovrastorica del “lavoro”,
diedero adito all’illusione che la “classe operaia” e i “popoli oppressi”, a causa
dei loro interessi imposti dal capitalismo e della loro ontologia esistenziale,
già fossero “in sé” (indipendentemente dalla loro coscienza reale) forze
trascendenti, la cui potenza presumibilmente sostitutrice del sistema
necessitava di essere canalizzata attraverso le “lotte” sociali. La forma della
concorrenza, inerente alla loro forma costituita di soggetto, parve essere solo
un comportamento imposto da fuori, dal “contro-potere” soggettivo, “non
autentico”, in fondo alieno; stando così le cose, anche l’antisemitismo
figurava essere un’ideologia “estranea alla classe”, semplicemente imposta per
errore o manipolazione.
Doveva passare completamente al
lato di questo pensiero che l’emancipazione sociale dalla relazione del
capitale, benché fosse possibile di principio, in nessun modo si incontra
prefigurata “in sé” dalla posizione “oggettiva” di determinate classi o di
altri soggetti moderni nella struttura del sistema produttore di merci; si
tratta qui di un’illusione oggettivista che lo stesso Marx aveva formulato, in
contrasto con la sua stessa teoria critica della modernità quale relazione di
feticcio sociale. Al contrario, tutti i soggetti di questo sistema e senza
eccezione, vale a dire la stessa “classe operaia” e gli stessi “popoli oppressi”
etc si trovano, a causa della loro forma costituita dal sistema (forma di
riproduzione e del soggetto), ben lungi dal passaggio verso l’emancipazione da
questa forma sociale negativa. La formazione di una coscienza radicalmente
critica contro questa forma (coscienza, questa, a cui la sinistra radicale fino
a oggi non si è avvicinata, e ancor meno i movimenti sociali) è possibile; ma
unicamente dalla trasformazione delle esperienze negative di sofferenza e vergogna
in seno a questa forma, e non grazie a una qualche base ontologica positiva.
Non esiste nessuna determinazione ontologica presumibilmente “fuori” o “sotto” il
sistema (per esempio nella forma del lavoro) che possa servire da leva
obiettiva per rovesciare la relazione sociale repressiva e distruttiva.
Perciò, le “lotte” sociali e
altre non sono di per sé emancipatrici, né le stesse “lotte” della classe
operaia, dei gruppi e delle minoranze oppresse etc. Al contrario, la “lotta”,
sotto la forma della concorrenza, è la forma generale del movimento del sistema
capitalista. Lo stesso vale per le diverse forme di continuazione della
concorrenza con altri mezzi, particolarmente la violenza immediata.
Andare al di là della forma della
concorrenza, cioè andare al di là della propria forma-soggetto esige, come una
volta si espresse Marx, una “coscienza enorme”, cosa che in nessun modo è
vicina allo stato delle cose. Piuttosto, ciò che si sviluppa spontaneamente è
la concorrenza fino alle ultime conseguenze nell’ambito della forma costituita
comune del soggetto. In questo contesto, la concorrenza tra lavoratori
salariati e entità rappresentanti del capitale (amministrazione, associazioni
imprenditoriali etc) costituisce soltanto un livello delle molteplici
dimensioni di sviluppo della concorrenza. Qui si inquadra evidentemente la
stessa concorrenza tra i vari capitali, tra i vari rami, tra le fazioni e i
raggruppamenti dei lavoratori salariati, tra le economie e gli Stati nazionali
etc, ma anche le connotazioni “etniche” e razziste delle relazioni della
concorrenza e, infine (come reazione estrema), la trascendenza apparente
dell’antisemitismo.
Proprio questa connessione di una
rete complessa di multiple linee della concorrenza non ha in alcun modo una
base soggettiva e manipolatrice, ma piuttosto una base obiettiva nella forma
generale del soggetto del sistema produttore di merci, attraverso il lavoro, il
denaro e lo Stato, mentre la rottura emancipatoria della “gabbia di ferro” di
questa forma non può avere una base oggettiva nel senso di una determinazione
del comportamento. Prendendo come presupposto il sistema produttore di merci e
la sua forma di attuazione astratta e irrazionale come definizione ontologica
insormontabile, può benissimo essere l’interesse “obiettivo” dei lavoratori
salariati a fornire alla concorrenza una connotazione nazionalista, razzista
etc o il voler sottrarsi fantasmaticamente a questa ricorrendo a un’ideologia
antisemita.
Va da sé che anche nella storia
del movimento operaio è esistito qualcosa come un disegno trascendente di
liberazione dal gioco della concorrenza, disegno di una società solidale oltre
il sistema moderno. Tuttavia, questi momenti stravaganti dovevano rimanere
senza risposta, proprio perché i movimenti sociali della modernità non
arrivarono a raggiungere un concetto di questa trascendenza, né perciò ad agire
conseguentemente.
La critica limitata del
capitalismo all’ambito delle forme dello stesso capitale s’impantanò
inevitabilmente nelle forme di sviluppo della concorrenza. Il massacro
reciproco dei lavoratori salariati nelle due guerre mondiali non fu perciò un
tradimento né un comportamento contrario alla loro natura ontologica, ma
piuttosto la conseguenza della loro stessa forma-soggetto, affermata invece che
criticata. Né i partiti politici operai né i sindacati (già solo questa
divisione in una rappresentazione politica e in un’altra sociale rimanda alla
forma della costituzione borghese del movimento operaio) riuscirono mai a
sviluppare una forza solidale che andasse oltre le relazioni della concorrenza.
Il superamento della concorrenza rimaneva parziale e limitato al motivo
dell’eguaglianza borghese, mentre l’inserimento nelle relazioni della
concorrenza continuava ad essere universale.
Così come già nella lotta
quotidiana degli interessi, regolamentata in forma istituzionale, i movimenti
sociali erano immersi nella logica della concorrenza, lo stesso accadde
nell’esplosione di violenza delle guerre mondiali tra potenze imperiali
nazionali. In questo quadro, il rischio sociale della concorrenza universale
divenne immediatamente manifesto come rischio di morte, e con esso divenne
evidente la conseguenza ultima della forma-soggetto generale della modernità.
Lo stesso si può dire riguardo al potere dell’antisemitismo e alla sconfitta
del movimento operaio europeo di fronte al fascismo e al nazional-socialismo.
Anche questa catastrofe è stata una conseguenza del coinvolgimento nel sistema
della concorrenza internazionale. Esiste perfino una relazione diretta tra la
continuazione della concorrenza delle guerre mondiali e l’emergere
dell’antisemitismo in tutte le classi e ceti sociali.
I sindacati, i partiti marxisti e
la stessa sinistra radicale furono concepiti solo per risolvere il conflitto di
interessi, presumibilmente “razionale”, nell’involucro formale del sistema
produttore di merci. Anche l’intensificazione militante della lotta non lasciò mai
lo spazio della razionalità borghese. La sinistra si chiuse al carattere
irrazionale in sé del sistema e perciò nelle crisi si rendeva regolarmente vulnerabile
all’eruzione poderosa di questa irrazionalità. Mentre la sinistra, anche nel
mezzo delle crisi più gravi, continuava a voler mantenere un piede
nell’”interesse razionale” ormai non più realizzabile in forma borghese
malgrado il crollo temporaneo di questa forma, l’antisemitismo affermava la
propria irrazionalità dell’interesse come volontà di esclusione e
annichilimento, e quindi otteneva un potente effetto sociale.
L’antisemitismo non è
(contrariamente al razzismo comune) una figura della concorrenza tra le altre,
ma piuttosto l’ultima ratio della concorrenza nella situazione in cui la
risoluzione immanente e apparentemente razionale della concorrenza smette di
essere sostenibile. In tale situazione, la stessa forma del soggetto borghese
generale rischia di rompersi. L’antisemitismo promette una via d’uscita senza
porre in questione questa forma del soggetto comune del sistema, esteriorizzando
il problema in una forma irrazionale e assassina. E’ così che, nonostante e
proprio a causa del suo carattere intellettualmente elementare, può esercitare
un’attrazione trasversale alle classi su una gran massa di individui costituiti
dal capitalismo, dal disoccupato al direttore, dall’agricoltore senza terra del
terzo mondo al principe del petrolio, dal fabbro meccanico al banchiere
investitore, dalla madre solitaria all’indossatore, dallo studente
dell’istituto professionale all’intellettuale di formazione accademica.
In altre parole: la sindrome
antisemita costituisce l’ultima ed estrema riserva ideologica di crisi del
sistema produttore di merci moderno. L’antisemitismo è in agguato nella forma
stessa del soggetto borghese generale; esso è invocato regolarmente quando la
crisi erompe, e lo è in un modo tanto più massiccio quanto più violentemente si
manifesta la crisi. Così, l’epoca delle due guerre mondiali e della grande
crisi economica mondiale fu accompagnata da un’ondata di antisemitismo senza
precedenti. In Germania, che nella storia specifica della sua costituzione
capitalista come nazione aveva incubato una versione particolarmente aggressiva
ed eliminatoria della sindrome antisemita, con un particolare effetto di
profondità sociale, questa ondata sommerse le stesse istituzioni dello Stato;
qui, l’antisemitismo, nella situazione della crisi mondiale, non solo fu
impiegato come valvola di sfogo per l’aggressività sociale accumulata dalle relazioni
della concorrenza, ma fu elevato a dottrina dello Stato e realizzato nella forma
del crimine contro l’umanità dell’olocausto.
Non fu in alcun modo per caso che
il nazional-socialismo tedesco rappresentò una formazione sociale in cui la
pulsione di morte della forma vuota della soggettività capitalista si manifestò
in una dimensione fin allora mai vista. Questo perché la logica
dell’antisemitismo e la pulsione di morte e di annichilimento della
soggettività capitalista sono strettamente vicine l’una all’altra; il latente e
irrazionale disegno di distruzione del mondo nel vuoto metafisico del valore e
del suo movimento di valorizzazione come fine in sé si esprime
nell’acutizzazione estrema come disegno di annichilimento diretto contro gli
ebrei e contemporaneamente come disegno di auto-annichilimento, come disegno di
distruzione di qualsiasi esistenza fisica in generale.
In termini puramente esteriori,
militari e di potere politico, i nazisti persero la seconda guerra mondiale; ma
nel senso più ampio di realizzazione del disegno di annichilimento del mondo
che si annida nel cuore del capitale, essi ebbero un enorme successo
nell’identificazione tra l’annichilimento industriale degli ebrei e
l’auto-annichilimento organizzato. La sinistra, aggrappata alla superficiale razionalità
borghese, e che non poteva avvicinarsi alla critica delle forme fondamentali
del capitalismo, e quindi neanche alla critica né all’abbandono della sua
stessa forma-soggetto costituita in modo capitalista, dovette così
necessariamente passare al lato del vuoto di questa forma e del potenziale
demoniaco della pura irrazionalità che gli è inerente, così come delle sue
conseguenze distruttive, e così anche al lato dell’essenza dell’antisemitismo
moderno.
Il rovescio di questa
catastrofica insufficienza è stato, dopo la seconda guerra mondiale, l’altrettanto
carente e spensierato antisionismo della sinistra, che non volle riconoscere la
dimensione dello Stato ebraico quale conseguenza dell’antisemitismo moderno
nella storia mondiale e nel capitalismo mondiale, ma che sussume Israele al
paradigma antimperialista dei movimenti rivoluzionari nazionali del terzo
mondo, la cui critica del capitalismo era molto più pesantemente riduttiva di
quella del movimento operaio occidentale.
Lo Stato di Israele e
il suo statuto paradossale nel mondo capitalista
Certamente anche allo Stato di
Israele, che evidentemente è parte integrante dell’economia mondiale
capitalista, può essere attribuita la forma dello Stato moderno e del sistema
produttore di merci moderno con tutti i suoi attributi negativi. Ma, a causa del
suo carattere singolare, poiché consiste in ultima istanza un prodotto
involontario dei nazisti e della logica di annichilimento della soggettività
capitalista nella sua intensificazione finale, questo Stato è il primo,
l’ultimo e l’unico a contenere un momento decisivo di giustificazione che è
mancato fin dall’inizio a tutti gli Stati rivoluzionari nazionali del terzo
mondo (i quali, in fin dei conti, cominciarono molto rapidamente tutti ad
assumere una brutta faccia). Si tratta di uno Stato capitalista che si, è
espressione della forma-soggetto capitalista, ma che allo stesso tempo e in un
modo paradossalmente articolato rappresenta l’estrema necessità e l’ultima
legittima difesa contro questa stessa forma-soggetto.
Ed evidentemente, in linea di principio, può valere contro il
sionismo – che era, dopo tutto, al livello di idee, un prodotto della
formazione nazionalista europea del XIX° secolo e dell’inizio del XX° secolo –
lo stesso tipo di critica di quella contro il nazionalismo moderno in generale;
tuttavia questa critica è possibile solo se ignoriamo il contesto specifico
della sua genesi e lo analizziamo in modo perfettamente astratto ed isolato,
come poco più di un nazionalismo al pari di tanti altri. Ora, il sionismo non
stava sullo stesso piano dei restanti nazionalismi. Al contrario, era
eminentemente un prodotto secondario dell’esperienza della grande sofferenza
ebraica, con particolare rilievo riguardo l’esclusione sentita in Germania e in
Austria, determinata dal fatto che le nazioni europee non possedevano né la volontà
né la capacità di integrare gli ebrei, ma piuttosto necessitavano
dell’antisemitismo come costruzione dell’”altro” (dell’alterità), per poter
autodefinirsi come identità nazionale positiva.
Questa definizione dell’alterità
assunse anche altre espressioni, come il razzismo coloniale e la delimitazione
culturalista delle nazioni europee tra di loro; ma l’antisemitismo costituì la
sua espressione più estrema. Così, ciò che vale per lo Stato ebraico in quanto
Stato, vale anche per il nazionalismo sionista in quanto nazionalismo: in
quanto legittima difesa contro lo stesso nazionalismo europeo primordiale e la
forma nella quale questo definì l’alterità, esso può essere solo ciò che è, in
un’articolazione paradossale con la sua stessa negazione.
Lo stesso vale per le componenti
socialiste del sionismo, componenti queste che rimasero insufficienti dal
momento che non trascesero decisivamente il moderno sistema produttore di
merci. Evidentemente, queste permasero ugualmente troncate e integrate nel
sistema di riferimento dello Stato-nazione, così come la critica del
capitalismo del movimento operaio occidentale (le cui idee ed elementi
socialisti furono in effetti presi in prestito) e, ancora di più, la critica
dei movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo. In collaborazione con
l’apparato dello Stato e con il pathos nazionale, il socialismo sionista, così
come i partiti operai del resto del mondo, dovette approssimarsi a questa
tendenza di regolamentazione sociale che accompagnava la costituzione delle
nazionalità europee e che, dalla fine del XIX° secolo fino alla seconda guerra
mondiale, determinò la storia generale dei centri capitalistici; così accadde,
per esempio, durante lo Stato sociale di Bismarck e la successiva partecipazione
della socialdemocrazia al governo, e in generale nella formazione delle
burocrazie del lavoro e sociali, del welfare state etc – sviluppo questo che, com’è noto,
caratterizzò, nella forma della regolazione fordista, il fascismo e il nazismo.
E’ tuttavia un perfido travisamento recriminare specialmente al sionismo la sua
quota-parte specifica in uno sviluppo strutturale generale e inclusivo,
associando allo stesso tempo il momento socialista troncato al socialismo
nazionale degli assassini nazisti.
Tutto questo comincia ad aver
senso se visto in una prospettiva rovesciata. Per quanto riguarda la qualità
socialista del sionismo (o meglio: del cosiddetto sionismo laburista) se ne può
constatare, in termini empirici, un aspetto emancipatorio particolare: sotto la
forma del kibbutz, questo momento in Israele finì per non assumere una forma
capitalista di Stato e repressiva come in ogni altro luogo, ma assunse una
forma cooperativa e di autogestione che in nessun altro luogo riuscì ad
acquisire un significato simile. Evidentemente, anche questa forma ancora
permaneva legata al sistema produttore di merci; tuttavia, nell’aspirazione a
una relazione interna che fuggisse alla forma merce, nei suoi aspetti di
riproduzione al di là del denaro e dello Stato, conteneva un elemento trascendente,
per quanto associato a un’ideologia comunitaria per molti aspetti gretta.
Così, tutto quello che si può
dire contro il nazionalismo in generale si applica solo al sionismo in modo
condizionale e paradossalmente articolato come il suo contrario. Malgrado le
sue relazioni quasi coloniali e la situazione nella regione mondiale del Medioriente,
Israele non è essenzialmente un progetto coloniale, come tante volte è stata
considerata dal discorso rivoluzionario nazionale dei movimenti terzomondisti,
esso stesso da molto tempo fallito; piuttosto è, soprattutto, un progetto di
emergenza e di salvezza di fronte alla sindrome antisemita associata alla
moderna forma-soggetto.
E’ per questo che da un punto di
vista emancipatorio non si può instaurare il processo a Israele per il fatto
che nella realtà deve tanto la sua fondazione quanto la sua esistenza e la sua
sicurezza militare all’imperialismo del petrolio occidentale. Esattamente al
contrario, c’è da constatare quanto sia vergognoso e deprimente che il diritto
all’esistenza di Israele non abbia altra garanzia che questa infamia; vergogna
inevitabilmente per la sinistra del mondo intero, la quale non è mai stata
capace di concedere a questo diritto all’esistenza una garanzia migliore, o
anche solo un appoggio, considerato che si è sempre sottratta al porre il riconoscimento
di questo diritto all’esistenza come una questione di principio. La critica
troncata, superficiale del capitalismo, agendo in modo irriflessivo all’interno
della forma-soggetto e dell’interesse capitalista, formulata dal movimento
operaio, dai movimenti di liberazione nazionale e dal radicalismo di sinistra
fino ad oggi, ha costituito essa stessa una condizione storica per cui Israele
non aveva altra scelta per raggiungere il suo diritto dell’esistenza che
appoggiarsi all’imperialismo del petrolio occidentale.
Tuttavia, proprio una garanzia di
questo tipo è estremamente contraddittoria e per questo insicura.
L’”imperialismo globale ideale” dell’occidente non appoggia l’esistenza di
Israele sulla base di una coscienza del vero legame tra l’antisemitismo e il
sionismo, cosa che del resto gli è perfettamente indifferente. Di più: una
volta che l’antisemitismo costituisce allo stesso tempo l’ultima riserva
ideologica del sistema, la motivazione dell’imperialismo del petrolio, da un
lato, e la tolleranza della sindrome antisemita o perfino il suo scatenamento
per la “gestione della crisi”, dall’altro, entrano in una contraddizione che
non può essere mediata.
In una situazione globale
esacerbata non è di certo impensabile (benché attualmente nulla miri a questo)
che l’”imperialismo globale ideale” lasci cadere Israele e apra la valvola
dell’antisemitismo in considerazione delle sue contraddizioni interne. Del resto,
nella misura in cui l’attenzione occidentale si volge verso le riserve del Mar
Caspio, anche il piano dell’interesse volgare minaccia di far cadere la
precaria garanzia del diritto all’esistenza di Israele. Un’altra variante di
abbandono di Israele potrebbe consistere nel fatto che l’Occidente, nel caso di
una crisi petrolifera che minacciasse il capitalismo mondiale nella sua
esistenza (per esempio per una destabilizzazione grave che provocasse il
rovesciamento delle monarchie del petrolio), getterebbe Israele in pasto ai
mostri feudali arabi del capitale allo scopo di salvare la sua economia
mondiale.
La fine dei
“movimenti di liberazione nazionale” e il fantasma della fondazione dello Stato
palestinese
La critica di sinistra e
antimperialista del sionismo (il concetto di critica è in questo contesto fuori
luogo; si tratta semmai di un odio che cuoce a fuoco lento, spesso nutrendosi
anche dell’intuizione del carattere dubbio delle proprie ragioni) deve così
passare completamente al largo della vera natura del problema. Tutto quello che
i cosiddetti movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale del terzo mondo
sono stati in grado di presentare come argomenti contro il sionismo, si
applicava in primo luogo a essi stessi in forma potenziata; e, in secondo
luogo, gli mancava completamente questa dimensione più profonda di
giustificazione che per il sionismo decorreva necessariamente dal potenziale
antisemita del capitalismo mondiale, in special modo del crimine tedesco contro
l’umanità. La legittimazione - del resto
ormai da molto tempo dimostratasi illusoria – di una partecipazione come
economia nazionale e come Stato-nazione quale soggetto nel mercato mondiale non
è stata solo molto più debole di quella invocata per il sionismo, ma sin
dall’inizio e in tutte le aree del terzo mondo (indipendentemente dal colore
ideologico) si è andata associando a situazioni di costrizione repressiva dall’aspetto
tipico del capitalismo di Stato e ad estremi profondamente anti-emancipatori come
il culto del “leader”.
Dopo che il paradigma della
"liberazione nazionale" antimperialista è rimasto senza sostegno a
causa delle condizioni della terza rivoluzione industriale e della
globalizzazione, e dopo che gli stessi regimi, o movimenti corrispondenti, sono
da tempo scivolati verso processi barbarici di decomposizione, anche il relativo
discorso di sinistra e marxista ha perso la sua ragion d’essere, oppure ha assunto
tratti apertamente antisemiti in relazione al sionismo e alla critica del
capitalismo, ed è rifuggito invece dalle intenzioni emancipatorie originarie:
sviluppo questo che, comunque, era latente nella concezione categoriale
troncata e negativamente immanente del pensiero antimperialista e socialista e
che adesso, nel momento della sua caduta, si rende manifesto.
La fine ingloriosa del paradigma
della rivoluzione nazionale antimperialista nell’era della globalizzazione è
caratterizzata da molteplici manifestazioni di squallore morale e
imbarbarimento dei regimi sviluppisti crollati nel mercato mondiale, dalla trasformazione
dei leader rimanenti di una guerriglia che un tempo rivendicava ideali di
sinistra in volgari signori della guerra dell’economia del saccheggio, baroni
della droga, sequestratori in cerca di riscatti etc. In quei paesi in cui
l’aspirazione alla costituzione di uno Stato basato in una rivoluzione
nazionale è rimasta incompiuta, ma malgrado tutto è mantenuta, benché lo
sviluppo del capitalismo mondiale l’abbia ormai da tempo superata,
l’inselvatichimento e l’abbrutimento di questa pretesa assurda assume forme
particolarmente drastiche e orribili.
Ciò si applica in maniera del
tutto indipendente dalle caratteristiche specifiche nazionali e dalle
differenze culturali, sia nel caso del movimento dei curdi che dei ribelli
ceceni, o dei separatisti tamil, solo per citare alcuni esempi. Questo non può
giustificare né la repressione barbara da parte dei grandi Stati dal passato
imperiale come la Turchia e la Russia, essi stessi perfettamente resi instabili
dal mercato mondiale, o da un regime etnico come quello dei cingalesi in Sri
Lanka, né gli interventi non meno barbari della nuova polizia dell’imperialismo
globale. Ma nelle condizioni globali modificate, i "movimenti di
liberazione nazionale" non costituiscono più un'alternativa, nemmeno
illusoria, il che significa che ormai nessuna "modernizzazione" può
essere portatrice di pretese emancipanti, dal momento che la base del moderno
sistema produttore di merci e dello Stato-nazione da esso generato non ha più
sviluppo possibile, restando solo la disintegrazione sociale e la barbarie.
Questa situazione storica
modificata in nessuno dei non realizzati progetti rivoluzionari nazionali
restanti della vecchia epoca si rende tanto evidente come nel caso palestinese,
che si trova paradossalmente legato a Israele in un’intimità ostile. Se gli
Stati realmente fondati sulla scia dei movimenti tricontinentali (Asia, Africa,
America Latina; n.d.t.), e che un tempo erano carichi di ideali borghesi e
illuministi più che comunisti, sono intanto falliti sul mercato mondiale e
nella loro stessa costituzione e forma del soggetto borghese, il progetto
palestinese diventato irreale, al di là di questo orizzonte di realizzazione,
assume tratti orrendi. Si tratta di un progetto zombie di un’epoca defunta a
cui non rimane nessun momento emancipatorio e che ormai inquieta il mondo come
un sosia maligno.
La pietrificazione dell’OLP,
incarnata da Yasser Arafat quale figura tragica di un non-morto storico, risale
intanto al carattere da sempre negativo delle presunte emancipanti costituzioni
statali della modernizzazione in ritardo. Dopo che questa illusione è
definitivamente svanita nel decorso della globalizzazione capitalista, si rivela
anche che il “diritto a uno Stato proprio” o il “diritto di fondare uno Stato”
rappresenta l’esatto opposto della liberazione nazionale. Sotto le condizioni
dell’inizio del XXI° secolo, questa parola d’ordine può manifestarsi solo come
il “diritto” a capitolare in forma “autonoma” di fronte alle leggi della logica
della valorizzazione capitalista globale, e di “potere” eseguire per propria
mano il processo di degrado sociale. Con la stessa logica si può reclamare il
"diritto a un curatore fallimentare proprio" o il "diritto a un
torturatore proprio" della stessa carne e sangue etnici.
In questa misura, la visione
dello Stato dell’OLP costituisce realmente uno degli ultimi fortini
dell’ideologia borghese dell’Illuminismo, che si mostra fino al riconoscimento
del suo contenuto profondamente repressivo e distruttivo. Quello che manca ai
palestinesi non è uno “Stato proprio”, ma piuttosto l’accesso autonomo alle
risorse materiali, sociali e culturali che oggi sono oggetto di restrizioni
tanto rigide quanto insensate imposte dalla forma “Stato”, proprio in nome del
terrore economico globalizzato. L’insistenza nell’opzione dello Stato-nazione
già da tempo obsoleta, che nel caso degli abitanti della Palestina è una
costruzione ideologica tardiva di un rivestimento istituzionale e culturale del
sistema produttore di merci e pertanto il più trasparente in termini storici,
assume tratti profondamente patologici.
Lo Stato-fantasma palestinese è
di conseguenza il primo che, già prima della sua fondazione ufficiale, è
entrato in un processo di decomposizione e putrefazione. La costituzione di uno
Stato e la sua decomposizione coincidono qui immediatamente, il che costituisce
un paradosso storico. Ancor prima che possa svilupparsi un apparato statale
completo, con una propria legittimazione e una propria storia, prendono il suo
posto strutture di clan, signori della guerra e strutture mafiose.
Contemporaneamente lo Stato
secolare palestinese è schiacciato dall’islamizzazione pseudo-religiosa ancor
prima della sua fondazione. Come residuo degli impulsi verso una
modernizzazione laica, l’OLP frena una lotta persa in anticipo. I movimenti
islamisti di Hamas e della Jihad cominciano a sostituirla e, ora che l’OLP si
vede costretta a fare concessioni a entrambe, il suo progetto di fondazione di
uno Stato va sempre più perdendo la legittimazione stabilita nella politica della
modernizzazione.
Quel che resta è l’irrazionalità
pura dell’odio cieco senza alcuna prospettiva politico-sociale. La costruzione
ideologica moderna del “popolo” formata sulla base di criteri etnico-politici trova
nella versione palestinese la sua orrenda decostruzione reale: nel rifugiarsi
nell’universalismo astratto della guerra religiosa e nel mandare i propri figli
alle “accademie del suicidio”, questo “popolo” costruito ammette coi fatti che
ormai non ha alcuna speranza nel futuro, che ormai ha smesso di costituire un
“popolo di Stato” per convertirsi in una massa amorfa di disperati senza
obiettivo.
Questa versione palestinese di
una società postmoderna al collasso, e che ormai nemmeno è una società, è anche
permeata dalle strutture della violenza maschile senza freni e
dall’”inselvatichimento del patriarcato”. Da un lato, non smette di costituire
il cumulo dell’individualizzazione postmoderna delle “opportunità”, tanto che
l’uno o l’altro adolescente palestinese ormai spreca la sua vita non vissuta come
kamikaze (ed è il cumulo di inselvatichimento del patriarcato che è stato addestrato
a questo da uomini barbuti). Ma, ancora, l’identità palestinese distruttiva e
auto-distruttiva non smette di essere essenzialmente quella della soggettività
concorrenziale di sesso maschile.
In questo clima di assoluta
caduta di obiettivi e di futuro, nell’impossibilità di pensare oltre la
costituzione di una nazione, l’antisemitismo che da tempo anima l’odio
palestinese (trattati nazisti di ogni specie circolano nel “sistema educativo”
palestinese così come l’ineffabile pamphlet della falsificazione dei cosiddetti
“Protocollo dei Savi di Sion” etc) è di natura differente dall’antisemitismo
europeo e tedesco. Nel processo di costituzione nazionale, che soprattutto nel caso
della Germania degli inizi del XIX° secolo, in ritardo storicamente, fu
accompagnata da un’ideologia etnico-culturalista e biologista che risale a
Herder e Fichte, l’antisemitismo (eliminatorio in Germania e in Austria)
costituì il fermento di questa formazione “etnica” dello Stato-nazione, rappresentando
l’ebreo come alterità negativa.
Tuttavia, nella versione
palestinese questo fermento non può più avere effetto, neanche con una
connotazione culturale differente, perché il parto statale della costruzione
nazionale palestinese nell’epoca della globalizzazione e del capitalismo di
crisi potrebbe solo dare origine a un nato morto. La formazione “etnica” sta
già cadendo a pezzi nei suoi prodotti di decomposizione post-nazionali (in
questo caso islamici) prima di potersi affermare a livello istituzionale.
L’antisemitismo nella sua versione attuale arabo-palestinese ormai non contiene
alcuna forza di formazione sociale, trasformandosi quindi direttamente, molto
più apertamente che nel caso dei nazisti, nel momento della pulsione di morte
di una soggettività capitalista completamente disorientata; per questa ragione
si manifesta immediatamente come ossessione degli attentati suicidi.
La distruzione fisica
dell’infrastruttura palestinese, già scarsa, a causa della guerra condotta da
Sharon, potrà contribuire alla creazione di leggende di una “lotta eroica”;
tuttavia, non sono stati necessari i crimini di guerra dell’esercito israeliano
e dell’odiosa politica israeliana di frammentazione in relazione al territorio
potenzialmente palestinese per rovinare completamente lo Stato della Palestina
ancor prima della sua fondazione. Ormai da sé, uno Stato palestinese, con le
sue proprie forze (si legga: capacità di partecipazione al mercato mondiale,
ormai nient’altro conta) è ancor meno capace di sopravvivere di quello
israeliano, anche a un livello medio arabo di povertà. In assenza di
possibilità di sviluppo reali, l’apparato dell’OLP sin dall’inizio si è visto
ridotto al rango di un destinatario delle elemosine dalla lega araba (com’è
ovvio soprattutto dai principi del petrolio), dall’Unione Europea, dagli Usa
etc (approssimativamente in quest’ordine) e come tale, facendo fede di
innumerevoli testimonianze, è totalmente marcito nella corruzione. Prima
dell’ultimo capitolo dell’Intifada, le sparatorie e gli omicidi su commissione
tra gruppi rivali erano ormai talmente quotidiani come in qualsiasi altra
regione in disgregazione. I “regolamenti di conti” interni palestinesi eseguiti
dai propri prodotti di imbarbarimento poco o nulla si devono alla repressione
israeliana, e solo la politica di guerra di Sharon li ha fatti passare
temporaneamente in secondo piano.
Il fatto che non solo gli stessi
palestinesi ma anche l’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’”imperialismo
globale ideale” dell’Occidente, e perfino in parte la politica israeliana,
abbiano insistito nell’opzione del tutto obsoleta della fondazione di uno Stato
palestinese dimostra solo il grado di disorientamento e allontanamento dalla
realtà a cui è giunto il “realismo” ufficiale. Nessuno vuole accettare come
vero che le vecchie formule dell’emancipazione, dello “sviluppo”, della
democrazia etc sono del tutto svalutate e invalidate. Mentre non sorge un
movimento di opposizione sociale qualitativamente nuovo, radicalmente
anticapitalista e, nella sua propria auto-comprensione, transnazionale e
post-statale, la fatalità dei processi di dissoluzione e di autodistruzione può
solo seguire il suo percorso; e in Palestina in un modo letteralmente suicida e
senza prospettive più che in qualsiasi altro luogo. Gli enunciati
spaventosamente isolati e senza concetti
dei pochi rappresentanti rimasti dell’intelligenza critica nello spazio palestinese
e arabo in nulla potranno alterare questa realtà, dato che sono solo
espressione del fatto che fino ad ora neanche l’afflizione estrema ha spinto a
incoraggiare il pensiero a liberarsi dai paradigmi obsoleti di un’epoca
transitata.
Israele come
"alieno" nel mondo capitalista e il neo-antisemitismo arabo
Israele non costituisce di certo
un’eccezione di questa diagnosi amara. Ciò è tanto più tragico perché Israele
non è esattamente uno Stato tra gli Stati e un concorrente dello Stato
palestinese virtuale, ma è soprattutto un paradigma di riferimento per il mondo
intero contro l’antisemitismo inseparabilmente legato alle forme capitaliste di
riproduzione e , nonostante il suo coinvolgimento nella struttura imperiale
occidentale, è allo stesso tempo un potenziale di resistenza contro l’ultima
riserva ideologica di crisi del capitale mondiale. La semplice esistenza di
Israele costituisce una specie di garanzia che la marcia del sistema produttore
di merci ancora non può finire nella barbarie; non perché lo Stato di Israele
sia immanente a una qualità metafisica in sé speciale, ma proprio al contrario,
perché l’esistenza reale di Israele è inconciliabile con le ultime conseguenze
della metafisica reale capitalista.
In questo senso il significato
(involontario) di Israele rispetto alla crisi mondiale capitalista merita un’analisi
molto più dettagliata di quella per esempio della società palestinese o di
qualsiasi altra società in crisi nella periferia; perché nel caso dello
sviluppo israeliano, sebbene si tratti di un processo di crisi analogo, questo
è caricato di un significato addizionale che influenza in forma diretta il
destino del mondo intero.
Tuttavia, Israele può
sopravvivere solo per quello che è, nella sua esistenza statale moderna, intanto che non ha coscienza dell’essenza di
questa esistenza nell’ambito della storia mondiale. Il paradosso di questa
esistenza trova la sua base nell’esistenza capitalista degli ebrei in generale.
In un modo tanto irriflessivo come tutti gli altri individui nel quotidiano (o,
nel campo del pensiero concettuale, in un modo tanto troncato come tutti i
teorici moderni), anche loro, nella loro falsa immediatezza, non vogliono
null’altro che “lavorare”, “guadagnare denaro”, “essere scienziati” etc ed
acquisire in qualsiasi modo un’identità capitalista normale. Tuttavia,
l’antisemitismo profondamente radicato nella modernità non lo permette. Quanto
più normali vogliono essere gli individui ebrei, più crudelmente sono
contrariati dalla definizione aliena che li tratta come un cumulo di alterità.
La loro pura volontà di normalità si scontra con la pura anormalità o
mostruosità della relazione del capitale.
Il conformismo ebraico, anche
nella sua forma di Stato membro dell’ipocrita “comunità delle nazioni” (cioè:
la comunità concorrenziale e assassina dei mostri nazionali e statali), si vede
sempre più confrontato con il problema, malgrado ogni sforzo di adattamento,
anche sovradeterminato, di essere allo stesso tempo definito a priori come un
“alieno”. Questa rappresentazione dell’ebreo come mostro, rappresentando
diabolicamente l’autocontraddizione lacerante della soggettività capitalista,
ve ben oltre le relazioni concorrenziali, rivalità e razzismi “normali” e anche
oltre l’”esotizzazione” culturale colonialista.
In tutte queste relazioni
negative e definizioni di alterità, comunque, l’umanità formata nel capitalismo
si riconosce attraverso tutti i conflitti nella sua umanità borghese e
negativa. L’antisemitismo, però, è
l’altro della stessa concorrenza: essa stabilisce una stranezza assoluta che
altro non è se non l’auto-alienazione sociale dell’essere produttore di merci,
che come soggetto metafisico della forma vuota del valore non è di questo mondo
senza smettere di stare in questo mondo; ed essa proietta questa
auto-alienazione assoluta nella figura dell’ebreo, come l’assolutamente altro e
l’inconciliabilmente strano, ossia, come colui che non può essere mediato o
pacificato politicamente.
Lo stesso vale anche per lo Stato
di Israele in quanto Stato. Per cui gli israeliani possono essere un popolo di
Stato e uno Stato tra gli Stati solo se allo stesso tempo rappresentano per
tutti gli altri l’assolutamente altro come negatività astratta, piaccia o meno.
Questa situazione è stata spiegata e con tutto l’acume del caso da autori
ebrei, tanto dentro come fuori Israele, com’è il caso di Nathan Glaser nel 1975: "La maggior parte del tempo, gli
ebrei hanno voluto essere come tutti gli altri. La fondazione dello Stato di
Israele è stata ironicamente frutto dello sforzo per far si che gli ebrei
potessero essere uguali a tutti gli altri: da ora in avanti avrebbero avuto uno
Stato e così avrebbero smesso di essere uno strano popolo senza patria per
essere un popolo come tutti gli altri. Ma non è questo che è accaduto. Israele
ha rafforzato lo statuto speciale degli ebrei, non lo ha ridotto. Nessun altro
Stato sa in una forma tanto definitiva che una guerra perduta significherebbe
la sua distruzione e la sua scomparsa (Eisenstadt 1987/1985, 576).
In questo contesto si deve
tuttavia distinguere tra lo “statuto speciale” degli ebrei, nel senso della
posizione dello Stato di Israele nell’ambito della storia e della politica
mondiale nel contesto dell’antisemitismo moderno e della sua funzione sociale,
per un lato, e la relazione concorrenziale specifica e immediatamente ostile
verso tutti i suoi vicini arabi, dall’altro, che in nessun modo era associata dal
principio all’antisemitismo moderno (principalmente occidentale). Perciò l’ostilità
araba verso Israele, almeno ai suoi inizi, non può essere equiparata in modo
immediato allo “statuto specifico” degli ebrei nella società mondiale, neanche quindi
all’antisemitismo eliminatorio dei nazisti.
In origine, il non riconoscimento
di Israele da parte degli arabi (soprattutto quando ufficiale) si riferisce
solo all’esistenza come Stato e non all’esistenza fisica o sociale degli esseri
umani che lo compongono. In altre parole: agli ebrei in Palestina non si
riconosce (all’inverso del problema palestinese) il “diritto a uno Stato
proprio”, ma non gli si nega il diritto alla vita. L’idea è vivere come
cittadini di un immaginario Stato arabo-palestinese, secondo la prospettiva
subalterna e chiusa del “bantustan”, come è il caso dei palestinesi sotto la sovranità
israeliana. Ciò significherebbe evidentemente che Israele smetterebbe di
esistere come luogo di rifugio per i perseguitati dall’antisemitismo globale.
Ma questo lato del problema non ha mai interessato il lato arabo-palestinese. I
rappresentanti palestinesi parlano di sé stessi, nel migliore dei casi, come
“vittime delle vittime”, senza voler riflettere sul contesto della società
mondiale capitalista e delle sue contraddizioni distruttive.
Ma questo atteggiamento fin
dall’inizio non è la stessa cosa dell’antisemitismo eliminatorio dei nazisti o
dell’antisemitismo occidentale in senso generale. Nello spazio arabo, gli ebrei
non si trovano in partenza definiti come alterità assoluta nel processo
nazionale di costituzione di uno Stato e della modernizzazione. Tutt’ora
esistono, nella maggior parte dei paesi del Medioriente, comunità ebraiche con
sinagoghe e con possibilità di vivere relativamente tranquilli, anche nella
repubblica islamica dell’Iran. La pressione migratoria in direzione di Israele,
che evidentemente esiste, non si deve a grandi ondate di persecuzioni, ma ha
origine in altre ragioni (culturali e soprattutto sociali). Anche allo stato
attuale dell’escalation di odio, una sconfitta militare di Israele, benché
comporterebbe le tradizionali catene della vendetta, saccheggi ed espulsioni,
il che sarebbe abbastanza orribile, probabilmente non condurrebbe, oltre alla
perdita della sua esistenza come Stato, anche a un assassinio industriale degli
ebrei secondo il modello dei nazisti, che non era in ultima analisi il
risultato di un tipico moderno conflitto di interessi in un’area di confluenza
e attrito di contraddizioni reali, ma ha avuto la sua origine direttamente
nelle viscere della metafisica generale del soggetto capitalista – ossia, si
trovava a un livello di astrazione completamente differente e proprio per
questo fu eseguito in modo tanto estremo quanto sprovvisto di sentimenti. La
singolarità di Aushwitz non è superata dall’inimicizia araba nei confronti
degli ebrei.
Se il potenziale di odio
arabo-palestinese verso Israele si carica intanto realmente di momenti
dell’antisemitismo importato dall’Europa e dall’Occidente, per esempio nelle invettive
di alcuni media palestinesi e nel “sistema educativo” dell’autorità autonoma,
ciò non si deve tanto alla contraddizione reale causata dai conflitti
d’interessi riguardo il possesso della terra, dell’acqua etc, quanto
all’identificazione negativa di entrambe le parti in conflitto con il processo
distruttivo della globalizzazione capitalista, che trasforma la realtà del
conflitto in quel che tocca gli interessi in qualcosa di irreale o surreale e
che rende obsoleta la forma del soggetto insieme a tutti gli interessi.
Ma anche quando si trattasse di
antisemitismo moderno, gli arabi, come parte integrante del mondo capitalista,
in un certo modo arrivano in ritardo. Essi ormai non potrebbero mobilitare
questa riserva ideologica di crisi, a emulazione dei nazisti, in un processo di
formazione sociale. Nelle condizioni della globalizzazione, la spiegazione
irrazionale del mondo e della crisi attraverso l’antisemitismo non può più
assumere la forma statale di un programma di annichilimento organizzato su
scala sociale, e molto meno in Palestina. Proprio per questo l’impulso
eliminatorio è in questo caso immediatamente auto-aggressivo (attentati
suicidi); si confonde, in pratica, con le relazioni elementari della
concorrenza capitalista della riproduzione materiale in loco e,
ideologicamente, con i prodotti politico-religiosi della decomposizione dello
Stato: anche questo costituisce una differenza in relazione ai nazisti; senza
contare la differenza tra il primo e il terzo mondo che si manifesta anche
nello spazio formalmente omogeneo della globalizzazione e che tinge i modelli
ideologici.
Dal sionismo al
dominio degli ultras: la crisi interna della società israeliana
Israele a sua volta, come Stato
capitalista tra Stati capitalisti, oltre a non liberarsi dall’alterità
assoluta, è anche soggetto agli stessi processi di crisi come tutti gli altri
Stati capitalisti nello spazio capitalista planetario; e con particolari
potenziali di rischio in confronto all’occidente, dovuti alla sua esistenza
sovvenzionata e precaria. Tuttavia, una volta che Israele, per poter esser uno
Stato capitalista, non deve conoscere la sua vera legittimazione, o la può
conoscere solo in un modo completamente superficiale (in un modo positivo, come
luogo di rifugio per gli ebrei perseguitati dall’antisemitismo, ma solo in una
comprensione superficiale e troncata della natura di questo antisemitismo), deve
reagire alla crisi in un modo tanto regressivo e perverso come tutti gli altri,
in relazione ai quali è definito come alterità assoluta: l’ansia degli ebrei
per la normalità borghese si riproduce anche in forma negativa. Israele,
stabilito come alterità, di fatto e com’è ovvio non può mobilitare
l’antisemitismo come ultima riserva interna della soggettività borghese, ma in
realtà sta in questo mondo ed è di questo mondo, essendo parte integrante del
suo sviluppo e dunque del suo sviluppo verso la barbarie.
L’alterità imposta non fa di
Israele un’alternativa storico-sociale positiva, né degli esseri umani che la
compongono persone differenti. Se il razzismo anti-arabo permane in Occidente
una manifestazione razzista tra le altre nell’ambito dell’autodistruzione
imminente del soggetto borghese e non serve come proiezione
dell’auto-alienazione in un oggetto esteriore, in Israele deve servire da
espediente e sostituto per la forma di crisi antisemita della soggettività
capitalista, che qui non è possibile. In questo modo, Israele traccia il suo
cammino verso la barbarie, che comunque poco o nulla si differenzia dai suoi
vicini arabi quanto alle loro forme di manifestazione.
Come ovunque nel mondo, anche in
Israele la mobilitazione politico-religiosa reazionaria si rivela come genuino
prodotto del crollo della soggettività capitalistica e di Stato; solo che qui è
caricata di proiezioni anti-arabe. E anche in Israele il processo di imbarbarimento
conseguente al processo di globalizzazione ha una preistoria; più precisamente:
antagonismi interni antichi e apparentemente perduti nel passato sono ridiretti
e, proprio in questo caso speciale, aggressivamente amalgamati con quelli
esterni. Il distaccato sociologo e storico israeliano Shmuel N. Eisenstadt
(Università ebraica di Gerusalemme) ha presentato a metà anni ’80 una completa
indagine sulla “Trasformazione della società israeliana” (Eisenstadt,
1987/1985) che, da questo punto di vista, può essere considerata estremamente
delucidativa.
Qui è decisiva la circostanza per
cui il secolare sionismo laburista ha urtato fin dal principio, nelle comunità
ebraiche, con la resistenza trincerata
dei religiosi ultraortodossi, tanto nelle diverse regioni del mondo come
all’interno dello Stato di Israele. Di fatto, gli ultraortodossi (i cosiddetti
Haredim), che in Israele non costituiscono di certo una piccola minoranza, così
come i gruppi palestinesi più militanti e gli Stati islamici, fino a oggi non
hanno riconosciuto lo Stato di Israele. Questo conflitto interno ebraico viene
da molto lontano; esso si è sempre nutrito del furore dei reazionari clericali
contro la secolarizzazione moderna e contro la politica interna capitalista
degli interessi – corrispondendo in un
certo modo alla versione ebraica dell’”anti-modernità moderna”, vale a dire,
del contro-illuminismo borghese meramente regressivo e autoritario, senza alcun
momento di critica emancipante.
Tuttavia, a differenza del mondo
occidentale, queste forze autoritarie e reazionarie in Israele non si sono integrate
semplicemente nella politica borghese come una corrente radicale di destra.
Costituiscono partiti e partecipano alla politica, ma in modo del tutto
esteriore e puramente tattico, considerato che di principio si mantengono
anti-statali. Tuttavia, ovviamente, non anti-statali in un qualche senso di
emancipazione anarchica, ma puramente e semplicemente come programma di una
subordinazione diretta della vita al feticismo specificamente religioso, con
una mobilitazione politica quasi religiosa.
Come risalta dall’investigazione
di Eisenstadt, nel corso dello sviluppo israeliano gli ultraortodossi sono
stati considerati una specie di dinosauri dell’ebraismo, che presto o tardi
avrebbero dovuto estinguersi. Sotto l’impressione dell’olocausto, essi
ricevettero come immigrati ampie concessioni istituzionali, di modo che
potessero vivere in Israele, malgrado la negassero in quanto Stato. Niente di
tutto questo dovette apparire gravoso o funesto, in quanto Israele, malgrado la
sua posizione particolare nella storia mondiale e malgrado il coinvolgimento dell’ostilità
araba, si poté sviluppare come Stato capitalista tra gli Stati capitalisti nel
contesto dell’accumulazione fordista globale. La posizione degli ultraortodossi
si presenta, tuttavia, in modo completamente differente nel contesto della
globalizzazione e della crisi capitalistica mondiale. A ogni scoppio della
crisi postmoderna, questa forza sociale reazionaria si rivela sempre più come
fermento di autodistruzione sociale interna ad Israele. Lungi dall’estinguersi
poco a poco, questo segmento politico-religioso della società israeliana, che
si presumeva solo grottesco, ha cominciato ad assumere le proporzioni di un
tipico fondamentalismo religioso postmoderno.
Due momenti hanno dato a questa
tendenza una forza particolare. Da un lato, gli ultraortodossi non dovevano
inventarsi da zero quali rappresentanti dello “Stato teocratico”; così come i
Wahhabiti dell’Arabia Saudita, gli ultraortodossi non sono mai stati disposti a
coltivare la loro nicchia nello spazio della tolleranza religiosa borghese, ma,
al contrario, sono stati in attesa di imporre alla società secolare la sua
“legge di Dio” come movimento militante. D’altro lato, si sono resi sempre più
capaci di farlo in termini istituzionali grazie alle concessioni statali; al
contrario della maggioranza dei loro fratelli spirituali islamici, essi non si
sono visti obbligati – ancora una volta a somiglianza di quanto accaduto in
Arabia Saudita – a formarsi a partire dalla clandestinità. Sotto la protezione
dell’onorato cavaliere di Stato “…essi hanno insistito sempre sull’autorità
superiore delle loro proprie istituzioni, dei loro centri studio e delle
decisioni del loro Consiglio degli Anziani, di fronte al quale erano
responsabili i suoi deputati in parlamento. Allo stesso temo presentavano allo
Stato numerose richieste, di ordine di principio e religiose; da un lato
dovrebbero essere imposte alla popolazione tante limitazioni religiose quanto
più possibile, dall’altro, però, hanno chiesto anche diverse concessioni e
donativi terreni per le loro necessità, soprattutto per il loro sistema scolastico
separato… Inoltre hanno chiesto determinati privilegi e una specie di immunità
limitata di fronte alle leggi statali…" (Eisenstadt, op. cit., p. 531).
In altre parole: gli
ultraortodossi hanno costituito all’interno dello Stato di Israele fin dalla
sua fondazione uno Stato teocratico separato, nemico per principio del sionismo
laico; una posizione che, nelle condizioni della nuova crisi mondiale
capitalista, si presta ottimamente a dare inizio al processo postmoderno e
post-statale di barbarie. Il parallelismo con i vicini nemici di questa regione
del mondo non potrebbe essere più chiaro e imbarazzante. Per poter funzionare
come fermento di questo processo distruttivo, le forze ultraortodosse devono
uscire dall’isolamento senza abbandonare le loro pretese reazionarie clericali
e contaminarsi con le altre tendenze sociali che operano nella stessa
direzione.
In primo luogo è avvenuta “… in connessione stretta con la
tendenza generale nella diaspora…una forte espansione dei gruppi ortodossi in
Israele. Comunità ultraortodosse e circoli ortodossi di ogni specie sono
cresciuti di numero e si sono resi più visibili" (Eisenstadt, op. cit., p.
533). Così come nel resto del mondo in forme diverse, anche in tutto il mondo
ebraico e in Israele sono cresciute in termini quantitativi le forme
politico-religiose e settarie di lotta con le manifestazioni della crisi
sociale.
Sotto questa pressione, non sono
tardate a comparire rotture all’interno del sionismo fondatore dello Stato
nella sua composizione precedente. Originariamente il sionismo era formato da
un’ala laica e socialista e da un’altra nazionale e religiosa. I nazionalisti
religiosi, diversamente dagli ultraortodossi, riconoscevano lo Stato di Israele
come tale e quindi anche la sua manifestazione secolare; essi agivano come
forza politica di partito con vesti ideologiche religiose, come per esempio i
democratico-cristiani in Europa. Ma sotto la pressione della crisi tanto
all’esterno quanto all’interno e sotto la pressione del forte sollevamento
degli ultraortodossi, l’”Alleanza Storica” dei religiosi nazionalisti con la
corrente principale laica del sionismo laburista ha cominciato a disfarsi a
vista d’occhio. I nazionalisti religiosi si sono avvicinati agli ultraortodossi
e viceversa, il che ha significato che ai primi è cominciato a essere imposto
il fanatismo religioso e ai secondi il nazionalismo militante. Già solo questa
convergenza ha costituito un detonatore della società israeliana, con effetto
esplosivo tanto all’esterno quanto all’interno.
Si sono in seguito aggiunti altri
fenomeni distruttivi, venuti sulla scia dell’immigrazione degli ebrei verso
Israele. Se delle ondate migratorie furono protagonisti, soprattutto al tempo
dell’olocausto e immediatamente dopo, soprattutto gli ebrei dell’Europa
centrale e orientale (Ashkenaziti), in maggioranza di orientamento laico e
occidentalizzato (il che, al dunque, corrisponde all’ideologia sionista), poco
a poco il grosso dell’immigrazione ha cominciato a essere costituito da
immigrati asiatici e africani, i cosiddetti “orientali” (Sefarditi). La maggior
parte di questi nuovi arrivati, in un’epoca di accumulazione capitalista in
raffreddamento globale, non ha tardato a costituire la classe sociale inferiore
della società israeliana. La contraddizione sociale da qui emersa, comunque, è
stata sempre più articolata, non in modo socio-economico, ma piuttosto “etnico-politico”,
così com’è tipico del culturalismo postmoderno. Questa etnicizzazione del
sociale, specifica dentro Israele, non si è conclusa con un semplice
multiculturalismo, ma si è trasformata, sotto la crescente pressione interna ed
esterna, in una tendenza in favore di una militante “orientalizzazione” della
società israeliana, accompagnata da una mobilitazione dell’odio contro il
sionismo laico europeo: è così che già all’inizio degli anni ’80 si vedevano
“nelle periferie…a nord di Tel Aviv, molti graffiti con la parola ‘Asquenazi’
(una congiunzione di Asquenaze con nazi) …" (Eisenstadt, op. cit., p.
783).
Come non poteva non accadere, la
reazionaria mobilitazione politico-religiosa, nel corso della fusione tra
fanatici ultraortodossi e ultranazionalisti religiosi, ha cominciato a legarsi
con l’”orientalizzazione” etnico-politica: una miscela di fondamentalismo
religioso, nazionalismo estremista ed etnico-politica in un legame unico; a
rigore, un esempio paradigmatico dell’attuazione distruttiva della politica di
imbarbarimento nelle zone di crisi.
Quantomeno altrettanto
problematico, è stato l’arricchimento della società israeliana con un secondo
potenziale razzista con motivazione differente, cioè attraverso l’immigrazione
catapultata dalla Russia e dagli Stati del C.S.I dopo il collasso dell’Unione
Sovietica. “Tutti i giorni si può vedere nell’aeroporto Ben Gurion un aereo
dell’Aeroflot o della Trans-Aero depositare un carico di immigrati dalle classi
più basse dall’ex-Unione Sovietica” (Kampfner, 2002). Il carattere “ebraico”
(del resto un costrutto storico come tutte le altre definizioni etniche e, come
lo Stato di Israele, legittimato solo dall’antisemitismo esistente in tutto il
mondo) di molti di questi immigrati è più che dubbio; al dunque, le condizioni sono
talmente orribili in molti luoghi della società ex-sovietica al collasso che
perfino l’immigrazione nella minacciata Israele si presenta come un’occasione
sociale. D’accordo con la legge israeliana del ritorno, gli immigrati devono
“dimostrare di avere un avo ebreo. Nella maggior parte degli Stati
ex-sovietici, i documenti necessari possono essere facilmente acquistati in
cambio di denaro" (Kampfner, 2002). Così come nel caso dell’emigrazione
dei cosiddetti russi con ascendenza tedesca verso la Germania occidentale, qui
si mostra il carattere ambiguo e la doppiezza dei criteri “etnici” in generale;
questi sono sempre suscettibili di acquisire un contenuto razzista di
significato duplice, tanto includente quanto escludente.
Gli immigrati russi con
ascendenza ebraica reale o falsa, in maggioranza originari della classe
inferiore russa dei cosiddetti “sovs", hanno modificato ancora di più il
profilo della società israeliana: "Oggi costituiscono un sesto della
popolazione totale. Influenzati per generazioni dalla dittatura sovietica e
mentalmente condizionati in modo conforme, questi “sovs” poco sapevano riguardo
Israele e molto meno riguardo gli arabi. Mentre prima odiavano i “negri” delle
repubbliche sovietiche del sud o dell’Asia centrale e transcaucasica, ora
virano il loro odio contro i palestinesi e contro i paesi musulmani che
circondano Israele… Gli unici sovs che hanno contatti regolari con i
palestinesi sono i membri delle
organizzazioni criminali dediti ad attività molto redditizie come la
ricettazione di automobili rubate o il traffico di armi verso la Cisgiordania e
verso la Striscia di Gaza. Le armi le ottengono dai soldati israeliani che così
finanziano il loro consumo di droga” (Kampfner, 2002).
Quasi tutti gli immigrati
"sovs" sono di orientamento fortemente laico e non hanno nulla a che
fare con l’allucinazione religiosa degli ultraortodossi. Ma in nessun modo
hanno modificato la parte laica degli israeliani in un senso emancipatorio.
Poiché ciò che portano con sé, e riorientano, è il residuo razzismo laico dei
ceti inferiori del capitalismo che si fonde contraddittoriamente con il
razzismo su base religiosa: “Non è la religione che li muove. La maggioranza
dei sovs non possiede alcuna religione. Essi costituiscono con gli altri gruppi
della società israeliana un’informale e diabolica alleanza che ha modificato
profondamente il panorama politico" (Kampfner, 2002).
Quello che deve inevitabilmente contribuire
quale aggravante addizionale è il fatto che Israele, come parte integrante
della società mondiale capitalista, è evidentemente sottoposta alle sue
tendenze economiche ed ideologiche principali. Sotto l’egida globale del
neoliberismo, coi suoi principi fondamentali di privatizzazione,
deregolamentazione e globalizzazione, tutti i momenti socialisti del sionismo
dovevano perdere la loro forza agglutinante. In particolare l’idea del kibbutz
non è stata rinnovata in accordo coi tempi, né in termini intellettuali né in
termini pratici, ma ha sofferto un declino quantitativo e sostanziale. Alla ristretta
ideologia della comunità non si è sostituita alcuna critica avanzata della
forma del soggetto capitalista ma, come in tutto il mondo, la progressiva
capitolazione di fronte a due manifestazioni postmoderne strettamente
interrelate, quali, da un lato, l’individualizzazione astratta per la
coercizione del mercato e della concorrenza, e, dall’altro, il culturalismo
religioso o etnico militante.
In termini a prima vista politici,
tutti questi sviluppi non hanno tardato molto a provocare un cambiamento
completo delle relazioni di potere in Israele: il laico sionismo laburista è
stato sempre più messo con le spalle al muro; è avvenuta una “crescita
inizialmente lenta ma continuativa del Gachal, che più tardi ha dato origine al
blocco del Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 526), il centro politico della
tendenza reazionaria all’imbarbarimento con tutta la coda di cometa dei partiti
ultra-religiosi, ultra-nazionalisti, etnico-politici, gruppi scissi, sette e
organizzazioni di lotta fanatiche che oggi costituiscono, come minimo, l’ago
della bilancia per la costituzione del governo: Il governo Likud di Ariel
Sharon si poggia sugli immigrati sovietici, sugli ebrei sefarditi e sugli ultra-ortodossi"
(Kampfner, 2002).
Questi fatti sullo sviluppo politico-sociale di Israele a maggior
ragione gettano una luce incandescente sulla sconvolgente ignoranza
dell’”antimperialismo” tradizionale della sinistra: mentre questo continua a urlare
le sue parole d’ordine “antisioniste”
(da sempre con una carica antisemita che oggi si mostra ovvia), in
realtà è ormai da molto tempo che il sionismo laico è stato fiaccato dalle
stesse forze antisioniste e anti-civilizzatrici postmoderne di Israele. Anche da questo punto di vista,
l’antimperialismo “rivoluzionario nazionale” ormai è meramente anacronistico.
La salita del blocco Likud è stata accompagnata da una delegittimazione
sistematica del pensiero sionista originario e ha equivalso in larga misura a
un processo di erosione della società israeliana orientato tanto verso
l’esterno che al proprio interno.
Per quanto riguarda
l’orientamento verso l’esterno, la posizione difensiva di fronte agli arabi si
è convertita in ostilità militante, arroganza culturalista e idee aggressive di
conquista. Questo orientamento ideologico degli ultras per guadagnare visibile
influenza si è riflettuto nella pratica di un programma di colonizzazione nuovo
formato da estremisti di destra. Il Gush Emunim ("Blocco dei
credenti"), fondato nel 1974, ha predicato un nuovo ideale di "pionierismo",
ormai non socialista, ma religioso e nazionalista, con l’obiettivo di espellere
i residenti arabi e, in ultima istanza, incorporare ad Israele le aree
occupate: “La politica dei coloni in Giudea e Samaria si è incamminata infatti
in una nuova direzione dopo l’arrivo al potere del governo Likud… Il processo
di colonizzazione sotto il governo Likud ha mostrato alcune caratteristiche
tipiche. La prima è stata la sua enorme dimensione. Mentre tra il 1967 e il
1977 furono fondate circa quaranta nuovi insediamenti, tra il 1976 e il 1983 ne
sono sorti quasi il doppio… La seconda caratteristica del processo di
colonizzazione sotto i governi Likud riguarda la localizzazione dei nuovi
insediamenti. Ai tempi del blocco laburista, gli insediamenti furono collocati
in aree senza residenti arabi o con molto pochi di loro… La scelta del luogo
per i nuovi insediamenti è mutata profondamente sotto il governo Likud.
L’obiettivo era ora quello di ottenere il massimo della presenza ebraica in
tutte le parti della Cisgiordania. Invece di risparmiare le regioni con una
densa popolazione araba hanno preferito esattamente queste aree per la
fondazione di insediamenti, arrivando perfino a collocare insediamenti in grandi
città arabe come Nablus, Ramallah e Hebron. La localizzazione esatta dei nuovi
insediamenti si è orientata in base all’identificazione di una determinata
località con un villaggio biblico…" (Eisenstadt, op. cit., p. 754 sg.).
Questa colonizzazione non obbedisce
più a un qualsiasi tipo di ideale universale, come nel caso del sionismo
laburista, e dunque non esprime più, implicitamente, l’esigenza che si abbia un
luogo per tutti i perseguitati e che inoltre tutti gli esseri umani possano
insediarsi in qualsiasi luogo, basta che non sia a scapito di altri. Ben al
contrario, il Gush Emunim rappresenta una politica di "purga" ed
espropriazione etnico-politica, con un fondamento di legittimazione del tutto
irrazionale (biblico). A questo
paradigma, l’ora capo del governo israeliano ha corrisposto già dai primi anni
‘80: "La politica generale di colonizzazione…era sotto la direzione
dinamica di Ariel Sharon…" (Eisenstadt, op. cit., p. 757). Non per caso
sotto la direzione di Sharon, quale ministro della difesa, nel 1982 è stata
condotta l’incursione in Libano, per la prima volta puramente aggressiva e non
imposta dall’esterno, culminata nel famigerato massacro di Sabra e Chatila,
vicino Beirut: qui le milizie cristiane alleate di Israele hanno assassinato
più di 800 civili palestinesi sotto lo sguardo dell’esercito israeliano, con
l’evidente tacita approvazione di Sharon.
Quanto all’orientamento verso
l’interno, come in qualsiasi altra parte del mondo, la svolta a destra della
società israeliana è stata accompagnata in misura crescente da casi di
corruzione e soprattutto da un’inconciliabile scissione, che già negli anni ’80
ha condotto a una retorica della violenza sempre più aggressiva della destra
contro la sinistra israeliana: “Queste tendenze di scissione si sono associate
in una misura considerevole a una violenza quantomeno verbale e a illegalità a
diversi livelli che…in molte aree della vita si sono prolungate nel tempo. Ciò
si è manifestato nelle relazioni quotidiane, nel traffico stradale e nell’alto
tasso di incidenti. In stretto legame con questa violenza c’era la crescente
intolleranza contro gli avversari, inclusa la tendenza a coprirli con
designazioni estremamente sprezzanti… Questi sentimenti di discordia e
ostilità, espressi con veemenza, si sono incontrati soprattutto nei gruppi
prossimi al Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 745).
La delegittimazione del sionismo
laburista non ha risparmiato nessun aspetto, sia i kibbutz sia la Centrale
Sindacale Histadrut: "Di particolare importanza sono state le invettive
d’odio improvviso… contro i kibbutz, questo simbolo centrale del modello
sionista…" (Eisenstadt, op. cit., p. 735). Così come i kibbutz, anche il
movimento sindacale ha sofferto sotto la duplice pressione della crisi
capitalistica e della globalizzazione neoliberale, da un lato, e dell’odio
politico religioso dei radicali di destra, dall’altro: “In generale,
l’Histadrut stava perdendo sempre più il suo posto come partner del governo
nella formulazione della politica economica. Molto spesso è stata
emarginata…" (Eisenstadt, op. cit., p. 771). Nemmeno il ruolo storico
dell’Hagana sionista, il nucleo militare della fondazione dello Stato di
Israele, è stato risparmiato in questo processo di delegittimazione: “Anche la
storia della lotta contro gli inglesi e per l’indipendenza è stata riscritta –
soprattutto con l’obiettivo di minimizzare il ruolo di Hagana in tutto questo
processo” (Eisenstadt, op. cit., p. 767).
Alla fine della sua indagine,
Eisenstadt manifesta la speranza che Israele, malgrado questo sviluppo, possa
raggiungere un nuovo "equilibrio dinamico" e superare le tendenze
verso l’autodistruzione. Purtroppo gli anni ’90 hanno dimostrato esattamente il
contrario. L’omicidio del primo ministro Yitzhak Rabin nel novembre del 1995
per mano di un giovane fanatico ebreo nazionalista-religioso ha costituito solo
la punta dell’iceberg che minaccia di far naufragare Israele a causa del suo
imbarbarimento fondamentalista. In questo senso, l’indagine di Michael Karpin e
Ina Friedman "La morte di Yitzhak Rabin" (1998), pubblicata in
originale con il titolo d "Murder in the name of God [Assassinio in nome
di Dio]", si legge come un’inquietante prosecuzione dell’analisi di
Eisenstadt. Karpin e Friedman, che sono tra i più conosciuti giornalisti israeliani,
mostrano con audace chiarezza quanto sia progredita nel frattempo la
distruzione fondamentalista religiosa e nazionalista radicale di destra della
società israeliana, e, ancora una volta, tanto verso l’esterno quanto al
proprio interno. Il fatto che con Yitzhak Rabin fosse arrivato al potere più
volte un governo laico-sionista poteva essere attribuito alla volontà di pace e
di conciliazione della maggioranza degli israeliani; ma la fine sanguinosa di
questa politica, per quanto sia rimasto un semplice episodio, risale al potere
ormai maturato dalla tendenza fondamentalista.
Tanto prima come dopo l’omicidio
di Rabin, era visibile un rafforzamento, che si prolunga fino a ora, della
politica di colonizzazione ed espropriazione militante contro la popolazione
araba, la cui dimensione ha preoccupato frequentemente perfino i negoziatori
statunitensi. Già Eisenstadt ha rilevato, nell’ultima parte della sua indagine,
il carattere razzista dell’ideologia della colonizzazione e del suo appoggio da
parte delle alte sfere della società israeliana; come egli scrive, “alcuni
gruppi religiosi giustificavano un comportamento estremamente xenofobo che
invocava le accuse bibliche contro Amalek" (Eisenstadt, op. cit., p. 787).
Il primo ministro del governo Likud, Begin, disumanizzerà pubblicamente i
palestinesi come “animali a due zampe”; e, nella stessa misura in cui la
maggioranza dei rabbini ortodossi di Israele sempre più apertamente propagandavano
lo “Stato teocratico” ebraico, anche questo razzismo è salito di tono. Il
rabbino Yitzhak Ginsburg, uno degli estremisti della linea dura, ha pubblicato
un decreto “secondo il quale sangue
ebraico e sangue non ebraico non sono identici” (Karpin/Friedman, 1998, p.
18). E il famoso rabbino Meir Kahane, uno degli ideologi della destra
fondamentalista, egli stesso assassinato nel 1990 in un’apparizione pubblica a
New York, “ha definito…tutti gli arabi come un’epidemia
di batteri che ci avvelena” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 69).
Ormai da più di dieci anni, gente
di quest’epoca era tanto “emarginata” in Israele quanto più o meno un Jörg
Haider in Austria; per il funerale di Kahane a Gerusalemme “sono venute più di
15.000 ospiti e il discorso funebre è stato pronunciato niente di meno che dal
rabbino capo di Israele Mordechai Eliyahu… Tra i presenti a rendere l’ultimo
saluto a Kahane vanno inclusi anche due ministri e una serie di deputati di
destra alla Knesset" (Karpin/Friedman, 1998, p. 70).
La motivazione razzista è
diventata il propulsore per una serie infinita di atti di violenza dei coloni
israeliani. E’ stato il caso, per dare solo un esempio, dell’assalto
nell’estate del 1983 di un gruppo di estremisti mascherati all’Università di
Hebron, che hanno ammazzato tre palestinesi e ferito molti altri col fuoco di
fucili e bombe. In seguito è stato perpetrata un’innumerevole quantità di
attentati con le bombe contro presidenti arabi della camera. Sono stati
pianificati grandi attentati contro la moschea Al-Aksa di Gerusalemme e altri
simboli islamici, anche se evitati in tempo. Perfino conosciuti leader politici
di destra hanno partecipato personalmente ad atti di violenza, come nel caso
del membro della “centrale d’azione” della destra contro Rabin, Gadi Ben-Zimra.
Nel quotidiano sono stati proprio i gruppi dei coloni più esposti,
frequentemente minuscoli, che, sotto la protezione dell’esercito, hanno
terrorizzato i vicini palestinesi, rovesciando le loro vendite di ortaggi,
mirando alle loro case, distruggendo le loro auto etc. Spaventoso è stato l’attentato
suicida del medico Dr. Baruch Goldstein, del famoso insediamento di Kiryat
Arba, vicino ad Hebron, che nel 25 febbraio del 1994 ha ammazzato 30
palestinesi con un fucile automatico durante l’orazione del mattino per poi finire
linciato dai sopravvissuti inferociti. Goldestein ha raggiunto lo status di
“martire” in ampi circoli ortodossi e nazionalisti, nei quali è arrivato ad
essere definito “vittima del terrore arabo”, e nello stesso “equiparato alle
vittime dell’olocausto nazista” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 104, 177).
Tutte queste violente eruzioni di
odio razzista-nazionalista e di allucinazione religiosa sono state organizzate
e non atti isolati. I coloni hanno costituito milizie private proprie, con armi
fornite dall’esercito su mandato del governo
Likud, e rapidamente hanno cominciato ad autonomizzarsi dalla stessa
amministrazione Likud, e ad agire illegalmente e arbitrariamente come
“resistenza clandestina armata”: ancora una volta, ciò è accaduto in palese analogia
con i loro vicini arabi e palestinesi. La distruzione interna di Israele ormai
raggiunge il livello dei signori della guerra. La stampa laica israeliana così
non ha tardato a definire “i fuochi di violenza dei coloni come confine del selvaggio west…"
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 64).
Paradossalmente, gli haredim e
gli ultra-nazionalisti, nella stessa misura in cui hanno esautorato e distrutto
l’autorità e le istituzioni dello Stato di Israele, hanno reinterpretato
radicalmente il fondamento legittimatorio di questo Stato: mentre il loro
attivismo fondamentalista ha distrutto lo Stato al suo interno, questo ha
dovuto assumere verso l’esterno la sproporzionata dimensione di una “grande
Israele”. Da luogo di rifugio secolare dei sionisti si è trasformato nel luogo
biblicamente mistificato di una promessa di salvezza nazionalista e religiosa;
e da questo punto di vista di un’”antipolitica” fondamentalista religiosa dei
radicali di destra, l’insediamento delle frontiere non può essere nemmeno il
risultato di negoziazioni. Invece di
queste, la convinzione fanatica afferma che “c’è solo una direttiva per fissare
i confini: la promessa di Dio al patriarca Abramo (!): Io darò ai tuoi discendenti la terra che va dal fiume d’Egitto al
grande fiume Eufrate (Moisés I, 15,18). Tali frontiere comprendono oggi la
maggior parte del Medioriente, dall’Egitto fino all’Iraq (!)…"
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 15).
Nel processo di fusione di
fondamentalismo religioso, nazionalismo secolare, razzismo e politica etnica,
la dottrina della salvezza dal Messia si è trasformata in un costrutto
post-politico, che si autodefinisce come “rivoluzionamento” politico-religioso
della società israeliana: “La rivoluzione
neo-messianica è stata imposta dalle sinagoghe e dalle scuole degli
insediamenti. Le sinagoghe ormai non erano luoghi di preghiera, ma centri di
indottrinamento politico, le scuole talmudiche non erano più i luoghi dell’erudizione,
ma forgiavano i quadri del movimento della grande Israele… E’ stato costruito
un enorme apparato di propaganda, sotto l’apparenza di associazioni
presumibilmente apolitiche, favorite dall’esenzione fiscale… Un risveglio di questa dimensione non
accadeva nel mondo ebraico dall’ascesa del sionismo un secolo prima…"
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 291).
Il movimento teocratico
neo-messianico in favore di una spettrale grande Israele ha agito con la stessa
violenza crescente, legittimata dalla teologia talmudica, verso l’interno così
come verso l’esterno. Anche questa violenza interna, diretta soprattutto contro
la sinistra laica, è cominciata presto, in parallelo con la violenza razzista
dei coloni nelle zone occupate. Il pretesto è stato dato da un incidente nel
febbraio del 1983: "Yonah Abrushmi, un giovane guidato dalla retorica
sfrenata della destra, lanciò dalla sede della presidenza del consiglio dei
ministri una bomba a mano contro una moltitudine di manifestanti del movimento Pace ora. Nell’attentato morì un uomo,
Emil Grunzweig, e altre undici persone rimasero ferite" (Karpin/Friedman,
op. cit., p. 155).
La violenza e la retorica della
violenza della destra teocratica e/o nazionalista, in forme in parte esplicite,
in parte subliminali, non sono diminuite da allora. L’assassinio di Rabin è
stato preceduto da una lunga campagna di agitazione in cui varie volte la sua
morte è stata reclamata pubblicamente; nei giorni seguenti, "turbe spettrali" di rabbini
fondamentalisti hanno declamato in un modo pseudo-medievale, di fronte alla
sede del loro governo, d’accordo con la cosiddetta Din Rodef, la sentenza di
morte talmudica verso gli ebrei traditori. E per una parte spaventosamente
grande della società israeliana, questo assassinio è stato in parte accettato
passivamente, in parte motivo di giubilo mascherato e in molti casi perfino
aperto. L’assassino, Jigal Amir, è stato considerato un “eroe” da molti
teenagers e ha ricevuto una massa di congratulazioni per posta etc. E l’approvazione
più o meno tacita o, quantomeno, la banalizzazione di questo omicidio penetra
profondamente nei più alti circoli della destra politica: “Quasi due anni dopo
l’assassinio, Sharon, come ministro del governo di Netanyahu, ha ripetuto
l’affermazione dei radicali di destra e dei rabbini estremisti: colpa di
Yitzhak Rabin della propria morte, dovuta alla sua testardaggine"
(Karpin/Friedman, ob. cit., p. 301).
In analogia con la cultura
globale dell’amoque
[attentatore-suicida; n.d.t.], con il suo amalgama di aggressività e
auto-annichilimento, anche la destra nazionalista teocratica di Israele, come
gli islamisti, ha elaborato giustificazioni dell’attentato suicida, di cui il
caso dell’omicidio di massa per mano di Goldstein ha costituito un precedente. E
così come nel caso degli islamisti, la reinterpretazione militante dei concetti
religiosi è servita a questa impresa: "Kidush ha-Shem, piuttosto che
essere associato al fervore messianico dei coloni di Gush-Emunim, era un martire
che sceglieva la morte invece della conversione forzata... La trasformazione
aggressiva di questo martirio in Goldstein è stata rapidamente lodata dai
fanatici ebrei... In un libro intitolato Baruch ha-Gever (Uomo benedetto) si elogia il suo martirio come la più elevata
espressione di convinzione religiosa e si esorta ad imitarlo. Il rabbino
Elitzur Selga... ha scritto che i santi rabbini non hanno mai condannato il
modello di missione suicida di Goldstein. Evidentemente
una morte ancor più certa, per esempio quando una persona si fa esplodere con i
suoi nemici con una bomba, è ugualmente lodata come un atto nobile..."
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 67). Non si poteva dire con più chiarezza che
l’acuta e manifesta pulsione di morte della ragione capitalista può indossare
qualsiasi veste ideologica.
Anche dal punto di vista culturale
e politico-sociale, si è intensificata negli anni ‘90 la pretesa teocratica
radicale di fronte alla società israeliana e contro la sinistra laica; e ciò
accade di nuovo con un’imbarazzante analogia con i loro vicini nemici arabi.
Così come i Wahhabiti e tutti gli altri islamisti, anche le forze
ultraortodosse nazionaliste religiose oggi non solo fulminano verbalmente “la
cultura vuota dell’occidente” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 23), il
materialismo moderno, l’erosione dei valori patriarcali etc, ma pretendono di
sottomettere la società ai loro comandamenti irrazionali come mai prima.
Esattamente come tra gli islamisti, emerge qui in primo luogo un’ostilità
militante nei confronti della sessualità. Gli stessi ortodossi moderati sono
atterriti dalla pressione istituzionale che gli haredim puritani esercitano nel
frattempo in questo senso. Così citava per esempio nel 1997 il professore
Jehuda Friedländer, retore dell’Università di Bar-Ilan, "esempi delle mutazioni
nella propria cerchia familiare... E’
strettamente osservata l’etichetta esterna in modo che si vietano alle ragazze i
calzini corti... La lunghezza della gonna e l’altezza dello spacco sono
rigidamente vigilate... E’ stato proibito ai padri di recarsi alla cerimonia di
laurea delle loro figlie perché qui si esibiva un coro di ragazze... Il preside
della scuola elementare di suo figlio ha proibito al giovane di frequentare in
estate un campo di ferie scientifico organizzato dall’università ebraica... Cento
anni fa non frugavano (negli affari privati), oggi si gettano sulle più piccole
minuzie, per quanto personali siano..." (Karpin/Friedman, op. cit., p.
73).
Il potere istituzionale
dell’ortodossia e dell’ultraortodossia dei rabbini domina ampi settori del
diritto civile, dal momento che non sono mai stati secolarizzati. Questo potere
comporta seccature insopportabili alla vita personale, anche per coloro che non
hanno nulla a che vedere con la religione: "Per gli ebrei di Israele
questo significa che essi sono controllati dall’establishment religioso
ortodosso e che, con il passare degli anni, questa regolamentazione ha avuto un
effetto devastante sui diritti civili di innumerevoli cittadini. A causa
dell’asfissia dei clericali ortodossi, nessun ebreo israeliano, nemmeno l’ateo
più consolidato, può sposarsi fuori dalla loro fede... Alle migliaia di bambini israeliani che sono stati adottati
dall’estero è vietata la conversione all’ebraismo perché i loro genitori non
professano lo stile di vita ortodosso. E’ severamente proibito alle donne
deporre davanti al tribunale rabbinico, al quale si deve ricorrere per il
divorzio..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 76).
Anche il disprezzo e la
repressione delle donne da parte dei rabbini sono del tutto identici a quelli
degli islamisti (e naturalmente anche a quelli dei cristiani tradizionali e in
generale ai patriarcati e neo-patriarcati delle ideologie di crisi in tutto il
mondo). Nelle comunità dei credenti rigorosi il comportamento misogino è la
legge pratica del quotidiano che cade come il gelo sulle relazioni della vita
degli individui, come per esempio mostra l’angosciante film di Amos Gitai,
"Kadosh". E questa pseudo-arcaica legge quotidiana della repressione
delle donne si estende in molti modi, con l’intermediazione del potere
istituzionale, sulla vita secolare israeliana.
Lo stesso vale per il disprezzo e
la persecuzione dei gay, diffusi tanto dai credenti ultraortodossi quanto dai
razzisti laici "sovs". Gli attacchi di odio a Rabin, prima del suo
assassinio politico, includevano regolarmente lo slogan "Rabin è gay"
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 113). La stessa omofobia militante degli
islamisti non si trova solo tra gli ultras israeliani, ma anche tra i loro
sostenitori e mentori nella diaspora ebraica, non da ultimo negli Usa, dove i
gay sono apertamente considerati dubbi. E’ stato così che il rabbino radicale
di New York Abraham Hecht (un eroe anche per la destra israeliana) ha
appoggiato con invettive demagogiche anti-gay l’elezione del sindaco Giuliani,
che più tardi ha guadagnato notorietà attraverso misure draconiane contro i
poveri. “Quando egli ha appoggiato Giuliani nel 1989, ha annunciato che il suo
candidato avrebbe pulito finalmente una città corrotta da mali come il sesso
prima del matrimonio, gli aborti e i crimini dell’omosessualità (!), e ha
sostenuto (così come la sezione locale del Ku-Klux-Klan) la pena lieve a un
assassino da un giudice del Texas perché le vittime erano effemminate, secondo le parole del giudice" (Karpin/Friedman,
op. cit., p. 220).
L’ideologia neo-arcaica,
aggravata dal razzismo e dal nazionalismo, è accompagnata da un comportamento
rituale compulsivo, di nuovo analogo all’islamismo, così come alle sette
sincretiche occidentali. Per esempio, dopo i devastanti attentati suicidi
palestinesi, i fanatici ultraortodossi cercano di separare “etnicamente” i
resti dei corpi, così che ogni pezzo del corpo del suicida dell’altra “razza”
non venga per errore a essere sotterrato insieme con i corpi degli ebrei.
Contro la volontà della popolazione laica, sono imposti dalla destra religiosa
sempre più vincoli religiosi alla vita quotidiana, i quali man mano traboccano
al di là dell’immediata competenza istituzionale degli ultraortodossi. Il volto di Israele va cambiando a ogni nuova
concessione ai partiti religiosi attraverso la tecnica della politica di
coalizione. Da un lato, quanto al suo sistema politico, il paese è una
democrazia capitalista di impronta occidentale, che, tuttavia, come già
osservato, non è ma stata riconosciuta dagli haredim; dall’altro, il quotidiano
israeliano eguaglia sotto molti aspetti quello di uno Stato teocratico secondo
il modello dei talebani.
E’ perfettamente chiaro che qui
si prepara un catastrofico confronto decisivo tra due progetti di mondo e di
vita che si escludono a vicenda. Se Eisenstadt, nella sua inchiesta
storico-sociale del 1984, ancora concludeva con la speranza di un compromesso
interno, ormai la valutazione dello stato interno di Israele per
Karpin/Friedman, 14 anni più tardi, è nera come la pace: "Gli israeliani
vedono il paese sempre di più come un barile di polvere esplosiva con la miccia
accesa. La maggiore minaccia per loro non è il terrorismo fondamentalista, né
la guerra con i vicini, ma la dissoluzione interna... Quando in un sondaggio
Gallup per il giornale Ma’ariv nel secondo anniversario dell’attentato, si è
domandato agli intervistati se il paese sarebbe più vicino all’unità o alla
guerra civile, più del doppio degli israeliani (56 contra 21%) ha risposto che
sarebbe più vicino all’omicidio fratricida che alla pace interna"
(Karpin/Friedman, op. cit., p. 427).
Se l’imminente scarica violenta
delle contraddizioni interne è stata finora ritardata in Israele, ciò è da
attribuire in prima linea all’aggravamento della situazione all’esterno con i
palestinesi, dall’inizio della cosiddetta Intifada di Al-Aqsa. I proclami di
odio antisemita, gli attentati suicidi e le formazioni quasi militari delle
milizie dei signori della guerra palestinesi non solo hanno portato in primo
piano le contraddizioni esterne, ma hanno anche deviato per ora verso l’esterno
l’energia razzista, fondamentalista e nazionalista della destra israeliana,
tanto più che al momento questa destra costituisce il mainstream sociale e
tiene fermamente in mano il timone istituzionale.
Anche il procedere dell’esercito
israeliano nei territori occupati sotto il governo di Sharon è corrispondente,
e ormai non può essere interpretato come atto di autodifesa da parte di un
potere largamente superiore in termini tecno-militari. Naturalmente, così come
in tutto il mondo, le tendenze dell’estrema destra della società si sono
impiantate con maggiore forza nell’esercito. Quando le relazioni dei
giornalisti occidentali, così come dei gruppi di opposizione e delle
organizzazioni umanitarie israeliane, riportano tutta una serie di crimini di
guerra dell’esercito israeliano, non si tratta solo di disinformazione della
propaganda palestinese.
Così, sono state deliberatamente
distrutte case private, monumenti storici e obiettivi senza alcun interesse
militare: "A Ramallah i soldati hanno devastato il centro di salute
dell’Unione Europea, distruggendo la sezione ottica, l’ufficio delle
attrezzature mediche e il centro giovanile… Il ministero della Cultura di
Ramallah... è stato evacuato dagli occupanti solo il 2 maggio. Hanno lasciato
dietro di sé uffici devastati, sudici e
pieni di terra, computer distrutti e scaffali vuoti… perfino i sanitari del
bagno sono stati distrutti. Nell’amministrazione della città di Ramallah i
soldati hanno fatto esplodere le casseforti delle finanze locali e hanno spaccato
tutti i dischi rigidi dei computer. Al Ministero dell’Educazione… hanno fatto
sparire i documenti per i vicini esami finali e i timbri di convalida dei
certificati d’esame; per concludere la loro opera, hanno arato i giardini con i
loro carrarmati. Secondo le informazioni fornite dal ministro dell’Educazione
Abderabboh, i soldati hanno rubato tutti i documenti del registro catastale
sulla proprietà della terra, il che è un’amara perdita, alla luce della
crescente espropriazione a favore dei coloni ebrei… Secondo numerose
testimonianze… i soldati hanno anche causato distruzioni e sottratto oggetti di
valore e denaro nelle scuole e in molte
residenze private" (Neue Zürcher Zeitung, 8.5.2002).
Le relazioni sulle perquisizioni
e sui saccheggi nei grandi centri commerciali, non solo a Ramallah,
sull’assalto ai civili etc, sono talmente numerose e concordanti che si possono
considerare veritiere. Si dice, riguardo gli equipaggi dei blindati israeliani,
che questi "si fermavano davanti a
negozi, gioiellerie, banche e case di computer e le saccheggiavano"
(Wieland/Schäfer 2002). Con il pretesto della ricerca di armi, studenti sono
stati espropriati del portafogli. Parte dell’esercito israeliano si comporta
nella “terra del nemico etnico” corrispondendo perfettamente a tutto lo
sviluppo globale; il procedimento nelle zone palestinesi comincia a diventare
parte dell’economia del saccheggio sociale.
Ma non si è trattato solo di
ruberie e saccheggi. Nell’aprile del 2002, i portavoce di otto gruppi
internazionali dei diritti umani hanno presentato, in una conferenza stampa a
Gerusalemme, relazioni su esecuzioni extra-giudiziali e torture effettuate dai
soldati israeliani. "Si è saputo di un gruppo di dieci donne che si sono
avventurate in strada dopo una sparatoria: con le braccia in alto, hanno
implorato i soldati per poter assistere i feriti indifesi. La loro leader, il
medico Dott.ssa Kadah, è stata abbattuta a vista, le altre donne sono state
gravemente ferite" (Neue Zürcher Zeitung, 17.4.2002).
La Corte Suprema israeliana ha proibito
espressamente la tortura dei prigionieri palestinesi, il che equivale a una
confessione del fatto che la tortura a diversi gradi già in passato faceva
parte del quotidiano in Israele, così come nelle dittature militari del terzo mondo.
Carmi Gillon, ambasciatore israeliano in Danimarca, ha provocato proteste
quando ha difeso pubblicamente la tortura ai prigionieri palestinesi anche dopo
questa sentenza. Il fatto che l’accusa di tortura è stata formulata di nuovo,
in forma massiccia e con dettagli, anche nel caso della più recente offensiva
militare israeliana, dimostra che queste pratiche continuano a essere
utilizzate. Del destino di Marwan Barghuti, membro del Consiglio Esecutivo
palestinese, che è stato detenuto dall’esercito israeliano nell’aprile del
2002, se ne può leggere nelle relazioni della stampa: "Barghuti è vittima
della tortura del sonno applicata dal servizio segreto interno israeliano Shin
Beth... Inoltre è ripetutamente legato per molte ore a una sedia coperta di
chiodi. Ha le mani e i piedi fissati in modo che non può stare dritto. Ha
ricevuto ferite talmente gravi alle spalle e alle mani che è stato portato in
un’infermeria. E’ stato qui che è avvenuto il contatto con i rappresentanti delle
associazioni dei diritti umani. I torturatori hanno minacciato Barghuti di
uccidergli il figlio, prigioniero nella città israeliana di Ashkelon"
(Neue Zürcher Zeitung, 25.5.2002).
Eventi quali i crimini di guerra,
torture etc non possono essere attribuiti solo a trasgressori individuali, come
unici colpevoli, tanto più che questi crimini di regola non sono oggetto di
condanna, o lo sono solo come “crimini d’onore” (in Israele come in Russia, nel
resto della Jugoslavia e in altri luoghi); questi crimini, in realtà, sono
sempre anche lo specchio della società da dove provengono. Le atrocità
dell’esercito israeliano, che non possono essere giustificate con
l’imbarbarimento della società palestinese, si riferiscono all’imbarbarimento
della società israeliana stessa, che proprio in questo aspetto è parte
integrante della società mondiale capitalista.
Se la contraddizione interna di
Israele ancora non si è manifestata in forma violenta in grande scala, ciò non
si deve attribuire solo all’”esportazione” della violenza e dei potenziali di
odio radicale di destra e teocratici attraverso il rinnovato confronto esterno
con gli avversari palestinesi complementarmente imbarbariti. Un fattore
addizionale è il declino della sinistra secolare e anche delle forze laiche in
Israele. Non c’è da stupirsi se il partito dei lavoratori ha seguito già da
molto temo il cammino di tutte le società socialdemocratiche. L’assassinio di
Rabin non ha liberato alcun potenziale di critica, ma ha spinto, piuttosto,
verso destra i resti del sionismo dei lavoratori, da molto tempo indebolito; a
somiglianza dell’evoluzione di tutte le socialdemocrazie all’inizio della prima
guerra mondiale. Anche allora, nonostante tutti i leader socialdemocratici
fossero morti assassinati per mano dei radicali di destra (ciò che accadde in
Francia, con Jean Jaurès), la politica delle tregue continuò.
Inoltre, la coscienza della
gioventù israeliana laicamente orientata, soprattutto dalla sinistra, così come
dei loro coetanei europei e nord-americani, è fortemente impregnata
dall’individualizzazione astratta edonista del consumo di merci della
cosiddetta postmodernità, che ha pochi argomenti da opporre all’avanzamento
dell’altra faccia della stessa tendenza, il fondamentalismo etnico-culturalista.
Una sinistra inoltre completamente disarmata di idee dalle teorie postmoderne,
che rende inoffensivi il capitalismo e la barbarie come semplici “eventi del
discorso” (eventi linguistici), deve diventare essa stessa inoffensiva, il che
naturalmente si rivela fatale, particolarmente nelle regioni di crisi, come
constata il professore universitario israeliano di sinistra Ren HaCohen:
"Questi giovani israeliani si considerano radicali, orientati alla pace,
contro l’occupazione e tuttavia condannati a vivere sottomessi a fanatici
retrivi. Allo stesso tempo però la stessa struttura della coscienza gli rende
possibile adeguarsi all’occupazione… La moda intellettuale del cosiddetto
postmodernismo – in occidente ormai in declino, ma ancora vivissima nella
provinciale Israele – gioca qui un ruolo importante… Dal momento che non esiste
alcuna verità, non possiamo opporre una qualsiasi resistenza a nulla senza
appoggiare realmente nulla. Le parole sono più importanti delle azioni. Il
linguaggio è il fondamento di tutto, l’analisi del discorso la chiave per
tutto… Il caso di Israele rappresenta un’impressionante dimostrazione di quanto
pericolosa sia questa ideologia" (HaCohen 2002).
In queste circostanze è possibile
che ormai l’esclusione dell’indebolita sinistra laica proceda a freddo. E’ quel
che dice, per esempio, la direttrice dell’Istituto Cohn nell’Università di Tel
Aviv, Rivka Feldhay, sulla situazione degli intellettuali laici e di sinistra
nelle università: “La ministra per le questioni dell’educazione in Israele,
l’ultranazionalista Limor Livnat, cerca di isolarci e di boicottarci. La
ricerca e l’istruzione in Israele sono finanziate da un consiglio per
l’istruzione superiore. La nuova ministra ha ricomposto questa commissione per
indebolire le università a beneficio degli scienziati vicino al governo. Ha
avuto un buon successo… Ci troviamo nella necessità di chiedere aiuto agli
europei. Non con i boicottaggi. Ma perché mettano il loro buon nome sul piatto
della bilancia per protestare contro la politica del governo” (Feldhay 2002).
Anche nella vita di tutti i
giorni, i rappresentanti della sinistra laica devono fare i conti sempre di più
con molestie ed insulti; artisti e intellettuali si sono gradualmente ritirati
da determinati quartieri dominati dagli ultraortodossi, a Gerusalemme e in
altre città. Ciononostante, l’opposizione di sinistra ancora porta centinaia di
migliaia di manifestanti in strada. Secondo le informazioni dell’organizzazione
Yesh Gvul (“Esiste una frontiera"), fondata nel 1982 (come reazione
all’invasione del Libano ordinata da Sharon), dall’autunno del 2000 più di
mille soldati israeliani, tra cui alti ufficiali, hanno rifiutato di prestare
servizio sotto il governo di Sharon nelle regioni occupate: “Non è la prima
volta che gli israeliani rifiutano il servizio armato, tuttavia mai tanti
membri delle unità di combattimento – ufficiali e soldati di riserva – si sono
pronunciati pubblicamente per l’obiezione di coscienza nelle zone
occupate" (Dachs 2002).
Questa resistenza, che tutt’ora
si mantiene, non cambia comunque il fatto che la sinistra nel suo insieme è
indebolita e che ha da temere per il suo futuro sociale e istituzionale, e per
la stessa propria propria vita, nel caso di una regressione interna ai
potenziali di aggressione nazionalista e teocratica. L’accrescimento delle
contraddizioni interne minaccia di scatenarsi non per ultimo attraverso una
crisi economica catastrofica che è all’orizzonte. Israele che, insieme alla
Palestina, come molte altre regioni del mondo, malgrado tutti gli appoggi, ha
già grandi difficoltà a causa del processo della globalizzazione capitalista e
della dipendenza dall’entrata del capitale finanziario transnazionale, si rovina
sommamente con gli enormi costi militari che si ripercuotono nella riproduzione
sociale. Anche il governo di Sharon sta seduto sopra un barile di polvere da
sparo economico-sociale. La crisi economica, che porta a periodiche crisi di
governo, pone inesorabilmente la questione di quale parte della popolazione
israeliana debba essere socialmente passata per le armi. E per i partiti degli
ultras ormai è diventato inequivocabilmente chiaro che devono essere tutti i
ceti secolari, che a loro non piacciono; un disegno che può essere scatenato
dai potenziali di odio interno.
La conoscenza di questo sviluppo
si riflette in un "voto coi piedi": centinaia di migliaia di
israeliani secolari emigrano o pensano di farlo: “Mai si è avuto tanta
emigrazione nella storia recente di un paese di immigrazione tradizionale… Non
solo il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti hanno attratto molti israeliani
come una calamita: perfino Vanuatu, ex-Nuove Ebridi, Stato insulare
repubblicano nell’oceano pacifico… A Tel Aviv... 2.000 famiglie già si sono
iscritte alla cooperativa ‘Mondragon’ che per 4.500 dollari vende porzioni di
terreno di 3.000 metri quadri a Vanuatu. Questo è solo l’inizio, poiché la
‘Mondragon’ ha affittato circa 80.000 ettari di terra per 150 anni da ripartire
e vendere agli israeliani desiderosi di emigrare. Il che dà più di 50.000
porzioni, cioè uno spazio per più di un milione di persone" (Landsmann
2001).
C’è qualcosa di profondamente
deprimente e commovente nel modo in cui sempre più ebrei secolari voltano le
spalle al presunto luogo di rifugio e alla presunta patria di Israele, spinti
tanto dai comandi terroristi palestinesi quanto dalla funesta alleanza interna
di fanatici religiosi, ultranazionalisti, politici etnici e razzisti secolari.
Quanto più la sinistra secolare di Israele si dilegua con questo tragico esodo,
più rapido procede necessariamente il collasso e l’imbarbarimento della società
israeliana.
Naturalmente si pone la questione
di valutare questo triste sviluppo in relazione all’”imperialismo globale
ideale” del centro capitalista. In nessun caso una posizione emancipatoria e
anticapitalista può consistere in un’”equidistanza” tra israeliani e
palestinesi, nel senso di riferirsi solo all’imbarbarimento complementare delle
due società mutuamente interrelate nel contesto della crisi generale della
globalizzazione. Questo sarebbe avanzare ben poco, perché con tale positivismo
di crisi sarebbe offuscata la funzione dell’antisemitismo a livello mondiale e,
con essa, il significato particolare dello Stato di Israele.
Israele è sempre entrambe le cose allo stesso tempo: da un
lato, uno Stato capitalista periferico sotto le condizioni capitaliste in una
regione centrale della crisi; dall’altro, un prodotto specifico della
resistenza contro l’ultima riserva dell’ideologia di crisi dell’imperialismo,
di segno antisemita. Dunque l’esistenza di Israele, come già osservato, ha una
qualità differente da tutti gli altri Stati. Mentre ormai non può più
rappresentare un orizzonte di emancipazione sociale il fatto che i palestinesi costituiscano uno
Stato proprio, poiché ormai qui è divenuta attuale la prospettiva post-statale
di liberazione, l’esistenza e difesa dello Stato di Israele rimane una
condizione decisiva per sostenere la costituzione di un movimento di
emancipazione globale e transnazionale di tipo nuovo, che non lasci disperdere
l’ansia di libertà attraverso l’apertura della valvola di sfogo dell’ideologia
antisemita. In altre parole: di tutti i paesi, Israele è l’ultimo a poter
lasciarsi dietro l’esistenza statale e “nazionale”, nel quadro di un nuovo
movimento emancipatorio.
L’esistenza in un certo modo
duplice di Israele, come volgare Stato capitalista di crisi e come punto di
riferimento globale dell’ideologia della crisi capitalista, esige di
conseguenza una duplice approssimazione della critica sociale radicale. La
difesa di Israele deve essere incondizionata verso una nuova critica del
capitalismo; poiché questa difesa costituisce una conditio sine qua non per il contenuto emancipatorio della critica.
La difesa incondizionata di Israele, allo stesso tempo, non può astrarre dal
reale sviluppo sociale di Israele come una regione capitalista di crisi. Poiché
la riduzione dello sviluppo sociale a sfera ideologica e, con essa, la
riduzione della critica a critica dell’ideologia, magari ulteriormente
ristretta alla sindrome antisemita, manderebbe a gambe all’aria la relazione
tra la società e l’ideologia e trasformerebbe la stessa critica dell’ideologia
in ideologia.
In questa misura è anche errato,
nella prospettiva della critica radicale, sussumere gli avvenimenti in Medioriente
esclusivamente allo sbocciare dell’ideologia di crisi dell’antisemitismo in Occidente
e soprattutto in Germania, e così, con il pretesto che la tematizzazione dell’evoluzione
sociale in Israele “serve” solo all’antisemitismo, nascondere questo sviluppo
reale o tingerlo di rosa.
L’antisemitismo non può essere
analizzato e combattuto indipendentemente dal suo fondamento sociale, il
moderno sistema produttore di merci. Slegata dalla realtà sociale, la critica
si trasforma in affermazione, come dimostra la discussione sull’antisemitismo
ideologicamente ridotta dentro la sinistra radicale. Se la teoria critica ha
sempre sottolineato il nesso interno essenziale tra il capitalismo e
l’antisemitismo, tra Auschwitz e la storia tedesca del capitalismo, ora si vorrebbe
esattamente al contrario stigmatizzare la critica del capitalismo in quanto
tale perché macchiata di antisemitismo, così da costringere la sinistra al
silenzio. Una sinistra che ceda a questa pressione deve desistere da sé stessa:
il riduzionismo nella critica dell’ideologia, cioè la totale sussunzione della
critica sociale a critica dell’antisemitismo, si rivela allora come banale
difesa del capitalismo mondiale imperiale globale, sotto il falso pretesto di
una critica dell’antisemitismo, che proprio per questo in sé stessa deve
smettere di essere vera.
Il ruolo della teoria critica non
può essere quello di inventare “piani di pace” per il Medioriente sulla base
del "realismo" capitalista. Su
questa base, in qualsiasi modo, non si avrà pace mai, da nessun lato. Il ruolo
della critica è l’analisi incorruttibile delle relazioni sociali, dalla quale
risulta come conseguenza immanente la critica radicale di queste relazioni. In
questo senso, relativamente alle complesse relazioni tra l’ideologia di crisi
antisemita (in tutto il mondo, in Occidente e specialmente in Germania e in
Austria), l’evoluzione sociale in Israele e il cosiddetto conflitto della
Palestina, si può solo trattare di legare la difesa dell’esistenza di Israele
all’appoggio della sinistra secolare israeliana e a una lotta comune contro il
processo di imbarbarimento del sistema produttore di merci a livello mondiale.
Questa necessaria connessione ha
il suo contenuto obiettivo primario proprio nella difesa di Israele, in quanto esistenza
diventata Stato di resistenza contro la sindrome globale dell’antisemitismo; poiché
questa esistenza si trova minacciata non solo dall’esterno ma anche
dall’interno. Negli anni ‘90 è avvenuta una rottura nella società israeliana,
al punto da mettere in discussione il riferimento comune alla memoria
dell’olocausto. Così ha dichiarato il rabbino ultrà Chaim Miller: "La
nostra intenzione è quella di una netta separazione tra credenti e non credenti
sulla questione dell’olocausto" (cit.: Der Spiegel 8/1995). Il capo del
partito ultra-religioso Agu-dat-Israel, Mosche Feldmann, "ha preteso
l’istituzione di un luogo della memoria alternativo per i credenti"
(ibidem). Questa dissociazione minaccia gli ebrei secolari vittime dei nazisti
di essere eliminati dalla memoria: le “vere” vittime ormai sarebbero allora
solo gli strettamente religiosi, così come i “veri” ebrei vivi devono essere
solo gli ultras. Una tale delegittimazione interna del progetto sionista mette
in discussione il luogo storico di Israele, dal momento che i criteri di
inclusione e di esclusione sono sostanzialmente
spostati e il fondamento (negativo) della legittimazione cessa di essere
l’antisemitismo globale, per diventarlo il nazionalismo etnico positivo,
escludente la sinistra ebraica secolare.
Non si prevede che nel breve o
medio periodo Israele possa essere vinta militarmente in senso tradizionale dal
mondo arabo, che è rimasto molto indietro in termini capitalistici. Invece di
ciò, Israele è messa in discussione dalla pulsione di morte della ragione
capitalistica, sia fuori che all’interno; dai comandi suicidi, magari con
cariche esplosivi atomiche o biologiche, così come dall’autodistruzione
teocratica e razzista. Il calcolo dell’imperialismo occidentale del petrolio
potrebbe accettare esattamente una distruzione violenta della società
israeliana dall’interno per una riorganizzazione regionale, che allo stesso
tempo lascerebbe libero il cammino all’ideologia di crisi antisemita nello
stesso occidente.
(Cap. IV del Libro La Guerra per l’ordine mondiale, Robert
Kurz, 2003)
traduzione by lpz
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