Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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venerdì, febbraio 27, 2015

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination


       In this ambitious book, Moishe Postone undertakes a fundamental reinterpretation of Marx's mature critical theory. He calls into question many of the presuppositions of traditional Marxist analyses and offers new interpretations of Marx's central arguments. These interpretations lead him to a very different analysis of the nature and problems of capitalism and provide the basis for a critique of "actually existing socialism." According to this new interpretation, Marx identifies the central core of the capitalist system with an impersonal form of social domination generated by labor itself and not simply with market mechanisms and private property. Proletarian labor and the industrial production process are characterized as expressions of domination rather than as means of human emancipation. This reformulation relates the form of economic growth and the structure of social labor in modern society to the alienation and domination at the heart of capitalism. It provides the foundation for a critical social theory that is more adequate to late twentieth-century capitalism.

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sabato, febbraio 21, 2015

«nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» Debord

Lo spettacolo del segreto di Stato
 è lo spettacolo totalitario del capitale della lobby
dalla redenzione attraverso il peccato al fascismo sociale
dall'arianesimo al comunismo nazionale
dal santo peccato alla dottrina sociale della chiesa
sempre in pista il finanziere usa il denaro come arma di devianza di massa
piega ogni volontà alla propria causa quella del Nulla


Risuonano nella mia testa
le parole e le immagini dello spettacolo della Lobby:
"Se l'Ebreo di spirito, il capro espiatorio, sta male e viene violentato
tu puoi avere tutto il denaro che vuoi"
"è un mezz'uomo un infelice un impotente
i suoi figli sono nati per sbaglio" " uccidilo è un sacrificio umano, è sempre stato così.
 La Dea madre l'ex nazista madrina della camorra è li a testimoniarlo dalla notte dei tempi "
il finanziere l'uomo più amato e deviato di questo Stato conosce i segreti dell'Ordine
e brama l'immoratalità ma non conosce il rispetto
ha scritto una sentenza di morte apparente di violenza inaudita
per lo stregone che si è trasformato per la magia del Capitale nell'ebreo errante

Al servizio del santo peccatore il finanziere un gregge di stolti coi valori
non importa se trafficano in droga protetti dai servizi
non importa se rubano i figli alle madri
non importa se stuprano e molestano i deboli
sono gli eroi di questo Stato
sono lo spettacolo di questo paese, la Lobby

giovedì, febbraio 19, 2015

Moishe Postone: Per una teoria critica del presente

Quello che non dobbiamo fare

da una conversazione di Silvia Lòpez con Moishe Postone

imm045Silvia Lòpez: La prima serie di domande ha a che fare con la "Neue Marx Lektüre". Il tuo libro, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato recentemente tradotto in spagnolo, nel 2006, e ha ricevuto molta attenzione. Però, a livello europeo, in generale, la discussione circa una nuova lettura di Marx si è sviluppata a partire dagli anni sessanta. Si potrebbe collocare il tuo lavoro in relazione a questa nuova lettura, soprattutto in rapporto ad alcuni tuoi contemporanei, come Michael Heinrich o l'ultimo Robert Kurz? In che misura consideri il tuo contributo diverso dal loro, e che cosa lo differenzia? Quali sono state le circostanze sociopolitiche concrete che ti hanno portato a leggere e a teorizzare un nuovo Marx?
Moishe Postone: Quando incappai in Marx per la prima volta, erano gli anni sessanta, rimasi molto impressionato dal giovane Marx, il Marx della teoria dell'alienazione. La sua successiva critica dell'economia politica mi sembrava disperatamente vittoriana, un pamphlet positivista contro lo sfruttamento dei lavoratori. Come molte persone, compresi molti marxisti, pensavo che Marx avesse elaborato conseguentemente la critica dell'economia politica classica per dimostrare l'esistenza e la centralità dello sfruttamento.
E, sebbene simpatizzassi politicamente con un tale proposito, mi sembrava troppo limitato per spiegare in maniera ricca e completa i problemi centrali della società contemporanea. Credevo che l'opera del giovane Marx offrisse un modello di critica più opportuno, però, non avendo compreso totalmente la sua teoria dell'alienazione, lo consideravo soprattutto un critico culturale. In questo senso, Marx mi appariva un critico culturale come altri; la differenza stava nel fatto che era progressista, mentre molti degli altri erano conservatori. Quello che cambiò fondamentalmente la mia comprensione e che si rivelò essere una svolta dal punto di vista concettuale, fu la mia scoperta dei Grundrisse, Quello che mi colpì particolarmente furono le famose sezioni del manoscritto che dicevano chiaramente che, per Marx, la categoria del valore è una categoria storicamente specifica. Per me questo aveva delle implicazioni enormi. Era una chiave per capire il Marx maturo, una leva per mezzo della quale ho cercato di liberare dalle sue catene la comprensione tradizionale di Marx. La mia conclusione è stata che la teoria di Marx era completamente diversa dalla lettura che ne aveva fatto il marxismo tradizionale. Per esempio, l'idea che il valore è storicamente specifico significava che il superamento del capitalismo non voleva dire la realizzazione del valore, come sosteneva molta gente. Molti concepivano il valore alla maniera della sinistra ricardiana, ossia, come una categoria che dimostra che la classe lavoratrice è l'unica fonte di creazione della ricchezza sociale (e qui la ricchezza viene intesa in forma trans-storica). Di conseguenza, una società giusta sarebbe quella in cui la ricchezza sociale apparterrebbe alla classe che la produce. Tale società rappresenterebbe la realizzazione del valore. Tuttavia, l'affermazione marxiana per cui il superamento del capitalismo richiederebbe l'abolizione del valore non solo implica che la questione fondamentale non si trova al livello della remunerazione dei lavoratori per quello che producono, sebbene la questione oggi torni certamente a ricoprire una certa importanza, ma implica anche che tanto meno si tratta di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. I Grundrisse indicano che, per Marx, il post-capitalismo è post-proletario. Questo, tuttavia, fa sì che il rapporto fra riforma e rivoluzione diventi ancora più problematico. Non può essere visto come un rapporto fra le riforme che cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori dentro il capitalismo ed una rivoluzione che mira a rovesciare il capitalismo abolendo la borghesia. Ma piuttosto, l'abolizione del capitalismo richiede, come condicio sine qua non, l'abolizione del lavoro proletario. La riforma, pertanto, deve perseguire quest'obiettivo. E questo apre nuovi modi di intendere la nostra situazione storica attuale, compreso l'emergere di movimenti post-proletari. Tuttavia, ciò pone anche serie difficoltà politiche e concettuali, dal momento che non c'è una continuità lineare fra la difesa degli interessi dei lavoratori ed il superamento del capitalismo. La questione dell'auto-abolizione del proletariato è stata storicamente messa all'ordine del giorno; tuttavia, allo stesso tempo, vengono erose le conquiste fatte dai lavoratori negli ultimi 150 anni.
(...)

S.L.: Possiamo tornare agli anni sessanta e all'inizio dei settanta, alla tua scoperta dei Grundrisse e alle tue riflessioni sul valore?
M.P.: La mia intenzione era quella di contribuire alla ricostituzione di una teoria critica della modernità capitalista. Permettimi un commento a margine sulla questione della modernità: in questo senso non mi trovo d'accordo con quelli come Michael Heinrich, e concordo molto di più con Lukács, Adorno e Horkheimer. Il capitalismo non è solamente un modo di produzione, inteso in senso stretto, ma è ciò che struttura una forma di vita cui a volte ci riferiamo come modernità, e questa strutturazione avviene tanto nella sua dimensione soggettiva quanto in quella oggettiva. Habermas non sembra comprenderlo. Sembra che consideri la comunicazione intersoggettiva nella modernità come qualcosa che si fondi su sé stessa, mentre nelle società pre-capitaliste detta comunicazione sarebbe strutturalmente determinata dalle forme politiche e religiose. Come dire, Habermas rileva la configurazione sociale delle strutture comunicative quando si verificano in forma palese, come avviene nelle società pre-capitaliste, ma si dimentica della brillante analisi di Marx quando si accorge che, nel capitalismo, la forma di costituzione sociale funziona in modo che quello che si costituisce socialmente, per esempio l'individuo, non appare come sociale, ma piuttosto come "naturale", come qualcosa che si fonda su sé stessa e che è apparentemente decontestualizzata. Ossia, Habermas non stima che ciò che caratterizza la contestualizzazione capitalista sia proprio l'apparenza di essere decontestualizzato. In tal senso la comprensione habermasiana della razionalità comunicativa cade preda di una forma feticcio. E credo che anche Heinrich consideri la critica dell'economia politica in modo troppo limitato, come se fosse riferita unicamente alla produzione e all'economia. Perde di vista la dimensione soggettiva e culturale delle categorie. Credo che ciò sia insufficiente ed insoddisfacente. Non è il tipo di teoria di cui abbiamo bisogno.

S.L.: Sì. In un certo senso è come un ritorno a prima di Lukàcs, il quale stava già cercando di leggere Marx a partire da una certa nozione di modernità. E cosa succede con altri come Robert Kurz? Negli ultimi dieci anni ha proposto una critica del valore che presenta delle evidenti somiglianze con la tua, per lo meno a livello teorico. Cosa pensi del suo contributo? Oggi, nei gruppi Exit! e Krisis, ci sono una serie di autori che hanno seguito i suoi passi.
M.P.: Penso che la morte prematura di Kurz sia una grave perdita. Quando ci siamo incontrati per la prima volta con il grupo Krisis, non sapevo niente di loro, e non credo che loro sapessero qualcosa di me. E, tuttavia, i nostri lavori avevano delle forti coincidenze, soprattutto per quel che riguarda la critica del valore e la critica del lavoro. Non sono completamente d'accordo con il modo in cui Kurz pone l'idea della crisi, affermando che, o uno crede che il capitalismo crollerà, oppure crede che potrà continuare all'infinito. Non condivido questo punto di vista, che mi sembra fortemente dicotomico. Credo anche che il mio lavoro sia più aperto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, di quanto lo sia il lavoro di Kurz, e che si occupi più di queste cose.

S.L.: Potresti svilupparlo un po' di più?
M.P.: Sì, non credo che l'interesse di Kurz fosse tanto di capire i cambiamenti nelle soggettività che si producono insieme ai cambiamenti nel capitale stesso. Ho cercato di elaborare questo, nei miei lavori sull'antisemitismo, cercando di sviluppare una teoria non-funzionalista di questa visione del mondo, in modo diverso da come lo fa la maggior parte delle cosiddette teorie materialiste della soggettività. La mia analisi si relaziona assai di più alle forme feticistiche. Non sono sicuro che il gruppo Krisis, o Krisis ed Exit!, si occupino tanto di questioni di soggettività e feticismo come faccio io, ma forse sono ingiusto nel dire questo. Certamente, fra tutte le nuove letture di Marx, il suo lavoro è quello che ha più parallelismi e somiglianze con il mio.

S.L.: Per me, come latino-americana, quando ho scoperto il tuo lavoro e quello di Kurz, la cosa più suggestiva è stata che eravate arrivati, in modo indipendente, a conclusioni simili circa il valore in Marx. Questo confermava una rigorosa lettura dell'ultimo Marx in riferimento al valore. Il marxismo ortodosso non poteva contribuire ad una tale comprensione. Forse la questione non sta tanto nel fatto che queste letture di Marx, fatte dalla Germania, non si interessino tanto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, ma piuttosto che la loro teoria di sviluppa ad un tale livello di astrazione che c'è appena spazio per elaborare una teoria critica della società.
M.P.: Non ne sono sicuro. C'è stato un periodo, poco dopo che ho lasciato la Germania, durante il quale avevo una percezione molto precisa di quello che stava succedendo lì, ma oggi non ne sono sicuro. Quello che potrebbe accadere è che, nella sinistra tedesca, molti di coloro che sono interessati alla soggettività sono rimasti seguaci ortodossi della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno. E credo che, come me, i membri di Krisis e di Exit! pensino che la comprensione della critica dell'economia politica da parte di Adorno, per quanto fosse ricca, non andava abbastanza lontano. Perciò potrebbe essere che, dentro il contesto specificamente tedesco, abbiano deciso di rimanere ai margini della questione della soggettività. dal momento che i seguaci più ortodossi di Adorno si sono concentrati su quello.
(...)

S.L.: ... rispetto al tentativo di gettare le basi di una teoria critica della società. Come concili il tuo lavoro rigoroso su Marx con lo sviluppo di una teoria critica della società oggi?
M.P.: Deduco dalle tue parole che quanto ho detto prima potrebbe essere stato male interpretato. Apprezzo enormemente i brillanti sforzi di persone come Lukàcs e Adorno, con tutte le differenze che li separano dall'interpretare la soggettività come intrinsecamente unita all'oggettività sociale, facendo coincidere soggettività ed oggettività come due dimensioni della medesima cosa, che non possono essere comprese a partire dal modello base/sovrastruttura, ed ancor meno in termini di interesse. Per dirlo in altre parole, per loro teoria critica della cultura e teoria critica della società erano intrinsecamente relazionate, e credo che questa sia una comprensione enormemente valida che non dobbiamo perdere. Per quel che riguarda Foucault, non ho mai capito perché la gente creda che Foucault avesse una teoria della soggettività: non c'è soggettività reale in Foucault. Inoltre, Foucault non poteva dare teoricamente conto delle possibilità della sua teoria. Cioè, come lo strutturalismo, il post-strutturalismo fallisce sulla questione dell'auto-riflessività. Naturalmente, chiunque sottoscriva le sue posizioni negherà che questa sia una questione rilevante, però, nella mia opinione, l'assenza di auto-riflessività rende incoerente una teoria. Credo sia una vergogna che il post-strutturalismo si sia tanto diffuso in Germania. In Francia, almeno, si poteva dire che il marxismo dominante era quello del Partito Comunista Francese, che era possibilmente il partito più ortodosso dell'Occidente. E, a quanto io ne sappia, è lì che Foucault incontra Marx.
(...)
M.P.: Prima hai menzionato qualcosa su cui mi piacerebbe tornare, ma prima voglio affrontare alcune delle questioni relative alla soggettività, Foucault e Adorno. Dicevi che Foucault era incapace di spiegare il cambiamento storico. Credo che la questione della storia sia uno degli aspetti più contraddittori dal punto di vista formativo del pensiero di Foucault. Da un lato, Foucault afferma che la storia è contingente, e perciò usa la parola genealogia. Tuttavia scrive un libro dietro l'altro indicando trasformazioni potenti che avvengono più o meno nello stesso momento, all'inizio dell'Età moderna europea. E, ciò nonostante, non problematizza le trasformazioni che descrive. Quindi quello che dice di fare e quello che fa sono due cose molto diverse. Per me, uno degli argomenti centrali dell'analisi di Marx è quello che distingue veramente il capitalismo e che ha una dinamica storica intrinseca. Questa è una delle ragioni per cui non sono d'accordo con chi si concentra troppo sulla sfera della circolazione, cosa che possibilmente fa anche Heinrich. Poiché così si perde di vista il carattere non-teleologico, complesso e direzionale della dinamica capitalista. Marx, nelle sue opere della maturità, interpreta non solo il valore ed il lavoro, ma la stessa storia, come cosa storicamente specifica, nel senso che questa è dotata di una dinamica direzionale intrinseca. Se la storia, intesa come tale dinamica concreta, è una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, non può essere applicata alla specie umana come un tutto, o a tutte le società, ma solamente al capitalismo. Però questo significa che non si può dare per scontata questa dinamica e, partendo da qui, dirimere questioni a proposito del libero arbitrio e del determinismo: questi sono solamente argomenti teologici vestiti con i panni del linguaggio moderno dell'agenzia e della struttura. Piuttosto, la prima domanda dovrebbe essere come spieghiamo, come fondiamo la straordinaria dinamica del capitale, una dinamica che genera una traiettoria complessa. Mi sembra che il post-strutturalismo non può neanche avvicinarsi a trattare simili questioni.

S.L.: In effetti, il post-strutturalismo non elabora una teoria del capitalismo, ma piuttosto delle descrizioni strutturali del funzionamento delle diverse istituzioni, che sia la prigione o il manicomio, che controllano e dominano la popolazione, ma non spiega queste strutture sociali o istituzioni in relazione alla realtà di base del capitalismo in ciascun momento specifico: questo sembra che intervenga in differenti momenti della storia, però non c'è una teoria del perché questo avvenga o che cosa si deve.
M.P.: Infatti. E ciò è dovuto in parte al fatto che le teorie del capitalismo restano implicitamente intese come teorie dello sfruttamento, teorie della proprietà e teorie della distribuzione diseguale del potere e della ricchezza. E la dinamica storica del capitalismo viene vista come un assunto metafisico proveniente dalla filosofia, di Hegel, ma non è realmente parte della teoria.

S.L.: Questo è un assunto molto interessante. Prima hai menzionato il tema della ricchezza. Comprendo perfettamente la distinzione fra ricchezza e valore, ma mi domando quale nozione di prassi politica si propone alla luce di questa teoria, in un momento in cui si continua a creare ricchezza e la ricchezza viene distribuita in forma diseguale. Questo non toglie importanza alla distinzione teorica fra ricchezza e valore, ma le tue riflessioni teoriche hanno implicazioni per la comprensione della prassi politica. Cosa puoi dire in proposito?
M.P.: Si tratta di una domanda enorme che si riferisce ad un problema enorme. Mi piacerebbe poter dare una risposta chiara, ma temo di non averla. Però qui, di nuovo, c'è una sovrapposizione fra il mio approccio e quello di Kurz. Se torniamo indietro di quarant'anni, una delle ipotesi inespresse di molti movimenti identitari dell'epoca, centrati intorno alle questioni della razza e del genere, era che il tipo di crescita economica che aveva caratterizzato i decenni dopo la guerra sarebbe continuata. Usando una metafora assai comune negli Stati Uniti, la torta da dividersi cresceva, e i diversi gruppi reclamavano la loro parte. Queste domande non erano solo economiche e, in tal senso, oggettive, ma erano anche soggettive: si trattava di gruppi che reclamavano riconoscimento. Credo che uno dei modi per comprendere le continue crisi degli ultimi quarant'anni è che non è così chiaro che il lavoro salariato sia in aumento. Questo ha modificato gli effetti e le conseguenze per molti movimenti identitari, che si vedono coinvolti in lotte per una torta che non sta crescendo e che, a volte, perfino diminuisce. C'è chi crede che il lavoro salariato continui ad espandersi in altri luoghi, come per esempio la Cina, l'India o il Bangladesh, che i posti di lavoro siano stati semplicemente dislocati in altri luoghi. In parte è così. Tuttavia, la mia interpretazione è che il cambiamento tecnologico abbia svolto un ruolo molto più importante e che, anche in Cina, il lavoro salariato è stato livellato. L'epoca dell'accumulazione che implicava la continua espansione del lavoro proletario potrebbe essere arrivata alla sua fine. E non disponiamo di un immaginario adeguato per confrontarci con una tale situazione - nel senso di idee su come potrebbe essere una società post-capitalista, oppure un senso della politica adeguato a muoverci in quella direzione. Prima, essere socialista era concettualmente semplice, dal momento che l'obiettivo sembrava relativamente chiaro: se si aboliva la proprietà privata e si faceva una pianificazione razionale dell'economia, il risultato sarebbe stata una società migliore. E si pensava che una classe operaia radicalizzata avrebbe lottato per un tale obiettivo. Il dibattito si concentrava sulla natura dei rapporti di potere esistente e su come motivare i lavoratori per incamminarsi sulla strada del socialismo. Se è vero che oggi la società capitalista sta entrando in crisi perché sono state erose le sue basi che poggiavano sul lavoro proletario, questo ci pone davanti a problemi molto diversi. E si pone la questione di cosa significhi vivere in una società che non è più basata sul lavoro. Usando un'analogia storica non troppo buona, la differenza fra il proletariato romano ed il proletariato moderno poteva essere sottolineata dicendo che il proletariato moderno era una classe lavoratrice, mentre il proletariato romano doveva arrangiarsi per conto proprio e la pace sociale veniva garantita mediante "Panem et circenses". In un certo qual modo stiamo entrando in una fase storica in cui il proletariato si sta avvicinando più al modello romano, dove il lavoro superfluo viene ridefinito strutturalmente come popolazione superflua. Il precariato ne è un esempio; credo che le gigantesche popolazioni delle baraccopoli, in gran parte del mondo, ne siano un altro esempio. Forse, un antropologo che studia le persone che sopravvivono a malapena, raccogliendo la spazzatura nelle discariche di Rio, può mostrarci come questa gente riesca a sopravvivere, e come questo abbia un suo proprio sistema significante. Però credo che tutto ciò trascuri la grande questione della crisi della società del lavoro, per la quale non abbiamo delle risposte.

S.L.: Sì, credo che circa un abitante del pianeta su tre viva in slum e baraccopoli, ossia, in comunità marginali ...
M.P.: Mi sorprende che la cifra sia così bassa. Mi sarei aspettato una percentuale ben maggiore.

S.L.: Si tratta di popolazione eccedente che non può essere incorporata nel processo produttivo, anche se gli antropologhi hanno modo di collegare queste popolazioni. Voglio dire che, soprattutto in Brasile, le connessioni fra le favelas e la città sono dinamiche. La gente vive nelle favelas, ma lavora come personale di servizio nell'industria alberghiera, così le economie sono organizzate in modo particolare ...
M.P.: E' vero. Tuttavia, la situazione non assomiglia a quella che si venne a creare in Europa durante le fasi precedenti al capitalismo, quando la popolazione rurale eccedente emigrava in altri paesi o veniva assorbita dal settore manifatturiero in espansione. Certo, oggi abbiamo emigrazioni di massa, ma di tipo molto diverso. Penso che le reazioni xenofobe nei confronti degli emigranti, così comuni nelle metropoli, non sono solo un segno del fatto che la popolazione sia irrimediabilmente razzista, ma che, fra l'altro, sia anche un segno del fatto che si sente minacciata poiché il tipo di espansione che prevaleva prima non esiste più.

S.L.: Quest'espansione non esiste, se guardiamo alle cifre della disoccupazione in Spagna, per esempio, vediamo che quasi il 45% della popolazione fra i 18 e 1 25 anni è disoccupata ...
M.P.: Sì, il numero dei disoccupati in Spagna è incredibile.

S.L.: ... oppure un 23% di disoccupazione generale fra i lavoratori adulti. Un aspetto centrale della crisi riguarda il come questa popolazione possa reincorporarsi nell'economia di mercato. Se osserviamo le cifre delle diverse economie europee, inclusa la Germania, possiamo vedere un processo di disciplinamento attraverso il quale si abitua la popolazione a percepire salari di mille euro al mese o di accettare di lavorare per i programmi del governo tedesco alla tariffa di un euro l'ora, mentre si percepisce anche l'indennità di disoccupazione, per esempio. Si tratta di forme di impoverimento di una popolazione che non può più essere incorporata come forza lavoro, come quando si dava crescita. Se guardiamo alla popolazione europea in generale, non solo in termini di analisi macroeconomica della situazione, si può pensare che la situazione in Europa sia una sorta di piccolo laboratorio il quale sembra confermare la tua analisi del capitalismo, nel senso che il valore non può continuare ad essere valorizzato come lo era prima.
M.P.: A quel livello, sicuramente. Ad un livello superficiale, la situazione si complica per la peculiare struttura europea che combina sovranità nazionale e moneta comune. Ma, in fondo, credo che tu abbia ragione. E anche se i giornali, almeno negli Stati Uniti, parlano solo di un nord prospero e di un sud in declino, la crisi c'è anche in Germania, per esempio per la classe media. In Germania, i tagli sono cominciati da decenni, nell'istruzione. Il settore dell'istruzione si era ampliato enormemente alla fine degli anni sessanta, come era accaduto anche in Francia, e con la crisi iniziata negli anni settanta si smise di finanziarlo. Questa è stata una delle prime cose che hanno tagliato per poter continuare a finanziare altri programmi sociali. Ma negli ultimi anni il cambiamento è stato ancora più austero; ci sono molti tedeschi che stanno affrontando un periodo di penuria, cosa che era impensabile solo fino ad una generazione fa.

S.L.: Infatti, vengono privatizzati i piani pensionistici, di modo che nessuno avrà soldi a sufficienza; in Germania non esiste salario minimo, solo alcuni settori industriali hanno qualcosa del genere, per il resto tutto quanto viene negoziato, così questa specie di disciplina neoliberista che oggi la Troika sta imponendo in molti paesi, ha avuto inizio in Germania dieci anni fa. Si tratta di un paese che è già stato sottomesso a queste politiche, cosa che ci riporta a quanto si diceva prima a proposito della politica e dell'economia in Europa, alla sovranità nazionale in un momento in cui in Europa la politica è sottomessa all'economia. I governi, in termini strettamente formali, non rappresentano più la volontà popolare, nei termini della loro definizione di democrazia, ma rappresentano gli interessi del capitale finanziario e, negli ultimi mesi, la crisi - che si è verificata rispetto alla Banca Centrale Europea e all'acquisto di obbligazioni, discutendo se dovevano essere convertiti in buoni generali europei che collettivizzassero il debito - rivela che in Europa non stiamo solo assistendo ad una crisi economica, ma ad una crisi politica nella quale si stano erodendo completamente i modelli di democrazia sociale e politica che l'Europa ha avuto negli ultimi sessant'anni.
M.P.: Sono d'accordo con te. Tuttavia, credo che uno dei problemi è dovuto al fatto che la configurazione del capitale basata sul primato della politica si è rivelata una semplice fase dentro il capitalismo, e non una soluzione riformista a lungo termine. Questa fase di primato della politica è durata assai più in Europa che in qualsiasi altro luogo, ma dubito che si possa tornare a quella configurazione del capitalismo. Al suo apice, tale configurazione era legata ad una forte organizzazione nazionale delle economie, interconnesse fra loro a livello internazionale. Oggi, invece, il capitale è sempre più sovranazionale, piuttosto che internazionale. Sta sopra il livello dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione, come unità socio-economica e politica, si è trasformato e, come unità nazionale, è entrato in declino da decenni, almeno così è avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Questa crisi sta colpendo ora tutta l'Europa in forma sempre più evidente. L'Europa ci ha messo di più ad essere colpita perché qui la socialdemocrazia era molto più forte. Ma anche la socialdemocrazia era già stata minata, in modo meno esplicito di quanto mostrassero i programmi della Tatcher e di Reagan. Solo che ora la crisi appare essere globale e l'Europa sembra bloccata in doppio disastro, tanto politico quanto economico. L'unico modo in cui i paesi europei possono effettivamente operare su scala globale, è l'Unione Europea. Le unità nazionali come la Francia, la Germania e l'Olanda si rivelano sempre più inefficacemente piccole su scala mondiale - ancor più che durante il periodo della Guerra Fredda. E con tutto ciò, la politica europea in questi momenti sembra incapace di muoversi, sia in avanti che indietro.
(...)

S.L.: Questo ci porta ancora una volta alla sussunzione della politica nell'economia, in cui gli Stati sono al servizio degli interessi del capitale finanziario e smettono di rappresentare le loro popolazioni, convertendosi in rappresentanti politici degli interessi del capitale.
M.P.: Sono d'accordo, però una delle tante questioni con cui la sinistra di oggi deve confrontarsi è la scomparsa della sintesi fordista-keynesiana nei paesi occidentali e la fine delle economie di controllo verticale nei paesi dell'Est. Per qualche tempo, poteva sembrare che gli Stati fossero arrivati ad essere gli Stati delle loro popolazioni. Ma dobbiamo capire meglio quali erano i limiti di questa configurazione, perché non credo che possiamo tornare ad essa. Gran parte della letteratura degli anni cinquanta e sessanta affermava che i problemi di base della società e dell'economia erano stati risolti, o erano in via di risoluzione: sembrava che si fosse trovata la chiave per farlo. I paesi occidentali e i paesi comunisti rispondevano in maniera differente a questi problemi, ma entrambi erano sicuri di aver dato la risposta. Se non comprendiamo la crisi degli anni settanta, che ha eroso questa configurazione tanto ad Est come in Occidente, non possiamo comprendere quali sono oggi le nostre opzioni. Penso che non si possa tornare ad una situazione come quella degli Stati Uniti nei decenni dopo Roosvelt o alla Spagna come avrebbe potuto essere dopo Franco, o alla Germania socialdemocratica. Ma non sono un profeta, mi limito a segnalare che abbiamo bisogno di più lavoro teorico-politico.

S.L.: Non credi che dovremmo ripensare gli approcci di alcune teorie materialiste dello Stato, come quella di Poulantzas, per esempio, che cercavano di riconcepire lo Stato, non solo come una serie di istituzioni autonome rispetto alla società, ma come una sorta di relazione sociale?
M.P.: Sì, ma credo che, retrospettivamente, ci sono cose che possiamo vedere con maggior chiarezza che negli anni settanta. Nelle risposte a lungo termine, da parte degli Stati, alla crisi dei Settanta, è risultato chiaro che bisognava scegliere fra accumulazione del capitale e benessere sociale delle popolazioni, scelsero l'accumulazione del capitale, perché il contrario avrebbe portato al collasso. Credo che dobbiamo continuare a ripensare il rapporto fra il capitale e lo Stato. Quel che gli anni settanta ci hanno dimostrato è che lo Stato non è un'entità indipendente.

S.L.: Però, anche se non sei un profeta, quali forme di immaginazione e di prassi politica ti spetti e desideri? Su quale forma politica scommetteresti?
M.P.: Ad essere onesto, non scommetterei su nessuna. Però è importante che ci siano molte piccole iniziative differenti che cercano risposte diverse, poiché è a partire dalle iniziative delle persone che possiamo vedere quale funziona meglio, contro quali limiti ci scontriamo, ecc.. Solo così possiamo farci un'idea di fino a dove possiamo arrivare. Una possibilità - e so che questo suona molto tradizionale - è che, anche se c'è una crisi della società del lavoro, possiamo solo delineare i contorni delle possibilità future per mezzo di organizzazioni che intendano contrastare, o per lo meno diminuire, le enorme discrepanze presenti nelle condizioni lavorative, la regolamentazione del lavoro e la sua remunerazione a livello globale. Paesi come la Cina e il Vietnam, luoghi come il Bangladesh, si sono convertiti in immense fabbriche di vestiti per il consumo occidentale, fabbriche dove imperano condizioni di lavoro terribili. E qui vediamo come ideologie che possono aver avuto una dimensione progressista fino ad una generazione fa, si sono convertite in qualcosa di sempre più reazionario. Alcune élite del Terzo Mondo hanno utilizzato l'esistenza, nella sua specificità culturale, per giustificare la repressione politica e raggiungere livelli estremi di sfruttamento. Forse le mie dichiarazioni, o quelle di Robert Kurz, a proposito della fine della società del lavoro sono corrette, ma potremo saperlo solamente attraverso il lavoro che organizza sé stesso. Negli anni novanta, negli Stati Uniti, abbiamo assistito ad un promettente primo passo in questa direzione con il movimento contro il lavoro schiavista, l'anti-sweatshop movement, che fece conoscere le condizioni di lavoro nel Terzo Mondo. Per esempio, resero pubbliche le condizioni che regnavano in fabbriche situate in Indonesia o in Vietnam, le quali producevano scarpe sportive per la Nike. Il movimento evitò di cadere nelle dicotomie proprie della Guerra Fredda, come sarebbe avvenuto se avesse segnalato che le condizioni in Indonesia erano cattive ed avesse ignorato, o giustificato, quelle del Vietnam. Credo che si debba cercare di recuperare una forma di internazionalismo che si è perso a partire dalla prima guerra mondiale. Il supposto recupero dell'internazionalismo nella Terza Internazionale era ideologico: lì, l'internazionalismo significa porsi dalla parte di uno degli schieramenti, che è in realtà cosa ben diversa. Uno degli schieramenti finì per essere immune a qualsiasi critica, e la cosa ebbe effetti disastrosi per la politica e per il pensiero critico. Credo che oggi ci siano forme di anti-imperialismo che riprendano queste abitudini e che si sono convertite in ideologie per la legittimazione di regimi repressivi e movimenti reazionari. Queste forme di anti-imperialismo che diventano reazionarie sono una delle cose che dobbiamo combattere, e dobbiamo combatterle in nome di un internazionalismo progressista. E credo che dobbiamo combatterle nel quadro della capacità di ripensare il lavoro. Non credo che possiamo glorificare la miserabile condizione del precariato, e mi sembra che il modo per cui si cerca di creare nuove comunità non sia la soluzione. Però potrebbe dare una prima idea di come le cose potrebbero essere diverse. Non so come stiano le cose in Spagna, rispetto alle idee della controcultura, ma negli Stati Uniti, almeno negli anni sessanta, insieme al sorgere di una nuova sinistra apertamente politica, c'era anche gente che sperimentava nuove forme di vita. Ma, per la più parte, il loro immaginario consisteva in una forma di vita nuova separata dalla società: non era un modello per il resto della società, né voleva esserlo.

S.L: Credo che l'interessante di questo nuovo immaginario in Spagna sta nel fatto che è differente da quello che c'era nei Sessanta nei paesi cosiddetti industrializzati, come gli Stati Uniti. C'è una coscienza auto-riflessiva sui limiti del lavoro, e questo non perché la gente abbia letto diciamo il Manifesto contro il lavoro, o i tuoi testi, o quelli di Kurz, ma perché credo che la gente in Spagna, ad esempio, può ricorrere alle tradizioni anarchiche e ad altre forme di prassi politica. Oggi in Spagna ci sono comunità di scambio e di moneta alternativa - dozzine di valute alternative che funzionano in piccole comunità -, banche del tempo dove le persone disoccupate si riuniscono e danno inizio ad una banca delle ore, depositando ore del loro tempo. Cioè a dire, se tu coltivi verdure in un orto, io in cambio posso accudire tuo padre anziano, di modo che tutte le attività siano in condizione di uguaglianza nel processo di interscambio. Non si tratta di comuni private come quelle che ci sono in Germania o negli Stati Uniti, ma che funzionano realmente nel campo del sociale, a livello locale, in piccole cittadine. Si tratta di forme di immaginazione di un mondo senza denaro, un mondo senza lavoro, dovute alle condizioni per cui uno spagnolo su quattro è disoccupato e deve sopravvivere. Queste forme sperimentali di vita, sono oltre il lavoro?
M.P.: Sì. Personalmente, mi aspetto che qualcuno, oltre questi esperimenti, provi anche a pensare a delle opzioni praticabili su scala più ampia. Anche se il mondo rimane diviso in giganteschi blocchi globali, ciò senza dubbio costituisce una possibilità (nel caso che fossimo sull'orlo di una Terza Guerra mondiale), dobbiamo cercare di trovare forme nuove. I tuoi esempi rivelano come, a livello locale, la situazione appaia promettente. Ma il vero problema è come allacciare il locale al globale. Non lo dico come una critica, ma credo che sia una questione che dobbiamo tenere presente.

S.L.: Tornando nuovamente alla riflessione teorica, è passato un po' di tempo da quando il tuo "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato pubblicato in inglese; in Spagna la lettura del tuo libro è cosa più recente. Hai avuto tempo di riflettere sul tuo contributo alla lettura di Marx dalla pubblicazione del tuo libro? Quali credi che siano le sfide teoriche per il futuro, quali sarebbero gli elementi chiave per ricostruire una teoria critica della società basata su questa nuova lettura di Marx?
M.P.: Qualcosa che credo stia già avvenendo, e che verrà accentuata in futuro, è che dobbiamo concentrarci di più sul capitale e meno di cercare di trovare il soggetto rivoluzionario. Il tentativo di individuare un soggetto rivoluzionario dapprima si è concentrato sulla classe lavoratrice e più tardi alcuni lo hanno trasferito alle forme diverse di terzomondismo. Credo che sarebbe importante lasciarci tutto alle spalle e cercare di recuperare un internazionalismo critico, invece delle forme ideologiche attuali di nazionalismo che si dichiarano internazionaliste. Questo nuovo internazionalismo deve cercare di affrontare il capitale globale in modo da riuscire a capire sobriamente lo sviluppo del capitale e le possibilità che questo genera (anche se il capitale inizia a perdere la possibile realizzazione di queste possibilità) invece di limitarsi a demonizzarlo. Credo che sia estremamente importante, poiché sebbene la sinistra sia molto sensibile alla xenofobia, ed è bene che sia così, è assai meno sensibile alle ideologie reazionarie di carattere anti-finanziario, anti-statunitense e antisemite. E queste tre ideologie sono in relazione fra di loro. Penso che siano forme feticiste di opposizione che alla fine indeboliscono la sinistra e la portano ad avvicinarsi a fondersi con movimenti che io considero reazionari. Dovremmo liberarci dalle nostre nozioni politiche inconsce, quali il socialismo in un solo paese, o di un post-colonialismo che si fa passare per internazionalismo, e recuperare una forma di internazionalismo reale che possa affrontare la fine della società del lavoro. Tutto questo è molto modesto da parte mia, perché quello che sto suggerendo è che la teoria ci offre assai bene delle direttive chiare circa quello che non dobbiamo fare, piuttosto che di quello che dobbiamo fare. Ma evitare di fare quello che non dobbiamo fare è già un passo importante in direzione della lotta per quello che dobbiamo fare.
pubblicata sulla rivista Constelaciones n°4. Madrid, dicembre 2012
 
FONTE: http://www.sinistrainrete.info/

giovedì, febbraio 12, 2015

Yanis Varoufakis Confessioni di un marxista eccentrico







Nel maggio del 2013 ho avuto il piacere di tenere un discorso al Sesto Festival Sovversivo di Zagabria su questo argomento. Solo ora sono riuscito a scrivere quel discorso e ad ampliarlo in alcuni modi significativi [1]]

1. Introduzione: una confessione radicale
Il capitalismo ha avuto il suo secondo spasmo globale nel 2008, scatenando una reazione a catena che ha gettato l’Europa in una spirale discendente che attualmente sta minacciando gli europei di un vortice quasi permanente di depressione, cinismo, disintegrazione e misantropia.
Negli ultimi tre anni ho tenuto discorsi a uditori eccezionalmente diversi a proposito dell’emergenza europea. Migliaia di dimostranti contro l’austerità a Piazza Syntagma, ad Atene, personale della Federal Reserve Bank di New York, parlamentari Verdi presso il Parlamento Europeo, analisti di Bloomberg a Londra e a New York, scolari di sobborghi emarginati greci e statunitensi, la Camera dei Comuni a Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, fondi d’investimento a Manhattan e nella City di Londra; la lista è tanto lunga quanto è persistente la ritirata dei nostri leader europei dall’umanesimo e dalla ragione. Nonostante la diversità degli uditori, il messaggio è stato coerente: la crisi attuale dell’Europa non è soltanto una minaccia per i lavoratori, per i deprivati, per i banchieri, per gruppi o classi sociali particolari o, in realtà, per nazioni particolari. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una minaccia alla civiltà così come la conosciamo.
Se la mia prognosi è corretta e la crisi europea non è soltanto un altro crollo ciclico che sarà superato presto con la ricrescita dei profitti conseguente all’inevitabile stretta sui salari, la domanda che sorge per i radicali è la seguente: dovremmo accogliere questo vasto cedimento del capitalismo europeo come un’occasione per sostituire il capitalismo con un sistema migliore? O dovremmo essere così preoccupati al riguardo da imbarcarci in una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta negli ultimi tre anni è stata inequivocabile ed è disattesa dalla lista citata più sopra dei diversi uditori che ho cercato di influenzare. La crisi dell’Europa è, a mio parere, gravida non solo di un’alternativa progressista, ma anche di forze radicalmente regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario cancellando la speranza di un qualsiasi passo avanti progressiste per generazioni a venire.
Per queste idee sono stato accusato, da voci radicali benintenzionate, di essere un ‘disfattista’, un menscevico dell’ultimo giorno che instancabilmente si batte a favore di piani lo scopo dei quali è salvare l’attuale indifendibile sistema socio-economico europeo. Un sistema che rappresenta tutto ciò che contro cui un radicale dovrebbe ammonire e lottare: un’Unione Europa antidemocratica, irreversibilmente neoliberista, fortemente irrazionale, transnazionale che non ha quasi alcuna capacità di evolvere in una comunità genuinamente umanistica in cui le nazioni dell’Europa possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, ferisce. E ferisce perché contiene più di un nocciolo di verità.
In verità io condivido la visione di questa Unione Europea come cartello fondamentalmente antidemocratico e irrazionale che ha posto i popoli dell’Europa su un sentiero di misantropia, conflitti e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica di aver condotto una campagna fondata sul presupposto che la Sinistra sia, e rimanga, francamente sconfitta. Dunque sì, in questo senso mi sento obbligato a riconoscere che desidererei che la mia campagna fosse di un genere diverso; che promuoverei molto più volentieri un’agenda radicale la cui raison d’etre fosse sostituire il capitalismo europeo con un sistema diverso, più razionale, piuttosto che limitarmi a promuovere la stabilizzazione del capitalismo europeo, in contrasto con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto è forse pertinente una confessione di secondo ordine: confessare che … le confessioni tendono a essere interessate. In effetti le confessioni sono sempre sull’orlo di quanto disse una volta John von Neumann a proposito di Robert Oppenheimer, dopo aver sentito che il suo ex direttore al Progetto Manhattan era diventato un attivista antinucleare e si era confessato colpevole del suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di Von Neumann furono:
“Confessa il peccato per reclamare la gloria”.
Fortunatamente io non sono un Oppenheimer  e perciò non sarà troppo difficile confessare vari peccati come mezzo di autopromozione bensì, piuttosto, come finestra da cui osservare un capitalismo europeo devastato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui implosione, nonostante i suoi molti mali, andrebbe evitata a ogni costo. E’ una confessione mediante la quale convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo al fine di guadagnare il tempo che ci è necessario per formulare l’alternativa a esso.

2. Perché marxista?
Quando scelsi la mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi di proposito un argomento fortemente matematico e un tema in cui il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, in seguito, mi imbarcai nella carriera accademica, da lettore nelle facoltà di economia convenzionale, il contratto implicito tra me e le facoltà che mi offrivano il posto era che avrei insegnato il genere di teoria economica che non lasciava spazi a Marx. Alla fine degli anni ’80, senza che io lo sapessi, fui assunto dalla facoltà di economia dell’Università di Sidney, per escludere un candidato di sinistra. Poi, ritornato in Grecia nel 2000, mi sono schierato con George Papandreou, sperando di contribuire a fermare il ritorno al potere di una Destra risorgente determinata a riportare i greci in una posizione xenofoba (sia all’interno, con un giro di vite contro i lavoratori immigrati, sia in politica estera). Come oggi sa il mondo intero, il partito di Papandreou non solo non fermò la xenofobia ma, alla fine, presiedette le politiche macroeconomiche neoliberiste più virulente che furono l’avanguardia dei cosiddetti salvataggi dell’eurozona, provocando in tal modo, inconsapevolmente, il ritorno dei nazisti nelle strade di Atene. Anche se mi ero dimesso da consigliere di Papandreou nel 2006 ed ero diventato uno dei critici più fermi del suo governo nel corso della sua mala gestione dell’implosione greca post 2009, i miei interventi nel dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis [Modesta proposta per risolvere la crisi dell’euro] di cui sono stato co-autore e che ho promosso) non hanno alcun sentore di marxismo.
In considerazione di questo lungo percorso nel mondo accademico e nei dibattiti politici sull’Europa, si può essere sorpresi nel sentirmi, proverbialmente, uscire allo scoperto da marxista. Tali pronunciamenti non mi vengono naturali. Vorrei poter evitare etero-definizioni (cioè essere definito in base alla visione del mondo e al metodo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano, seguace di Hume … ho una tendenza naturale a dire che non sono nessuna di queste cose; che ho dedicato i miei giorni a cercare di diventare un’ape di Francesco Bacone, una creatura che assaggia il nettare i milioni di fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di proprio, qualcosa che deve molto a ogni singolo fiore ma che non è definito da nessuno di essi. Ahimè, questo sarebbe un modo non veritiero e inadatto per cominciare una … confessione.
In verità Karl Marx è stato responsabile di aver inquadrato la mia prospettiva sul mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia a oggi. Non è qualcosa di cui parlo molto spontaneamente in questi giorni nella ‘società per bene’, perché la stessa citazione del nome che inizia per M rende sordi gli uditori. Ma nemmeno lo nego mai. In realtà dopo alcuni anni in cui mi rivolgo a uditori con cui non condivido un ambiente ideologico, recentemente si è insinuato in me un bisogno di parlare francamente dell’impronta di Marx sul mio pensiero. Di spiegare perché, pur da marxista impenitente, penso sia importante opporglisi appassionatamente in una varietà di modi. Essere, in altre parole, eccentrici nel proprio marxismo.
Se la mia intera carriera accademica ha largamente ignorato Marx e le mie attuali raccomandazioni politiche non possono essere descritte come marxiste, allora perché tirar fuori adesso il mio marxismo? La risposta è semplice: anche la mia economia non marxista è stata guidata da un’ottica fortemente influenzata da Marx. Ho sempre pensato che un teorico sociale radicale può contrastare la corrente economica prevalente in due modi diversi. Un modo è la critica immanente. Accettare gli assiomi convenzionali e poi rivelarne le contraddizioni interne. Dire: “Non contesterò i vostri presupposti ma ecco perché le vostre stesse conclusioni non scaturiscono logicamente da essi”. Questo è stato, in effetti, il metodo di Marx nel minare l’economia politica britannica. Egli accettò ogni assioma di Adam Smith e di David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto dei loro presupposti, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda via che può seguire un teorico radicale è, naturalmente, costruire teorie alternative a quello del Sistema, sperando che saranno prese sul serio (che è quello che hanno fatto gli economisti marxisti del ventesimo secolo).
La mia idea riguardo a questo dilemma è sempre stata che quelli che detengono il potere vero non sono mai turbati da teorie che partono da presupposti diversi dai loro. Nessun economista convenzionale dedicherà oggi neppure attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano. La sola cosa che può destabilizzare e veramente sfidare gli economisti neoclassici convenzionali è la dimostrazione dell’incoerenza interna dei loro stessi modelli. E’ stato per questo motivo che, sin dall’inizio, ho scelto di immergermi nelle ‘viscere’ della teoria neoclassica e di non dedicare quasi nessuna energia a cercare di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di capitalismo. I miei motivi, che sottopongo, sono stati molto … marxisti [2].
Quando chiamato a commentare il mondo in cui viviamo, rispetto all’ideologia dominante riguardo al funzionamento del nostro mondo, non avevo altra alternativa che rifarmi alla tradizione marxista che aveva modellato il mio pensiero sin da quando mio padre, un metallurgico, mi aveva sottolineato, quando ero ancora un bambino, gli effetti del cambiamento e dell’innovazione tecnologica nel processo storico. Come, per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro aveva accelerato la Storia; come la scoperta dell’acciaio aveva accelerato il tempo storico di un fattore di dieci; e come le tecnologie IT basate sul silicio stanno offrendo una corsia preferenziale a discontinuità storiche e socio-economiche.
Questo costante trionfo della ragione umana sui nostri mezzi tecnologici e sulla natura, che serve anche periodicamente a denunciare l’arretratezza delle nostre soluzione e relazioni sociali, è un’intuizione insostituibile di cui sono debitore a Marx. La sua prospettiva materialista storica è stata rafforzata nel modo più interessante e inatteso. Chiunque abbia visto l’episodio della serie Star Trek intitolato ‘Blink of an eye’ [Un batter d’occhio] riconoscerà una presentazione meravigliosa di quarantacinque minuti del materialismo storico all’opera; una stupefacente narrazione del processo mediante il quale lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi tecnologici che minano costantemente la superstizione e creano slanci storici che, in modo non lineare, danno vita a nuovi stadi della civiltà.
Il mio primo incontro con testi di Marx ebbe luogo molto presto nella mia vita, in conseguenza degli strani tempi in cui sono cresciuto, con la Grecia che usciva dall’incubo della dittatura neofascista del 1967-74. Ciò che mi colpì fu il dono insuperabile, ipnotico della stesura di un copione drammatico della storia umana, in effetti della dannazione umana, corretto da possibilità molto reale di salvezza e autentica spiritualità. Nel leggere passi come
“la società borghese moderna con i suoi rapporti di produzione, di scambio e di proprietà, una società che ha ideato mezzi di produzione e di scambio così giganteschi, è come lo stregone che non è più in grado di controllare le potenze del mondo infernale che ha evocato con i suoi sortilegi” (Il manifesto del partito comunista, 1848)”
era come incontrare una riunione, da una parte, del dottor Faust e del dottor Frankenstein e, dall’altra, di Adam Smith e David Ricardo, creando una narrazione popolata di figure (lavoratori, capitalisti, dirigenti, scienziati) che erano le dramatis personae della Storia, agenti che lottavano controllare ragione e scienza nel contesto dell’emancipazione dell’umanità mentre, contrariamente alle loro intenzioni, scatenavano forze demoniache che usurpavano e sovvertivano la loro libertà e umanità.
Questa prospettiva dialettica, in cui tutto contiene il proprio opposto, e l’occhio appassionato con cui Marx individuava il potenziale di cambiamento nell’apparentemente più costante e immutabile delle strutture sociali, mi hanno aiutato ad afferrare le grandi contraddizioni dell’era capitalistica. Dissolveva il paradosso di un’età che generava la ricchezza più rimarchevole e, al tempo stesso, la povertà più cospicua. Oggi, rivolgendosi alla crisi europea, alla crisi di consapevolezza degli Stati Uniti, alla stagnazione a lungo termine del capitalismo giapponese, la maggior parte dei commentatori manca di cogliere il processo dialettico che ha sotto il naso. Riconoscono la montagna di debiti e di perdite bancarie ma trascurano l’altra faccia della stessa medaglia, la sua antitesi: la montagna di risparmi oziosi che sono “congelati” dalla paura e perciò non si convertono in investimenti produttivi. Una lucidità marxista agli opposti binari avrebbe potuto aprir loro gli occhi …
Uno dei principali motivi per cui l’ottica consolidata non viene a patti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la ‘produzione congiunta’, dialetticamente tesa, di debiti e surplus, di crescita e disoccupazione, di ricchezza e povertà, di spiritualità e depravazione, in effetti di bene e male, di nuove prospettive di piacere e di nuove forme di schiavitù, di libertà e di schiavizzazione; di questo melange di opposti binari in ordine al quale ci ha messo in allarme il drammatico copione di Marx come fonti delle perfidie della Storia.
Dai miei primi passi nel pensare da economista a questo giorno stesso mi è venuto in mente che Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’altra opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria. Una differenziazione-con-contraddizione che l’economia politica ha trascurato prima che arrivasse Marx e che l’economia dominante si rifiuta fermamente di riconoscere oggi.
Sia l’elettricità sia il lavoro possono essere visti come merci. In effetti sia gli imprenditori sia i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. Gli imprenditori usano tutto il loro ingegno, e quello dei loro galoppini della gestione delle risorse umane, per quantificare, misurare e rendere omogeneo il lavoro. Al tempo stesso potenziali dipendenti sudano sette camicie nell’ansioso tentativo di mercificare la propria forza lavoro, di scrivere e riscrivere i loro CV al fine di mostrarsi come fornitori di unità quantificabili di lavoro. E lì sta il problema! Poiché se mai lavoratori e imprenditori riuscissero a mercificare interamente il lavoro, il capitalismo perirebbe. Questa è un’idea senza la quale la tendenza del capitalismo a generare crisi non può mai essere compresa interamente e, anche, un’idea cui nessuno ha accesso senza una qualche esposizione al pensiero di Marx.

3. La fantascienza diventa documentario
Nel classico film del 1953 L’invasione degli ultracorpi la forza aliena non ci attacca frontalmente, diversamente da, diciamo, La guerra dei mondi di H.G.Wells. Gli umani, invece, sono attaccati dall’interno, fino a quando non resta nulla del loro spirito e delle loro emozioni umane. I loro corpi sono tutto ciò che resta, come conchiglie che un tempo contenevano una volontà libera e che ora lavorano, passano attraverso i movimenti della ‘vita’ quotidiana e funzionano da simulacri umani ‘liberati’ dalla capricciosità della natura umana. Questo processo è equivalente alla trasformazione necessaria al fine di trasformare il lavoro umano in un fattore non dissimile dalle semenze, dall’elettricità, in effetti dai robot. Nel parlare moderno è quello che sarebbe successo se il lavoro umano fosse divenuto perfettamente riducibile a capitale umano e così adatto a essere inserito nei modelli degli economisti grossolani.
Provate a pensarci: ciascuna e ogni teoria economica non marxista che tratta i fattori della produzione umani e non umani come intercambiabili e come quantità qualitativamente equivalenti, assume che la disumanizzazione del lavoro sia completa. Ma se potesse mai essere completa, la conseguenza sarebbe la fine del capitalismo come sistema capace di creare e distribuire valore. Tanto per cominciare una società di simulacri disumanizzati, di automi, somiglierebbe a un orologio meccanico pieno di ingranaggi e di molle, ciascuna con la sua unica funzione, che insieme producono un ‘bene’: la misurazione del tempo. Tuttavia se tale società non contenesse altro che altri automi, la misurazione del tempo non sarebbe un ‘bene’. Sarebbe un ‘prodotto’, certamente, ma perché un ‘bene’? Senza veri esseri umani a sperimentare la funzione dell’orologio, non potrebbe esserci nulla di ‘bene’ o di ‘male’. Una ‘società’ di automi sarebbe, come l’orologio meccanico o un qualche circuito integrato, piena di parti funzionanti, che mostrano una funzione ma nulla che possa essere utilmente descritto come ‘bene’ o ‘male’ o, in effetti, ‘di valore’.
Dunque, per ricapitolare, se il capitale riuscisse mai a quantificare, e conseguentemente mercificare interamente, il lavoro, come sta costantemente cercando di fare, spremerebbe anche fuori dal lavoro quell’indeterminata, recalcitrante libertà umana che consente la generazione di valore. La brillante penetrazione di Marx nell’essenza delle crisi capitalistiche è stata precisamente questo: tanto maggiore è il successo del capitalismo nel trasformare il lavoro in una merce, tanto minore è il valore di ciascuna unità di produzione che esso genera, tanto minore il tasso di profitto e, alla fine, tanto più prossima la maligna recessione successiva dell’economia come sistema. La rappresentazione della libertà umana come categoria economica è unica in Marx, rendendo possibile un’interpretazione distintamente spettacolare e analiticamente perspicace della propensione del capitalismo ad arraffare la recessione, persino la depressione, dalle fauci della ‘crescita’.
Quando Marx scriveva che il lavoro è il fuoco vivente, forgiatore, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava offrendo il massimo contributo che qualsiasi economista abbia mai offerto alla nostra comprensione dell’acuta contraddizione sepolta nel DNA del capitalismo. Quanto dipingeva il capitale come una “… forza cui dobbiamo sottometterci … sviluppa un’energia universale, cosmopolita che infrange ogni limite e ogni legame e si pone come unica politica, unica universalità, unico limite e unico legame” [3], egli stava evidenziando la realtà che il lavoro può essere acquistato dal capitale liquido (cioè dal denaro) nella sua forma di merce, ma porterà sempre con sé una volontà ostile al compratore capitalista. Ma Marx non stava semplicemente formulando una dichiarazione psicologica, filosofica o politica. Stava, piuttosto, offrendo una considerevole analisi del perché nel momento in cui il lavoro (come attività non quantificabile) perde tale ostilità, diventa sterile, incapace di produrre valore.
In un’epoca in cui i neoliberisti hanno intrappolato la maggioranza nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando incessantemente l’ideologia di accrescere la produttività del lavoro nel tentativo di accrescere la competitività con l’idea di creare ‘crescita’, eccetera, l’analisi di Marx offre un antidoto potente. Il capitale non può mai vincere la sua lotta per trasformare il lavoro in un fattore infinitamente elastico, meccanizzato, senza distruggere sé stesso. Questo è quanto né i neoliberisti né i keynesiani capiranno mai! “Se l’intera classe dei lavoratori salariati dovesse essere cancellata dalle macchine”, scriveva Marx, “che cosa terribile sarebbe per il capitale che, senza lavoro salariato, cessa di essere capitale!”[4] Quanto più prossimo alla sua “vittoria finale” sul lavoro si spinge il capitale, tanto più la nostra società assomiglia a un altro film di fantascienza. Un film che era stato presagito, sì, da Karl Marx: Matrix.
Ciò che è unico in Matrix è che in esso la ribellione dei nostri manufatti non è semplicemente un caso di uccisione del creatore. Diversamente dalla Cosa di Frankenstein, che attacca irrazionalmente gli esseri umani mossa dalla sua assoluta angoscia esistenziale, o dalle macchine della serie Terminator che vogliono semplicemente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in Matrix l’impero emergente delle macchine è scrupoloso nel preservare la vita umana per i propri fini, nel tenerci vivi come sua risorsa primaria. L’Homo sapiens, nonostante abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza confronti di inflizione di orrori indicibili ai nostri fratelli, non avrebbe mai potuto immaginare il ruolo indegno che le macchine gli avrebbero assegnato in Matrix: bloccati in marchingegni che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci alimentano a forza con una miscela di nutrienti nauseanti adatti per la massima produzione di calore.
Tuttavia le macchine devono presto scoprire che gli umani non durano a lungo quando il loro spirito è spezzato e la loro libertà negata totalmente. Il nostro curioso bisogno di libertà, così, minaccia l’efficacia dei loro impianti energetici a motore umano. Così le macchine ci obbligano a quella che Marx avrebbe chiamato una ‘falsa coscienza’. Non solo immettono a forza nutrienti nel nostro organismo, ma anche illusioni di cui il nostro spirito ha fame nella nostra mente. Ingegnosamente attaccano elettrodi ai nostri crani attraverso i quali immettono, direttamente nel nostro cervello, una vita virtuale, ma del tutto realistica, che, da umani, possiamo gestire. Mentre i nostri corpi continuano a essere brutalmente collegati ai loro generatori di energia, alimentandoli con l’elettricità estratta dal calore dei nostri corpi, il programma informatico delle macchine noto come Matrix riempie le nostre menti di una vita immaginaria, illusoria e tuttavia molto ‘reale’, ‘normale’. Il quel modo i nostri corpi, ignari della realtà, possono vivere per decenni, con grande utilità per le macchine responsabili di generare energia sufficiente a sostenere il loro nuovo mondo. L’oblio umano si dimostra un fattore cruciale per la produzione nell’economia di Matrix.
“Le macchine hanno conquistato il potere di dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti” [5] è il modo in cui Marx descrisse l’’ascesa delle macchine’ come incrocio tra una tragedia greca antica e una shakespeariana,   evoluto sullo sfondo di una rivoluzione industriale in cui i pochi erano proprietari delle macchine e i molti le facevano funzionare. Il punto di Marx era che, nell’universo del capitale, siamo già trans-umani. Matrix non è futurologia. E’ parte della nostra realtà da un pezzo ormai! E’ un eccellente documentario della nostra era o, per essere più precisi, della tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle caratteristiche che gli impediscono di diventare interamente flessibile, perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il suo ruolo è stato di fornirci l’opzione della ‘pillola rossa’ [6], una possibilità di guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni dell’ideologia borghese, l’orribile realtà di un sistema che produce crisi e privazioni come qualcosa di naturale, per scelta, e certamente non per caso.
Leggete un qualsiasi manuale di gestione, un qualsiasi documento su qualche rivista sull’economia dell’istruzione, ogni documento proveniente dall’Unione Europea sull’addestramento, le scuole, le università, i programmi di promozione della produttività, la competitività, eccetera. Ciò che riconoscerete immediatamente è che stiamo già vivendo nella nostra versione di Matrix. I tentativi inesorabili del capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infettato tutti quei documenti che sponsorizzano una società in cui le persone aspirano a diventare automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica è la trasformazione del lavoro umano in una versione dell’energia termica che permette alle macchine un maggiore margine di funzionamento e di produzione di altre macchine che, tragicamente, mancano di qualsiasi capacità di generare … valore.
In questo senso la nostra Matrix può essere solo provvisoria, poiché quanto più si avvicina alla perfetta versione cinematografica, tanto più diviene probabile una crisi monumentale, con i valori che scendono sottoterra, con l’arrivo di una Grande Recessione e con l’ascesa delle macchine invertita quando gli investimenti in esse divengono negativi. Da questa prospettiva marxista, tornando di nuovo al film, il gruppo di esseri umani liberati nelle viscere della società delle macchine (che guida la risurrezione umana contro le macchine) simboleggia la resistenza umana a diventare capitale umano, l’irriducibile ostilità intrinseca contro la quantificazione che resta incorporata nei cuori e nelle menti anche di coloro che dedicano tutte le loro energie a cercare di diventare mercificati nell’interesse dei loro padroni. La deliziosa ironia in ciò è che la stessa ostilità che il capitale sta tentando di sradicare dal lavoro è quella che rende il lavoro capace di produrre valore e consente al capitale di accumularsi.

4. Che cosa ha fatto Marx per noi?
Paul Samuelson ha denigrato una volta Marx definendolo un ricardiano minore. Quasi ogni scuola di pensiero, compresi alcuni economisti progressisti, ama fingere che, anche se Marx è stato una figura possente, pochissimo, se non nulla, del suo contributo resta rilevante oggi. Mi si consenta di dissentire.
A parte l’aver colto il dramma di fondo della dinamica capitalista (si veda la sezione precedente), Marx mi ha dato gli strumenti per diventare immune dalla tossica propaganda dei nemici capitalista della vera libertà e razionalità. Ad esempio è facile soccombere all’idea che la ricchezza sia prodotta privatamente e poi se ne appropri , mediante la tassazione, uno stato semi-illegittimo, se non si è stati esposti prima all’argomento sorprendentemente pregnante di Marx che è vero esattamente il contrario: la ricchezza è prodotta collettivamente e poi è appropriata privatamente mediante le relazioni sociali di produzione e di diritti di proprietà che si basano, per la loro riproduzione, quasi esclusivamente su una falsa coscienza. Vale lo stesso per il concetto di ‘autonomia’ che echeggia così bene in questo nostro mondo post-moderno. Anch’essa è prodotta collettivamente, attraverso la dialettica del mutuo riconoscimento, e poi diventa proprietà privata. Se solo Marx fosse stato preso sul serio (sia, va detto, dai marxisti, sia dai suoi detrattori) si sarebbe evitata molta dell’aria fritta che si è accumulata negli anni negli annali degli studi culturali.
Phil Mirowski ha recentemente [7] sottolineato, in modo molto eloquente, il successo dei neoliberisti nel convincere un largo strato della popolazione che i mercati sono non soltanto mezzi utili, ma anche un fine inalienabile di per sé. Che mentre l’azione collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai capaci di “azzeccarci”, le operazioni non regolamentate di interessi privati decentrati generano una specie di provvidenza laica-cum-divina che è garantita produrre non solo i risultati giusti ma anche i desideri, il carattere e persino l’etica giusti. Il miglior esempio della grossolanità neoliberista è, ovviamente, il dibattito sul cambiamento climatico e su che cosa fare al riguardo. I neoliberisti si sono precipitati a sostenere che, se qualcosa va fatto, deve assumere la forma di un semi-mercato dei “difetti” (ad esempio un mercato di commercio delle emissioni) poiché solo i mercati “sanno” come dare appropriatamente un prezzo alle merci e agli scarti. Per capire sia perché tale soluzione di un semi-mercato è destinata a fallire e, cosa più importante, qual è la motivazione di ‘soluzioni’ simili, si può far molto peggio che acquisire familiarità con la logica dell’accumulazione del capitale delineata da Marx e adattata da Michal Kalecki a un mondo governato da oligopoli in rete tra loro.
Nel ventesimo secolo i due movimenti politici che ricercavano le proprie radici nelle riflessioni di Marx erano i partiti comunisti e quelli socialdemocratici. Entrambi, oltre ai propri errori (e, in verità, crimini) non seguirono, a loro danno, la guida di Marx in un aspetto cruciale: invece di abbracciare libertà e razionalità come loro grida di battaglia e concetti organizzativi, scelsero l’eguaglianza e la giustizia, lasciando la libertà in eredità ai neoliberisti. Marx fu cristallino: il problema con il capitalismo non è che è iniquo, bensì che è irrazionale, poiché condanna abitualmente intere generazioni a privazioni e disoccupazione e trasforma addirittura i capitalisti in automi mossi dall’ansia che sono, anche, resi schiavi delle macchine di cui si suppongono proprietari, vivendo nella paura permanente che, se non mercificheranno interamente i loro compagni umani perché servano più efficientemente all’accumulazione del capitale, cesseranno di essere capitalisti.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è perché rende tutti schiavi in stile Matrix, lavoratori e capitalisti; spreca risorse umane e naturali;  sforna infelicità, assenza di libertà e crisi dalla stessa ‘catena di montaggio’ che produce notevoli congegni e una ricchezza incalcolabile. Avendo mancato di articolare una critica del capitalismo in termini di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva essenziale, la socialdemocrazia e la Sinistra in generale hanno consentito ai neoliberisti si usurpare il mantello della libertà e di conseguire uno spettacolare trionfo nel contesto delle capacità e delle ideologie.
Restando al trionfo neoliberista, forse la sua dimensione più considerevole è quella che finita per essere nota come il ‘deficit di democrazia’. Fiumi di lacrime di coccodrillo sono stati versati sul declino delle nostre grandi democrazie nel corso degli ultimi tre decenni di finanziarizzazione e globalizzazione. Marx avrebbe riso forte e a lungo a quelli che sembrano sorpresi, o sconvolti, dal ‘deficit di democrazia’. Qual era il grande obiettivo dietro il liberalismo del diciannovesimo secolo? Era, come Marx non si stancò mai di segnalare, la separazione della sfera economica dalla sfera politica e confinare la politica alla seconda lasciando contemporaneamente la sfera economica al capitale. Quello che stiamo osservando oggi è lo splendido successo del liberismo nel conseguire questo obiettivo perseguito a lungo. Date un’occhiata al Sudafrica di oggi, più di due decenni dopo la liberazione di Nelson Mandela e dopo che la sfera politica, finalmente, ha abbracciato l’intera popolazione. Il dilemma dell’ANC era che, al fine di poter dominare la sfera politica doveva accettare l’impotenza nella sfera economica. E se pensate che non sia così, vi suggerisco di parlare con le dozzine di minatori abbattuti a colpi d’arma da fuoco, dopo che avevano osato chiedere un aumento dei salari, da guardie armate pagate dai loro datori di lavoro.

5. Perché eccentrico? Due errori imperdonabili di Marx
Avendo spiegato perché qualsiasi comprensione del nostro mondo sociale io possieda la devo in larga misura a Karl Marx, voglio adesso spiegare perché resto terribilmente arrabbiato nei suoi confronti. In altre parole esporrò perché io sono per scelta un marxista eccentrico, incoerente. Marx fece due errori spettacolari, uno di essi un errore di omissione, l’altro di commissione.  Questi errori sono importanti oggi perché ostacolano l’efficacia della Sinistra nel contrastare la misantropia organizzata, specialmente in Europa.
Il primo errore di Marx, quello che suggerisco dovuto a omissione, fu l’essere insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Non dedico sufficiente riflessione, e mantenne un prudente silenzio, all’impatto della sua teorizzazione sul mondo a proposito del quale stava formulando teorie. La sua teoria è discorsivamente eccezionalmente potente, e Marx ne aveva avvertito la potenza. Com’è che non mostrò alcuna preoccupazione che i suoi discepoli, persone con una comprensione di quelli idee potenti migliore di quella del lavoratore medio, potessero usare il potere donato loro, per mezzo delle idee di Marx, per abusare dei loro compagni, per costruire la propria base di potere, per conquistare posizioni di influenza, per approfittare di studenti impressionabili, eccetera?
Per offrire un secondo esempio, noi sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa indusse il capitalismo, a tempo debito, a indietreggiare strategicamente e a concedere piani previdenziali e servizi sanitari nazionali, persino all’idea di costringere i ricchi a pagare perché masse di studenti poveri frequentassero college e università liberali progettate allo scopo. Al tempo stesso abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica, con una serie di invasioni come esempio principale, abbia scatenato paranoia tra i socialisti e abbia creato un clima di paura che si è dimostrato particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai l’avvento di questo processo dialettico. Egli semplicemente non prese in considerazione la possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe spinto il capitalismo a diventare più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infettato dal virus del totalitarismo mentre l’ostilità del resto del mondo (capitalista) nei suoi confronti cresceva sempre più.
Il secondo errore di Marx, quello che ascrivo a commissione, è stato peggiore. E’ stato il suo supporre che la verità sul capitalismo sarebbe stata scoperta nella matematica dei suoi modelli (i cosiddetti ‘schemi di riproduzione’). Questo fu il peggior disservizio che Marx potesse causare al suo stesso sistema teorico. L’uomo che ci ha dotato della libertà umana come concetto economico di primo ordine, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al suo giusto posto nell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito per giocherellare con modelli algebrici semplicistici, in cui le unità di lavoro erano, naturalmente, interamente quantificate, sperando, contro ogni speranza, di evincere da queste equazioni alcune intuizioni aggiuntive sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato lunghe carriere nell’indulgere a un genere simile di meccanismo scolastico, finendo con quelli che una volta Nietzsche descrisse come “i pezzi di meccanismo che si sono guastati”. Interamente immersi in dibattiti irrilevanti sul problema della trasformazione e su che cosa fare in proposito, alla fine sono divenuti una specie quasi estinta, mentre il bisonte neoliberista schiacciava ogni dissenso sulla sua strada.
Come ha potuto essere così illuso Marx? Perché non ha riconosciuto che nessuna verità sul capitalismo può mai emergere da un modello matematico, per quando brillante possa essere il modellatore? Non aveva gli strumenti intellettuali per rendersi conto che la dinamica capitalista emerge da una parte non quantificabile del lavoro umano, cioè da una variabile che non può mai essere definita matematicamente? Naturalmente li aveva, visto che fu lui a forgiare tali strumenti! No, il motivo del suo errore è un po’ più sinistro: proprio come gli economisti grossolani contro i quali egli ammonì così brillantemente (e che continuano oggi a dominare le facoltà di economia) egli bramò il potere che la ‘prova’ matematica gli permetteva.
Se sono nel giusto, Marx sapeva che cosa stava facendo. Egli capiva, o aveva la capacità di capire, che una teoria onnicomprensiva del valore non può adattarsi a un modello matematico di un’economia capitalista dinamica in crescita. Egli fu, non ne dubito, consapevole che una teoria economica corretta doveva rispettare il detto di Hegel che “le regole dell’indeterminato sono esse stesse indeterminate”. In termini economici ciò significava riconoscere che il potere di mercato, e dunque la redditività, dei capitalisti non era necessariamente riconducibile alla loro capacità di ricavare lavoro dai loro dipendenti, che alcuni capitalisti possono ricavare di più da una data riserva di lavoro o da una data comunità di consumatori per ragioni che sono esterne alla sua teoria.
Ahimè, tale riconoscimento sarebbe stato equivalente ad accettare che le sue ‘leggi’ non erano immutabili. Egli avrebbe dovuto ammettere a voci in contrasto nel movimento sindacale che la sua teoria era indeterminata e, perciò, che le sue dichiarazioni non potevano essere corrette in modo unico e senza ambiguità. Che erano permanentemente provvisorie. Ma Marx avvertì l’irreprimibile urgenza di domare persone come Citizen Weston [9] che osavano preoccuparsi che un aumento del salario (ottenuto mediante scioperi) potesse dimostrarsi una vittoria di Pirro se conseguentemente i capitalisti avessero spinto al rialzo i prezzi. Invece di solo discutere con persone come Weston, Marx era deciso a dimostrare con precisione matematica che sbagliavano, che erano antiscientifiche, grossolane, immeritevoli di seria attenzione.
Ci sono stati momenti in cui Marx si rese conto, e confessò, di aver sbagliato sul lato del determinismo. Una volta passato al terzo volume del Capitale egli vide che, una complessità anche minima (ad esempio ammettere gradi diversi di intensità di capitale in settori diversi) faceva deragliare i suoi argomenti contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio monopolio sulla verità che passò a rullo sopra il problema, in modo impressionante ma troppo rudemente, imponendo per decreto l’assioma che, alla fine, avrebbe confermato la sua ‘prova’ originale; quella con cui aveva manganellato in testa Citizen Weston. Strani sono i rituali della fatuità e tristi sono tali rituali quando vi ricorrono menti eccezionali, come Karl Marx e come un numero considerevole dei suoi discepoli del ventesimo secolo.
Questa ostinazione a volere la storia, o il modello, ‘completa’, ‘conclusa’, l’’ultima parola’, è qualcosa che non posso perdonare a Marx. Si è dimostrata, dopotutto, responsabile di una gran quantità di errori e, più significativamente, di autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’attuale impotenza della Sinistra come forza del bene e come contrappeso agli insulti alla ragione e alla libertà cui sovrintende oggi il gruppo neoliberista.
6. L’idea radicale del signor Keynes
Keynes era nemico della Sinistra. Egli amava il sistema di classe che lo aveva sfornato, non voleva aver nulla a che fare (personalmente) con la marmaglia “al piano di sotto” e lavorò duramente e attentamente per farsi venire in mente idee che avrebbero consentito al capitalismo di sopravvivere a dispetto della sua stessa tendenza, potenzialmente, a spasimi agonici. Pensatore liberale borghese, dalla mente aperta e dallo spirito libero, Keynes aveva il dono raro di non tirarsi indietro da sfide ai suoi stessi presupposti. Nel mezzo della Grande Depressione fu molto felice di liberarsi della tradizione di Marshall che era la sua eredità. Avendo notato che la disoccupazione si aggravava tanto più quanto più cadevano i salari, e che gli investimenti si rifiutavano di crescere anche dopo un lungo periodo di tassi d’interesse a zero, era pronto a stracciare il ‘manuale’ e a riconsiderare i modi del capitalismo.
La sua revisione radicale doveva cominciare da qualche parte. Cominciò quando Keynes abbandonò i ranghi dei suoi pari facendo l’impensabile: rivisitando il diverbio tra David Ricardo e Thomas Malthus e schierandosi con l’ecclesiastico. In termini inequivocabili, nel mezzo della Grande Depressione, egli scrisse: “Se solo Malthus, invece di Ricardo, fosse stato l’asse d’origine da cui si è sviluppata l’economia del ventesimo secolo, quanto più ricco e più saggio sarebbe oggi il mondo!” [10]. Con questa dichiarazione provocatoria Keynes non stava adottando né la posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici, né le sue idee teologiche sul potere redentivo della sofferenza [11]. Piuttosto, Keynes abbracciò lo scetticismo di Malthus riguardo (a) alla saggezza di ricercare una teoria del valore che fosse coerente con la complessità e con le dinamiche del capitalismo e (b) alla convinzione di Ricardo, successivamente ereditata da Marx, che una depressione persistente sia incompatibile con il capitalismo.
Perché Keynes non confluì alla posizione di Marx, che dopotutto fu il primo economista politico a spiegare le crisi come componenti della dinamica capitalistica? Perché la Grande Depressione non fu come gli altri declini, del genere spiegato così bene da Marx. Nel Capitale, volume 1, Marx ha spiegato la storia delle recessioni redentrici che si verificano a causa della duplice natura del lavoro e danno l’avvio a periodi di crescita gravidi del successivo declino che, a sua volta, genera la ripresa successiva, e così via. Comunque non c’era nulla di redentore nella Grande Depressione. Il crollo degli anni ’30 fu semplicemente ciò: un crollo che si comportò in modo molto simile a un equilibrio statico, uno stato dell’economia che sembrava perfettamente capace di perpetuarsi, con il testardo rifiuto della ripresa prevista  di presentarsi all’orizzonte persino dopo la ripresa del tasso di profitto in reazione al collasso dei salari e dei tassi d’interesse.
La radice della ‘scoperta’ di Keynes a proposito del capitalismo fu duplice: (a) si trattava di un sistema intrinsecamente indeterminato che presentava quelli cui oggi gli economisti si riferiscono come a equilibri infiniti, alcuni dei quali coerenti con una disoccupazione di massa permanente, e (b) poteva cadere in uno di questi equilibri terribili in un batter d’occhio, imprevedibilmente, senza motivo, semplicemente perché un segmento considerevole dei capitalisti temeva che potesse farlo.
In parole povere, ciò significava che, quando alla predizione di declini e del loro superamento da parte delle forze del mercato, “che possiamo essere dannati se sappiamo qualcosa!”;  che non abbiamo alcun modo di sapere che cosa farà domani il capitalismo anche se oggi sta diventando sempre più forte; che può benissimo sbattere il muso per terra e rifiutarsi di rialzarsi. Il concetto degli ‘spiriti animali’ di Keynes rappresentò un’idea profondamente radicale, cogliendo la radicale indeterminatezza sepolta all’interno dello stesso DNA del capitalismo. Un’idea inizialmente introdotta da Marx, con la sua analisi della natura dialettica del lavoro, ma poi, nel processo di stesura del Capitale, repressa al fine di consolidare i suoi teoremi come prove matematiche incontestabili. Di tutti i passaggi della Teoria Generale di Keynes, questa idea, della capricciosità autodistruttiva del capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per ri-radicalizzare oggi il marxismo.

7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Nel settembre del 1978, sei mesi o giù di lì prima della vittoria della Thatcher che cambiò per sempre la Gran Bretagna, mi trasferii in Inghilterra per frequentare l’università. Assistere alla disintegrazione del governo laburista sotto il peso del suo degenerato programma socialdemocratico mi indusse a un errore di primo ordine: a pensare che forse la vittoria della signora Thatcher sarebbe stata una cosa buona, impartendo alla classe operaia e media britanniche il breve e forte colpo necessario a rinvigorire la politica progressista, a dare alla Sinistra un’occasione per ripensare la propria posizione e creare un ordine del giorno nuovo e radicale per un nuovo genere di efficace politica progressista.
Persino mentre la disoccupazione raddoppiava e poi si triplicava sotto gli ‘interventi’ neoliberisti radicali della signora Thatcher io continuai a mantenere la speranza che Lenin avesse ragione: “Le cose devono peggiorare, prima di migliorare”. Mentre la vita si faceva più difficile, più abbrutita e, per molti, più breve, mi venne in testa che ero tragicamente in errore: le cose potevano peggiorare in eterno, senza migliorare mai. La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la riduzione della vita della maggioranza, la diffusione delle privazioni in ogni angolo del paese conducessero, automaticamente, a un rinascimento della Sinistra era semplicemente ciò: una speranza!
La realtà, tuttavia, era dolorosamente diversa. A ogni giro di vite della recessione, la Sinistra diventava più introversa, meno capace di produrre un programma progressista convincente e, contemporaneamente, la classe lavoratrice veniva divisa tra quelli che erano scaricati dalla società e quelli che erano cooptati nella mentalità neoliberista. L’idea che il deterioramento delle ‘condizioni oggettive’ avrebbe in qualche modo dato vita alle ‘condizioni soggettive’ da cui emergesse una nuova rivoluzione politica era del tutto fasulla. Tutto ciò che emergeva dal Thatcherismo erano trafficoni, finanziarizzazione estrema, trionfo dei centri commerciali sulla bottega d’angolo, feticizzazione della casa e … Tony Blair.
Invece di radicalizzare la società britannica, la recessione organizzata con tanta cura del governo della signora Thatcher, come parte della sua guerra al lavoro organizzato e alle istituzioni pubbliche della previdenza sociale e alla ridistribuzione che erano state create dopo la guerra, distrusse permanentemente l’idea stessa che trascendeva quello che il mercato decideva come il ‘giusto’ prezzo
La lezione che la signora Thatcher mi impartì con le brutte a proposito della capacità di una recessione duratura di minare la politica progressista e di radicare la misantropia nelle fibre della società è una lezione che porto con me nell’odierna crisi europea. E’, in effetti, il fattore più decisivo della mia posizione riguardo alla crisi dell’euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero quasi esclusivamente negli ultimi anni. E’ il motivo per cui sono felice di confessare il peccato che mi è attribuito dai critici radicali della mia posizione ‘menscevica’ riguardo all’eurozona: il peccato di scegliere di non proporre programmi politici radicali che cerchino di sfruttare la crisi dell’euro come occasione di rovesciare il capitalismo europeo, di smantellare la terribile eurozona e di minare l’Unione Europea dei cartelli e dei banchieri bancarottieri.
Sì, mi piacerebbe proporre una simile agenda radicale. Ma, no, non sono pronto a commettere lo stesso errore due volte. Quale bene ci è venuto in Gran Bretagna nei primi anni ’80 dal promuovere un’agenda di cambiamento socialista che la società britannica disdegnava, buttandosi contemporaneamente a testa bassa nella trappola neoliberista della signora Thatcher? Precisamente nessuno. Che bene produrrà oggi sollecitare lo smantellamento dell’eurozona, della stessa Unione Europea, quando il capitalismo europeo sta facendo il massimo per minare l’eurozona, l’Unione Europea, di fatto sé stesso?
Un’uscita greca o portoghese o italiana dall’eurozona si svilupperà presto in una frammentazione del capitalismo europeo, producendo una regione gravemente recessiva a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto dell’Europa è stretto in una maligna stagflazione. Chi pensate si avvantaggerà da uno sviluppo simile? Una Sinistra progressista che sorgerà, come la Fenice, dalle ceneri delle istituzioni pubbliche dell’Europa? O i nazisti dell’Alba Dorata, i neofascisti assortiti, gli xenofobi e i maneggioni? Io non ho assolutamente alcun dubbio su chi dei due trarrà profitto dalla disintegrazione dell’eurozona. Quanto a me, io non sono pronto a soffiare un nuovo vento nelle vele di questa versione postmoderna degli anni ’30. Se ciò significa che siamo noi, i marxisti opportunamente eccentrici, che dobbiamo cercare di salvare il capitalismo europeo da sé stesso, così sia. Non per amore o apprezzamento del capitalismo europeo, dell’eurozona, di Bruxelles o della Banca Centrale Europea, ma semplicemente perché vogliamo minimizzare il costo umano non necessario di questa crisi, le innumerevoli vite le cui prospettive saranno ulteriormente represse senza vantaggi di alcun genere per le future generazioni di europei.

8. Conclusione: che cosa dovrebbero fare i marxisti?
Le élite dell’Europa si stanno comportando oggi come una compagnia di leader sfigati che non comprendono né la natura della crisi cui presiedono, né le implicazioni per il loro stesso destino, per non parlare del futuro della civiltà europea. Stanno scegliendo, atavicamente, di saccheggiare i capitali ridotti dei deboli e degli espropriati al fine di turare le voragini spalancate dei loro banchieri falliti, rifiutandosi di venire a patti con l’impossibilità di tale compito. Avendo creato un’unione monetaria che (A) ha cancellato tutti gli ammortizzatori di shock dalla macroeconomia dell’Europa e (B) ha garantito che, quando gli shock arrivano, saranno giganteschi, essi stanno oggi investendo nel negazionismo sperando, irrazionalmente, in qualche miracolo che gli dei potranno concedere a condizione che un numero sufficiente di vite umane sia sacrificato sull’altare dell’austerità competitiva.
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino, Lisbona, Madrid, e ad ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea sul prossimo giro di vite dell’austerità che va praticato a Parigi o a Roma, vengono in mente le parole di Berthold Brecht: “La forza bruta è fuori moda. Perché mandare in giro assassini a libro paga, quando sono sufficienti gli ufficiali giudiziari?” La domanda è: chi si opporrà loro?
Sempre consapevole della colpa collettiva della Sinistra per il feudalesimo industriale al quale abbiamo condannato milioni di persone per decenni nel nome della … politica progressista, io tuttavia formulo un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro grandi differenze, hanno realmente in comune una cosa: l’uniforme ‘linea del partito’ che corre invisibile dal vertice (Politburo o Commissione) alla vera e propria base (ogni ministro minore di ogni stato membro, o l’ultimo dei commissari, a pappagallare le stesse futilità). Gli apparatcik sia sovietici sia della UE condividono una determinazione da setta cristiana a riconoscere i fatti solo quando sono coerenti con le profezie e i loro sacri testi. Olli Rehn, ad esempio, che è commissario dell’Unione Europea con la responsabilità degli affari economici e finanziari ha avuto recentemente l’audacia di accusare il Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato errori nel calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’eurozona perché tale rivelazione “… ha compromesso la fiducia del popolo europeo nelle proprie istituzioni”. Nemmeno Leonid Brezhnev avrebbe osato fare una simile dichiarazione pubblica!
Con le élite dell’Europa profondamente allo sbando, negazioniste e con le teste sepolte come ostriche nella sabbia, la Sinistra deve ammettere che semplicemente non siamo pronti a colmare il baratro che aprirà un capitalismo europeo al collasso con un sistema socialista funzionante, capace di generare una prosperità condivisa per le masse. Il nostro compito dovrebbe allora essere duplice: proporre un’analisi dell’attuale stato delle cose che europei non marxisti, benintenzionati, sedotti dalle sirene del neoliberismo, trovino profondo. E dar seguito a tale analisi solida con proposte di stabilizzazione dell’Europa, per por fine alla spirale verso il basso che, alla fine, rafforza solo i fanatici e incuba l’uovo del serpente. Ironicamente, quelli di noi che aborriscono l’eurozona, hanno il dovere morale di salvarla!
Questo è ciò che abbiamo cercato di fare con la nostra Modesta Proposta [12]. Rivolgendoci a diversi uditori che vanno dagli attivisti radicali ai gestori di fondi speculativi, l’idea è di forgiare alleanze strategiche anche con quelli di destra con i quali condividiamo un semplice interesse: l’interesse a fermare il circolo vizioso di retroazione negativa tra austerità e crisi, […] un effetto di retroazione negativa che mina sia il capitalismo sia qualsiasi programma progressista per sostituirlo. E’ così che difendo i miei tentativi di arruolare alla causa della Modesta Proposta persone quali i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, i membri Conservatori del Parlamento, i finanziari che sono preoccupati per la difficile situazione dell’Europa.
Il lettore mi consentirà di concludere con due confessioni finali. Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale il perseguimento di un’agenda modesta di stabilizzazione di un sistema che detesto, non fingerà di esserne entusiasta. Questo può essere ciò che dobbiamo fare, nella situazione attuale, ma mi rattrista che probabilmente non sarò in circolazione per vedere un’agenda più radicale adottata sensatamente. Infine, una confessione di natura fortemente personale: sono consapevole di correre il rischio di ridurre, furtivamente, la tristezza dell’abbandono di ogni speranza di sostituire il capitalismo mentre sono ancora in vita, indulgendo in una sensazione di essere divenuto più ‘gradevole’ ai circoli della ‘società educata’. Il senso di soddisfazione personale dell’essere onorato dai grandi e potenti ha cominciato, occasionalmente, a insinuarsi in me. E che sensazione non radicale, orribile, corruttiva e corrosiva è stata!
Il mio punto più basso si è verificato in un aeroporto. Un certo canale danaroso mi aveva invitato a fare una presentazione sulla crisi europea e aveva sborsato la grottesca somma necessaria a comprarmi un biglietto di prima classe. Di ritorno a casa, stanco e già con numerosi voli sulle spalle, mi stavo facendo strada superando la lunga coda di passeggeri di classe economica per arrivare al mio cancello. Improvvisamente mi sono reso conto, con considerevole orrore, di quanto fosse facile per la mia mente lasciarsi infettare da quella sensazione di ‘aver diritto’ a superare gli hoi polloi. Mi sono reso conto di quanto prontamente potevo dimenticare ciò che la mia mente di sinistra sapeva da sempre: che nulla ha maggior successo nel riprodursi che una falsa sensazione di diritto. Forgiare alleanze con forze reazionarie, come penso dovremmo fare per stabilizzare oggi l’Europa, ci espone al pericolo di diventare cooptati, di perdere il nostro radicalismo a causa della calda luce dell’essere ‘arrivati’ nei corridoi del potere.
Le confessioni radicali, come quella che ho tentato di buttar giù qui, sono forse il solo antidoto programmatico alle scivolate ideologiche che minacciano di trasformarci in ingranaggi della macchina. Se dobbiamo firmare patti con il diavolo (ad esempio con il FMI, con i neoliberisti che, comunque, si oppongono a quello che io chiamo ‘il potere dei bancarottieri’, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non sono riusciti a cambiare il mondo ma sono riusciti a migliore … le proprie condizioni personali. Il trucco sta nell’evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti ad aggirare ogni opposizione alla loro malignità autodistruttiva, e conservare la visione dell’intrinseca malignità del capitalismo pur mentre cerchiamo di salvarlo, per fini strategici, da sé stesso. Le confessioni radicali possono essere utili nel raggiungere questo difficile equilibrio. Dopotutto, l’umanesimo marxista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
NOTE
[1] Questo documento si basa su un discorso d’apertura dell’autore tenuto il 14 maggio 2013 al Sesto Festival Sovversivo di Zagabria, intitolato “Confessioni di un marxista eccentrico”. Per un video del discorso cliccare qui.
[2] Per esempi della ricerca conseguente, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[3] Vedere Karl Marx (1844-1969) Manoscritti Economici e Filosofici.
[4] Marx in “Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sul Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849 [diffuso come conferenze nel 1847] Rivisto con un’introduzione di Friedrich Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York; Labor New Company, 1902.
[5] Vedere Karl Marx (1844-1969) Manoscritti Economici e Filosofici.
[6] Verso l’inizio di Matrix un guerrigliero urbano che aveva aiutato il nostro Thomas Anderson, alias Neo, a sfuggire ad ‘agenti’ in borghese, gli offre una cruda scelta tra due pillole. Se prenderà la pillola blu, sarà riportato al suo letto e si sveglierà al mattino pensando che tutta la faccenda era stata un incubo e poi riprenderà la sua vita ‘normale’. Se tuttavia sceglierà la pillola rossa apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In un trionfo di curiosità avventata rispetto all’esca di piaceri semplici, Neo rinuncia alla prospettiva della beata ignoranza offerta dalla pillola blu, scegliendo invece la crudele realtà promessa da quella rossa.
[7] Vedere Mirowski (2013)
[8] Per altro su questo argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998)
[9] Vedere Marx, Salari, Prezzi e Profitto, in cui il dibattito di Marx con Citizen Weston è narrato dallo stesso Marx.
[10] Vedere il suo saggio su Malthus, “Robert Malthus, il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in ‘L’opera completa di John Maynard Keynes, Vol. X: Saggi di biografia’, London, Macmillan. La citazione appare alle pagg. 100-1. Pubblicato in origine di ‘Saggi di biografia’, 1933.
[11] Malthus conquistò la propria fama pronosticando che la crescita della popolazione avrebbe superato le risorse della terra, nonostante i nostri sforzi migliori, e che perciò la carestia era un essenziale meccanismo ‘equilibratore’. Come uomo della tonaca, egli spiegò ciò come parte del disegno di Dio: la sofferenza delle masse, le pance gonfie dei bambini deliranti  e i volti esausti della madri in lutto erano un’occasione offerta da Dio perché gli esseri umani abbracciassero il bene e combattessero il male.
[12] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K.Galbraith (2013) A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/confessions-of-an-erratic-marxist-in-the-midst-of-a-repugnant-european-crisis/
Originale: Yanis Varoufakis
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

FONTE: http://contropiano.org