Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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giovedì, giugno 24, 2010

Enzo Martucci La setta rossa



L’anticomunismo liberal fascista è morto con il Grande Fratello!?
Viva il (l’anti)comunismo stirneriano, che vive negli occhi dello Stregone folle e dei suoi fratelli Moki !
Simonetti walter (l’ebreo rinnegato, l’ebreo che ride)

Appunti:
  • I mezzi di annientamento di massa corrispondono al ritorno in grande stile del valore al posto dell’essere.
  • Se vuoi ancora che tragga fuori questa oscura mia evidenza e gli dia una qualche luce, comune io vedo, per dirtene una, il principio di non contraddizione, l’imperativo categorico, comuni i principi della scienza, il sapere circa il nostro sistema solare, quel tanto che basti per guardare in faccia la nostra sorte – intendo della specie. È a questo comunismo che mi riferisco.
  • Socrate muore perché ha violato la legge. È sciocco dire che egli era un galantuomo, dice giustamente Hegel. Se filosofo è colui che mette l’individuo contro il mondo non possiamo non provarne ripugnanza, egli aggiunge.
[Manlio Sgalambro, Dialogo sul comunismo, De Martinis, 1995.]


ENZO MARTUCCI
La Setta Rossa


PREFAZIONE

Esistono due tipi di anticomunismo: il borghese e l’anar­chico.
Il primo è gretto, sciocco, reazionario. E’ un atteggia­mento misoneista dettato dal bisogno di conservare, a qua­lunque costo, il timore di Dio e la prebenda del prete, la sot­tomissione del popolo e il privilegio del capitale.
E’ un curioso miscuglio in cui si trovano riuniti gli elementi più disparati che vanno dal Sillabo ai principi mas­sonici, dall’economia liberista al dirigismo di Saragat. E tut­to questo non ha altra base che la paura la quale spinge ad accozzamenti impossibili, ad alleanze contro natura, nell’as­sillo di evitare la minaccia di un sovvertimento che, pur lasciando immutata la sostanza stessa della vita gregaria, rea­lizzerebbe però il tanto malvisto cambio della guardia ai posti di comando ed agli scrigni di Pluto.
L’anticomunismo anarchico è, invece, ben diverso. E’ la espressione di un sentimento, fortemente individualista, che insorge contro le ipocrisie e le catene del mondo attuale ma, nel contempo, cerca impedire l’avvento di un futuro peggiore ed il rigido inquadramento degli uomini nella caserma burocratica-industriale della società staliniana. Per tale motivo l’anticomunismo anarchico è odiato da tutti e la pubblicazio­ne di questo libro è stata, in vari modi, ostacolata da gente che, oggi, si professa ferocemente antibolscevica ma ieri, in un momento in cui gl’interessi, coincidevano, si è insediata al potere insieme ai servi del Kremlino. Da gente che, con To­gliatti, si metterebbe ancora d’accordo ma a me non perdonerà mai la campagna, antiteologica e anticlericale, svolta in Italia negli anni 1945-47 e i successi riportati nei numerosi contradditori sostenuti con i grossi calibri della propaganda cattolica.
Cosi, per l’azione subdola di nemici potenti, nessun editore avrebbe osato mai pubblicare « La Setta Rossa » ed es­sa sarebbe rimasta, come manoscritto, sul mio tavolo, se un amico personale, l’architetto Vittorio Verrocchio, che non è anarchico ma ha cuore generoso e spirito libero ed originale, non mi avesse fornito i mezzi per fare stampare il libro. II quale, fortunatamente, appare in un istante in cui l’idra bol­scevica diventa più insidiosa, più sottile, più penetrante e, quindi, maggiormente pericolosa.
Infatti la manovra distensiva iniziata da Malenkov, do­po la morte di Stalin, non si propone altro scopo che quello di evitare alla Russia il rischio di una guerra calda e disarma­re, moralmente e materialmente, l’Occidente per poi poterlo più facilmente conquistare. Il successore del moderno Gengis-Khan è una volpe matricolata ma non dispone del prestigio che possedeva il defunto dittatore e, perciò, non può sentirsi sicuro d’essere seguito da tutti i comunisti del mondo nel caso pro­babile che la guerra fredda sbocchi in un conflitto armato. E per acquistare il tempo necessario a consolidare il suo potere nella repubblica sovietica e sugli Stati satelliti, egli abbandona la rigida e brutale politica staliniana e finge di volere allen­tare i freni nell’Oriente e di cercare i mezzi per giungere alla pacificazione con i governi d’oltre cortina. In tale modo spera ottenere alcuni anni di pace durante i quali accrescerà la sua autorità e si costituirà una potenza simile a quella del suo pre­decessore, mentre nell’Occidente si sgretolerà il blocco gra­nitico che si stava formando contro la minaccia moscovita.
Infatti gli Stati del continente europeo che s’erano de­cisi ad unirsi e ad armarsi per difendersi dall’aggressione del panslavismo rosso, quando vedranno che il pericolo sfuma non rimarranno nel Patto Atlantico solo per servire gl’interessi dell’imperialismo conservatore, americano ed inglese. Ma. a po­co per volta, si separeranno e smobiliteranno gli eserciti e le industrie belliche; i contrasti e le rivalità fra i capitalismi nazionali si manifesteranno nuovamente, con aumentato vigore, e metteranno i popoli l’uno contro l’altro in nome delle rivendicazioni che ciascuno avanza.
Intanto, nell’interno d’ogni paese, le quinte colonne co­muniste intensificheranno il sabotaggio della produzione, gli scioperi e le agitazioni, lo sconvolgimento dell’economia, in modo da indebolire progressivamente la nazione. Le masse si infatueranno sempre più della Russia ed anche molti elementi della borghesia liberale la guarderanno con tenerezza quando essa non si presenterà con il volto della dittatura, tirannica e conquistatrice di Stalin, ma con l’aspetto della repubblica, democratica e pacifista, di Malenkov.
E infine, una volta prodottasi la naturale maturazione, la Russia che, non ostante la commedia recitata, sarà rima­sta dittatoriale all’interno e guerrafondaia all’esterno, si av­venterà col suo formidabile esercito, continuamente rafforza­to, sui nemici occidentali, divisi e discordi, e li abbatterà ad uno ad uno. Così in luogo del piano organizzato, per la di­struzione del bolscevismo, dall’alta finanza americana e dai suoi alleati clerico-borghesi di Europa, si realizzerà il piano opposto, astutamente ideato ed attuato dalla volpe rossa che si è assisa sul trono imperiale di Stalin, avvelenando tempesti­vamente il rivale alla successione, Zdanov.
Del resto che il comunismo rimanga sempre quello che era, è dimostrato dai recenti avvenimenti svoltisi nella Cecoslovacchia e nella Germania dell’Est. Nel primo di questi pae­si una terribile reazione poliziesca si è scatenata contro i mi­natori che, spinti dalla disperazione, scioperavano per un mi­glioramento della loro precaria condizione, economica e po­litica. E, dopo pochi giorni, a Berlino la soldataglia russa ha sparato spietatamente sulle masse operaie che chiedevano pa­ne e libertà. Questo è l’allentamento dei freni promesso dal signor Malenkov. E questo è il paradiso sovietico nel quale i proletari ricevono piombo nello stomaco.
Perciò, di fronte all’accresciuta minaccia del Leviathan bolscevico, io sono fiero di dare alle stampe questo libro che è per esso una sfida. E mi auguro che possa servire a spingere gli uomini liberi — se ancora ve ne sono — verso un atteggiamento di più decisa resistenza al totalitarismo rosso e ad ogni altra forma autoritaria, diversamente colorata ma ugual­mente nociva per la scioltezza degl’individui e l’espansione della vita.
ENZO MABTUCCI
Pescara, luglio 1953.
UCCIDERE L’ANIMA
In un freddo e nebbioso giorno di novembre del 1923 incontrai a Parigi, in un caffè di piazza Combat il comunista ungherese Stefano Kolnar mi riconobbe subito e venne verso me con la mano a tesa.
« Sono tre anni che non ci vediamo — osservò mentre sedeva al mio fianco. — Ricordi che siamo stati insieme a Genova? Come ci trattavano bene i poliziotti allora e com’era confortante la guardina del Palazzo Ducale. Le mie ossa sono ancora indolenzite dal tavolaccio…..»
Sorrisi rammentando l’oscura e fetida cella della Torre dove io e l’ungherese, conosciuto a Milano a casa di Malatesta e ritrovato nella Superba eravamo stati rinchiusi. Egli era fuggito dalla sua patria dove la caduta di Bela Kun e temeva che il governo italiano lo consegnasse ad Horthy. Invece me lo vedevo dinanzi, libero e sano, a Parigi.
« Ho piacere che non t’abbiano mandato in Ungheria — dissi. — Quando io e gli altri fummo rilasciati ci occupammo di te, ma all’avvocato che venne, per nostro incarico, in questura a sollecitare la tua liberazione, le autorità risposero che saresti stato espulso dall’Italia ma non dato al tuo paese. Io però temevo che non mantenessero la promessa».
«La mantennero — rispose Kolnar. — Dopo tre mesi di permanenza a Marassi due angeli custodi mi accompagnarono alla frontiera svizzera e li mi lasciaro­no nelle mani dei gendarmi d’oltre confine. Poi nemme­no la terra di Guglielmo Teli mi volle e andai a Vienna. Ma che vita, amico mio, e quante lotte in questi anni… »
Cominciò a narrarmi le peripezie della sua bur­rascosa esistenza d’agitatore internazionale, quando una bella fanciulla, dagli occhi languidi ed affascinanti, si avvicinò al nostro tavolo e rivolse la parola a Stefano in una lingua sconosciuta. La guardai, colpito dalla sua eleganza, dalla perfezione statuaria del suo corpo, dallo sguardo voluttuoso che turbava i miei sensi di giovane ardente. Intorno a noi, nel piccolo e fumoso caffè, non v’erano che proletari dagli abiti logori e dalle cravatte alla Lavalliére, con femmine sciupate e povera­mente vestile. Quella madamoiselle che sembrava una cocotte d’alto bordo o una damina aristocratica, contra­stava con l’ambiente e non si capiva come fosse capitata li, fra i fuorusciti italiani e spagnoli.
«Ti piace? — chiese Stefano mentre la ragazza gli sedeva accanto. — E’ Vanda, la mia amante, una figlia di borghesi che conobbi a Budapest quando frequentavo l’università. Poi dovetti fuggire e i suoi la costrinsero a sposare un industriale. L’anno scorso ci siamo ritro­vati a Vienna e lei ha lasciato il marito ed è venuta con me. Mi ha pure aiutato finanziariamente e debbo ai suoi soldi se sono riuscito a sottrarmi alle grinfie degli sbirri austriaci. Mi duole non poterla presentare perché non parla l’italiano e bestemmia in francese ».
Io guardavo la ragazza che mi sorrideva.
« Deve volerti molto bene — osservai — se per te ha abbandonato la famiglia e gli agi e condivide la tua vita agitata e pericolosa ».
« Si, mi ama — rispose Stefano. Queste sciocche donne non sanno fare altro che amare. Specialmente poi le donne della sua classe. Non s’interessano di politica, non si occupano della condizione del proletariato e non pensano che all’uomo col quale vanno a letto. Questa qui, però, mi è stata molto utile. E più utile ancora mi sarà nell’avvenire. Ha appena vent’anni, è bella, scaltra, e ubbidisce a tutto ciò che comando. Per me, vedi, questa ipersessuale malata si getterebbe nel fuoco. Ed io mi servo di lei a favore delle mie idee. Fra qualche giorno la manderò in Ungheria a portare materiale ai compagni ».
« Come? — scattai indignato. — Vuoi esporre a un pericolo tanto grave la donna che ti ama e che per te si è rovinata ? Ma non pensi che la polizia ungherese sa certamente ch’ella è la tua amica e l’arresterà non appena rimetterà piede in patria? Se le troveranno il materiale si buscherà parecchi anni di galera. E tu vuoi farle correre questo rischio ? ».
Stefano si stizzì.
« E come vuoi che faccia allora? Mi chiese bruscamente. — Io non posso ritornare perché sono troppo conosciuto. Altre persone fidate, per il momento, non ho. Ai compagni occorre subito ciò che Vanda deve consegnare. Perciò è necessario che vada lei.
« No — replicai accalorandomi non devi mandarla perché sarebbe un’infamia spingere in carcere una povera ragazza che già ti ha dato tante prove del suo affetto. Poi lei non è comunista, tu stesso l’hai detto. E’ una donna che vive solo per l’amore e se si precipita nell’abisso è per compiacere te. Come puoi pretendere che s’immoli per un’idea che non sente ? Come puoi accettare un sacrificio tanto mo­struoso? »
« Ma l’idea la sento io e profitto dell’amore che questa donna mi porta per farle servire la mia causa. Ogni mezzo è buono purché permetta raggiungere il fine ».
« Lascia stare questo machiavellismo di cattiva lega e rispondi piuttosto ad una mia domanda: se è proprio necessario che il materiale sia consegnato per­ché non tenti tu la sorte e rientri clandestinamente in patria invece d’esporre Vanda ? »
Perché probabilmente mi arresterebbero ed io sono più utile fuori che dentro ».
« Ecco il solito pretesto dei comunisti, degli eroi dell’armiamoci e partite. Evitate sempre d’affrontare le responsabilità e le scaricate sulle spalle delle donne, dei giovani, degl’incoscienti, di quelli che suggestionate per usarli come ciechi strumenti. Ma fatevi un po’ avanti voi invece di spingere gli altri ».
Gli occhi dell’ungherese lampeggiarono. La ra­gazza, che ascoltava senza comprendere il nostro di­scorso che si svolgeva in italiano, girava lo sguardo incuriosito da Stefano a me.
« Io — ruggì il bolscevico — non mi sono mai tirato indietro e mai mi tirerò. Ho votato la mia vita alla rivoluzione sociale e sono pronto a morire per essa. Ma oggi è necessario che mi risparmi nelle scaramucce onde preparare la grande e definitiva battaglia nella quale cadrò vedendo la vittoria del proletariato ».
« Intanto lasci che nelle scaramucce cadano gli altri. E chi sacrifichi: una donna: la tua amante. Come potrai reggere al pensiero che, mentre tu girerai per le strade, questa ragazza che ti ha amato, che ti ha inebriato con le sue carezze e ti ha stretto fra le sue braccia, gemerà per te, per colpa tua, nella cella di un penitenziario ? Ah! Stefano, sei proprio privo di sentimenti …»
« Certo non sono un sentimentale come voialtri anarchici. Il vostro carattere è ridicolmente romantico; il mio, quello di noi comunisti, è scientifico e razionalista. La mia intelligenza m’indica la meta da raggiungere e i mezzi da impiegare. Ed io me ne servo, con fredda logica inesorabile, senza conoscere le debolezze che tu vorresti che avessi ».
« Ma tu non hai anima » gli gridai sul viso.
Il bolscevico abbozzò un sorrisetto di superiorità.
« Si, hai ragione — rispose — io non ho anima: noi comunisti non l’abbiamo. E la faremo perdere anche a voi. Il nostro fine è infatti uccidere l’anima.

























MARXISTI ALLA SBARRA
Stefano Kolnar diceva la verità. Il comunismo vuole uccidere l’anima. L’educazione bolscevica soffoca nell’uomo tutti i sentimenti e li sostituisce col cieco fa­natismo. L’amore, l’amicizia, la pietà, le passioni, non esistono nel comunista ; egli le ha stroncate, ha distrutto la sua essenza umana, ha fatto il vuoto in sé e lo ha riempito con l’idea mostruosa che domina, sola ed in­contrastata. Schiavo di quest’idea pretende imporla an­che agli altri e vuole che gli altri l’accettino come lui l’ha accettata: senza discuterla, senza vagliarla, senza sottoporla all’esame critico dell’intelligenza. Dogmatico e settario egli si scaglia contro quelli che non si lasciano convertire. Chi rigetta il vangelo marxista e lo sfiora col dubbio è un empio che va combattuto con gli stessi mezzi che la chiesa impiegava nel medio­evo per soffocare l’eresia. Chi non entra nella caserma rossa o non vuole subirne la degradante disciplina è un nemico del proletariato o un traditore. Contro co­storo il comunista usa tutte le armi: quando può im­pugna la sua pistola d’agente della Ghepeù e spara alla nuca ; e quando non può ricorrere alla violenza si serve della calunnia, della menzogna, della viltà eretta a sistema.
Egli ha appreso da Machiavelli e dai Gesuiti che il fine giustifica i mezzi e non rifugge dagli atti più schifosi e ripugnanti pur di raggiungere il proprio scopo. Fanatizzato dalla causa alla quale dedica completamente se stesso, è spietato verso gli altri e non esita a sacrificarli nell’interesse dell’ideale. Se per servire il partito deve spingere la moglie alla prostituzione o rovinare un amico o mandare in galera un compagno di lotta, lo fa immediatamente senza un attimo d’indecisione. Stalin denunziava alla polizia zarista i suoi amici politici e li faceva arrestare pensando che nelle carceri il loro odio contro lo Stato sarebbe aumentato.
2 – La Setta Rossa
Un comunista toscano che ho conosciuto al confino per corrompere un agente di pubblica sicurezza ed ottenere che trasmettesse clandestinamente le lettere sue e dei suoi capi, gli offriva la giovane ed avvenente sposa.
Il bolscevico non ha cuore, non ha anima, non ha sentimenti, è al di sotto del bruto il quale rifugge istintivamente da certi atti, mentr’egli invece non rifugge da nulla e trascende a qualunque abiezione il vantaggio della setta lo esige.
Piegato da una rigida disciplina rinunzia alla sua libertà personale nelle mani dei superiori ed ubbidisce docilmente a tutti i loro ordini. Non v’è infamia che non farebbe, non v’è umiliazione che non sopporterebbe se i suoi capi gliela comandassero. Zelante gregario ubbidisce senza discutere, ubbidisce pre­murosamente anche se gli dicono che deve farsi sodomizzare o che deve accompagnare la figlia al bordello.
L’interesse dell’ideale richiede questa passiva sottomissione ed egli curva la schiena e serve con piacere attendendo di rivalersi quando il bolscevismo trionferà e ciascuno dei suoi seguaci potrà sfogare la propria libidine di dominio, tiranneggiando i non co­munisti.
Il suo fanatismo, quindi, non è affatto disinte­ressato perché egli non si consacra ad una idea col solo scopo di fare trionfare la giustizia o l’uguaglian­za ; ma si dedica al bolscevismo e non vive che per esso nella speranza che la dittatura proletaria, in un prossimo domani, gli permetterà godere la ricchezza statizzata ed esercitare un’autorità, grande o picco­la, nella società, a seconda del suo grado nella gerar­chia del partito. Commissario del popolo o guardia rossa, aguzzino nelle carceri o carnefice alla Lubianka, il comunista vuol’essere qualche cosa e schiacciare qualcuno sotto il proprio tallone. Intanto però il tal­lone dei capi schiaccia il suo petto ed egli lo soppor­ta, disciplinato e soddisfatto, perché solo così farà trionfare l’idea e potrà mettersi sulla testa un berret­to gallonato.
I capi, poi, gli altezzosi generali della rivolu­zione mondiale, si allenano al futuro despotismo trat­tando come schiavi i fedeli soldati e imponendo ad essi ogni sorta di servizi. Uno di questi papaveri, con­finato politico nell’isola di Ponza, si sdraiava in una poltrona sulla spiaggia e si faceva sventagliare, per ore ed ore, da due giovani confinate comuniste, le so­relle B…. Posava a sultano nell’harem, in mezzo alle odalische…. E nessuno gli allungava una pedata nel culo a quel disertore della zappa….
Un altro capo che, sistematicamente, si appro­priava delle quote che i gregari versavano per il soc­corso rosso, pretendeva che i compagni gli mandassero a casa le mogli e le sorelle.
I compagni ubbidiva­no, onorati dalla degnazione del generale che, dopo la lezione di sessuologia impartita alle donne, dava lezione di storia agli uomini ed insegnava che Zara­thustra era stato un condottiero cartaginese venuto in Italia con Annibale ed ucciso dai romani nella bat­taglia di Zama.
Qualche volta, fra i padre terni comunisti, s’in­contra una persona colta come il gobbo Gramsci, il Torquemada del bolscevismo italiano; ma general­mente i capi rossi sono dei poveri di spirito nei qua­li l’ignoranza è superata solo dalla presunzione. Il professore (di che?) Torelli confondeva il pensiero di Khant con quello di Gentile; e quando io gli dimo­stravo che l’idealismo critico Khantiano è ben diverso dall’idealismo assoluto gentiliano, perché per il pri­mo, esiste il noumeno, la cosa in sé, che noi non co­nosciamo che fenomenicamente, mentre per il secon­do non v’è che lo spirito umano che pone le cose, e-gli — il professore di bestialità — rispondeva, con un sorrisetto da superuomo, che io, di filosofia, non me ne intendo.
Il torinese Roveda affermava a Ventottenne che vi sono prove storiche della pratica della promiscui­tà sessuale nelle società primitive. Io ribattevo che queste prove mancano e che egli prendeva per prove le semplici induzioni di alcuni scrittori i quali hanno creduto che certi usi dei barbari odierni, come l’of­ferta della moglie all’ospite fra gli esquimesi, e certi costumi storici declinati, come la ierodulia delle ba­bilonesi, l’ius primae noctis, la deflorazione sacra al Cambodge, fossero le sopravvivenze di un’antichissima promiscuità. Roveda allora non sapendo cosa ri­spondere, voltava le spalle e se ne andava via indi­gnato. In realtà egli non conosceva quello che hanno iscritto gli assertori del comunismo erotico dei pri­mordi i quali hanno usato argomenti ben più seri del­le sue sciocche sentenze. Egli non aveva mai letto Bachofen, Me Lennan, Lubbok, Morgan, Giraud-Teulon ed ignorava ciò che hanno contrariamente sostenu­to Westermarck,, Darwin, Wundt. Roveda aveva letto solo « L’origine dello Stato, della proprietà e della fa­miglia », il libro in cui Engels, copiando Morgan, af­ferma, ai fini del materialismo storico, che nell’uma­nità primeva esisteva il comune possesso delle femmi­ne e che, sol quando l’uomo si è formato una proprietà, ha voluto una donna unicamente per sé e le ha im­posto la fedeltà, onde trasmettere i beni a figli certa­mente suoi. Però Roveda ignorava quello che altri scrittori hanno contrapposto al suo idolo Engels; quindi, con altezzosa sicurezza, dichiarava che esistono le prove storiche della promiscuità .
Gli stessi maestri del marxismo, i luminari del­la scienza bolscevica, hanno anch’essi spropositato più di una volta.
Giovanni Gentile nel suo libro «La filosofia di Marx» osserva che Engels ha scambiato l’idea hege­liana immanente nelle cose con l’idea platonica di sua natura trascendente. Engels infatti ha scritto nell’Anti-dùhring:
«Hegel era idealista, cioè, per lui le idee della sua testa non erano già le immagini più o meno astratte delle cose e degli avvenimenti reali, ma al con­trario per lui le cose ed il loro sviluppo erano solo le immagini attuate dell’idea la quale esiste già, pri­ma del mondo, in qualche luogo».
Questo periodo dimostra quanto bene avesse Engels compreso la filosofia di Hegel.
Carlo Marx che ha insegnato ai discepoli l’ar­te della calunnia, ha scritto contro Stirner un libro intitolato con un motto ironico: «Il Santo Max». In questo libro il papa comunista presenta l’autore de « L’Unico » come un metafisico senza sapere, un de­bole imitatore di Hegel, un filosofo della piccola bor­ghesia tedesca, « gradasso sentimentale » in teoria e re­azionario in pratica.
In realtà l’intelligenza di Stirner è stata supe­riore a quella di Marx ed il suo spirito ben più rivolu­zionario. Stirner è, nella storia, il vero filosofo anar­chico, il solo che meriti questo nome.
Proudhon, Bakunin, Kropotkine, Réclus, non so­no che dei semianarchici, i rappresentanti di un com­promesso fra l’individualismo e il collettivismo, fra il socialismo e l’anarchia. La loro non è che l’an-archia di Paolo Gille (1), l’anarchia con la disciplina, la libertà limitata dell’individuo che non è più sotto­posto allo Stato ma deve subordinarsi alla società per il soddisfacimento dei suoi bisogni completi, e deve sempre trovarsi d’accordo con tutti. In sostanza essi negano lo Stato ma divinizzano la so­cietà, come ha notato Palante (2); e propongono, con­tro chi violerà la futura armonia, le più severe san­zioni che vanno dal disprezzo pubblico e dall’allonta­namento generale, consigliato da Kropotkine ne «La conquista del pane» fino all’incarcerazione nella ca­sa di salute preconizzata da Malatesta nel suo opu­scolo « L’anarchia ».
Stirner, invece, è più logico, come anarchico. Egli crede che l’individuo sia la sola realtà al di so­pra della quale non ve n’è nessun’altra. Perciò vuole che l’individuo si realizzi completamente e soddisfi il suo egoismo, liberandosi delle idee che si è formato sulla santità e sulla inviolabilità di ciò che lo limita. Dio, la morale, l’umanità, la società, la nazione, lo Stato non sono che dei fantasmi che opprimono l’io perché questo li ha creati, li rispetta e li serve. Ma quando li abbatterà, quando li farà rientrare nel nul­la, allora, reso scevro da ogni ceppo spirituale e ma­teriale, potrà vivere come meglio gli piacerà, coope­rando liberamente con i suoi simili o lottando contr’essi, a seconda dei bisogni, dei sentimenti, degli interessi che in lui prevarranno nei momenti diversi. Sarà la bellum omnium contra omnes, temperata da alleanze individuali; ma sarà anche la libertà naturale in cui il singolo potrà tentare di affermarsi con ogni mezzo.
Queste sono le idee di Stirner che si possono accettare o combattere ma non falsare. Si può ritenere con Basch che il filosofo individualista sia stato anti­sociale e disorganizzatore dei legami che uniscono gli esseri umani, oppure si può vedere in lui il teorico dell’associazione, volontaria e spontanea, che non as­sorbe l’individuo, non pretende eternizzarsi e non ne­ga i contrasti e le lotte fra gli unici, forti e indipendenti. Ma non si può pretendere che Stirner sia un filosofo borghese, quando la sua filosofia costituisce il più radi­cale sovvertimento della concezione storica della vita.
Stirner, il precursore di Nietzsche, ha esaltato l’egoismo, ha spinto l’uomo al di là del bene e del male e ha reclamato il diritto di soddisfare tutte le passioni personali, buone e cattive.
I comunisti, invece, vogliono sopprimere le passioni buone e potenziare le cattive: fanatismo, intolleranza, crudeltà, sete di dominio. Il loro amoralismo, quindi, è, nei riguardi dell’amorali­smo stirneriano, ciò che è la perfidia ipocrita del ser­pente rispetto alla leale aggressività del leone.
Stirner è stato un avversario del comunismo.
« Con l’abolire la proprietà personale — ha egli scritto — il comunismo non fa che respingermi sempre più profondamente sotto la dipendenza altrui, chiaman­dosi altrui ormai la generalità o la comunità. Benché sia sempre in aperta lotta con lo stato, il fine cui tende il co­munismo è sempre un nuovo stato, uno status, un ordine di cose destinato a paralizzare la libertà dei miei mo­vimenti, un potere superiore a me, che mi sovrasta; esso si oppone, con ragione, all’oppressione di cui sono vittima da parte degli individui proprietari, ma il pote­re che conferisce alla comunità è più tirannico ancora (3) ».
Marx avversò Stirner per meglio far valere la sua dottrina e, com’era sua abitudine, ricorse alla ca­lunnia, alla menzogna, allo scherno. Però quant’egli scrisse nel « Santo Max » non vale più della confusione che fa Torelli fra Khant e Gentile e della identificazione, da parte di Engels, della idea hegeliana con quella platonica. E se il maestro, che aveva ingegno e cultura, falsò tante volte, per mala fede, il pensiero altrui, i discepoli, che alla mala fede accoppiano l’i­gnoranza, debbono necessariamente giungere alla con­clusione alla quale arrivava nei suoi discorsi un imbian­chino bolscevico, confidente della questura e lenone delle sorelle:
« Nel comunismo è la nostra salvezza. Tutto ciò che non è comunista dev’essere respinto, avversato, denigrato ».
(1) Paolo Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana.
(2) Georges Palante, La sensibilità individualista.
(3) Max Stirner. L’unico e le sue proprietà
COS’È IL MARXISMO
Ma cos’è dunque il comunismo marxista, que­sta Buona Novella predicata dall’ebreo di Treviri e ac­cettata ciecamente dai manovali insoddisfatti che sogna­no diventare commissari del popolo ?
Il marxismo è una teoria che si basa sul materia­lismo storico il quale indica nel fattore economico l’as­soluto che determina, a priori, i fatti e li vincola nella successione di un ordine prestabilito che culmina fa­talmente nella società senza classi.
Capovolgimento dell’hegelianesimo esso sostitui­sce all’idea assoluta di Hegel il bisogno materiale; e questo bisogno materiale, questo bisogno economico, crea la storia, ne dispone anticipatamente lo svolgimento e la porta, attraverso la contraddizione progressiva de­gli interessi, all’annientamento di ogni contraddizione e al benessere universale. L’uomo non è che un fantoc­cio senza volontà, uno schiavo dei crampi della fame che lo costringono a pensare e ad agire in un certo mo­do, a seguire una via già tracciata e a raggiungere, dopo lotte e conflitti predeterminati, una meta im­mancabile. E la storia, che segue le rotaie obbligatorie del fatalismo materialista, non può mai cambiare dire­zione ma deve passare per le stazioni regolamentari e fermarsi necessariamente all’ultima d’esse.
« Nella produzione sociale della loro vita — ha scritto Marx — gli uomini accedono a rapporti determi­nati, necessari, indipendenti dalla loro volontà ; rappor­ti questi di produzione i quali corrispondono ad un grado determinato della evoluzione delle forze produt­tive materiali. La struttura economica della società è costituita dall’insieme di questi rapporti di produzione i quali formano la base reale su cui si eleva la superstruttura giuridica e politica, cui corrispondono deter­minate forme della coscienza sociale. Il modo di produ­zione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale, in generale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, per converso, è la esistenza sociale che determina la loro coscienza (1) ».
In questo modo il materialismo storico nega alla forza morale ogni funzione nella determinazione degli avvenimenti umani. I sentimenti, la volontà, l’ideale non hanno alcuna efficacia propria, alcuna influenza reale nella vita, ma non sono che le apparenze illusorie di un determinismo materiale sul quale non esercitano nessu­na azione. E’ l’interesse economico che guida il mondo, e gli uomini si riducono a semplici pedine mosse dall’impulso di quest’interesse materiale alla cui spinta irresistibile non possono reagire.
Ma la realtà è ben diversa da come Marx la rap­presenta. L’uomo ha certamente dei bisogni economici, ma ha pure dei bisogni sentimentali, ideali, passionali, e come i primi agiscono sui secondi, così questi agiscono sui primi. Molte volte l’uomo esplica la sua attività conformemente al proprio interesse materiale e si forma le idee che a tale interesse corrispondono; ma quando un’idea spontanea balena nel suo spirito o un’ignea pas­sione si scatena nel suo cuore, subisce l’influenza di que­ste forze morali e ad esse subordina o sacrifica l’interes­se materiale.
« L’uomo è fatto cosi — ha spiegato Dostoevskij — chiunque sia e in qualunque luogo si trovi, vuole agi­re come gli pare e non come gli dettano la ragione e l’interesse. Si può volere contro il proprio interesse, qualche volta se ne è obbligati. Il giuoco della propria volontà, il proprio capriccio più stravagante, la fantasia più folle, ecco il più vantaggioso di tutti gli interessi, quello che non si può ridurre in alcuna classificazione e che manda al diavolo tutti i sistemi e tutte le teorie. Dove dunque i saggi hanno trovato che il volere dell’uomo dev’essere, innanzi tutto, normale e virtuoso ? Perché si sono immaginati che egli sia guidato da una volontà diretta verso la ragione e verso il profitto ? L’uomo invece non vuole che l’indipendenza a qua­lunque costo (2) ».
I marxisti obbietteranno che simili casi sono pa­tologici, individuali, ma che la vita sociale è sem­pre determinata dagli interessi materiali e dai contrasti che fra questi si manifestano. Però, non di rado, nella storia si sono visti gruppi, masse, popoli, trascinati da un’idea o da un sentimento, qualche volta anche da un’assurdità o da una follia, trascurare i loro interessi materiali ed agire contr’essi, a vantaggio dell’interesse spirituale che più fortemente sentivano. L’egoismo umano non è semplicemente materialista, non mira soltanto alla sazietà del ventre, ma tende al soddisfaci­mento di tutti i bisogni fisici e psichici dell’uomo; e quando questi ultimi prevalgono sugli altri, egli li appaga a detrimento del benessere e delle como­dità del corpo. Se cosi non fosse non potremmo spiegar­ci il gran signore Bakunin incatenato nella cella di Alessio, il principe Kropotkine agitatore rivoluziona­rio in Europa, il conte Tolstoj contadino nella steppa. Non sapremmo comprendere Paolo di Tarso e Fran­cesco d’Assisi, Carlo Pisacane e Cesare Battisti e do­vremmo vedere i rappresentanti tipici dell’umanità e della sua azione, sana e normale, nel panciuto capi­talista sfruttatore e nell’operaio scioperante per un aumento di salario. L’uomo è uomo e non suino ed an­che quando insorge contro ogni vincolo etico e ogni legge sociale, per la completa affermazione dell’io, pro­fessa l’egoismo eroico e dionisiaco di Nietzsche o quello romantico e negatore di Stirner, ma non l’ignobile panciafichismo di Pantagruel.
« E’ il succo che fa l’albero; — ha scritto Réclus — sono le idee che fanno la società. Nessun fatto sto­rico è meglio constatato di questo »(2).
Perciò, contrariamente a quanto asseriva En­gels, le cause determinanti di questa o quella metamor­fosi o rivoluzione sociale, devono ricercarsi non tanto nelle metamorfosi della produzione e dello scambio, quanto nelle teste e nei cuori degli uomini.
Il cristianesimo e le crociate, la riforma e la ri­voluzione francese, sono state più opere dell’idea e del sentimento che non degli interessi materiali.
V’è poi un’idea antichissima che s’è profonda­mente incisa nell’umanità, che ha scatenato guerre, rivoluzioni, deliri, fanatismi, ed ha operato sui co­stumi, modificate le condizioni dell’esistenza sociale, esercitata un’influenza enorme sulla vita di tutti i tem­pi: questa è l’idea di Dio.
Ebbene essa è sorta, originariamente, per un’e­sigenza dello spirito sulla quale il bisogno economico non poteva esplicare alcuna azione. Se ci atteniamo al metodo materialista e positivista, cioè al metodo dei marxisti, dobbiamo ritenere che l’idea divina è nata nell’uomo primitivo come effetto della incomprensione dei fenomeni naturali ( lampo, tuono, grandine, terre­moto ), e della paura della morte. Quindi Dio è stato creato, dai nostri lontani progenitori, per l’appaga­mento di un bisogno psicologico sul quale non potevano influire gl’interessi ventristici né il modo di produzio­ne. Frugivoro o carnivoro, meglio o peggio nutrito, con l’ascia di pietra o con la lancia di ferro, associato nel branco o vivente in famiglia, qualunque fossero state le condizioni della sua esistenza materiale, il selvaggio della preistoria avrebbe sempre sentito il terrore della fine e si sarebbe immaginato che la causa di una fol­gore o di un uragano fosse un essere invisibile, più potente di lui. In seguito gli interessi materiali si sono cristallizzati intorno a questa idea perché alcuni uo­mini hanno voluto farsi credere i rappresentanti del dio sulla terra, onde trarne ricchezze e privilegi. Ma al principio, alle origini, nessuna causa economica po­tette operare sul sorgere della credenza religiosa. Dio nacque dai tormenti dell’anima, non dai crampi della fame.
Non è dunque vero che l’uomo sia e sia stato sempre determinato dal solo fattore economico il qua­le è, nella filosofia marxista, ciò che è l’idea in quella di Hegel. Se non esistessero fattori diversi che agiscono su noi, se tutto si riducesse ad un assoluto da cui ogni co­sa deriva, se la vita materiale e quella ideale e sentimen­tale si identificassero nell’indistinta unità di un monismo inconcepibile, allora a quest’assoluto immanente, a quest’unico tutto, non si potrebbe dare il nome di fattore economico.
Noi infatti conosciamo per distinzione, individuia­mo i vari aspetti della realtà dai loro caratteri peculiari, ravvisiamo il colore rosso per mezzo della sua diversità dall’azzurro e dal verde, e il fatto economico per la sua specifica natura che gli conferisce una propria fisionomia e gl’impedisce di confondersi con i fatti non economici. Ma se la realtà è indifferenziata, se il palpito del cuore e il baleno dell’intelligenza, la passione per l’idea e la lotta per il cibo, sono manifestazioni varie di uno stesso bisogno materiale che determina l’uomo nel pensiero e nell’attività pratica, allora questo solo bisogno non si potrà identificare con una delle sue forme. Non si potrà dire, cioè, che esso è economico perché sarà, contemporaneamente, spirituale, ideologico, senti­mentale, come un uomo non è soltanto una testa, ma è anche un corpo, un pensiero, una sensibilità, ecc. Non essendovi più nature, distinte ed autonome, l’unica natu­ra assoluta non comporterà distinzioni ; essa avrà tutti gli attributi e le qualità e sarà, nello stesso tempo, eco­nomica ed ideale, sentimentale ed affettiva. Come si po­trà allora dire ch’essa è economica e che, come tale, in­fluisce sull’intelletto e sul sentimento quando questi formeranno con l’economia una sola e stessa cosa ? L’assolu­to non ha nome e Marx, per essere coerente, non dovreb­be dire che l’uomo è determinato dal bisogno economico ma bensì dall’assoluto.
Ma Marx e i marxisti sostengono che il bisogno eco­nomico non è assoluto, come l’idea hegeliana, ma è invece relativo. Ciò significa che, al di fuori di ciò che è econo­mico, esiste qualche altra cosa che non è economica e che ha una natura propria e una vita autonoma. Allora perché, sempre e in tutti i casi, l’economico dovrà determi­nare il non economico e mai esserne determinato ? Perché non vi sarà reciprocità d’influenze ma condizioni di dipendenza di un elemento dall’altro ?
Marx vuole che il relativo faccia la parte dello assoluto. Egli asserisce che il bisogno economico gover­na tutti gli altri, costringe l’uomo ad agire sempre in un certo modo, cioè conformemente ai suoi interessi mate­riali, e dispone anticipatamente l’azione futura e la con­catenazione dei fatti che determina a priori. Ma se Marx fosse conseguente alla sua premessa sulla relatività dell’economico, riconoscerebbe che il relativo non può diventare assoluto, che l’interesse materiale influisce sugli altri interessi ma n’è anche influenzato, che l’esi­stenza sociale determina talvolta la coscienza, ma tal’altra è la coscienza che determina l’esistenza sociale.
Giungerebbe allora alla conclusione che l’uomo, combattuto da diverse ed opposte tendenze, da interessi contrastanti, agisce in vari modi e che perciò, nella sto­ria, sorgono sempre elementi nuovi che cambiano l’orien­tamento, la direzione generale; che i fatti non sono, quindi, determinabili a priori ma conoscibili a posterio­ri, e che l’umanità non è obbligatoriamente incamminata verso una meta prestabilita, il comunismo finale, ma cambia continuamente la meta e non s’arresta mai.
Ma se Marx e i marxisti ammettessero ciò do­vrebbero rinunciare al materialismo storico. E, privo di questa base, il comunismo non sarebbe più la fatale real­tà dell’avvenire.
(1) Karl Marx, Opere
(2) Dostoevskij, Lo spirito sotterraneo.
(1) E. Réclus, Evoluzione e Rivoluzione.
L’UTOPIA COMUNISTA
Il processo dialettico della storia si risolve nel co­munismo, insegna Marx. La serie delle contraddizioni economiche si conchiude nell’annientamento di ogni con­traddizione. La guerra di classe ed il contrasto degl’inte­ressi porta alla scomparsa delle classi e alla conciliazione degli interessi nella società socialista. L’armonia univer­sale è la meta finale della evoluzione sociale.
Ma perché tutto ciò? Perché dalla lotta deve na­scere la pace, dal conflitto l’accordo, e dall’opposizione fra la tesi e l’antitesi deve hegelianamente prodursi la sintesi? Non potrebbe darsi che la lotta rimanesse eterna e che l’umanità travagliata si dibattesse fino al giorno della morte fra i tormenti dei contrasti economici e d’ogni altro genere?
Il marxismo è fatalista. La prassi è volontarista. La volontà umana crea la storia ma la crea combattendo contro la volontà degli altri uomini che non si arrendono alla sconfitta e tornano alla riscossa. La tragedia uma­na, nata con Adamo o col pitecantropo, durerà fino all’ultimo uomo. L’Eden rimarrà il sogno dei sociologi sognatori che evadono dalla realtà per rifugiarsi nell’il­lusione.
Pertanto le utopie passate sono state, in un certo senso, anch’esse volontariste. Le città del sole erano un ideale, cioè una meta che la volontà si proponeva e cercava raggiungere. Platone e Campanella, Herzen e Bakunin tennero conto dell’uomo, del suo sentimento, del suo volere. Il marxismo afferma invece che l’armonia sociale è il prodotto fatale della storia, l’estremo termine cui arriveremo per effetto del determinismo economico ed indipendentemente dalla volontà umana. Non si com­prende allora perché i comunisti si sforzano di realizzare, con ogni mezzo, la loro società, quando potrebbero con­templarsi l’ombelico e attendere che la pera matura cadesse da sé.
Il comunismo dimostra che la concentrazione dei capitali ed il conflitto d’interessi fra borghesi e proletari, indurrà questi ultimi ad espropriare i primi e a statizzare i mezzi di produzione. Lo Stato proletario, super potente, investito di tutte le autorità e di tutte le mansioni, preparerà le condizioni necessarie alla sua soppressione. Quando tali condizioni saranno raggiunte anche lo Stato proletario scomparirà, come già saranno scomparse le classi; e dalla economia di Stato si passerà all’economia sociale, cioè alla socializzazione dei mezzi di produzione, al loro possesso ed uso da parte degli individui produt­tori associati, ed al consumo comune dei frutti del lavoro collettivo. Dal socialismo si passerà al comunismo, dalla formula « a ciascuno secondo il suo merito » all’altra « a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue forze ». Sarà, in una parola, il comunismo a-statale di Bakunin, di Kropotkine, di Malatesta; solo che que­sti volevano giungere ad esso direttamente, mediante l’immediata abolizione dello Stato e della proprietà; Marx e i suoi seguaci ci vogliono invece arrivare attra­verso lo Stato accentratore e la dittatura del proletaria­to.
Ma proprio qui è il nocciolo della questione. Po­trà lo Stato bolscevico distruggere le classi ed impedire che ne sorgano altre, realizzando cosi la uguaglianza eco­nomica fra gli individui che, avendo raggiunto la parità nel benessere e nel lavoro, faranno a meno della direzio­ne governativa e si reggeranno solidalmente e comunisticamente?
Marx e suoi discepoli rispondono di si. Io credo il contrario. Perché, ammesso l’egoismo umano e l’invinci­bile bisogno che l’individuo avverte di prevalere sugli altri, ne risulterebbe che quei proletari che sarebbero alla testa dello Stato e dovrebbero amministrare la ric­chezza nell’interesse pubblico, finirebbero per usarla co­me loro proprietà personale, profittando dell’autorità che li consacrerebbe, delle leggi che promulgherebbero e delle baionette che li sosterrebbero. La proprietà sta­tale diverrebbe praticamente la proprietà dei commis­sari del popolo, dei funzionari boriosi, dei pezzi grossi del mondo marxista; e si formerebbe una nuova classe privilegiata che deterrebbe la ricchezza e il potere e sfrutterebbe ed opprimerebbe la maggioranza del prole­tariato.
I papaveri rossi vorrebbero tenere, per sé, terre, ville e palazzi, e sfoggiare lusso e fare lavorare gli altri per loro, non solo per il godimento materiale di tutto ciò, ma anche per distinguersi ed affermare la loro superio­rità sull’operaio della fabbrica e sull’umile contadino. Avverrebbe quel che è avvenuto in Russia dove Stalin e i suoi tirapiedi dispongono d’ogni cosa, della vita dei sudditi e dell’opulenza borghese; dove una casta di parvenus rapaci s’impingua col sangue dei lavoratori, li costringe a produrre fino all’esaurimento fisico e li sfrutta esosamente alla maniera schiavista. Chi protesta, chi reclama un trattamento più umano, riceve nello sto­maco le pallottole dei fucili della polizia o, nella migliore delle ipotesi, finisce ai lavori forzati in Siberia. E lo Stato comunista, il famoso Stato del proletariato, non è altro che lo Stato despotico, burocratico e poliziesco che riabilita il defunto zarismo.
Il metodo marxista non conduce perciò alla sop­pressione delle classi e all’uguaglianza economica ma crea una nuova classe predatrice, in luogo della spode­stata, e acuisce le disuguaglianze sociali. Né, d’altra par­te, la socializzazione immediata, il comunismo diretto senza il preludio della statizzazione, porterebbe neanche esso alla livellazione perfetta e alla completa pa­rità fra gl’individui collettivizzati.
Ammettendo che fosse possibile realizzare il co­munismo libertario di Kropotkine, rimarrebbero nel seno della nuova società moltissimi uomini che non si contenterebbero di dare secondo le loro forze e di prendere secondo i propri bisogni, ma vorrebbero vivere a modo loro, tentare altre esperienze, creare altre forme sociali. Essi non si soddisferebbero mangiando, bevendo, divertendosi, lavorando con la comunità poche ore e dedicando le altre libere alle inclinazioni personali conformizzate dall’influenza ambientale. Non vorrebbero essere come tutti e fare ciò che tutti farebbero. La pro­prietà collettiva di ogni bene materiale ed il consumo co­mune li esaspererebbe anche se fosse la sorgente dell’ab­bondanza e del benessere generale. Essi griderebbero che l’uomo non è fatto per la vita del formicaio o dell’arnia, che i mammiferi si differenziano dagli insetti e che l’essere umano, anche quando ha distrutto le catene della proprietà privata, sacra ed inviolabile, e dello Stato che la protegge, cerca realizzare modi diversi di vita, forme opposte che talvolta si tollerano o si aiutano, ma altre volte cozzano l’una contro l’altra.
Invece la società comunista a-statale, ossia quella società a cui Marx vuole arrivare attraverso la dittatura del proletariato ed alla quale Kropotkine crede possi­bile giungere direttamente per mezzo della rivoluzione, è concepibile solo come un immenso gregge di montoni, legati fra di loro e costretti sempre a muoversi tutti in­sieme. Ed il legame che manterrebbe uniti i montoni è concepibile solo come un immenso gregge di montoni, sarebbe il comune spirito gregario, quello spirito che è nel fondo della nostra natura, che l’uomo ha ereditato dallo scimpanzé socievole da cui egli, secondo Kropotki­ne, discende, e che solo le condizioni, anormali ed in­naturali, create dalla società, passata e presente, sono riuscite ad attenuare, suscitando le diversità, le oppo­sizioni e le lotte fra gl’individui umani. Ma quando la società attuale crollerà e l’influenza degenerante ch’essa esercita sugli uomini scomparirà definitivamente, allora, per effetto delle nuove condizioni
( imposte con la forza dalla dittatura del proletariato, secondo Marx, o accet­tate volontariamente dagl’individui socievoli, secondo Kropotkine ), lo spirito gregario si ridesterà e si rinvi­gorirà, la comune essenza umana prenderà il sopravven­to sull’originalità personale e infine la distruggerà. Quin­di il monismo ed il conformismo più assoluti si instau­reranno nell’umanità, tutti accetteranno spontaneamente un solo sistema sociale ed economico, il comunismo, e seguiranno una stessa norma di pensiero ed una stessa regola di condotta. Non vi sarà più bisogno dello Stato e delle leggi che costringono, quando tutti vorranno la medesima cosa ed agiranno in modo uguale. Le ultime rare e patologiche rivolte individuali saranno soffocate dalla massa unanime ed il pesante grigiore del gregari­smo trionfante costruirà, sui cadaveri delle personalità ormai distrutte, il nuovo e grottesco tipo dell’uomo col­lettivo.
Fortunatamente quest’aspirazione del comuni­smo è destinata a rimanere eternamente irrealizzata perché, per natura, l’uomo non è tutto di un pezzo, tutto bestia da gregge. Esso è invece un essere contraddittorio, con tendenze e bisogni, sociali ed antisociali, che si con­serveranno in ogni forma di vita. Quindi il marxismo non sfocerà nel pecorismo universale, ma praticamente, non andrà oltre lo stalinismo che, in luogo dell’indistinta moltitudine senza classi e senza Stato, crea un nuovo Stato elefantiaco, retto despoticamente da una classe di parvenus, crudeli e rapaci. E il kropotkinismo, se un giorno si realizzerà, metterà capo alla Comune autonoma in cui la norma di condotta non sarà stabilita dall’unanimità dei consensi, ma bensì dal volere della maggioranza imbonita dai demagoghi e dai mae­stri d’imbrogli. Naturalmente questa maggioranza, riu­nita nell’areopago, fulminerà l’ostracismo contro coloro che non si conformeranno al suo tenore di vita. E tutto andrà come nella città greca e nel Comune del medioevo dove la fazione più forte opprimeva e bandiva l’altra nemica.
Però, siccome fra le comuni autonome nascereb­bero inevitabilmente contrasti, rivalità e guerre, per evitare queste sciagure si cercherà federarle. E nascerà cosi la Federazione delle Comuni, retta da un Comitato di coordinazione che segnerà a tutte la linea da seguire e l’imporrà, con la forza, a quelle riottose .Dunque si avrà un altro potere centrale e, in nome dell’anarchia, il nuovo Stato anarchico.
Il comunismo, marxista o kropotkiniano, di qua­lunque genere e di qualunque marca, non potrà mai attuare il conformismo universale ed il mondo dei fan­tocci uguali. Ma, per mantenersi, dovrà sempre basarsi sulla imposizione e la violenza, la sbirraglia e la ga­lera.
* * *
Ammettendo però, contro ogni verosimiglianza, che il conformismo economico, imposto dal comunismo, potesse diventare la realtà di domani, riuscirebbe esso a fare scomparire ogni attrito e ogni conflitto e a realiz­zare pienamente l’armonia universale ?
I marxisti credono di si perché, secondo il loro semplicismo materialista, gli uomini sono tante pecore uguali dominate soltanto dal bisogno del ventre; e quan­do tutti hanno la pancia piena, vivono in pace e si trovano sempre d’accordo.
Io invece sono convinto del contrario, avendo dell’uomo una diversa concezione.
Infatti se pur fosse possibile eliminare le cause economiche che spingono gl’individui gli uni contro gli altri armati, la guerra durerebbe ancora essendovi al­tre cause, antropologiche e psicologiche, che determinano i contrasti. Oggi io sono costretto a pugnare contro i miei simili per un tozzo di pane e una femmina. Domani il comunismo mi riempirà lo stomaco ed il libro amore metterà a disposizione della mia lascivia tutte le donne delle quali avrò desiderio. Ma, malgrado ciò, io conti­nuerò a battermi per fare trionfare le mie idee contro quelle altrui, o perché sarò invidioso della forza o dell’intelligenza del vicino, o anche perché m’inspirerà an­tipatia. Il cozzo delle passioni e degli ideali genera fra gli uomini odi ben più implacabili di quelli che nascono dal cozzo degli interessi. Un sentimento o una fede, un’inclinazione contrariata o una convinzione combat­tuta, possono spingere alla pugna meglio che la sete dei godimenti materiali. Ed è vano dire che quando saranno risolte le contraddizioni degli interessi economici e si procederà ad un’organizzazione razionale della vita, l’uomo perderà gl’impulsi antisociali e armonizzerà spontaneamente con i suoi simili. Invece l’uomo non è determinato dall’interesse e dalla ragione, come credono i materialisti e i razionalisti: egli è un essere estremo, antinomico ed irrazionale, ha sentimenti diversi ed op­posti, passioni ardenti e contraddittorie e vuole soddi­sfarle tutte, vuole fare il bene quando sente fare il bene e il male quando sente fare il male. L’uomo pre­tende la libertà ma questa non è il primato della ragione sull’oscuro fondo psichico, ma invece è la libertà del capriccio, della fantasia ,dell’istinto, la libertà roman­tica, individualista, che si ribella al giogo della ragione e del benessere obbligatorio.
Un grande psicologo che ha sondato le profondità abissali dello spirito, Dostoevskij, ha scritto a tale proposito:
« C’è un caso in cui l’uomo si propone cosciente­mente delle sciocchezze, delle assurdità: ed è per avere il diritto di desiderare l’assurdo e di non essere legato dalla necessità di desiderare solo quello che è ragione­vole. Allora questo capriccio, questa cosa assurda, è per noi più vantaggiosa di qualunque altra cosa. Essa ci è utile anche se ci procura un male evidente, se contraddi­ce le conclusioni più sane dei nostri giudizi concernenti i nostri interessi, perché, in tutti i casi, tutela quello che per noi v’è di più essenziale e di più caro, vale a dire la nostra personalità e la nostra individualità (1) ».
La vita non è retta da leggi razionali od econo­miche, non è regolata da contegnose formule inamidate o da fredde teorie deterministiche, ma
« è un’inesauri­bile sorgente d’imprevisto e di sempre nuova ricchezza, forza tumultuosa e feconda che va al di là dei progno­stici e dei programmi umani, per affermarsi secondo un suo ritmo segreto ».
L’uomo non è tutto d’un pezzo, non è tutto logico o utilitario, ma è un essere problematico e misterioso che si rivela in modo continuamente nuovo perché si abbandona alle diverse ed opposte passioni che prorom­pono dal suo fondo oscuro. La ragione non riuscirà mai a disciplinare queste passioni come mai riuscirà a sot­tomettere la vita alle sue regole. Nietzsche ha detto che « le passioni cattive ed antisociali, odio, invidia, cupidi­gia, spirito di dominazione esistono profondamente, es­senzialmente nella vita (2)»; e Dostoevskij ha insegnato che « la natura umana non è riducibile alle operazioni della ragione. Vi sarà sempre un resto d’irrazionalità che sarà la sorgente della vita ».
Perciò l’armonia sociale è una vana chimera. Nel mondo non s’istaurerà mai quel regno di « vigliacchi felici » dei quali parla Lecomte de Lisle con disprezzo. L’uomo ha bisogno della lotta per sviluppare completa­mente la sua personalità, per temprarsi nel pericolo, per osare e trionfare. E quanto più ricca e complessa è la sua anima tanto più si abbandona ad impulsi contrari e si batte per cause sante come per cause malvagie, tripu­diando nella libertà arbitraria dell’uomo sotterraneo di Dostoevskij o del superuomo di Nietzsche.
Quelli che vogliono imporre il bene universale e pretendono trasformare il mondo in un Eden sono come il Grande Inquisitore nei «Fratelli Karamazov»: dei tiranni fanatici che violentano la vita, opprimono l’u­manità e versano fiumi di sangue per la realizzazione di un impossibile sogno.
L’idea della fratellanza universale ha avuto al proprio servizio gli auto-da-fe e la ghigliottina: oggi ha il colpo alla nuca della Ghepeù (3).
Stalin discende da Torquemada.
(1) P. Dostojewski, Lo spirito sotterraneo.
(2) F. Nietzsche. Al di là del bene e del male
(3) Oggi la polizia politica russa ha cambiato nome. Ma è sempre la stessa cosa.
A TU PER TU CON LA SETTA
Durante trent’anni di lotta rivoluzionaria mi sono trovato spesso con i comunisti in Italia e all’estero, in carcere o al confino. Ho avuto cosi agio di conoscerli a fondo e di comprendere quale grave pericolo essi rap­presentano per l’avvenire dell’umanità.
Fra noi, fin da principio, si è manifestata una reciproca e violenta antipatia. I servi di Stalin mi de­testavano ed io li attaccavo tutte le volte che ne avevo l’occasione. Il nostro dissidio non era determinato sol­tanto dalla diversità di idee ma anche dall’irriducibile opposizione dei temperamenti.
Io ho l’anima inquieta e tormentata del romanti­co, un’anima dionisiaca, refrattaria all’imbrigliamento e assetata di lontananza. La mia eccessiva sensibilità, le mie ardenti passioni, il disperato anelito verso una vita nuova e una libertà sconfinata, mi rendono fratello di quei lirici, vagabondi e nostalgici che, durante il XIX° secolo, cercarono al di là di ogni stabile ordine le più folli ebbrezze. Con Nietzsche potrei spiegare le ve­le e partire sognando un caldo sud tropicale o una Grecia vestita d’indaco immarcescibile; con Stirner po­trei dirigermi verso un futuro caotico ed invocare una scapigliata anarchia, licenziosa come una baccante dai seni erti e dai capelli al vento; con Baudelaire potrei aspirare l’avvelenata fragranza dei fiori del male ed impazzire nel desiderio di una bellezza che scende dal cielo o dall’inferno ma rende meno sozzo l’universo e meno pesante il tempo.
Però con Gramsci o con Togliatti, con Roveda o con Boretti, non potrei mettermi in un treno popola­re e andare a Mosca. No ! La mia natura si ribellerebbe…
I comunisti non sono degli uomini; non sono nemmeno delle bestie; sono degli automi, privi di sen­timenti, freddi come il ghiaccio ed azionati soltanto dal fanatismo che in loro non è una passione o una fede intensa, qualche cosa che brucia internamente e spin­ge alla lotta e al sacrificio, ma un dovere razionale uti­litario. « La mia ragione — dice il bolscevico — mi di­mostra che il mio interesse di proletario è di diven­tare comunista. Perciò entro nel partito, ubbidisco di­sciplinatamente ai capi, mi voto interamente alla ca­usa e soccombo anche al suo servizio. Ma tutto ciò lo faccio sempre per un interesse materiale, per socializ­zare la ricchezza e creare un mondo nuovo nel quale io — se sopravviverò — e tutti gli altri lavoratori po­tremo mangiare e stare bene ».
Naturalmente il comunista ha anche la speranza inconfessata che nella società futura potrà mangiare un po’ più degli altri ed esercitare un’autorità come com­missario del popolo o agente della Ghepeù o, in man­canza di meglio, come custode sovietico dei monumenti vespasiani. Quella di comandare, di dettar legge, è una passione comunista. Mangiare e comandare: ecco i due soli bisogni del bolscevico cosciente. All’infuori di que­sti non ve ne sono altri. E siccome il comunismo promet­te il soddisfacimento delle due supreme esigenze, il bol­scevico lotta fanaticamente per l’avvento di Stalin.
Ma questo fanatismo freddo, materialista, dettato dalla ragione la quale dimostra che è meglio soffrire og­gi per godere domani; questo fanatismo basato sul cal­colo e privo d’ogni slancio di sentimento, di ogni calore d’ideale, d’ogni soffio di sogno, è quanto di più mostruo­so si possa immaginare. E’ la sola forza motrice di crea­ture dall’anima inaridita e dal sangue gelato, l’unico sostituto delle passioni umane che mancano, per un ca­priccio della natura, o che sono state soffocate dall’edu­cazione marxista.
Avvicinate un seguace di Stalin: vivete con lui; rimarrete sbigottiti dall’assoluta assenza d’ogni sensibi­lità, dalla freddezza glaciale di questa macchina verni­ciata di minio rosso. Ascoltate le sue definizioni: il sentimento: una debolezza, roba da donnicciola isterica. La pietà: una svenevolezza da signore con la pancia piena. L’amore: una menzogna; non esiste che il biso­gno sessuale; possedere una donna è come bere un bic­chier d’acqua. L’arte: un lusso da borghesi, una cosa inutile; distoglie dalla lotta politica. L’ideale: la traspo­sizione ideologica degl’interessi di classe. La volontà: un’apparenza illusoria del determinismo economico su cui non esercita nessuna azione. La realtà: il bisogno del ventre.
Voltaire diceva che leggendo le opere di Rousseau sentiva il desiderio di camminare a quattro zampe. Io, dopo aver parlato con un comunista, sento la necessità di una scorpacciata di spaghetti.
Un geometra siciliano, V. G., che conobbi in car­cere a Genova nel 1925 ed ho rincontrato nel 1937 nell’isola di Tremiti, dov’era confinato politico come me, si dilettava di poesia. Quando gli chiesi, alla presenza
dei suoi compagni, se avesse più scritto versi, arrossì. Si vergognava d’aver speso per la lirica il pensiero e il tempo che doveva dedicare unicamente all’idea.
Il professore Torelli (quello che confonde il Khantismo con l’idealismo gentiliano) mi diceva che all’umanità è più utile un tornitore meccanico che un poe­ta. «-Dante e Shakespeare valgono meno di un operaio specializzato ; la poesia non serve a nulla » affermava con tono di superiorità. Io però gli rispondevo che sono inutili solo i professori universitari che danno le lauree alle bestie come lui. Litigavamo e, trasportato dall’ira, una volta gridò: « Si, dei poeti non sappiamo cosa fare. Quando verrà il comunismo li metteremo a scaricare carbone nei porti ».
La zelante staliniana Domenica Montemartini, che trovai a Tremiti nel 1935, mi riferì entusiasticamente che in Russia le donne lavorano come gli uomini, nelle fabbriche, e fanno anche le fuochiste, le manovali ecc.
« Ciò non è giusto — osservai — perché la donna non può sopportare lavori pesanti. Dinanzi ad un alto­forno la sua pelle si brucia, la sua carne perde ogni mor­bidezza e ogni candore. Se la costringi a portare pesi la sua schiena si curva. Se la metti a limare o a piallare le sue mani si sformano. La donna non può compiere che quei lavori leggeri che non le fanno perdere la sua bellezza ».
La Montemartini scoppiò a ridere.
« Della bellezza possiamo farne a meno — repli­cò. — Nella società comunista vi saranno donne con le mani grosse e callose e coi corpi curvi ma la produzione aumenterà ».
E’ in nome di questo gretto utilitarismo che i bolscevichi vogliono sacrificare all’incremento della pro­duzione materiale ogni altra cosa. Per la loro miopia materialista quando l’uomo ha la pancia piena è sod­disfatto e non sente nessun altro bisogno. Le esigenze dell’intelletto e del sentimento non esistono, la vita si riduce ad una scodella di riso e ad una bistecca, la fe­licità è nello stomaco sazio.
Anche le donne, snaturate dall’educazione co­munista, hanno perduto gli attributi della femmini­lità, si sono mascolinizzate nel senso peggiore della pa­rola, ostentano brutalità, ruvidezza, sgarberia, in di­spregio alla grazia e alla finezza del loro sesso. Non conoscono l’amore, negano il legame affettivo, ammet­tono solo la funzione fisiologica. Quando si danno, per foia bestiale, chi le possiede ha la sensazione di accop­piarsi con una cagna. Poi, dopo l’amplesso, lasciano l’uomo senza un bacio, senza una carezza, e se ne vanno coi compagni a parlare del piano quinquennale e della sagacia di Stalin.
Una di queste femmine che in un albergo di Napo­li venne a letto con me, profittò dell’occasione per ten­tare di catechizzarmi. Mentr’io, spossato dalla lunga battaglia, abbandonavo la testa sul suo seno e bevevo il profumo della carne giovane e fresca, lei, invece di par­larmi d’amore, mi parlava di comunismo.
Annoiato dalla predica che, in quel momento, era più che mai importuna, le chiesi:
« Voi comunisti affermate che l’armonia sociale sarà il prodotto fatale della storia, che l’accordo generale e permanente fra gli uomini si realizzerà come con­seguenza di condizioni che dovranno ineluttabilmente verificarsi. Ebbene perché volete imporre violentemente la dittatura del vostro partito e schiacciare tutti quelli che non pensano come voi? Perché instillate nei vostri compagni il fanatismo, l’insensibilità, la crudeltà, allo scopo di trasformarli in settari perfetti, votati unica­mente alla causa e decisi a farla trionfare con ogni mez­zo? Lasciate che tutto vada per il suo verso, non lottate, non cospirate e ciò che deve avvenire, per effetto del de­terminismo economico, avverrà ».
« Ma noi vogliamo accelerare il processo storico, affrettare il disfacimento della società capitalista » ri­spose pronta.
« Ma il processo storico non si lascerà accelerare da voi e si prenderà tutto il tempo che vorrà. Perciò se la smetterai di raccontarmi tante sciocchezze e mi ba­cerai sulla bocca e mi dirai che mi vuoi bene, nell’anno 3100 il marxismo s’istallerà ugualmente nel mondo, grazie alle infallibili leggi che regolano il corso degli umani eventi ».
La zelante bolscevica si stizzì, saltò dal letto, si vestì e andò via senza rivolgermi una parola. Ed io dovetti passar solo la notte, lanciando benedizioni a Stalin e Carlo Marx.
L’ebreo di Treviri, nei suoi saggi su Fueurbach, ha abbozzato una filosofia della prassi che si avvicina a quelle altre filosofie maggiormente sviluppatesi in se­guito e che tendono a superare il dualismo gnoseologico, la distinzione fra io e non-io. Il soggetto pone l’og­getto il quale reagisce sul soggetto che l’ha posto.
L’io si rappresenta il mondo, lo fa sentendolo, rappresentandoselo; il mondo, ha detto Marx, non è il dato ma il prodotto dei sensi. Però tutte le rappresen­tazioni e le sensazioni dell’io vengono dal mondo; io
non posso pensare, volere e sentire che nelle forme che il mondo determina, cioè non posso pensare, volere e sentire che le cose che il mondo mi offre e nel mo­do come me le presenta. Per conseguenza non è possibi­le stabilire dove finisce il soggetto e dove comincia l’og­getto e viceversa. La materia, per Marx, non è come per i materialisti antichi, la materia in sé, indipendente dalla sensazione umana, ma la materia che io faccio col mio sentire, la materia sensibile, relativa all’uomo; però questa materia reagisce su me e mi determina coi bisogni che mi dà, coi bisogni materiali, economici.
Questa filosofia si basa su di una premessa dalla quale partono anche altre filosofie ben diverse da quel­la marxista; ma è appunto una tale premessa che nego. Io non mi sono fermato sulle vecchie posizioni Khantiane ma non ho mai potuto superare il dualismo di soggetto ed oggetto. Io non so se le cose sono poste da me, come pretendono gli idealisti, oppure se le cose esistono in sé, fuori di me, come assicurano i realisti. Non so se la sensazione sia la reazione allo stimolo che il mondo og­gettivo esercita sui miei sensi oppure se sia, invece, uno stato di coscienza che si estende nella rappresentazione spaziale e quantitativa come asserisce Bergson. Ma so bene, però, che io esisto e che come io, come soggetto, mi distinguo dalle cose che pongo io oppure che esisto­no in sé (fuori di me) come noumeno, secondo l’agnosti­cismo, oppure come realtà conoscibile, secondo lo gnosti­cismo razionalista.
Io sono una realtà ed il mondo ne è un’altra; ed io so che io ed il mondo non formiamo una sola e stessa cosa perché posso pensare e sentire in me anche altrimenti da come il mondo determina. I mistici pensano e sentono l’infinito, vogliono anzi annientarsi in esso; pure l’idea dell’infinito non può essere inspirata dal mondo delle creature e delle cose finite. Vi sono nel mio fondo dei bisogni essenziali, delle tendenze radicate, che non pos­sono venire dal di fuori, non possono identificarsi con l’effetto di cause esterne, perché nell’esterno manca l’e­lemento che, influendo sulla interiorità dell’anima, le susciterebbe. Allora è possibile stabilire dove finisce il soggetto e dove comincia l’oggetto. Dove si trova, uni­to a quello che corrisponde al di fuori, qualche cosa che è soltanto mia, che non trova rispondenze esteriori, v’è l’io. Invece, dove comincia un mondo estraneo che in­fluisce su me com’io reagisco su esso, perché fra noi vi sono affinità ed opposizioni ma giammai identità, s’inizia l’oggetto.
Che poi quest’oggetto sia posto da me (secondo l’i­dealismo) o esista in sé, (secondo il realismo), è questio­ne che non mi interessa e che, in ogni caso, non può di­struggere la distinzione fra soggetto ed oggetto. Perché se l’oggetto è posto da me, dal mio spirito (individuale, secondo il solipsismo, universale, secondo l’idealismo), allora questo spirito rappresentandosi l’oggetto, proietta in esso se stesso. Ma non è necessario che, nella proiezio­ne, vi sia tutto lo spirito proiettantesi. Lo spirito può non proiettare il suo fondo ultimo, l’essenza di se stesso, proprio per mantenere in se qualche cosa che lo distin­gua e lo contrapponga all’altra parte di se stesso, che ha estraniato da sé, per rappresentarsela come oggetto.
Invece se soggetto ed oggetto sono realtà distinte ed esistenti ciascuna in se stessa, la conseguenza è che possono influire l’una sull’altra ma fino ad un certo pun­to, oltre il quale il soggetto resta soggetto e l’oggetto resta oggetto. L’essenza di ciascuno rimane qual è e non subisce la influenza dell’essenza opposta.
Quindi, sia alla luce della filosofia idealista come di quella realista, l’io è un fatto innegabile che non può essere annientato nel mondo da cui si distingue .
Come non può essere confuso o identificato cogli altri io, con gli altri spiriti, con i quali ha, si, molte affinità ma unite ad una propria essenza, ad un proprio modo di essere, che lo distingue e lo separa da tutti.
Questa constatazione contraddice ugualmente il dualismo di Tomaso d’Aquino che si risolve nell’ade­guazione dell’intelletto alle cose, come il monismo ideali­sta di Hegel ed il monismo materialista di Marx che giun­gono all’immedesimazione finale fra l’interiore e l’este­riore. Però questa stessa constatazione spinge anche un filosofo relativista, che non riconosce altra realtà all’infuori della fenomenica, a ritenere che, fra tutte le ipo­tesi metafisiche, la più accettabile sia quella pluralista.
Quando spiegavo tali cose alla dottoressa Z. (che oggi dev’essere un pezzo grosso oltre il sipario di ferro) mi rispondeva che io sono (che vergogna) un idealista, e che l’io è un’illusione, l’individuo non esiste.
« Già il tuo Marx ha detto lo stesso — risponde­vo. — L’individuo è un’astrazione, la realtà è l’essere sociale. Ma vorrei sapere come potrebbe esistere una società se non vi fossero gl’individui che, associandosi, la formano. L’individuo, invece, può esistere anche sen­za la società, ritornando selvaggio ».
« Ma questo è che volete voi anarchici — rispon­deva la dottoressa. — Volete il ritorno allo stato di natura, siete seguaci di Rousseau. Ma come sarebbe pos­sibile oggi ritornare indietro? Il macchinismo porta al
collettivismo, la civiltà industriale crescente tende ad un’organizzazione sempre maggiore nella quale l’indi­viduo sarà assorbito, scomparirà. Nel mondo futuro non vi saranno più tipi romantici, individualità, ma rotelle del meccanismo sociale ».
La dottoressa Z. è una donna sui trent’anni, bion­da, piacente, non completamente mascolinizzata, come le altre comuniste, e capace di conquistare la simpatia di un uomo. Con me non è mai venuta a letto, quantunque glielo abbia proposto parecchie volte, e perciò mi è ri­masto il desiderio insoddisfatto delle carezze che avrei voluto prodigarle.
Ma, in quel momento, invece di carezze le avrei dato uno schiaffo. Con quanta voluttà, con quale im­menso compiacimento, parlano i comunisti dell’annien­tamento dell’individuo …
Essi non hanno che un fine: la spersonalizzazione. Vogliono smorzare i colori vivaci dell’individualità nell’uniforme grigiore della massa in­differenziata» Sognano una umanità di automi, perfetta­mente uguali, che si muovono meccanicamente nella ca­serma industriale. Aspirano ad un vita regolata e disci­plinata nei più minuti particolari, ad una vita che sia come un orologio di precisione. Odiano l’originalità, il libero, l’imprevisto, il romantico. E lodano tanto l’or­ganizzazione e la scienza perché credono che la scientificizzazione del mondo produrrà il tipo che essi desi­derano. L’uomo senza sentimenti e senza spontaneità, l’automa.
Nietzsche ha scritto che occorre dare alla vita un senso eroico. I comunisti vorrebbero darle un senso mec­canico. Ma il macchinismo crescente, l’industrialismo esasperato che spersonalizza l’uomo, non sono tendenze fatali della civiltà. Esse possono essere frenate e si può impedire che l’individuo sia trasformato nella rotella di una macchina .
Romantico e individualista, per temperamento e per convinzione, io dovevo necessariamente rompermi con i comunisti sebbene, al par loro, mi battessi contro la società borghese. Passionale e lirico cercatore di ver­gini foreste e di tropicali ebbrezze non potevo rinchiu­dermi nella caserma industriale insieme coi bolscevichi dal sangue di pesce e dagli occhiali a stanghetta.
A tu per tu con la setta, in Italia e all’estero, in galera e al confino, le ho sputalo sul muso il mio di­sprezzo.
RICORDI DEL ‘20
Nel 1920, all’età di 16 anni, cominciai a lottare contro la società borghese e contro i bolscevichi, odiosi rappresentanti del nuovo ordine, totalitario e demago­gico, che doveva raccogliere l’eredità del capitalismo morente.
Ero allora fuggito di casa, sottraendomi alla di­sciplina paterna che pesava duramente su me e avevo raggiunto a Milano Errico Malatesta, ritornato pochi mesi prima da Londra.
Nato a Caserta in una famiglia borghese, cresciu­to in mezzo a gente che andava in chiesa tutte le dome­niche e aveva il culto delle istituzioni e della conserva­zione sociale, io, studente quindicenne, ero divenuto anarchico per effetto delle letture filosofiche e letterarie alle quali appassionatamente mi dedicavo e, sopratutto, per il mio temperamento ribelle, insofferente d’ogni freno e d’ogni comando.
Quando i miei parenti conobbero le mie idee e seppero che le manifestavo pubblicamente, furono col­piti dalla folgore dello stupore e dell’ira.
« Com’è possibile, Ninnillo, che vuoi fare il pe­troliero, tu che sei nato un signore ? » mi chiedeva, an­gosciata, la mia buona, vecchia nonna.
Mio padre, professore di lettere nei licei dello Stato, temuto dagli studenti per la sua severità e l’inflessibile disciplina che manteneva nella scuola, pre­tendeva impormi la rinunzia delle idee e m’infliggeva i pili spietati castighi nella speranza di piegarmi.
Non ottenne altro esito che quello di farmi fug­gire di casa, dopo cinque o sei mesi di litigi feroci.
Mi ricoverai prima a Salerno, dove fui ospitato dal segretario socialista della Camera del Lavoro, Nicola Fiore; poi andai a Milano da Errico Malatesta per il quale mi consegnò una lettera di presentazione il den­tista napoletano G. I.
Col vecchio agitatore anarchico mi trovai d’ac­cordo nei primi tempi: lo accompagnavo nel giro di propaganda che faceva per l’alta Italia e parlavo in­sieme a lui, nei comizi, impressionando le folle con la mia giovane età e con l’entusiasmo rivoluzionario che trasfondevo nei miei discorsi.
Ma poi, trascinato dal mio temperamento che mi spingeva sempre più a sinistra, divenni un anarchi­co individualista e criticai aspramente la costituzione dell’Unione Anarchica Italiana, sorta sotto gli auspici del Malatesta e dei due luogotenenti Luigi Fabbri e Camillo Berneri.
Sebbene fossi un ragazzo io ero più logico dei papaveri dell’anarchia ufficiale e comprendevo che, or­ganizzandosi, i libertari sarebbero fatalmente caduti sotto una disciplina e sotto la direzione di capi ed avreb­bero cosi finito d’essere senza governo. Comprendevo che il partito soffocava l’anarchia e mi ribellavo a questa miserabile degenerazione che minava l’idea per la quale ero fuggito dalla famiglia e avevo interrotto gli studi. Mi ruppi perciò con Malatesta e mi trasferii a Vigevano presso i compagni di quella città che mi de sideravano come propagandista.
Allora credevo ancora che le folle, convinte dalla mia parola, potessero aiutarmi a realizzare il grande so­gno nichilista, distruggendo tutte le catene materiali e spirituali, tutte le istituzioni e i dogmi, ed instaurando nel mondo la libertà sconfinata per tutti. Non coltivavo l’illusione dell’armonia sociale futura ma ritenevo che la lotta libera, temperata dalle alleanze e dalle intese spontanee, sarebbe stata preferibile all’insopportabile giogo delle leggi e delle morali. Pensavo che nella so­cietà odierna l’uomo, prostrato dall’ubbidienza, non si difende contro i tiranni che l’opprimono e diventa la vittima dei loro soprusi ed angherie. Ma quando cia­scuno non vorrà più sottomettersi all’altro e cercherà vivere indipendentemente, nessuno riuscirà a piegarlo. In un mondo anarchico ogni individuo, senza dio e senza padrone, accrescerà con ogni mezzo la propria forza per servirsene nei casi nei quali non riuscirà ad accor­darsi con i vicini. I forti rimarranno tali ma i deboli, spronati dalla necessità e svincolati da ogni ritegno etico e legale, svilupperanno maggiore energia. L’uomo potrà morire in battaglia: ma fin quando rimarrà vivo sarà libero. E se l’ordine sociale si sfascerà, tanto me­glio. Per troppo tempo abbiamo vegetato nel gregge: ora occorre che la vita sia pericolosa ed intensa. E’ più bello vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora. Malatesta condanna Bonnot ma questi è il vero anar­chico a cui dobbiamo inspirarci.
Animato da tali idee che erano tanto diverse da quelle dei compagni ( ?), spronavo gli schiavi al rove­sciamento dell’esistente. « Ma non basta travolgere i pa­droni attuali — aggiungevo — bisogna impedire che ne vengano altri, che s’instauri la dittatura socialista o comunista. L’uomo deve diventare libero, non deve riconoscere padroni o capi. L’onta maggiore, per un individuo, è quella di ubbidire perché, ubbidendo, dimostra di non sapersi reggere da sé, d’essere come un bambino al quale occorre la tutela e la guida del papà. Ma noi vogliamo fare quello che ci piace, desideriamo in­tenderci o divergere a nostro estro. Voi proletari gridate spesso: Venga Lenin ! Ma non pensate che anch’egli sarà un tiranno che, coi pretesto di mantenere l’ordine, vi farà filare sotto la sferza ? »
Naturalmente questi discorsi garbavano poco ai capoccia socialisti che facevano professione di disinte­resse e dichiaravano ipocritamente d’aspirare al potere solo per il bene del proletariato. Ma io li rimbeccavo in tutti i comizi e gridavo altamente ch’erano dei farabutti e volevano governare per riempirsi il portafogli ed op­primere gli operai. E quand’essi mi rispondevano che tendevo al disordine, replicavo: « Sì, meglio il disordine perché questo non arrecherà all’umanità danni tanto gravi quanto quelli che apporterebbe la vostra ditta­tura ».
A Vigevano ero diventato la bestia nera dei de­magoghi. Quando apparivo nei comizi e chiedevo la pa­rola, al segretario della Camera del Lavoro veniva la febbre. Il 6 giugno 1920 in una pubblica riunione in­detta per protestare contro l’aumento del prezzo del pane, mi espressi tanto violentemente che il commissa­rio di pubblica sicurezza m’arrestò. La folla, invitata da me ad abbattere tutte le autorità e a strappare le ricchezze ai borghesi, assalì i poliziotti. Il commissario fu bastonato, i carabinieri disarmati. Due deputati socialisti, il segretario della Camera del Lavoro e tutti i rappresentanti del P.U.S. se la diedero coraggiosamen­te a gambe. Io, ragazzo di sedici anni, mi misi alla testa della sommossa. Rimasi padrone della città fino alla sera. Poi arrivarono le guardie regie da Pavia e comin­ciò la reazione. Mi sottrassi, per miracolo, alle ricerche e fuggii a Milano. Continuai a svolgere la mia azione di agitatore ma finii per convincermi che la rivoluzione non si sarebbe scatenata.
La temperatura era salita ad alta pressione, le folle bramavano la ricchezza della borghesia e scen­devano nelle piazze con propositi minacciosi ma basta­va un aumento di salario, una concessione insignificante, per calmare i bollenti spiriti e allontanare il pericolo. Rivoluzionarismo da osteria era quello d’allora. Prorom­peva nell’invettiva contro il pescecane ed il governo, tumultuava nei comizi, si esauriva negli scioperi ma non si decideva mai ad imbracciare il fucile e a costruire le barricate. I socialisti, che dirigevano il movimento, si servivano dello spauracchio insurrezionale per terroriz­zare i borghesi e ricattare Giolitti. Ottenevano così tut­to quello che volevano, spadroneggiavano nel Parlamen­to e nel Paese, si assicuravano laute prebende e lucrosi impieghi e a fare sul serio la rivoluzione non ci pen­savano nemmeno. La predicavano nelle piazze per im­paurire i capitalisti e costringerli a cedere alle continue richieste ; ma poi quando vedevano la massa disposta ad agire la frenavano essi stessi, dicendo che non era ancora il momento buono, la calmavano col contentino della paga migliorata e la mandavano nelle bettole a cantare « bandiera rossa » e a gridare, fra un quarto e l’altro, « Lenin verrà ». I proletari pecoroni si mostravano terribili quando i capi rossi posavano ad incen­diari, ma si ammansivano subito e rinunziavano al 48 se un qualunque arruffapopolo del P.U.S. saliva su di un tavolo e diceva che bisognava, sì, abbat­tere la borghesia ma non subito, bensì domani o dopo, quando i capi avrebbero dato il segnale. La gazzarra continuava, gli operai schiamazzavano e scioperavano ma non si spingevano più in là, i borghesi impauriti ri­prendevano coraggio e tutti quei demagoghi, quegli op­portunisti, quei cerca-pagnotte che s’erano riuniti intor­no al vessillo socialista, mangiavano a crepapancia e si riempivano il portafogli. Privi d’ogni idea e spronati soltanto dall’insaziabile fame essi pensavano che sareb­be stata una sciocchezza affrontare la guardia regia e il piombo dei suoi moschetti ora che la greppia era piena e il governo condiscendente. La rivoluzione doveva ser­vire per i discorsi dei comizi ma tradurla nella realtà era tutt’altra cosa. Perché guastarsi la digestione e sfidare i pericoli invece di contentarsi della pappato­ria assicurata e della medaglietta carpita ?
I comunisti, ancora uniti coi socialisti, tuonavano contro i dirigenti del P.U.S. e li accusavano di tradi­mento; ma, in sostanza, non facevano nulla nemmeno loro e rimanevano disciplinati agli ordini dei capi.
Gli anarchici erano pochi e non potevano, da soli, trascinare le masse. Malatesta s’illudeva nella speranza del fronte unico e si lasciava rimorchiare dai socialisti, portando con sé tutti i compagni organizzati, sotto la sua direzione, nell’Unione Anarchica Italiana.
La situazione non appariva promettente ed io comprendevo che la rivoluzione non sarebbe avvenuta e che socialisti e popolari avrebbero continuato ad imperare, adescando le lolle e ricattando la borghesia la quale, alla fine, si sarebbe abbandonata alla reazione. Intuivo che al potere dei demagoghi e dei preti, dei D’Aragona e dei don Sturzo, sarebbe seguito, a breve scadenza, un governo forcaiolo che avrebbe stroncato ogni velleità di sovvertimento e ripristinato l’ordine. E seppur non si fossero avverate queste nere previsioni e la rivoluzione improvvisa avesse travolto il vecchio mondo, che cosa ne sarebbe venuto? L’anarchia che anelavo? No, la dittatura di Bombacci e di Misiano, il despotismo bolscevico di cui io sarei stato la prima vittima.
Malgrado ciò continuai a lottare e mi sforzai di infiammare le masse e di spingerle contro tutti, con­tro la società borghese, il socialismo ed il comunismo, per la realizzazione dell’ideale libertario. Divenni a Dio spiacente ed ai nemici suoi e mentre le guardie regie mi sparavano addosso a Milano, Malatesta mi at­taccava su « Umanità Nova » e, poco dopo, in Lomellina, i socialisti organizzavano contro me un’aggressione alla quale sfuggii per puro caso. Il 29 luglio 1920, a Voghera, commemorai in un pubblico comizio Gaetano Bresci e fui denunciato per apologia di regicidio. Par­lai in altri due comizi e piovvero contro me altre de­nunzie per istigazione a delinquere ed eccitamento all’odio tra le classi sociali. Fui rinviato al giudizio della Corte d’Assisi di Voghera e costretto a fuggire on­de evitare l’arresto.
Ormai ero profondamente disilluso e compren­devo che le masse non solo non avrebbero instaurata l’anarchia ma nemmeno fatta la rivoluzione. Del resto a cosa sarebbe servita una rivoluzione addomesticata che avesse mandato via il re e i borghesi per sostituirli con Turati e con don Sturzo o, anche, con Bombacci e con Misiano? Quale beneficio ne sarebbe venuto se al posto del volpone di Dronero si fosse messo Giacinto Menotti Serrati, colui che era stato chiamato spia n. 8 ed accusato di aver denunziato in America Luigi Galleani al­la polizia ?
La trasformazione radicale della vita, la grande metamorfosi alla quale aspiravo, non poteva tradursi nei fatti perché le folle erano gregarie, non sapevano stare senza il pastore e non lo mandavano via se non per mettersi sotto la tutela di un altro. Non dovevo quindi sperare più nel Muspell sociale dalle cui fiam­me sarebbe nata la giovinezza eroica dell’unico, ma considerare l’anarchia come l’eterna rivolta dell’in­dividuo irriducibile contro tutte le società che si suc­cedono nella storia. Dovevo comprendere che l’eccezio­ne prometea è destinata a combattere non solo gli Stati e le autorità, ma anche l’istinto conservatore delle folle adagiate in un’abitudine millenaria d’ignavia. Dovevo — nell’estrema risolutezza della mia tragica disperazio­ne — accettare questa lotta eterna del reprobo contro tutti e inebriarmi col nepente che dal suo seno stilla.
« L individualismo — ha detto Maurizio Barrés
— è il sentimento dell’impossibilità che esiste di con­ciliare l’io particolare con l’io generale ».
E nel crepuscolo delle mie ultime illusioni, sulla bara dei miei sogni di rigenerazione universale, fissavo gli occhi aperti nella notte paurosa della battaglia senza soste e mi preparavo a tuffarmi nell’insidia delle sue tenebre per cercare le stelle lontane e morire.
Spronato da questi sentimenti li espressi in alcuni articoli che furono pubblicati nella rivista « L’Ico­noclasta » di Pistoia. Ma, in tutta Italia, uno solo fu d’accordo con me, un giovane autodidatta, intelligentis­simo e ribelle, Renzo Novatore che, due anni dopo, cad­de sotto il piombo della sbirraglia feroce.
Invece la miserabile congrega dei pennaioli, semi-anarchici e malatestiani, mi saltò addosso e, dai suoi giornali, fulminò l’anatema. Quei pallidi libertari che sognavano la zuccherata quiete di un’immancabile città del sole di cui aspiravano diventare i direttori d’orchestra dell’armonia generale, si scagliarono furi­bondi contro me e Novatore che propugnavamo un’a­narchia individualistica e prometea, un’insurrezione personale che disfaceva ogni organizzazione sociale, sia pure ipocritamente camuffata con la maschera anarchica. Alla testa della congrega si piazzò il professore di fi­losofia Camillo Berneri che possedeva un’anima vera­mente pretina e tendeva alla costituzione di una chiesa libertaria diretta dalla sua autorità di grande sacerdote.
Berneri, che voleva sostituire un dogma ad un al­tro dogma, una religione ad un’altra religione, una so­cietà, organizzata e moralizzata, ad un’altra società, or­ganizzata e moralizzata, doveva necessariamente odiare chi, come me e Novatore, voleva distruggere tutti i dog­mi, tutte le religioni, tutte le organizzazioni etiche e sociali, per fare trionfare la libertà naturale dell’indivi­duo, sciolto da ogni ceppo e restituito alla spontaneità. Quindi, contro me e Novatore, Berneri vomitò tutta la sua acredine. Ed ebbe gli elogi della chiesa osannante al nuovo inquisitore che chiedeva la testa degli eretici maledetti.
In seguito Berneri divenuto, dopo la morte di Malatesta, pezzo ancora più grosso della congrega anar­chica, riparò in Francia dov’ebbe rapporti, non troppo chiari, con una spia fascista, un certo Menapace. E infi­ne, nel 1937, fu ucciso in Ispagna dagli sgherri stali­niani, per motivi di rivalità fra le chiese contrastanti.
Intanto in Italia, in quell’ormai lontano autunno del 1920, io vivevo giorni tristi ed indimenticabili. Co­stretto a fuggire continuamente, a spostarmi da un luo­go all’altro per evitare l’arresto; boicottato subdola­mente dai compagni in Caino; privo di mezzi e non di­sponendo che dei poveri aiuti che mi forniva qualche raro amico; sentivo che il cerchio mi stringeva sempre più da vicino e non sarei riuscito a sottrarmi alle grin­fie della polizia. Malgrado ciò, di passaggio per Pistoia, conobbi Alfonsina Angioli e m’innamorai di lei. Era una giovane diciannovenne, dagli occhi languidi e sen­suali che scatenavano una tempesta nelle mie vene, un uragano a cui non potevo resistere. La volli e fu mia. Quando partii pretese seguirmi. Sapeva in quale con­dizione disperata mi trovassi, ma ad onta di questa, non volle separarsi da me. Né io, che l’amavo tanto, ebbi la forza d’allontanarla. Pure, stringendola al petto sul sedile di un treno che filava nella notte, pensavo con raccapriccio che, da un istante all’altro, potevo perderla. Bastava solo che un poliziotto mi riconoscesse e tutto sarebbe finito.
A Napoli ci nascondemmo e trovai il modo co­me accordarmi con un marinaio che ci avrebbe fatti im­barcare su di una nave diretta a Marsiglia. Ma, per oc­cultarci a bordo, egli voleva duemila lire: ed io non disponevo nemmeno di duemila centesimi. Mi rivolsi al vecchio ed enfatico leader degli anarchici napoletani ma rispose che non possedeva denaro. Infatti mentre Ciccio Cacozza moriva di fame ed io stavo per finire in galera, lui, l’altruista, il libertario dal cappello alla Gori, lasciava tutte le sere, con un codazzo d’amici, il suo appartamento di via Duomo e se ne andava a gozzo­vigliare in una birreria di piazza Garibaldi. E pagava can i soldi che gli mandavano gli anarchici d’America per aiutare le vittime politiche…
Messo alle strette, dopo il rifiuto dei compagni partenopei, fui costretto a rivolgermi a mia madre. Le chiesi che m’inviasse i soldi all’insaputa di mio padre. Alfonsina servì da intermediaria perché io a Caserta, dov’ero tanto noto, non potevo andare. Lei invece non era conosciuta e poteva abboccarsi segretamente con la mia genitrice senza nessun pericolo.
Ma, malauguratamente, un bravo parente fece la spia a mio padre. Il professore consegnò la ragazza nelle mani dei poliziotti. In questura Alfonsina si rifiutò di parlare, non volle dire dove mi trovavo e la passarono al carcere. Intanto a Napoli, non vedendola ritornare, io ero in preda all’angoscia, al più terribile spasimo, e intuivo l’accaduto.
Il leader anarchico, l’altruista della birreria, mi presentò un guercio, « un buon compagno comunista che simpatizza per l’anarchia ». « Egli — mi disse il leader — è disposto d’andare a Caserta e di informarsi. Se Alfonsina è stata arrestata, incaricheremo un avvoca­to che la farà rilasciare. Lei non deve rispondere di nul­la e non possono trattenerla. E tu la riavrai presto e ve ne andrete insieme in Francia ».
Le parole del leader mi sollevarono un poco, il guercio comunista parti per Caserta e ritornò la sera con mio padre e coi poliziotti che mi arrestarono. Il mio amato genitore preferì mettermi nelle mani dei questurini anziché lasciarmi fuori « a fare l’anarchi­co », come diceva con disprezzo. Sapeva benissimo che dovevo rispondere alla Corte d’Assisi della mia attività rivoluzionaria; ma, per la sua coscienza borghese, era meglio che fossi arrestato perché così « sarebbe finito lo scandalo e il decoro della famiglia non avrebbe ri­cevuto altre offese ».
Il guercio comunista, per premio, ebbe da mio padre una diecina di lire. E se la bevve la sera, all’oste­ria, inneggiando a Lenin, coi compagni.
Io dovevo essere rinchiuso in un carcere di mi­norenni nell’attesa dei processi; ma siccome ci era già la domanda d’internamento in una casa di correzione, avanzata dalla mia famiglia, fui mandato al riformato­rio di rigore « Ferrante Aporti » di Torino.
Li, poco dopo, il direttore ritenendo che in mez­zo agli altri potessi propagandare le mie idee, m’isolò in una cella di punizione. E vi rimasi sei mesi.
A diciassette anni, sepolto vivo in quella tomba nella quale mancavano l’aria e la luce che filtravano ap­pena attraverso la finestra tagliata a bocca di lupo e difesa da una robusta inferriata, io, cosi sensibile e già scosso da tante emozioni, mi sentivo impazzire. L’angu­stia mi soffocava, non potevo fare che cinque passi avan­ti e cinque indietro: dalla porta al muro e dal muro alla porta. Non vedevo mai nessuno all’infuori del guardiano che veniva a portarmi la zuppa ; anche all’aria, nel cortiletto, mi ci mandavano solo durante l’ora regolamentare. Non mi davano libri, non mi permette­vano di fumare, mi trattavano col massimo rigore. L’inverno era venuto, mancava il riscaldamento nella cella ed io gelavo letteralmente. La mattina, alle sei, mi co­stringevano ad alzarmi, ripiegavano la branda al mu­ro al quale l’assicuravano con un lucchetto, e m’impe­divano cosi di sdraiarmi durante il giorno e di cercare un po’ di caldo fra le coperte. In quell’orribile buco, tanto stretto e triste, privo d’ogni distrazione che diri­gesse altrove i miei pensieri e assillato dalla nostalgia e dai ricordi, soffrivo spaventosamente nell’idea fissa di Alfonsina. Comprendevo che non l’avrei rivista più perché sarei uscito dal riformatorio sol per passare in un carcere, dopo i processi e la condanna, e rimanervi parecchi anni. Immaginavo che lei sarebbe finita fra le braccia di un altro e la gelosia mi rodeva. Rammentavo i suoi baci, le sue carezze, i suoi teneri abbandoni, e ne sentivo il prepotente bisogno; poi pensando che non li avrei nuovamente goduti, piombavo in una tetra, mortale malinconia che mi prostrava fisicamente e mo­ralmente.
« Per me si è rovinata — dicevo di continuo — per me ha abbandonata la famiglia che non l’accetterà più in casa. Ed ora che io sono qui come farà per vive­re? Sarà costretta a prostituirsi e finirà luetica in un ospedale? E la polizia continuerà, in odio mio, a per­seguitarla? E quale fine, quale abisso, quale tormento le sarà riservato? ».
Lo spasimo mi rendeva folle, le crisi nervose e i disperati scatti che mi spingevano talvolta a picchiar la testa nel muro con la speranza di sfasciarla, erano se­guiti da cupi abbattimenti in cui rimanevo, per giorni interi, annientato, avvilito, abbandonato al dolore che mi straziava con la sapiente perfidia di un carnefice esperto.
In quell’orribile cella dove l’Italia liberale di Giovanni Giolitti mi aveva relegato, i primi fili argentei si stesero nella mia chioma. E non avevo che diciassette anni!
Intanto in una birreria di Napoli il leader anar­chico e la spia comunista tracannavano bicchieri alla salute della rivoluzione. E pagavano con i soldi del Co­mitato pro vittime politiche, con quei soldi che avreb­bero dovuto servire anche a me per mettermi in salvo all’estero.
FRA I FUORUSCITI
Rimasi un anno nel riformatorio, passando sei mesi nell’orribile cella che mai dimenticherò e sei, am­malato, in un cubicolo dell’infermeria. Poi uscii perché, per i processi politici, ottenni la libertà provvisoria e mio padre, spinto dai nonni e dalla moglie, chiese al Presidente del Tribunale che fossi riconsegnato a lui, quantunque riconosciuto incorreggibile dalla famiglia e dalla legge.
Accompagnato dal professore che mi catechizzò da Torino fino a Caserta, rientrai in questa città e vi trascorsi due anni sotto il tetto domestico al quale non ero ritornato col pentimento del figliol prodigo. Ma infine, stanco delle persecuzioni politiche e dei litigi col papà, ottusamente tirannico, mi trasferii a Venezia. Dopo qualche mese seppi che era stata fissata alla Cor­te d’Assise di Voghera la discussione dei miei processi e, per sfuggire agli effetti della condanna, presi il largo e raggiunsi, dopo non poche peripezie, la Francia.
Quando arrivai sul suolo della repubblica, la mia anima era ancora inebriata dall’aspra bellezza del­le Alpi e dall’altera solitudine delle vette che avevo su­perato con la guida di un contrabbandiere. Però in ta­sca non conservavo che un mazzolino di edelweiss raccolto nella neve a circa tremila metri d’altezza. I pochi bi­glietti da cento che possedevo se n’erano andati per le spese di viaggio ed il pagamento della guida e non sapevo come fare per raggiungere, senza mezzi, Parigi.
A Grenoble trovai un operaio italiano, brav’uomo, che mi accompagnò al circolo comunista. Quando entrai c’era una riunione e, alla folla pigiata in una sala non troppo vasta, parlava un piemontese, il capoc­cia dei bolscevichi fuorusciti nell’Isére. Sosteneva la necessità di coalizzarsi contro il pericolo fascista e di formare un fronte unico rivoluzionario per abbattere Mussolini.
« Tutti gli operai — diceva — siano socialisti o comunisti, sindacalisti o anarchici, debbono unirsi in un sol fascio e dimenticare le divergenze ideali che li separano. Debbono intendersi con spirito fraterno, aiu­tarsi a vicenda e lottare l’uno al fianco dell’altro per vincere la reazione borghese che infuria in Italia ».
L’uditorio salutava con applausi fragorosi queste parole ed il tribuno continuava il discorso trascinando­si nei soliti luoghi comuni della fraseologia bolscevica. Io non avevo mangiato dal giorno innanzi e non sape­vo dove avrei passato la notte; la testa mi girava come una trottola e quella concione che non finiva mai au­mentava il mio malessere. Finalmente il capoccia tac­que, gli parlarono di me e volle conoscermi.
« Sei un compagno anarchico fuggito dall’Italia ? — mi chiese — Hai dei processi pendenti? Bene, bene, ma qui sei al sicuro. Anarchici però non ve ne sono a Grenoble. Almeno io non ne conosco. Vuol dire che, se rimarrai qui, starai con noi. Oggi dobbiamo unirci co­me fratelli contro il nemico fascista ».
Altri comunisti si avvicinarono e mi rivolsero la parola. Mentre discorrevo con loro l’operaio che m’aveva accompagnato chiamò in disparte il capoccia e, di sua iniziativa, prima che potessi impedirlo, chiese un aiuto per me ». E’ una vittima politica che non ha sol­di per andare a Parigi. Diamoglieli noi » disse.
« Ma sei pazzo — rispose l’altro — E’ un anar­chico, un nostro nemico. E vuoi che l’aiutiamo ? ».
« Però tu stesso hai detto ora che dobbiamo af­fratellarci con gli anarchici e coi socialisti per combat­tere i fascisti » replicò l’operaio.
« Si, l’ho detto perché è necessario che vengano con noi, contro il fascismo. Ma dopo li scanneremo im­mediatamente. Sai Lenin che cosa ha detto ? « Bisogna che ci serviamo degli anarchici durante la rivoluzione e che li fuciliamo subito dopo ». Però anche subito se possiamo dargli un colpetto alle spalle, senza clic se ne accorgano, è tanto di guadagnato. Questa è la politi­ca marxista, mio caro ».
I due parlavano a bassa voce per non farmi sen­tire; ma io, che ho buon udito, ascoltavo tutto. L’ope­raio che non condivideva la doppiezza del capo, tornò alla carica.
« Io non credo che sia bene lasciarlo così, in mez­zo alla strada. Non ha da mangiare e non sa dove dor­mire. Come vuoi che faccia ? ».
« Che s’arrangi — ribatté l’altro — Sono conten­to che si trovi negli impicci. Così si convincerà che è ne­cessaria una disciplina nella lotta rivoluzionaria ».
A questo punto, non riuscendo più a frenarmi, raggiunsi i due e, rivolgendomi al capo, dissi:
«Che voi comunisti siete settari ed ipocriti lo sapevo da un pezzo. Ma ho piacere di constatare ancora una volta la vostra immensa vigliaccheria. Ci chiamate in aiuto, con un sorrisetto mellifluo, e tenete pronto, sotto la giacca, il coltello per colpirci. Però qui non fa­rete con noi come avete fatto in Russia. Qui vi rompere­mo le corna. Sappi, per tua norma, mio piccolo Lenin, che se anche mi avessi offerto l’aiuto che, di sua iniziativa l’amico ti ha chiesto per me, io non l’avrei accetta­to .Però tu che ti rallegri delle difficoltà nelle quali si trovo un ribelle, fuggito dall’Italia con tre processi di Corte d’Assise sulle spalle, tu non sei un rivoluzionario ma una carogna ».
Voltai le spalle e andai via. Passai la notte in un edificio in costruzione, seduto su di una pietra. L’indo­mani riuscii a farmi assumere come manovale dal capomastro dei muratori e potei mangiare. Poi conobbi un anarchico emiliano che mi ospitò in una soffitta. Dopo una quindicina di giorni lasciai Grenoble e mi trasferii a Lione.
Giunsi a Parigi ai primi di ottobre. Trovai molti anarchici che avevo conosciuto in Italia e mi presenta­rono ai compagni francesi. Nella redazione de « Le Libertaire » m’incontrai col vecchio Faure e con André Colomer che allora dirigeva il giornale. Frequentai gli ambienti dei fuorusciti e in un caffè di piazza Combat ebbi la ventura di ritrovare Stefano Kolnar che era stato un pezzo grosso in Ungheria, ai tempi di Bela Kun.
Collaborai al periodico libertario in lingua ita­liana «La Rivendicazione» che usciva nella capitale francese. Però le mie idee individualiste mi misero ben presto in rotta cogli anarchici comunisti che, ca­pitanati dai Vezzana, dai Mosca, dagli Erasmo Abate, avevano formato nella « Maison Comune », in rue de Bretagne, una chiesa malatestiana e dogmatica.
lo che avevo osato polemizzare con Malatesta sulle colonne di « Umanità Nova », difendendo l’indi­vidualismo contro il comunismo, ero la bestia nera di quei settari fanatici. Quando arrivò dopo pochi giorni. Armando Borghi con la piccola e gialla D’Andrea e si presentò alla redazione de «La Libertaire» scortato dal cavaliere di cappa e spada Meschi, ci salutammo appena. Ogni domenica, alla « Maison comune » li­tigavo con i fedeli di Sant’Enrico ai quali ripetevo in tutti i toni che la loro Unione Anarchica era un’assurdi­tà e una ridicolaggine e che il comunismo libertario costituiva un equivoco compromesso fra l’autoritarismo bolscevico e l’individualismo stirneriano. Un giorno gli errichisti si scagliarono contro me per aggredirmi; e Pietro Bruzzi, che è stato poi fucilato dai nazisti, ri­cevette un cazzotto da Mosca perché mi dava ragione.
Inoltre criticavo Malatesta per l’atteggiamento, non troppo simpatico, assunto nei riguardi dei bombar­dieri del Diana. Infatti egli era stato arrestato, qualche mese dopo me, come istigatore alla rivoluzione. In Ita­lia s’era già scatenata rabbiosamente le reazione fasci­sta, resa possibile dalla viltà dei socialisti che non ave­vano saputo fare le barricate; e questa reazione, aiutata e sovvenzionata dalla borghesia e dal suo Stato, aveva sentito il bisogno di togliere subito di circolazione l’unico rivoluzionario di una certa serietà che vi fos­se nella penisola. Malatesta, carcerato da parecchi mesi, aveva iniziato a S. Vittore lo sciopero della fame per protestare contro la magistratura che non si decideva mai a fissare la data del suo processo. Ma la magistra­tura non cedeva e Malatesta, dopo vari giorni di digiu­no, estenuato dalla debolezza, stava per morire.
Nessuno si levava in suo favore. Il proletariato, l’eterno pecorone, cornuto e belante, che s’era amman­tato colla criniera del leone per un solo istante ma che, poi, avvilito dall’indecisione e dalla codardia dei suoi capi e terrorizzato dalle manganellate fasciste, era ritor­nato umile e servo come prima, non si scuoteva dall’i­nerzia e lasciava che il vecchio agitatore morisse di fa­me in galera.
I socialisti che s’erano divisi dai comunisti, non pensavano ad altro che a cantarsi corna tra loro. Gram­sci dalle colonne de « L’Ordine nuovo » rovesciava con­tro Nenni tutti gli aggettivi qualificativi pescati nel dizionario dei bordelli, e Nenni (l’attuale, strenuo soste­nitore dei comunisti) rispondeva a Gramsci e ai bolsce­vichi, dalle colonne de « L’Avanti ». servendosi degli epiteti che usano le ciane nei litigi più feroci. Così tra le accuse che si lanciavano reciprocamente, la lotta inte­stina che li dilaniava e la reazione che li indeboliva, non pensavano, nemmeno lontanamente, a muovere un dito in difesa di Malatesta, E, d’altronde, ad essi non avrebbe fatto dispiacere se un negatore dello Stato fos­se scomparso da questa terra.
Gli anarchici organizzati facevano molto rumore ma niente di concreto. Gigi Damiani, dalle colonne di « Umanità Nova », spronava gli altri all’azione dichia­rando che, se nessuno si fosse mosso in difesa del vec­chio, egli avrebbe spezzato la penna come protesta. Ma nessuno si muoveva e Damiani non spezzava la penna proprio perché essa gli serviva allora, come gli serve oggi, per mantenersi uno stipendio di giornalista anar­chico.
Gli unici che intervennero in favore di Malatesta furono gli individualisti. Quegli individualisti che lui aveva sempre combattuto e schernito. Ed agirono non solo per difendere un povero vecchio abbandonato da lutti, dopo una intera vita di lotta rivoluzionaria, ma an­che perché credettero colpire sia l’imbelle rassegnazio­ne delle folle che tolleravano il martirio del loro apo­stolo, sia la bieca ferocia della classe dominante che voleva, con la violenza, mantenere il suo potere.
Boldrini, Aguggini e Mariani fecero esplodere una bomba nel teatro Diana di Milano. Vi furono morti e feriti. L’opi­nione pubblica s’indignò contro gli anarchici. Malatesta, appena conosciuta la notizia, condannò l’attentato e, in segno di protesta contr’esso, interruppe lo sciopero della fame.
Con questa scappatoia si salvò. Altrimenti non avrebbe potuto riprendere a mangiare senza coprirsi di ridicolo e demolire la sua fama di eroe che preferisce morire piuttosto che cedere. E sempre condannando l’attentato del Diana, compiuto da « disperati che non sono anarchici perché l’anarchico crede nell’avvenire », egli si presentò alla Corte d’Assise di Milano, sotto il vello dell’utopista rifuggente dal terrore, e fu assolto.
Ma Mariani, Boldrini e Aguggini, che avevano agito in sua difesa, subirono la condanna all’ergastolo. E furono condannati tanto più duramente in quanto, nel pubblico, tutti dissero che il loro atto era stato cosi infame da suscitare la riprovazione dello stesso Malatesta. E in carcere Boldrini e Aguggini sono morti; ed il povero Mariani ne è uscito dopo 25 anni, stremato e fiaccato, ed è caduto nelle mani dei seguaci di Sant’Er­rico i quali lo hanno costretto a rinnegare il suo gesto.
Le considerazioni non favorevoli all’atteggiamento di Malatesta nei riguardi dei terroristi, le esponevo francamente nelle riunioni della « Maison Comune » attirando contro me le proteste e le ire degli idolatri imbecilli. Mi dicevano costoro che Errico era stato sem­pre coerente perché sempre aveva condannato la rivolta individuale. Ed io rispondevo che, nel caso del Diana, gli era stato più che utile bollare il terrorismo. Litiga­vamo ferocemente e, molte volte, giungemmo alle mani.
Infine però avvenne un altro fatto che acuì il mio dissidio coi fuorusciti d’ogni colore.
* * *
Era stato ammazzato un tale che aveva fatto la spia o che era stato sospettato d’averla fatta.
I giustizieri, com’essi si definivano, volevano in­fliggere il medesimo trattamento anche alla sua aman­te. Vero è che non possedevano nessuna prova e, nem­meno il più lontano indizio, che essa avesse cooperato alla losca attività del defunto. Ma era la sua amica, e bastava. Solo per questa ragione doveva essere spia an­che lei. E, anche a lei, bisognava fare la festa.
Cercai, in un equivoco caffè di piazza Combat, di dimostrare a coloro che mi parlavano del fatto l’assur­dità e la ferocia dell’azione organizzata a danno di una persona che poteva essere innocente. Ma tutti i miei ar­gomenti non bastarono a vincere la testarda ottusità di due imbianchini bolscevichi e di un mano­vale malatestiano. Alla fine, in uno scatto d’in­dignazione che non riuscii a reprimere, dichia­rai che l’omicidio che volevano compiere, era per me, schifoso e che avrei cercato impedirlo anche a rischio della mia pelle. Il manovale allora mi lanciò uno sguardo truce. Poi le sue labbra si contrasse­ro in un sogghigno e, con tono ironico, mi disse:
« Già, vuoi fare il cavalleresco … Come sei buf­fo ! Ti atteggi a don Chisciotte. Ma, se proprio ci tieni, ti darò io un’occasione per appagare il donchisciotti­smo. I compagni hanno scoperto che la femmina bazzi­ca in un caffè della Nation. E li andranno a pescarla per infliggerle la lezione che merita. Tu, che sei tanto cavaliere, vai in quel caffè e proteggila. La riconoscerai facilmente: è una bruna, pallida, vestita di bleù e si chiama Irene. Mettiti al suo fianco e sentirai che busse».
«Questa sera ci andrò, non dubitare. E mandami pure i migliori cekisti cosi farò fare loro la figura di Misiano in Germania. A questa sera, dunque ».
Mi feci dare l’indirizzo del caffè, mi procurai una buona pistola e fui preciso all’appuntamento. La trovai in un angolo, seduta accanto ad un tavolo sul quale un giornale gualcito testimoniava il nervosismo delle mani che l’avevano appena lasciato. Sotto la falda geometrica del cappello che copriva quasi tutta la fronte, gli occhi neri avevano un non so che di misterioso. Lucevano. Nel pallore del viso la bocca rossa spiccava, infondeva un desiderio sensuale, il bisogno di baciarla, di morderla.
Fuori, al di là dei vetri, il nebbione infittiva, av­volgendo la piazza nella sua crescente opacità. Lei guar­dava la porta come se attendesse qualcuno e, ogni tanto, si stringeva nel paltoncino scuro con una mossa freddo­losa. Poteva avere vent’anni o, al massimo, ventidue; ma la sua posa tradiva la donna di vita, la venditrice di amore, turbata e inquieta per mancanza di clienti.
Ed era questa poverina che i fuorusciti volevano aggredire. Era lei la spia, la reproba…
« Siete voi Irene ? ».
« Si, mi conoscete ? » e si volse con la premura che un probabile invito le inspirava.
« Prendete qualche cosa ? ».
« Grazie, un caffè ».
Dopo poco seppi tutto di lei. Il morto era il suo amante, avevano vissuto insieme due mesi. Lui la man­teneva, non le faceva battere più il marciapiede al quale era ritornata, per miseria, dopo il dramma del Faubourg Saint Antoine. Di politica non s’intendeva affatto: non professava né il fascismo, né il comunismo, nulla. Sentiva solo la stanchezza della vita che aveva dovuto riprendere e rimpiangeva la quiete dell’appartamento perduto.
« E non temete che quelli che hanno ucciso il vostro amico possano fare qualche cosa anche a voi ? ».
« A me. Perché? Io sono una donna, non entro nei loro fatti. Poi sono francese, di Cannes. Non ho niente a che vedere con le questioni degli italiani ».
« Ma voi avete cercato difendere il vostro ami­co quando l’hanno aggredito ».
« Io? Ho visto quei quattro che si sono avvicinati al mio tavolo, minacciando lui. Ho cercato calmarli. Poi gli hanno dato addosso ed ho avuto paura, tanta paura. Sono fuggita ».
Ricordando la scena tragica era divenuta più pal­lida ancora.
Nel caffè non rimanevano che pochi clienti. Un cameriere, avvicinato ai vetri, contava nella tasca le mance guadagnate. Fuori la nebbia si confondeva con la sera e in mezzo alla piazza la statua della Nazione, nella vasca dei coccodrilli, veniva come un punto confuso.
La porta si aprì. Tre individui entrarono. Sentii istintivamente il pericolo. Non li conoscevo ma il loro tipo italiano non mi sfuggì. Uno specialmente aveva una faccia truce che ricordo ancora. Sedettero al tavolo ac­canto al nostro e ci guardarono fissamente.
Il cameriere s’era allontanato. Nel caffè semi­deserto non apparivano che quattro o cinque persone, tutte lontane da noi. I nuovi arrivati sembravano com­piaciuti della situazione favorevole.
« Irene » chiamò uno di loro.
«Non rispondere » le dissi piano. Poi continuai in italiano:
« Guarda, Irene, la spesa che ho fatto oggi. Ti piace questo gingillo ? Ho l’idea che questa sera qual­cuno lo proverà ».
Estrassi la pistola dalla tasca e la poggiai sul ta­volo.
« Ma …» fece la ragazza spaventata.
« Taci — la interruppi bruscamente — vieni via ».
Rimisi la pistola in tasca fissando negli occhi i tre che non perdevano nessuno dei miei gesti. Poi, presa sotto braccio la donna, la condussi fuori. Nessuno dei tre si mosse. Nessuno ardì seguirci.
In un ristorante lontano, dove le offrii la cena, la misi al corrente del pericolo. Le raccomandai di non frequentare più i luoghi in cui era conosciuta e di far perdere le sue tracce. Poi le diedi i pochi franchi che ancora mi rimanevano, dopo pagato il conto. Non volli che perdesse la sera.
Quando, riconoscente e stupita, mi chiese se l’accompagnavo in albergo:
« No, non posso — risposi — sono atteso. Debbo lasciarti ».
Avevo tanto desiderio di lei. Ma non intendevo farmi pagare la protezione.
PRIMO CONFINO
1924 — 1933: nove anni di lotta, di tensione, di spasimo. Segnano il periodo più burrascoso della mia vita, la fase acuta della guerra del reprobo contro tutti.
Rientrato in Italia in seguito ad una amnistia non potetti più uscirne. Nel 25 ero in carcere a Genova, nel 33, dopo cinque anni di ammonizione politica, mi trovavo al confino a Lampedusa. Rosa, l’affettuosa com­pagna che aveva con me diviso, per sette anni, miseria, persecuzioni e tormenti, era morta, consumata da quel­la vita d’inferno. La mia famiglia mi aveva rinnegato, mia madre pagava con la sua rovina finanziaria e con l’abbandono del marito, l’amore per il figlio. Un pa­trimonio cospicuo da me ereditato da una vecchia zia, se n’era andato in pochi mesi. Lampedusa accoglieva, nella sua opprimente desolazione, il tragico relitto d’una nave d’alto mare. Tutte le stelle erano svanite, non rimanevano che le tenebre cupe ed il sogghigno della sorte.
Prigioniero in un’isola triste, cacciato fra la mar­maglia nel luridume dei cameroni, scontavo con le più atroci torture il folle ardimento della rivolta, il deside­rio inaudito di trasformare la vita, di adattare il mon­do a me, ai miei sogni prometei, alle mie brame ro­mantiche. E ricordavo, con amarezza, gli ultimi colpi ricevuti, le aggressioni degli squadristi, la persecuzione politica che aveva preceduto la relegazione, e le infami montature ordite a mio danno da un perfido poliziotto, vicequestore di Caserta, che s’era distinto nel vomitare calunnie e nell’imbastire processi a carico del reietto. Intanto nuovi dolori si aggiungevano a quelli vecchi e io mi torcevo fra le catene che m’entravano nelle carni e sentivo, prepotente, il bisogno di liberarmene per ri­cacciarmi nella lotta e colpire tutto e tutti.
Un tentativo di fuga dall’isola falli. Un pescatore che doveva accompagnarmi con la sua barca in Tunisia mi spillò del denaro, poi mi denunziò. Fui immedia­tamente trasferito a Tremiti e nell’arido scoglio che strapiomba a picco sulle onde dell’Adriatico, non tro­vai che rifiuti umani, confinati politici o comuni, privi di personalità, di sensibilità, d’ideale.
Nauseato dall’ambiente a cui non riuscivo ad adattarmi, esasperato dalle restrizioni che il confino imponeva, decisi di rinnovare il tentativo di Lampe­dusa e, all’uopo, m’intesi con Giuseppe Boretti. Giova­ne intelligente, nato come me in una famiglia borghe­se e dotato di cultura non scarsa, Boretti era il solo col quale potessi in quell’orribile luogo, scambiare qual­che parola. Però il suo fanatismo marxista, il suo set­tarismo ad oltranza, lo rendevano antipatico e facevano si che le nostre discussioni degenerassero spesso in aspri litigi.
Educato in un collegio di gesuiti, poi convertito al comunismo, questo figlio o nipote di generale aveva l’anima inaridita dai precetti di Loyola e di Marx e, con la sua mancanza d’ogni sentimento e d’ogni uma­nità; con la passiva ubbidienza all’idea fissa che lo do­minava, accresceva la mia avversione per quelle due rigide discipline che snaturano l’uomo e lo trasformano in un cieco strumento al servizio del cattolicesimo o del bolscevismo.
A ventidue anni egli ignorava l’amore: non sen­tiva il bisogno della donna. Non concepiva l’amicizia e lo confessava francamente. Un giorno mi narrò che a Milano, qualche anno prima, mentre lui ed Amendola scendevano da un’auto, furono circondati da un gruppo di poliziotti che volevano arrestarli. Amendola si lanciò contro i questurini e impegnò una colluttazione. In­vece lui, il rampollo di generale, se la diede a gambe e si salvò con la fuga.
« Ma fu una viltà da parte tua — gli osservai — abbandonasti un amico nel pericolo, lo lasciasti solo alle prese con molti. Avresti dovuto rimanere al suo fianco, batterti e cadere o salvarti col compagno ».
« Come sei fregnone — mi rispose abbozzando un sorriso di superiorità — rimanendo sarei andato in galera e non avrei potuto servire per lungo tempo il partito. Fuggendo avrei conservato la libertà e la pos­sibilità di continuare a rendermi utile al comunismo. Mi conveniva, quindi, la fuga. Cosa m’importa degli amici? E che cosa sono? L’essenziale, per me, è il partito ».
Un’altra volta mi disse che se fossi capitato con lui in Russia mi avrebbe immediatamente denunziato e fatto arrestare.
« E avresti questo coraggio? — replicai — sia­mo stati al confino insieme, abbiamo diviso lo stesso do­lore. Ora cerchiamo fuggire di qui sfidando rischi ed avversità che dovremo affrontare uniti. E tu, « dopo, metteresti nelle mani dei poliziotti rossi chi ha lottato e sofferto con te? ».
« Si, lo farei — rispose egli decisamente — Tu non sei un anarchico come Failla, un anarchico della mezza misura col quale noi comunisti possiamo inten­derci. Tu sei un anarchico vero, un nemico del comu­nismo, e dobbiamo annientarti. Non sai che, per servi­re la mia idea, farei fucilare anche mia madre? ».
Talvolta, mentre sorbivamo il caffè nel bar di Angelina, io guardavo quel giovane seduto di rimpetto, dall’altro lato del tavolo, e mi sembrava di trovarmi dinanzi al seggio del presidente di un tribunale bolsce­vico, di un Fouquier-Tinville rosso che stava per con­dannarmi alla fucilazione. Il suo volto era troppo se­vero per la sua giovine età: dietro i cristalli degli oc­chiali a stanghetta la fiamma cupa del fanatismo bru­ciava in uno sguardo spietato. Sguardo da domenicano dell’Inquisizione, da sterminatore di eretici o pure da giacobino del terrore o da procuratore generale nei sinedri di Stalin.
Boretti mi definiva un romantico decadente e, qualche altra volta, anche « un viveur depravato che si è servito della tribuna rivoluzionaria per passare nel letto delle lavoratrici di Cassano d’Adda ».
Io lo chiamavo un prete rosso e gli consigliavo il riposo nelle brande degli agenti della Ghepeù i qua­li, con i metodi di Sodoma, gli avrebbero iniettato nuovo ardore bolscevico.
C’ingiuriavamo spesso e l’irriducibile opposizio­ne delle idee e dei temperamenti, scavava fra noi un abisso profondo. Però avevamo bisogno l’uno dell’al­tro. Io avevo trovato chi, dietro compenso finanziario, ci avrebbe fornito la barca con la quale saremmo fug­giti in Dalmazia. Egli non disponeva di mezzi per allontanarsi dall’isola, ma poteva procurare le cinque­mila lire che mi erano state chieste del pescatore con cui trattavo. Il piano falli perché il denaro, che doveva giungere clandestinamente, non arrivò. Dopo poco Bo­retti fu chiamato alle armi e, dall’isola d’Elba, dov’era stato mandato, riuscì a passare in Corsica. Io rimasi a Tremiti e subii le più severe restrizioni da parte della direzione che aveva intuito qualche cosa del progetto di fuga.
Passarono tre o quattro mesi e il tentativo che non ero riuscito ad eseguire, per mancanza di soldi, fu invece osato da altri due confinati politici. L’uno, un certo S. detto l’inglese perché aveva trascorso la sua giovinezza in Inghilterra, si trovava a Tremiti per sospetto di spionaggio a favore del governo britannico. M’inspirava una violenta antipatia per il suo carattere ipocrita e melato ed anche per l’attribuitagli qualità di spia.
Conservatore accanito come sa essere soltan­to chi è stato educato nei collegi londinesi, trescava, malgrado ciò, coi comunisti nella speranza di servir­sene al momento buono. I truculenti seguaci di Stalin, gli sbracati rivoluzionari, lucidavano le scarpe di quel­la caricatura di lord che, nella sua inamidata rispettabi­lità e secondo le regole del liberalesimo inglese, si de­gnava onorarli con qualche sorrisetto a fior di labbra che esprimeva la benevolenza del padrone di larga manica ai servi zelanti. E gli araldi del sovvertimento universale si facevano in quattro per andare a compra­re i pasticcini e la marmellata al baronetto di Albione il quale, nella sua squisita munificenza, largiva all’uno dei lacche i francobolli per la collezione, all’altro i soldini per il tabacco e ad un terzo un orologio fuori uso.
Disponendo di qualche biglietto da cento e vin­cendo la formidabile paura che travagliava il suo cuore non certamente leonino, l’illustre rappresentante di SUA GRAZIOSA MAESTÀ tentò la fuga, spronato dal mi­raggio dei ristoranti lussuosi che, sulle rive del Tamigi, offrono ogni comodità ed ogni benessere a chi paga con i soldi, sia pure, dell’Intelligence Service.
Al suo tentativo di evasione si uni Cesare Neri che, essendo giunto pochi giorni prima nell’isola di Tremiti e non conoscendo quale razza di esemplare etico fosse il tacchino dai cinque pasti, partecipò alla impresa trascinato dal suo spirito avventuroso e dall’amore del pericolo.
Neri era uri tipo diverso dall’inglese. Passionale ed impulsivo, ribelle e manesco, come un romagnolo di puro sangue, sempre pronto ad accendersi come un fiammifero ma sincero e leale, conquistò, di colpo, la mia simpatia. Il giorno in cui giunse al confino, appe­na entrato nel camerone, dichiarò a quanti vi si tro­vavano:
« Ragazzi, io sono fascista e convinto delle mie idee. Ve lo comunico subito affinché sappiate con chi avete da fare. Se volete avvicinarmi e rispettare le mie opinioni, come io rispetterò le vostre, tanto meglio. Al­trimenti ognuno tirerà per la sua strada senza dare disturbo agli altri ».
Entusiasta della sua fede ma alieno, come me, da ogni settarismo, egli mi avvicinava sebbene gli aves­si, con altrettanta franchezza, dichiarato che ero anar­chico. Io preferivo la compagnia di Neri, fascista, a quella dei comunisti; Neri si accostava a me e mante­neva a distanza altri tre o quattro confinati che si di­cevano fascisti e facevano le spie della direzione.
Non conoscendo l’inglese, il romagnolo accettò la sua proposta e tentò la fuga con lui. Il pescatore che doveva portarli via, li vendette alla questura. Mentre si allontanavano dall’isola in una barca, un’altra, carica di poliziotti, usci da un’insenatura, in cui s’era tenuta nascosta, e sbarrò la strada ai fuggiaschi. Qualche col­po di moschetto fu tirato, l’inglese, tremando come una foglia, si buttò, faccia a terra, nel fondo della barca e Neri, scattando in piedi, gridò agli agenti:
« Sparate a questi c……, figli di cani ».
Arrestati e tradotti nel carcere di Manfredonia, furono condannati a tre mesi di prigione. Quando ritor­narono nell’isola erano irriconciliabili nemici: in ga­lera avevano litigato e S. covava un odio sordo contro Neri.
Giunse intanto l’avvocato Giacomo Costa, mas­sone, socialisteggiante, ex deputato di Napoli, gran ven­ditore di fumo, ipocrita ed opportunista, diplomatico e posatore come quel bacato parlamentarismo che tanto bene rappresenta. Ben presto i nostri rapporti diven­nero tesi perché io non riuscivo a sopportare le sue arie e tutte le panzane che spacciava per darsi impor­tanza, e lo ribattevo ogni volta.
Un giorno, nell’osteria nella quale pranzavamo, per fare sentire agli astanti ch’egli aveva conosciuto Lenin, mi disse:
« L’anarchia è irrealizzabile. Me l’ha confermato anche Lenin »,
« Secondo lui. Ma dove ve l’ha detto? ».
« In Svizzera ».
« Quando? ».
« Nel 1925 in occasione del nostro ultimo in­contro ».
« All’anima della balla! Lenin ha abbandonato la Svizzera nel 17 e non si è più mosso dalla Russia fino alla sua morte che è avvenuta nel 23 o 24 ».
« Ma se vi dico che nel 25 l’ho visto a Lo­sanna …..».
« Si, il padreterno gli aveva dato il permesso perché venisse a parlare con voi ».
Un’altra volta, nella stessa osteria, cominciò:
« Quand’ero ministro delle finanze a Fiume, du­rante l’occupazione dannunziana, redassi lo Statuto del­la Reggenza del Carnaro che poi D’Annunzio approvò ».
« Già — osservai — voi dettavate a Alceste De Ambris scriveva. Ma quando la finirete di spararle grosse? ».
Costa mi poteva vedere come il fumo negli occhi, ma faceva la corte a Neri perché sapeva che questi era amico di Arpinati. Contemporaneamente lisciava S. pensando che anche l’Intelligence Service è una po­tenza ed occorre, quindi, cattivarsi le grazie dei suoi agenti.
Una mattina, nella piazzetta del Castello nella quale si trovano gli uffici della direzione, eravamo rima­sti a passeggiare soltanto io Neri e Costa. Quest’ultimo ci raccontava che aveva rifiutato il portafogli dell’In­terno nel gabinetto Bonomi e la presidenza del Consi­glio quando Facta rassegnò le dimissioni. Neri lo ascol­tava, io guardavo, con occhio cupido, le forme giunoniche della bella Assuntina, la giovine lavandaia che sciacquava la biancheria fuori casa sua.
« Pochi mesi or sono — diceva Costa — ho in­viato al duce un documento importantissimo, venuto in mio possesso grazie alle relazioni influenti che ho ne­gli ambienti della politica internazionale. Da questo documento risulta che il greco Politis è stato al servi­zio del Negus. Mussolini, accusandone ricevuta, mi ha scritto: «Caro Costa, ti ringrazio del grande servizio che hai reso alla patria ».
Assuntina s’era ritirata nel suo tugurio sottraen­do al mio sguardo la procace rotondità del suo seno vo­luminoso. Stizzito, mi sfogai con Costa:
« Mussolini vi ha risposto diversamente. Egli vi ha scritto: « caro Costa, tu dici balle ed io, per punirti, ti manderò al confino ».
L’onorevole panzerotto, com’io napoletanamente lo chiamavo, assunse un’aria indignata.
« Con voi non si può fare un discorso serio. Siete cosi insolente…..».
Non terminò la frase perché un confinato comu­ne che, dopo aver passato dieci anni a Portolongone, era divenuto a Tremiti segretario particolare del diret­tore della colonia, si avvicinò a Neri.
« Voi sparlate di me — gridò — ma sappiate che vi farò provare i miei cazzotti ».
Parlare di cazzotti a Neri era come invitarlo a letto con una bella ragazza. Il reduce di Portolongone non aveva nemmeno finito la minaccia che un for­midabile diretto lo raggiunse nel viso e lo mandò a battere con la testa contro il muro. Sanguinante e con­tuso egli non tentò nemmeno reagire e se ne andò a farsi medicare all’infermeria. Dopo pochi minuti giun­sero i poliziotti o arrestarono Neri. Rimasto solo m’in­formai e venni a capo della macchinazione ordita a danno del romagnolo. L’inglese aveva spinto F. a pro­vocare Neri sapendo che costui, col suo carattere im­pulsivo, avrebbe menato le mani e sarebbe finito in galera. Subito dopo il fatto due comunisti che non erano stati presenti alla lite ma che il perfido inglese ave­va indotto alla falsa testimonianza con la mancia di venti lire, dichiararono al brigadiere di pubblica sicurezza:
« Noi ci trovavamo nella piazza quando è pas­sato F. Egli non ha detto nulla a Neri, non l’ha provo­cato in nessun modo. Invece il fascista gli è saltato ad­dosso, non appena l’ha visto, e l’ha picchiato ».
Costa, interrogato a sua volta, se la cavò con la solita diplomazia. Non accusò Neri, ma non scontentò S. Rese un dichiarazione sibillina che nuoceva, in fin dei conti, all’arrestato.
L’unico che ebbe il coraggio di dire la verità al direttore della colonia fui io. Gli confermai che i co­munisti non erano stati presenti e avevano deposto fal­samente. E quanto compresi che non voleva prestar fe­de alle mie parole, gridai:
« Lei perseguita Neri perché, a Roma, ha schiaf­feggiato Starace. Perciò accoglie ciecamente le men­zogne dei suoi nemici. Ma si ricordi che ciò che le ho detto lo ripeterò al procuratore del re ».
L’uomo dell’Intelligence Service, per sbarazzarsi dell’avversario, aveva messo a profitto la condiscen­denza di F., il rancore maligno che il direttore della colonia nutriva per Neri e la venalità e l’odio settario dei comunisti.
La montatura portò il romagnolo in galera, ma io spiegai i fatti al pretore di Manfredonia, produssi le prove delle mie asserzioni e Neri, dopo un mese, fu assolto.
All’inglese sputai in faccia il mio disprezzo nel caffè di Angelina. Non osò reagire e, torcendo il collo di gallinaccio, buttò giù tutte le ingiurie che gli lan­ciai sul viso. Dopo qualche tempo cercò vendicarsi ordendo contro me un’altra subdola macchinazione che, fortunatamente, sventai.
Coi comunisti non usai parole migliori di quelle di cui m’ero servito con S.
« Voi dite di non riconoscere la legge e lo Stato borghese e poi vi offrite a questa legge, come testi­moni falsi, per mandare un uomo in carcere. Non vi sembra che ciò sia un’incoerenza, oltre che una viltà? ».
« Niente affatto — risposero — perché Neri è fascista e quando si tratta di colpire un avversario po­litico, noi ci serviamo anche della legge borghese e facciamo la spia. Questo è machiavellismo ».
Dovetti allontanarmi perché il vomito mi sof­focava. Io sono un discepolo di Stirner e di Nietzsche, un amoralista convinto, e credo con La Rochefoucauld che il male ha, come il bene, i suoi propri eroi. Com­prendo Alessandro Magno che conquista l’Oriente e muore di stravizi a Babilonia, Nerone che, per soddi­sfare una fantasia artistica, fa incendiare Roma, Na­poleone che insanguina l’Europa sognando il dominio mondiale, Bonnot che saccheggia le banche e cade eroi­camente a Choisy le Roi, combattendo da solo contro cinquecento poliziotti. Comprendo il tiranno come il ribelle, l’io che si afferma nella libertà, ma disprezzo lo schiavo come la spia, l’io che si umilia, che striscia. Ammetto il male che rende grandi, anche quando non è fortunato, il male che traduce il conato prometeo, la lotta strenua contro il mondo; ma detesto l’abiezione che riduce l’uomo simile ad un verme e lo piega nell’accettazione dell’esistente di cui sfrutta i lati più turpi. Barabba non mi nausea, ma Giuda mi fa schifo. E quest’è, per me, questione di sentimento, non di morale.
I comunisti invece preferiscono l’altro male, quello codardo, avvilente. Dopo pochi giorni che ave­vano mandato in galera Neri, denunziarono un vecchio repubblicano, un certo Ragazzini, che s’era lasciato sfuggire parole offensive all’indirizzo del re. Il vecchio, in seguito alle delazione, si buscò tre anni e mezzo di carcere. E i seguaci di Stalin si liberarono, in tal mo­do, di un odiato avversario che non osavano affrontare per paura del suo coltello.
L’onorevole panzerotto, rotondo ed occhialuto come conviensi ad un futuro presidente della repub­blica socialista, si mise a concorrere, in materia di spionaggio, coi sanculotti bolscevichi e col subdolo in­glese. Per me non nutriva simpatia perché gli spiat­tellavo sul viso le più dure verità. Vantando amicizie e aderenze al tribunale di Foggia, voleva scroccare cento lire ad una povera donna che viveva nella mi­seria e aveva iniziato procedimento per la separazione legale dal marito, farabutto e prepotente. Io che, gra­tuitamente, ero stato l’estensore del ricorso di quella infelice, quando seppi che Costa, per una semplice raccomandazione, pretendeva denaro, non gli feci dare nulla. Panzerotto lo seppe e giurò vendicarsi.
Per rendermi geloso attirò in casa sua Assun­tina, promettendole un compenso finanziario e la sua influente protezione di autorevole uomo. Poi mi fece dire, per mezzo del suo segretario, che aveva chiamato la ragazza per provocare me. Di rimando assicurai il segretario che, prima di sera, avrei rotto gli occhiali dell’onorevole. Costa, ricevuta l’ambasciata, corse im­mediatamente in direzione e mi denunziò. E il diret­tore, che mi vedeva come i cani vedono i gatti, mi fece arrestare e tradurre, in punizione, nella vicina isola di San Domino.
Panzerotto, dopo pochi giorni, fu trasferito a Lampedusa e di li fuggi all’estero. E in Francia, fra i fuorusciti, si atteggiò a vittima del fascismo e ad eroe evaso dal confino. Ma non narrò che a Tremiti si era dedicato alla delazione ed aveva, per sua vergogna, esposto alle rappresaglie poliziesche un altro confinato ben pili ribelle di lui.
SECONDO CONFINO
Dopo tre anni finii il confino e ritornai a Napoli. Ma non vi rimasi che quattro mesi. Il leader anarchico, il settantasettenne altruista che, da mezzo secolo, inneggiava alla fratellanza universale, mi rispedì all’iso­la come, nel 1920, mi aveva mandato in galera, negan­domi i mezzi per salvarmi in Francia.
Sfinito dalla lotta impari che da un ventennio sostenevo, speravo riposarmi, dopo tante battaglie e riacquistare un po’ di fiato. Ma feci l’imperdonabile corbelleria di visitare il vecchio compagno che non vedevo dal ‘32. E questa visita mi costò altri cinque anni di confino.
Enfatico e simulatore, cuor d’oro a chiacchiere ma cuor di piombo nei fatti, l’uomo dell’abbraccio uni­versale mi strinse al seno e dichiarò, fra le lacrime, che si sentiva felice di ritrovare il maestro dell’anarchia,
« il giovane ma valoroso lottatore che non s’era pie­gato sotto la travolgente bufera ». Avendo saputo che, per vivere, davo lezioni private a qualche studente delle scuole medie superiori, egli volle che preparassi anche il figlio suo per gli esami di ammissione al liceo. Do­vetti perciò frequentare giornalmente la casa del caro dottore e, vivendo nella sua intimità, mi convinsi me­glio di quanto già sapevo dal 20 e cioè che il leader nascondeva sotto il vello dell’umanitarismo e dell’u­topismo la feroce avidità del lupo famelico. Tutte le sue svenevolezze per il prossimo, l’esagerato altruismo, l’amore della povera gente, non erano che una masche­ra che celava l’ingorda brama della pagnotta, la sete insaziabile di denaro. I. posava ad anarchico, a socia­lista libertario, a rigeneratore del mondo, per inganna­re e tosare tutti. Cosi aveva potuto mangiare i soldi che i compagni d’America gli mandavano per le vitti­me politiche e la propaganda a Napoli. Cosi, ai tempi del liberalesimo, s’era cattivato l’appoggio e la prote­zione della Massoneria. Venuto il fascismo aveva espo­sto la bandiera tricolore al balcone, nelle feste nazio­nali, e, durante la guerra di Abissinia, aveva anch’egli offerto l’oro alla patria. Però questo non gl’impediva ancora — quando lo rividi — di dire peste e corna di Mussolini e del suo regime con gli antifascisti che lo visitavano. Da cinquanta anni tutti coloro che fre­quentavano la sua casa, venivano arrestati all’uscita, ma lui viveva indisturbato e in carcere non c’era stato che una volta e per pochi giorni. Molti dicevano che, se­gretamente, faceva la spia della questura. Io non volli credere a questa voce e me ne pentii, a mie spese. La sua amante che, per età, poteva essergli figlia, sfrut­tava i meccanici del gabinetto dentistico, maltrattava le cameriere, posava a despota, a tiranna, a Messalina capricciosa e feroce. Egli, l’umanitario, lasciava cor­rere. La contadina rifatta che alla prepotenza del ca­rattere univa la boria e l’arroganza della parvenu, schiaffeggiava la povera serva perché aveva sbucciato male le patate e la mandava via senza pagarla. La serva piangeva, chiedeva perdono, protestava che, subito, non poteva trovare altro lavoro e si raccomandava affinché non la mettessero sul lastrico. La ganza del demagogo, la villana di Lucania, rimaneva irremovibile e indicava l’uscio. E lui, l’altruista, l’uomo dal cuore d’oro, non interveniva, anzi approvava che alla fantesca non fos­sero pagati i servizi prestati. Poi, cinque minuti dopo, cominciava ad imprecare contro i capitalisti che sfrut­tano gli operai ed i fascisti che opprimono il prole­tariato.
Una sera, in casa sua, discutevo con un ingegne­re e dicevo che, per l’individualista, non esistono che due concezioni logiche della vita: l’anarchia o l’impe­rialismo. Il dottore protestò; io spiegai il mio pensiero.
« La libertà dell’individuo non finisce dove co­mincia quella degli altri. Essa termina solo dove si arresta la sua forza. Per soddisfare le mie passioni o per fare trionfare le mie idee, io debbo necessariamente combattere e vincere chi ha passioni o idee contrarie alle mie. Se gli altri mi resistono, se sono individualisti come me e non vogliono riconoscere nessuna autorità, allora fra le libere forze guerreggianti si produce spon­taneamente un equilibrio che oscilla. Ora un piatto della bilancia pende da un lato, ora l’altro piatto pen­de dal lato opposto. Ciascuno sviluppa il massimo del­la potenza per contenere l’avversario e non possono più verificarsi sovrapposizioni definitive, stabili coman­di ed ubbidienze rassegnate. Questa è l’anarchia. Ma se invece gli altri cedono all’attacco, se il loro gregarismo li spinge a curvarsi dinnanzi all’uomo superiore, è naturale che questi eserciti sulla massa amorfa il suo imperio e della massa si serva come materiale per la costruzione del capolavoro della sua grandezza. Tal’è l’imperialismo. Contro ogni despota insorgono, nel ge­nerale servaggio, i pochi uomini che non intendono adattarsi alla schiavitù; ma il despota ed il ribelle sono manifestazioni equivalenti della vita intensa, tro­picale, esuberante che non tollera freni e limitazioni. Perciò l’anarchia e l’imperialismo si avvicinano più di quanto si creda».
« Ma la tua è la morale della forza », osservò, scandalizzato, l’ingegnere socialista.
« E non é l’anarchia — protestò il vecchio lea­der — l’anarchia è amore, fratellanza, libero accordo fra gli uomini in una società perfetta ed egualitaria ».
« Si, l’anarchia dei frati, di Sant’Errico Malatesta e del principe Kropotkine. Perché fosse realizza­bile occorrerebbe che nell’uomo esistessero solo le passioni che la morale ha convenuto chiamare buone. Ma dal fondo oscuro della nostra natura, da quello che Dostoevskij definisce il fondo sotterraneo e Nietzsche il fondo dionisiaco dell’io, erompono, ad ogni istante, impulsi diversi che ci spingono all’amore o all’odio, alla generosità o alla crudeltà, all’accordo o alla lotta. L’io è una realtà complessa e tenebrosa non un essere semplice, facilmente conoscibile e classificabile tra gli animali socievoli. Se mi ricordate, con Aristotele, che l’antropos est politicon, io vi rispondo citandovi la
« Favola delle api » di Mandeville. L’uomo è sociale ed an­tisociale a seconda dei momenti, delle circostanze, delle passioni. L’io, che vuole soggiogare il non io, si palesa talvolta sotto sembianze angeliche, tal’altra sotto il cef­fo di Satana.
Per questo il vostro sogno idilliaco è una utopia. L’impulso all’unità, quell’impulso biologico, fondamentale, di cui parla Bakunin, manca nel gene­re umano ».
Un avvocato socialista che si diceva filosofo e, co­me tale, insegnava al dottore che Voltaire era stato ateo e lo storico Buonarroti, fratello di Michelangelo, portò nella discussione la sua illuminata sapienza. Egli cominciò a dimostrarmi che l’uomo è buono, per na­tura, ma la società lo rende cattivo, e perciò bisogna trasformare la società e distruggere i dittatori, i capita­listi, gli egoisti, ossia tutti coloro che vogliono il male. Cosi, nella società, prevarrà l’ordine perfetto « che già esiste nella natura.
« Questa è un’altra sciocchezza — risposi sorri­dendo — la natura non è idilliaca, come credete, e nem­meno diabolica come asseriscono i cristiani. La natura che noi conosciamo fenomenicamente, ossia nel modo che comporta la conformazione dei nostri sensi e del nostro intelletto, è un insieme di fatti diversi e irriduci­bili l’uno all’altro. E’ una realtà che abbraccia in sé, che comprende nel suo seno, lo spirito e la materia, il cosmo e il caos, l’ordine e il disordine, l’intesa e la lot­ta. Questi elementi sono tutti necessari ed equivalenti: non esistono leggi fisse che li governano e stabiliscono che alcuni debbano sempre rimanere subordinati agli opposti. Quindi se ora, nella realtà, predomina l’ordi­ne, questo non c’impedisce di prospettarci l’ipotesi che, nel futuro, la natura possa cambiare e che, per effetto del movimento di bilancia, il disordine, che oggi è ri­dotto, possa riprendere il sopravvento e cacciare l’ordi­ne in uno stato d’inferiorità. Gli elementi sono equiva­lenti: l’ho detto e lo ripeto. O come manifestazioni di sostanze diverse, necessariamente o fortuitamente associate; o come manifestazioni di una sostanza unica che non può esprimersi se non in forme opposte che sono irriducibili all’unità, in quanto forme, e non potreb­bero identificarsi se non annientandosi ossia rientrando nella indifferenziata realtà della sostanza semplice. Dunque non si comprende perché fra questi elementi equivalenti, tutti necessari alla natura, alcuni dovreb­bero sempre rimanere alla, testa, con funzioni direttive, ed altri assolvere il compito dei gregari ubbidienti e disciplinati. Nella realtà che conosciamo, e in noi stessi che ne siamo parte, si rivelano, fianco a fianco, in uno stato di continua oscillazione, l’ordine ed il disordine. Perché non volete vedere che il primo ed ignorare il secondo ».
« Ma via, lascia stare le sottigliezze metafisiche — protestò l’avvocato. — In verità il disordine non esiste, non è che una nostra illusione. In natura non v’è che l’ordine, costante e progressivo, la regola eter­na. Del resto anche la scienza ci dimostra che l’uni­verso, che esiste da miliardi di anni, è stato sempre ordinato ».
« Bravo, avvocato ! — replicai. — Non ti accorgi che stai sostenendo una tesi molto vicina a quella teleo­logica di Tommaso d’Aquino. Però ti chiedo, entrando nel campo della metafisica in cui proprio tu mi spin­gi: quest’universo ordinato, che esiste da dieci, venti, trenta miliardi di anni, da cosa è venuto? Da una real­tà anteriore, certamente. Ebbene, questa realtà anterio­re non poteva essere il nulla assoluto perché dal niente nasce niente e nessuna bacchetta magica di padreterno poteva operare il miracolo. Dunque doveva essere un nulla relativo, il non essere dell’essere, la stessa realtà attuale che esisteva in modo opposto a quello in cui esiste ora (1). Era il caos in cui tutti gli elementi turbi­nano confusamente. Poi, in seguito, tale caos ha ordi­nato nel suo seno gli elementi confusi ed ha generato una nuova realtà, l’universo. Ma nel suo fondo ultimo, nella sua essenza, il caos è rimasto caos, non si è tra­sformalo ma, unito a quell’altra parte di sé che si è me­tamorfosata, che è diventata universo, ci presenta ora lo spettacolo della natura in cui l’essere ed il non esse­re sono l’uno accanto all’altro e li troviamo in noi e fuori di noi.
Per questo motivo l’uomo non riesce mai a sta­bilire l’armonia nella sua anima fra le opposte tendenze che in essa si sfrenano. Vivere come si sente signi­fica abbandonarsi al sentimento o alla passione che, nel momento presente, si rivela più forte, soggiogan­do altri sentimenti e passioni che, in seguito, prende­ranno il sopravvento. Perciò se l’armonia non possiamo fissarla in noi, come vuoi che possiamo stabilirla, de­finitiva e perfetta, fra noi e gli altri uomini vicini e lontani? ».
(1) Questa ipotesi è tutt’altro che inammissibile. Perfino uno scienziato cattolico, sir Edmund Whittaker, ha concluso le sue indagini intorno all’età del mondo con queste parole: « Questi differenti calcoli convergono nella conclusione che vi fu un’epoca, circa uno o dieci miliardi di anni fa, prima della quale il cosmo, se esisteva, esisteva in una forma totalmente diversa da qualsiasi cosa a noi nota: cosi che essa rappresenta l’ultimo limite della scienza. Noi possia­mo forse, senza improprietà, riferirci ad essa come alla creazione» (Space and Spirit, 1946). Ma siccome la crea­zione dell’assoluto nulla è inconcepibile, si può meglio ri­tenere che alle origini, la realtà esisteva in modo opposto all’attuale, ossia come caos da cui poi è sortito il cosmo. O per propria intima necessità; o per azione ordinatrice di un elemento demiurgico (controbilanciabile, nell’eter­nità, con l’azione di elementi opposti); o per altre cause a noi ignote e, forse, mai conoscibili.
L’avvocato ed il leader anarchico rimasero zitti. Ma la contadina lucana, che non aveva compreso nulla di tutto quanto ascoltato, intervenne nella discussione di­chiarando che io «dicevo storie» e l’amore, che è l’im­pulso fondamentale dell’essere umano, finirà per trion­fare. Imperativamente, con quel tono autoritario che faceva tremare le cameriere, sentenziò che il bene do­veva divenire obbligatorio e i fautori del male, i bor­ghesi sfruttatori, i fascisti assassini che avevano mas­sacrato i poveri negri in Abissinia e i compagni spagnoli, dovevano essere tutti fucilati. Poi sarebbe ve­nuto l’Eden, il paradiso di lattemiele, la società futura della pace e dell’accordo.
In quell’istante la fantesca si avvicinò e mostran­do un piede, spaventosamente gonfio, chiese alla si­gnora il permesso di mettersi a letto.
« No, perché dovete ancora spazzare il salotto e dare la cera ai pavimenti» rispose la contadina rifatta.
« Ma, signora, guardi il mio piede. Mi duole terribilmente e non posso più sopportare questa pena. Se continuo a strapazzarmi, domani non potrò lavora­re ».
« Ed io vi manderò via perché chi sta qui deve guadagnarsi il pane. Se siete ammalata andate all’o­spedale. Ma se rimanete in casa dovete assolutamen­te fare il vostro lavoro ».
La poverina sospirò e si allontanò zoppicando. Io mi alzai nauseato. Rivolgendomi al vecchio imposto­re, dissi:
« Un amoralista che accetta la vita senza esclusioni e riconosce la naturalità e l’equivalenza delle pas­sioni, buone e cattive, ha compassione di quella disgra­ziata e se ne va per non vederla soffrire. La tua fem­mina che posa a umanitaria e vuole il trionfo incon­dizionato del Bene, nega il riposo a un’ammalata. Se i borghesi non conoscono la pietà, lei la conosce meno di loro. E voi tutti, moralisti, altruisti, utopisti, non siete altro che un branco di canaglie e di farabutti ipocriti».
Presi il cappello e uscii. Nei giorni che seguiro­no mi ruppi definitivamente con I. del quale ero stoma­cato. Il sospetto che fosse una spia era stato conferma­to da nuovi indizi e io non volevo mantenere nessun rapporto con un individuo del suo genere.
In una lettera che gl’inviai per significargli il mio disprezzo, dopo aver ricordalo tutte le bassezze che commetteva, conclusi con questa osservazione:
« Tutto ciò mi dimostra che tu non sei anarchico perché, se lo fossi come me, ti comporteresti in modo diverso ».
Il dottore consegnò la lettera alla questura. Im­mediatamente i poliziotti eseguirono una perquisizione in casa mia, sequestrarono la copia del mio scritto ad I. e mi tradussero in carcere. La Commissione Provin­ciale di Napoli, con un’ordinanza in data 25 aprile 1937, m’inflisse cinque anni di confino politico, per profes­sione di fede anarchica.
Ed io ritornai, con le manette ai polsi, a Tremiti.
* * *

Quel maledetto scoglio che, se potessi, farei sal­tare con la dinamite, mi accolse per la seconda volta, nel suo grembo infecondo. E ripresi la vita di prima, vita fatta di noia, di disgusto, di ribellioni represse. Noi confinati non potevamo scendere al porticciolo e dovevamo stare tutto il giorno sulla cima dello scogliaccio, arido ed inospitale, fra le quattro casupole del paese schiacciate dall’imponente vetustà del medioeva­le castello che le sormonta. E andavamo in su e in giù, dalle case al castello e dal castello alle case, muoven­doci in uno spazio fin troppo angusto e camminando su certi ciottoli aguzzi che sfondavano le piante dei piedi. E tutti i giorni non si poteva fare che quello, vedere sempre le stesse cose, incontrare sempre le me­desime persone, ascoltare le voci rauche degli ubriachi che cantavano: « La violetta la va, la va, la va » e le concioni esasperanti dei comunisti che ripetevano mo­notonamente, con le parole obbligate, le lodi della Russia e il panegirico di Stalin.
Intorno poliziotti dalla grinta dura e dallo sguardo inquisitore, mastini feroci che spiavano ogni gesto e ogni parola, pronti per arrestarci. Poi altri ne­mici ancora più insidiosi, i confinati che facevano la spia o inventavano calunnie a danno dei compagni per guadagnarsi così il proscioglimento. I bolscevichi riuniti in conventicola, si prestavano mutuo appoggio, si guardavano le spalle reciprocamente, costituivano un blocco compatto contro il quale l’azione sbirresca-spionistica poteva avere minore presa. Ma quelli che, come me, erano isolati, all’infuori della setta rossa, e contro la polizia e i suoi ruffiani, si trovavano nelle condizioni degl’ignavi nel vestibolo dell’inferno: a Dio spiacenti ed ai nemici suoi. E ricevevano botte da tutte le parti.
Il giorno ci si annoiava. Io studiavo ,altri conver­savano o scendevano e risalivano al castello o si tratte­nevano nelle bettole. Al tramonto suonava la tromba e tutti dovevamo rientrare nei cameroni dove ci chiu­devano e ci lasciavano stare fino al mattino, in compagnia del prurito che procuravano le cimici e del fetore nauseante che le latrine mandavano.
Bella vita era quella, non c’è che dire … Mus­solini non ci passava che sei lire al giorno per ciascuno. E con tale misera somma dovevamo vivere e non bastava per pagare la porcheria che ci davano da man­giare nella mensa o nell’osteria di Ciociò. Però i capi comunisti si arrangiavano diversamente. Con i soldi del soccorso rosso. E, viva sempre Stalin, per loro la vita non era troppo dura.
La setta bolscevica, all’epoca del mio ritorno a Tremiti, era diventata più numerosa e padroneggiante. Alcuni settari continuavano a fare la spia al diret­tore; non solo per ritrarne vantaggi personali, ma anche per incarico del « partito », per meglio colpire, con l’arma della delazione, gli avversari politici. Ma la setta, ufficialmente, manteneva nel suo complesso un atteggiamento di opposizione, legalitaria e formale, all’autorità dell’isola costituita da sbirri venduti al fascismo. Di tale atteggiamento che, praticamente, con­sisteva nell’indurre i confinati alla sopportazione rasse­gnata del regime di confino unita alla inutile ostenta­zione di certe forme di protesta passiva, s’impermalì il direttore Fusco. Era costui il più bel tipo d’idiota presuntuoso che abbia mai conosciuto. Lo stesso che mi mandò in punizione a S. Domino quando volevo rompere gli occhiali dell’onorevole Costa.
Fusco che fisicamente, sembrava un pupazzetto da boite a surprise, con due baffettini tirati all’insù e certi occhietti che sprizzavano vampate di vanagloria, non poté tollerare che gli armigeri bolscevichi non lo salutassero quando lo incontravano in istrada. Non capì che quella era tattica e che gli stessi truculenti staliniani che, pub­blicamente, ostentavano noncuranza o disprezzo per lui, dimostrando così di non essersi piegati, quando poi, isolatamente, entravano nel suo ufficio, si profon­devano in inchini e salamelecchi facendo ammenda del­la loro colpa. Non comprese nulla il povero fesso. Non intuì che coloro che impedivano i tentativi di fuga, le rivolte individuali e anche le sommosse dei molti, spro­nati dalla disperazione, erano proprio Graziadei, Vin­cenzi e gli altri caporali di Stalin che predicavano l’attesa paziente del gran giorno della rivincita, per effetto della politica internazionale. E intanto costrin­gevano i loro seguaci ch’erano la maggioranza dei con­finati, a sottostare a tutte le vessazioni, esprimendo sol­tanto, con gesti beneducati, una contegnosa riprova­zione morale e sociale. Fusco, accecato dalla sua mega­lomania di gendarme semianalfabeta, non si contentò della disciplina, ma volle addirittura la schiavitù e l’abiura. E decretò che i confinati dovevano salutare romanamente, lui ed i suoi agenti, agli appelli gior­nalieri.
Questo ukase suscitò l’indignazione generale. An­che l’asino, quando è troppo bastonato, finisce per tirare calci e la provocazione poliziesca risvegliò, per un istante, i confinati di Tremiti. Tutti si agitarono e i comunisti e gli anarchici dichiararono subito che si sarebbero ribellati all’ingiunzione.
« Noi non saluteremo e non potranno denun­ziarci perché la legge di pubblica sicurezza non stabi­lisce che dobbiamo alzare la mano » — affermarono.
« Ma — replicai — il direttore c’infliggerà suc­cessivamente tante consegne e punizioni che, alla fine, tutti si stancheranno e, prima o dopo, capitoleranno. La resistenza passiva, il gandhismo, segnerà la nostra sconfitta. Per conseguenza, se non vogliamo soppor­tare l’imposizione, non abbiamo altra via che quella d’insorgere improvvisamente, disarmare i pochi agenti che presenziano l’appello, occupare di sorpresa le tre casermette dei carabinieri nelle quali non incontreremo che scarsa resistenza da parte degli attaccati che, non sospettando la rivolta, non saranno pronti a fron­teggiarla. Contemporaneamente un altro gruppo occu­perà l’ufficio telegrafico e distruggerà gli apparecchi. Siccome a Tremiti non v’è stazione radiotrasmittente né alcun altro mezzo di comunicazione, all’infuori del telegrafo, in Italia non giungerà subito la notizia della sommossa e non partiranno rinforzi. Noi, padroni dell’isola, attenderemo l’arrivo del vapore che, proprio domani, deve giungere da Manfredonia, ce ne impadro­niremo e, saliti su, fileremo verso la Dalmazia. Il piano ha molte probabilità di riuscita, data anche la scarsa forza che c’è qui e la sorpresa che sarà il nostro mi­gliore ausiliario. Riacquisteremo la libertà ed infligge­remo un grave smacco a chi ce ne ha privati. Del resto, anche se un fatto imprevisto farà fallire il colpo, soc­comberemo ma lottando e restituendo le botte ».
I capi comunisti e gli anarchici bocciarono la proposta che definirono pazzesca. Cercarono tutti i pre­testi, indicarono tutti i pericoli, anche i più lontani ed i meno verosimili, per dimostrare che la rivolta sarebbe fallita. Cosi nel ‘20, si prospettarono tutte le difficoltà per rimandare continuamente la rivoluzione; così tutte le volte che c’è stata da compiere un’azione hanno sempre trovato la scusa plausibile per tirarsi indietro. A certa gente piace complottare, lavorare nell’ombra, ma non affrontare il pericolo apertamente, alla luce del sole. I bolscevichi sanno sfidare il confino e la galera, ma non la morte. Sono troppo attaccati alla pellaccia per diventare eroi. Pensano che dall’isola si ritorna, dal carcere si esce con l’aureola del martirio e con maggiori probabilità di diventare un grande o piccolo Stalin della prossima dittatura. Ma la morte è la fine d’ogni speranza: occorre quindi schivarla. Il comunista vuole vivere per mangiare e comandare. Il comando non è per lui, come per il superuomo nietzschiano, un mezzo per indiarsi, per realizzare un superbo sogno di grandezza personale; ma è bestiale libidine di oppres­sione, foia tigresca di stringere tra gli artigli, d’impor­re il proprio dominio, il proprio fanatismo, la propria barbarie, soddisfacendo tutti gli istinti e gli appetiti del bruto.
Il giorno seguente, all’appello, vi fu un banale scambio di pugni fra confinati e poliziotti, ma non si an­dò più avanti. La direzione ordinò un centinaio di ar­resti; quelli rimasti fuori si affrettarono a salutare. I capi bolscevichi, con l’avvocato Corrado Graziadei alla testa, non levarono il braccio nel saluto romano, per non discreditarsi presso i seguaci; però salutarono to­gliendosi il cappello. Invece pochi riottosi non fecero alcun saluto, ed io fui tra questi. Arrestati e rinchiusi in un camerone per scontarvi la consegna aggravata, rimanemmo, gandhisticamente, nell’inerzia, per incita­mento dei capi comunisti che erano stati rinchiusi con noi. Il caldo ci soffocava, la mancanza d’aria dava i tor­menti dell’asfissia, un giovane staliniano, già tubercolo­tico, mori dopo quindici giorni, e i generali rossi conti­nuarono a predicare la calma e la resistenza passiva. Nauseato di quella sciocca commedia che non metteva capo ad alcun risultato, io, finito il mese di consegna, mi separai dai ribelli alla Gandhi. I bolscevichi mi criti­carono aspramente, ma, dopo pochi giorni, il loro duce, l’avvocato Graziadei, salutò romanamente, per salvarsi. E fu prosciolto dal confino. Io, invece, rimasi relegato E trasferito da Tremiti a Ventottenne.
* * *
Nell’isola che Settembrini ricorda nelle sue « Ri­membranze » trovai maggiore rigore poliziesco e una più seria opposizione fra bolscevichi e direzione. Quan­to più la polizia gravava la mano, tanto più i marxisti serravano le file, irrigidivano la disciplina, esaspera­vano il settarismo e la ferocia. Molti gregari diserta­vano spaventati dalla severità della sbirraglia o nau­seati dalla tirannia dei capi rossi; e questi, furibondi per i quotidiani abbandoni, esigevano un’obbedienza cieca da parte dei fedeli e invelenivano, con rabbia idrofoba, la calunnia, il boicottaggio, la persecuzione dei non staliniani. Quando un nuovo confinato giungeva a Ventottenne i comunisti lo circondavano immediata­mente, l’attiravano nella loro orbita, gli dettavano la norma di condotta e la regola di pensiero. Tre o quat­tro propagandisti lo sottoponevano a continue iniezioni di dottrina moscovita, gl’implacabili censori, preposti alla sorveglianza e alla direzione dei neofiti, lo accom­pagnavano dappertutto, nel camerone, in istrada, agli appelli, gli spiegavano il dovere e la necessità di aderire al partito e di uniformarsi alla sua disciplina, e gli mostravano i vantaggi che gliene sarebbero derivati e il danno che avrebbe ricevuto mettendosi contro il gruppo più forte del confino. Il nuovo giunto, stordito, assillato, suggestionato, cedeva; e da quell’istante fa­ceva parte dell’armata dei devotissimi e dei fedelissimi, delle macchine umane che sentivano, volevano ed agi­vano come disponeva lo stato maggiore bolscevico.
Ma se il neofita resisteva, se non si lasciava as­sorbire e conservava la propria indipendenza, la più accanita persecuzione si scatenava contro lui. I comu­nisti si passavano la parola d’ordine e cercavano, con tutti i mezzi, di rendergli la vita impossibile. Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno lo avvicinava, tutti gli esprimevano il disprezzo e l’avversione. Gli aggettivi « spia », « manciuriano », venivano soffiati nel suo orec­chio ad ogni istante. Il più penoso isolamento e lo spregio più duro pesavano sul reietto, l’avvilivano, lo schiacciavano. Nel camerone e nella mensa ognuno si ingegnava di fargli qualunque dispetto, di mortificarlo, di offenderlo. Il poverino inghiottiva veleno, masticava amarezza, si torceva sotto il tallone di ferro che pesava sul suo petto, poi finiva per capitolare. I poliziotti ave­vano un bel ripetergli che, se si fosse unito ai comunisti, non sarebbe più tornato a casa; ma lui viveva lì, in quell’ambiente, non poteva rassegnarsi lungamente all’onta del reprobo, dell’appestato, non poteva soppor­tare che i compagni gli sputassero sempre sul viso e lo trattassero come una cosa immonda. Quindi, anche a costo di rovinarsi maggiormente e di allontanare il suo ritorno in famiglia, doveva diventare comunista. Se per tanto resisteva, se mostrava i denti agli aguzzini, allora questi escogitavano altri mezzi; qualcuno, in sua assen­za, nascondeva nella sua branda un oggetto di proprie­tà di un bolscevico; poi il proprietario comunicava ai poliziotti la sparizione dell’oggetto. Gli agenti ese­guivano le perquisizione in tutte le brande del came­rone, trovavano il corpo del reato in quella del povero ignaro e lo arrestavano per furto. La polizia era gab­bata e l’anticonformista punito.
Malgrado ciò molti abbandonavano i comunisti ma, dopo poco tempo erano prosciolti o trasferiti al­trove; gli staliniani invece rimanevano sempre a Ventottenne, costituivano un gruppo compatto, organizzato, disciplinato, possedevano l’eccedenza del numero e riuscivano a dominare il confino e a boicottare chi non si piegava al loro giogo.
Nessuno parlava, nessuno protestava contro i so­prusi dei bolscevichi: la potenza della paura chiudeva la bocca di tutti. Le spie non mancavano ma il contro­spionaggio comunista paralizzava la loro azione e fa­ceva si che i fatti più gravi non arrivassero all’orecchio di quelli che si confidavano con la questura. I seguaci di Stalin agivano con tale subdola maestria che, solo rara­mente, i poliziotti riuscivano a coglierli in flagranza. Ma anche quando si scopriva qualche cosa, cadevano i gre­gari, gli esecutori; i capi davano gli ordini e rimane­vano nell’ombra, spingevano gli altri avanti ma non si compromettevano personalmente, rendendosi cosi inat­taccabili. Essi avevano gli informatori che giornalmente stendevano rapporto di tutto quanto si diceva e si fa­ceva nell’isola; comandavano i fedeli soldati che, con pecorile sottomissione, obbedivano sempre, sia che ci fosse da versare soldi al soccorso rosso o da persegui­tare i non comunisti, sia che si dovesse protestare contro la direzione o creare una infamia per rovinare qual­cuno. E i generali, i papaveri, le eminenze rosse, tirando i fili dietro le quinte, stalineggiavano. C’era da pic­chiare un nemico? Mandavano gli armigeri. Volevano propalare una calunnia contro un inviso? Passavano la parola e, in un momento, lo sciame dei seguaci aveva sparsa la voce. Intendevano avanzare un ricorso al mi­nistero attaccando la polizia? Essi dettavano ed un X fesso firmava attirando su sé il risentimento dei questu­rini e la loro malevolenza. I docili gregari si privavano delle sigarette per versare la quota obbligatoria al soc­corso rosso, e i capi, con quei soldi, prendevano il tè, mangiavano la marmellata, si rimpinzavano di crema e di pollo e offrivano il vermout alle tre o quattro Theroigne di Mérincourt, a scartamento ridotto, che rap­presentavano il comunismo femminile in Ventottenne. Per la grandezza di Stalin e la redenzione dell’umanità i soldati digiunavano e i generali facevano le scorpac­ciate. Ad majorem dei gloriam.
Fra i capi spiccava la figura del lumacone zoppi­cante, del torinese Roveda, reduce dalle patrie galere e perciò adoralo come martire in Italia e all’estero. Alla sua boria ridicola si univa l’arroganza plebea dell’indivisibile compagno Vincenzo Baldazzi, ex coman­dante, in sott’ordine di Mingrino, degli arditi del po­polo e repubblicano alla Stalin nell’interesse del fronte popolare e della propria ambizioncella. Questo tozzo Don Chisciotte ricordava, con la sua grinta, il feroce sonetto col quale il Rapisardi fece il ritratto del Car­ducci nella memorabile polemica fra i due scrittori: «In canin ceffo occhio porcino». Egli era il vero tipo del capo popolo, del Masaniello insolente, presuntuoso, volgare. Raccontava a tutti le vittorie dei bei tempi quando, alla testa dei suoi prodi, sbaragliava i fascisti e schiaffeggiava i consoli della milizia in mezzo alle loro legioni. Non si comprendeva — ascoltandolo — co­me Mussolini fosse potuto entrare in Roma; ma l’ar­cano lui lo spiegava con la scempiaggine di Facta che non aveva voluto affidargli …. i forti della città.
Amico di Roveda e, forse, più settario e traco­tante dei suoi alleati comunisti, egli era a Ventottenne un’autorità fra i confinati che salutavano sulla sua testa il berretto gallonato del futuro generalissimo dell’arma­ta rossa italiana. Accanto a lui ed al santone bolscevico si presentava, alla rispettosa distanza di tre passi, il ra­gioniere Calogero Barcellona, sotto-capo di vaglia, con la compostezza e la regolarità dell’impiegato di banca che ha trascorso l’intera vita a Milano economizzando sullo stipendio di 500 lire mensili. Un po’ dietro, secon­do l’ordine gerarchico, appariva « frate» Caprioli, pic­colo, sfuggente, ipocrita, vero tipo di domenicano dell’Inquisizione e di fanatico provveditore degli autodafé. E al suo fianco, marziale ed indomabile come conviensi all’attendente del generale Baldazzi, marciava Alfonso Failla, barbiere siracusano, intelligentino ed autodidatta ma mafioso, prepotente ed ambizioso, che si diceva e si dice anarchico ma cucinava l’anarchia con tutte le salse nella speranza di diventare qualcuno.
Questi erano i componenti lo stato maggiore bolscevico che dirigeva i confinati politici nell’isola di Ventotene. Erano i tirannelli di quei poveri diavoli che avevano avuto la pretesa di ribellarsi, coi fatti o con le chiacchiere, a Mussolini per poi diventare gli umili schiavi di cinque nullità, despotiche ed esigenti.
Naturalmente, ai generali ed ai soldati, io dissi subito ciò che sentivo. Chiamai « Stalin di cartapesta » i capi, « pecoroni dalle corna ricurve » i gregari. Il ra­gioniere Barcellona che dormiva nel camerone, dirim­petto a me, divenne il bersaglio dei feroci strali che il mio sarcasmo gli lanciava. Quando vedevo ogni sera il suo attendente, un certo Stokovic, triestino, che, in omaggio alla disciplina comunista, gli faceva il letto, gli preparava il tè e si sorbiva le strapazzate senza rispondere, chiedevo allora all’autoritario Calogero per­ché non si decideva a provvedersi di un orinale che il servo fedele gli avrebbe, la mattina, vuotato. I capi bolscevichi pretendevano comandare nei cameroni e nelle mense, imponendosi, non solo, ai loro seguaci, ma a tutti. Stabilivano l’ora in cui i confinati dovevano alzarsi, l’ora nella quale bisognava studiare e quella de­stinata al riposo. Volevano trasformare il confino in una caserma ed esserne i caporali. Tutti ubbidivano, il solo che mostrava i denti ero io.
La prima mattina che gli armigeri di Mosca mi destarono, invitandomi a levarmi, afferrai una scarpa e dichiarai che avrei rotto gli occhiali del ragioniere Barcellona se non fossi stato lasciato in pace. Ma la mia anarchica strafottenza acuì l’odio che i comuni­sti mi portavano e non valse a svegliare gli altri. Ses­santa secoli di vita gregaria hanno trasformato gli uo­mini in pecore e qualunque esempio, qualunque esortazione, non serve a ridestare nel loro cuore la fierezza personale, il senso dell’indipendenza. Incaproniti fino alla nausea, i gregari marxisti continuavano ad obbedi­re supinamente ai capi, subivano rimbrotti e castighi, si facevano consegnare nel camerone col divieto di usci­ta e si attenevano all’ordine di non parlare per un da­to tempo con un compagno al quale era stata inflitta una punizione solenne. Erano come tanti fantocci i cui fili venivano tirati dai vari Bonelli, Roveda, o Baldazzi, cioè dai vari caporalicchi che si allenavano all’eserci­zio dell’autorità staliniana. Il comunista, divorato dal­la libidine del comando, ubbidisce servilmente al su­periore attendendo che possa salire qualche gradino nella gerarchia del partito e prendere il suo posto. Cosi Stokovic faceva il letto a Barcellona sognando il giorno nel quale qualche altro lo avrebbe fatto a lui. Così Franzoni, a Tremiti, usciva di casa lasciando sola la moglie col generale recatosi a visitarla e pensava che, in avvenire, con la greca sul berretto, avrebbe anche lui visitato le mogli dei compagni.
Mentre i rapporti fra me e i comunisti si faceva­no sempre più tesi, seppi che Roveda, l’eroe, il marti­re, il simbolo della resistenza bolscevica, aveva segreta­mente inoltrato al governo una domanda di grazia, un vero e proprio atto di sottomissione nel quale inneg­giava a Mussolini e al regime, datando con l’anno XV° dell’Era Fascista. Nauseato dall’ipocrisia di quel santone che predicava l’intransigenza e spronava gli altri a rimanere sulla breccia, mentre poi, di nascosto, cercava salvarsi recitando la commedia del ravvedimen­to, comunicai a tutti la notizia: « Ecco cosa sono i co­munisti — dichiarai — vili e simulatori. Impongono l’inflessibilità, bollano e perseguitano chi si piega, lan­ciano le più feroci ingiurie e rendono la vita impossibi­le a quei poveri diavoli senza idea e senza passato po­litico che, capitati qui per sbaglio, invocano la clemenza del dittatore; poi, all’insaputa di tutti, inviano anch’essi le domande di grazia e se ne ritornano a casa senza che la platea veda la loro calata di brache. Per la massa rimangono i puri, gl’indomabili, ma a Mus­solini hanno chiesto segretamente perdono ».
Roveda, da me interrogato prima che rendessi nota la sua defezione, non poté negare di avere chiesto al duce il proscioglimento dal confino. Ma cercò prete­sti per attenuare il suo atto e si allontanò masticando amaro; poi con quella perfidia e ipocrisia che sono speciali doti dei comunisti, diede ordine ai suoi segua­ci di sferrare contro me la più schifosa campagna di calunnie e d’infamia. Baldazzi, il Masaniello romano, il generale degradato degli arditi del popolo, si assunse la direzione dell’attacco. Failla, l’anarchico di Mosca, l’attendente di Baldazzi, si schierò al fianco del superio­re e gli passò gli strali avvelenati che avrebbero dovuto colpirmi. Abituato a baciare la mano degli alleati co­munisti che hanno scannato i suoi compagni libertari in Russia e in Spagna ma che a lui daranno il bastone del comando nella natia Siracusa quando Baffone verrà, il barbiere siciliano cercò trafiggermi in tutti modi con l’arma vile della diffamazione, sebbene fino al giorno prima si fosse dichiarato mio amico. La disciplina del fronte popolare gl’imponeva la lotta contro me, quan­tunque sapesse che avevo indubbia ragione; ma il setta­rismo, l’influenza di Baldazzi, la necessità dell’accordo con i capi bolscevichi con i quali è stato sempre cucito a filo doppio, a Ponza ed altrove, lo spingevano a lancia­re spruzzi di bava idrofoba che non raggiungevano nemmeno la suola delle mie scarpe.
Al seguito dei generali i pecoroni gregari, senza cervello e senza volontà, i docili fessi che credono tutto quello che i papaveri dicono e agiscono supinamente come i superiori comanda­no, tentarono boicottarmi, ubbidendo alla parola d’or­dine venuta dall’alto. Allo scopo di farmi il vuoto in­torno indussero, con la persuasione o con le minacce, quanti più confinati potevano a non parlare con me. Inventarono sul mio conto le più strane frottole e le più basse calunnie che poi si sussurravano nelle orecchie, furtivamente. Cercarono esasperarmi con i più vili di­spetti e le più sleali manovre e uno di loro, che spadro­neggiava nell’infermeria, come aiutante del medico, giunse al punto di negarmi, con i più stupidi pretesti, le medicine che mi spettavano. La squadra d’azione or­ganizzò un’aggressione che avrebbe dovuto svolgersi in questo modo: di notte, mentre dormivo, quattro armige­ri si sarebbero avvicinati al mio letto e, lanciatami una coperta sulla testa, avrebbero picchiato. All’ultimo istante giunse un contro ordine e l’aggressione fu riman­data: l’intero confino e anche la direzione, erano al cor­rente della mia campagna contro Roveda e della contro-campagna che i comunisti conducevano per vendicarsi. Se fossi stato bastonato e ferito tutti avrebbero ritenuto come mandanti i capi bolscevichi che si sarebbero com­promessi. Temendo il pericolo essi fermarono le mani già pronte a colpire.
In quei giorni, mentre l’azione subdola degli sta­liniani tentava prendermi alle spalle, un individuo che si faceva passare per anarchico ma era invece una spia, si tolse, con me, la maschera e mi confidò che, insinuato­si fra i comunisti e venuto a conoscenza di tutte le loro magagne (armi nascoste, corrispondenza clandestina, ecc.) le avrebbe denunziate alla direzione. Mi disse pure che, per incarico di Failla e Baldazzi, mi aveva ruba­to un quaderno nel quale i papaveri del fronte popolare; sospettavano scrivessi il libro antibolscevico da me preannunziato. Baldazzi, ricevuto il quaderno e pagate dieci lire di compenso al ladro-spione, era rimasto de­luso trovando, al posto della critica politica, dei sempli­ci appunti sulla « Storia del materialismo » di Lange. Non ne aveva capito gran che, nella sua crassa ignoranza, e s’era rimesso ai lumi di Failla che doveva dargli la spiegazione.
Riferendomi tutti questi particolari e la sua in­tenzione di denunziare i comunisti, il pseudo anarchico, già confidente della questura di Genova, credeva che conservassi il silenzio perché, in fin dei conti, egli vo­leva colpire i miei più feroci nemici. Voleva colpirli, ben s’intende, nella speranza del proscioglimento dal confino che il ministero gli avrebbe concesso; ma, a prescindere da ciò, vendicava, a parer suo, anche me ed io dovevo aiutarlo dando una forma letteraria all’e­sposizione scritta che intendeva inviare alla direzione.
Invece io chiamai « frate » Caprioli e lo misi al corrente di tutto. Io odio i comunisti, sono sempre pronto ad affrontarli, ma combatto apertamente, lealmente, e non voglio che nemmeno i miei più accaniti avversari, siano colpiti a tergo. In questo libro potrei narrare cose, ben più gravi, dei bolscevichi ma, facendolo, denunzierei indirettamente qualcuno e perciò me ne astengo.
Quando seppi che una spia stava per vendere coloro che mi calunniavano e mi combattevano con le armi più vili, li avvisai e li salvai. Agii cosi per caval­leria, per quello stesso sentimento che, a Parigi, mi spinse a proteggere una donna sconosciuta, nel caffè della Nation, a rischio della vita, e che a Tremiti mi spronò a difendere il fascista Neri contro i falsi testi­moni. Come risposta alla mia generosità le serpi co­muniste intensificarono la campagna di diffamazione contro me e provocarono ed aggredirono due anarchici, Francesco Ticchi ed Amedeo Bassi, che mi davano ra­gione.
Il santone Roveda non concedeva tregua ma, pra­ticamente, applicava le lezioni di settarismo e di gesui­tismo ricevute dal suo superiore, il pontefice Gramsci. Sul conto del quale sarebbe opportuno leggere quanto ha scritto il vecchio ed ardito anarchico Paolo Schic­chi, ch’è stato in galera con lui. E ne ha detto peste e corna.
ANCORA NELL’INFERNO
Negli anni che seguirono la mia vita continuò a svolgersi nella solitudine e nel dolore.
Da Ventotene fui trasferito a Macchiagodena, un villaggio sperduto sulle montagne del Molise.
Dal simpatico ambiente dei comunisti fanatici che mi calunniavano, passai all’ambiente, altrettanto gradito, dei contadini, rozzi ed ignoranti, che, istigati dal prete locale, mandavano i loro ragazzi a lanciar sassi contro l’anarchico, nemico di dio. La storia durò fin quando non pestai ben bene uno di quei monellacci. Corsi allora il rischio di finire in galera, ma la conse­guenza fu che, al mio passaggio, non volarono più pie­tre.
Da Macchiagodena, il ministero mi traslocò ad Isernia dove scontai gli ultimi due anni di confino. Trovai in questo paese una certa tranquillità e potetti dedicarmi di nuovo ai prediletti studi filosofici e let­terari. Nel 1942 terminai il periodo di relegazione e, finalmente, ritornai a Napoli.
Ma nella città canora non mi fu possibile rima­nere inattivo. Ero stato troppo ferocemente colpito, troppo duramente offeso, perché la mia anima ribelle si rassegnasse all’accaduto e non cercasse la vendetta. Costituii segretamente un gruppo di azione rivoluzionaria e progettai di fare saltare, con una bomba ad orologeria, la sede della federazione fascista. Uno dei miei compagni, il traditore Datodi, denunziò me e gli altri, pochi giorni prima che l’attentato avvenisse. Fummo arrestati ma siccome mancava ogni prova e non si poteva procedere legalmente contro noi, il capo dell’Ovra, Pastore ,mi costrinse, con la minaccia d’in­fierire su mia madre ammalata, a firmare una confes­sione. Io però, appena passato al carcere, smentii la firma, dichiarando al giudice istruttore che mi era sta­ta estorta con la violenza. Quindi gli altri uscirono e rimasi dentro io solo, in seguito ad una nuova denunzia sporta a mio carico dall’invelenito Pastore.
Otto mesi durò la detenzione. E furono otto mesi di dolori fisici e morali, patiti nell’opprimente tetraggine di una cella buia dove non avevo altra com­pagnia che quella dei miei pensieri cupi.
Uscii, alla fine di settembre del 1943, quando il popolo insorse contro i tedeschi e fece le quattro gior­nate.
Respirando l’aria libera mi avvidi che se il mio corpo si sentiva sfinito per i tormenti della pri­gione, il mio spirito, invece, bruciava, consumato da quello stesso fuoco ribelle che, a sedici anni, mi aveva spinto a promuovere una sommossa a Vigevano.
Ormai il fascismo era caduto e speravo si tra­scinasse dietro, nel baratro delle sue colpe, l’intera società borghese, quella società che, da ventitré anni, mi perseguitava e della quale volevo vedere la morte ingloriosa. E a darle la morte, ad immergerle il pugna­le nella gola, mi sentivo spronato dall’odio covato du­rante tanto tempo, dal bisogno frenetico di vendicare la mia giovinezza sciupata nel confino e nella galera e i miei sogni infranti dalia miseria e dalle persecuzio­ni.
Ma per distruggere la nemica non potevo esse­re solo: mi occorreva il concorso di altri. E speravo che, almeno in quell’istante, non mi sarebbe mancato.
Invece dovetti disilludermi: il fascismo scom­parve, ma la società borghese rimase.
Mussolini ed alcuni gerarchi furono fucilati: il regime si frantumò. Ma i borghesi, che avevano man­tenuto al potere il fascismo per oltre quattro lustri, si affrettarono ad indossare la casacca democratica e furono lasciati ai posti di comando dagli americani conquistatori dell’Italia.
I grassi industriali del nord e i boriosi terrieri del sud, i solenni papaveri della burocrazia e i petto­ruti dirigenti la polizia, tutti coloro che col fascismo avevano fornicato, che col duce s’erano arricchiti e che al duce avevano tributato, per ben ventitré anni, i più bassi servizi, si ritrovarono ipso facto, per tra­sformazione fregoliana, antifascisti della prima ora.
Abbandonando l’alleato, esosamente sfruttato, nel momento in cui esso crollava sotto i colpi dello straniero, i borghesi italiani si precipitarono dinanzi alle ruote delle camionette yankee per lustrare le scar­pe dei soldati d’oltre Atlantico e rivelare ai negri ca­musi il loro ardente amore per la libertà e l’odio per il tiranno.
Di persone simpatiche, in Italia, non rimasero che quei pochi che ebbero ancora il coraggio di non rinnegare se stessi, sfidando il colpo alla nuca degli sgherri staliniani ed il campo di concentramento al­lestito dagli anglo-sassoni.
Come prima, durante l’epoca littoria, di uomini simpatici non c’erano stati che i pochi, pochissimi, an­tifascisti che, mantenendosi eretti contro la dittatura, avevano affrontato la galera e il confino. Ma la bor­ghesia italiana, presa nel suo insieme, dette il più mi­serabile spettacolo di panciafichismo e di viltà, di tra­dimento e di codardia. Coloro che avevano mangiato col fascismo spularono nel piatto dei cibi consumati e si prostituirono al nuovo padrone. Quelli che ave­vano ricevuto gli stipendi e i favori di Mussolini, s’impennacchiarono di democrazia e continuarono a comandare e a divorare. Ad essi si aggiunsero gli eroi dell’ultimo giorno, gli antifascisti platonici che, du­rante il deprecato ventennio, se n’erano stati pruden­temente all’estero senza affrontare carcere e confino, ma che al seguito delle baionette marocchine e delle scimitarre zanzibaresi, se ne vennero in Italia per esi­gere il compenso dei sacrifici sopportati. Cosi il raro formaggio rimasto nel bel paese fu messo a dura pro­va dagli aguzzi denti di questi sorci famelici, già di­sdegnanti la sbobba di una prigione italiana per i mi­gliori pranzetti consumati sui tavoli dei ristoranti pa­rigini e pagati coi soldi della Massoneria o del partito comunista o, anche, degli agenti dell’Ovra di cui molti fuorusciti erano informatori segreti.
Al mangiucchiamento generale dei borghesi e dei demagoghi si associarono i preti, usciti di sagrestia, e che avendo con l’Italia da regolare vecchi conti, co­me la breccia di Porta Pia e l’incameramento dei be­ni ecclesiastici, pretesero anch’essi accomodarsi lo sto­maco. E intorno al desco si trovarono tutti d’accordo, i fascisti convertiti e gli antifascisti dei boulevard, i reverendo in berretto frigio e i masanielli sbracati. E, mangiando e bevendo, fondarono il nuovo antifascismo, partitocratico ed opportunista, di cui la più fulgida espressione divenne quel Pietro Nenni che, ritornalo dall’esilio ed ottenuta la carica di Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, si fece consegnare tutti i fascicoli dell’Ovra e ne restituì qualcuno in me­no, suscitando il sospetto che avesse voluto sottrarre quelli che rivelavano suoi segreti rapporti con la po­lizia politica di Mussolini.
Insieme a Nenni parteciparono al banchetto e alla farsa governativa anche i suoi amici e protettori comunisti. Loro primo compito fu quello di accettare nei ranghi del partito tutti i fascisti rinnegati, di fila­re il migliore idillio con i borghesi passati da Musso­lini a Roosevelt e di frenare e riaddormentare il pro­letariato, questo eterno ciuco che, in seguito alla com­pressione ventennale e alle sofferenze della guerra, s’e­ra scosso per un solo e breve istante dal millenario tor­pore e sembrava deciso a fare la rivoluzione. Ma una rivoluzione in Italia, una rivoluzione socialista, non sarebbe stata utile, in quel momento, al padrone Stalin che, per accordi stabiliti con gli alleati anglosassoni, doveva impedire ogni movimento sovversivo in occiden­te, ricevendo in cambio la libertà di azione e di domi­nazione nella penisola balcanica e nel bacino danubia­no. Quindi i fedeli servi del Piccolo Padre, gli zelanti esecutori degli ordini di Mosca, ammansirono l’asino recalcitrante, gli rimisero le briglie e poi le consegna­rono nelle mani dei borghesi, dicendo: «tirate pure ma a condizione che noi tiriamo insieme a voi ».
Don Palmiro Togliatti, il gesuita numero 1, l’abile destreggiatore che s’era assunto il compito di pre­sentare il bolscevismo con una maschera umanista, ven­ne in Italia, per comando del dio Baffone, e cominciò a predicare che il regime di Tamerlano non era ditta­tura ma libertà, non barbarie ma civiltà, non negazione dell’individuo ma attuazione del progresso (con la P maiuscola). Ci disse tutte le fesserie che volle, raccontò che il comunismo ammette la proprietà privata, rico­nosce la religione, rispetta la tradizione, idolatra la democrazia e vuole, sì, conquistare, per il bene del po­polo, il potere, ma non con i mezzi rivoluzionari dai quali rifugge, bensì con i volontari suffragi degli elet­tori coscienti. Mai lupo nascosto sotto il vello dell’a­gnello fu tanto volpe quanto il cicciutello ed occhia­luto politico spedito dal moderno Gengis Khan fra la gente d’Ausonia. Facendo un inchino a destra ed un sorriso a sinistra, una strizzata d’occhio da una parte ed un segno significativo dall’altra, questo buon raggi­ratore riuscì ad ingannare tutti ed a servire, a puntino, gli interessi di messer Stalin. Ai borghesi disse: « Tene­te me ed il mio lustrascarpe Pietro Nenni a fare i mi­nistri con voi. Condividete con noi due il governo. In cambio impediremo la rivoluzione, somministrando un poco d’oppio al proletariato e permettendo ai ricchi di conservare il peculio ». Ai proletari confidò in sor­dina: «La rivoluzione non la possiamo fare perché ci sono gli americani in Italia. Fingiamo di collaborare con i borghesi, andiamo al potere con loro e poi, al momento buono, quando ci sentiremo più forti, daremo lo sgambetto a preti e capitalisti ed instaureremo il go­verno comunista».
Così gabbando tutti, promettendo fabbriche e terre ad operai e contadini, ed offrendo ai borghesi la salvezza proveniente da una rivoluzione stroncata, e alla chiesa l’approvazione dei patti lateranensi, il furbacchiotto esegui, con molto zelo, gli ordini del Tamer­lano motorizzato che, dall’imperiale castello del Kremlino, lo salutò « capo del popolo italiano».
Ma siccome non tutte le ciambelle riescono col buco, avvenne che al grossolano machiavellismo del solerte Palmiro, borghesi e preti opposero un machia­vellismo più sottile, più abile, che non traeva la sua ispirazione dalla rozzezza dei mongoli ma dalla fine astuzia del Vaticano. Finsero di credere a tutte le balle che diceva, si tennero lui e Nenni nei loro governi ciellenisti, si servirono dei due demagoghi per frenare la massa, per calmarla, per soffocare le sue velleità rivolu­zionarie diluendole nei contentini delle promesse fu­ture. Poi, al momento buono, quando videro che la fol­la s’era nuovamente ammansita e si sentirono ben pro­tetti dallo Stato riorganizzato e dalla polizia ricosti­tuita, borghesi e preti presero delicatamente per un orecchio don Palmiro e don Pietro e li tirarono giù dalla poltrona ministeriale. Allora i due messeri tor­narono oppositori e, non potendo più parlare di rivo­luzione, si misero a declamare che il paradiso terrestre sarebbe stato portato sulla punta delle baionette tartare e delle fruste cosacche mandate, in un prossimo futuro, dal Piccolo Padre Stalin rottosi, nel frattempo, con gli alleati anglo-americani e con l’Italia retta dalle chie­riche democristiane.
Ed ora, mentre scrivo, la commedia continua. E ci sono ancora tanti operai babbei che credono alle menzogne che questi imbonitori spacciano. Non comprendendo che se il proletariato italiano permane sotto il giogo e lo sfruttamento clericale e borghese è perché i marxisti hanno due volte tradito e fatto fallire una rivoluzione che era possibile: nel 1920 e nel 1945.
* * *

Io, uscito dal carcere, non mi rassegnai all’e­videnza. Ma pure constatando che la società non crol­lava e tutti si sforzavano per tenerla in piedi, l’attac­cai da solo.
Sfruttando le mie capacità oratorie girai per l’I­talia centrale e settentrionale tenendo molte conferenze nelle quali bollavo preti, borghesi e comunisti e spro­navo le folle alla rivoluzione demolitrice. Sapevo be­nissimo che la massa non avrebbe risposto all’appello e che i politici si sarebbero coalizzati a mio danno, ren­dendomi la vita impossibile. Questo però non m’impor­tava, volevo avere almeno la soddisfazione di scagliarmi contro l’odiata società e i suoi sostenitori e di sma­scherare le sue menzogne, deridere i suoi principi, ri­velare il suo marcio. Anche a costo di rovinarmi mag­giormente, volevo sfogare l’ira accumulata nel cuore e staffilare gli ipocriti, sputare sui demagoghi, aggredi­re gli opportunisti e i commedianti d’ogni colore che si atteggiavano a paladini dell’ordine costituito.
Riuscii nell’intento, tirai colpi da tutte le parti, feci mordere la polvere a parecchi pezzi grossi, battuti nei contraddittori; ma con la conseguenza che non potet­ti procurarmi un’occupazione e ogni tentativo compiu­to per guadagnarmi da vivere s’infranse contro gli ostacoli, artificiosamente suscitati, da nemici potenti che agivano nell’ombra. Fui ridotto nella più nera miseria e costretto ad abitare, con la mia giovane compagna Renata Latini, nella fredda ed insalubre soffitta di un albergaccio fiorentino dove saltavamo i pasti quasi tut­ti i giorni. Soffrii le più atroci torture morali e mate­riali, mi contorsi negli spasimi delle preoccupazioni e dei patema d’anima che l’indigenza genera, sentii mille volte che i miei nervi non resistevano più alla tensione estrema a cui quella condizione terribile li costringeva. Se non mi avesse trattenuto il timore di lasciare, sola e indifesa, la mia compagna, mi sarei fat­to ammazzare, colpendo disperatamente. Ma mai pas­sò nella mia testa l’idea di arrendermi, di sottomettermi, per ottenere cosi che mi lasciassero vivere. Molli mi consigliarono di recedere dal mio atteggiamento di rivolta contro tutto e tutti; perfino mia madre me lo ripeté tante volte, però io respinsi sempre tali consigli e rimasi al mio posto. Perché non m’era possibile rinnegare me stesso e rinunziare al mio pas­sato e alle mie idee. Non m’era possibile fingere ed in­chinarmi dinanzi a quella società che, da un trenten­nio, mi colpiva. E infine perché chi è nato con la na­tura del leone non può cambiarla con la natura della volpe o della pecora.
Solo, senza mezzi e senza amici, combattuto dal­l’universale, incompreso e calunniato, mi mantenni diritto sotto la tormenta che infuriava. Gli unici che avrebbero dovuto schierarsi al mio fianco e sorregge­re ed appoggiare la mia rivolta, sarebbero stati coloro che, in Italia, si professano anarchici. Invece furono, come per il passato, perfidi e velenosi nemici e lancia­rono contro me le più malvagie calunnie, nella speranza di fornire altre armi ai tanti che mi combattevano.
Gelosia, invidia, faziosità; ecco i motivi che de­terminarono l’attacco di questi settari. Infatti, nella grande maggioranza, essi sono degli omuncoli, presun­tuosi ed ignoranti, ed odiano chi vale qualcosa più di loro. Si dicono anarchici per distinguersi dalla massa e darsi delle arie ma poi, in sostanza, hanno lo stesso gregarismo della massa, tanto vero che si presentano organizzati in un ridicolo partitino, la F.A.I., retto da quattro o cinque capoccia che si fanno adorare come santoni.
Ed ottengono la venerazione della base perché sono formati colla sua stessa pasta.
Spregiudicati a chiacchiere e per posa, questi sedicenti anarchici conservano invece tutti i pregiudi­zi comuni, e sono giunti fino al punto di scandalizzarsi perché nei miei libri « Più Oltre » e « La Bandiera dell’Anticristo » ho difeso i principi della libertà sessuale. Mentre un cattolico convinto, il professore Luigi Scremin, nel suo lavoro « La questione delle case chiuse», dopo avere riportato alcuni periodi de « La Bandiera dell’Anticristo», ha lealmente riconosciuto:
« Quando, concettualmente, si fa della sensazione il fine della funzione, è a questo che si arriva, ancorché non si possa poi tradurlo nella pratica della vita asso­ciata ».
Nemici mortali degli individualisti, che sono i soli e veri anarchici, i faziosi della F.A.I., odiano par­ticolarmente me che, dal 1920 in poi, ho sempre bollato l’antianarchismo della loro prassi e teoria. Ed ho di­mostrato che la stessa filosofia dei Bakunin, dei Kropotkin, dei Malatesta, di cui essi si dicono seguaci, con­duce ad un socialismo organizzato che non è anarchico.
Perché la società che ne deriva è senza governo come massa conformista, in cui essendo tutti uguali, si muo­vono tutti nello stesso modo e non hanno quindi biso­gno di un capo che li comandi e li disciplini. Ma l’in­dividuo originale che è oppresso dalla massa, che vuo­le imporgli il conformismo, subisce, sì, un governo, quello del numero, e dunque non è anarchico nella so­cietà anarchica.
D’altronde alcuni degli attuali teorici del comu­nismo libertario, come Pier Carlo Masini, risolvono ancor più completamente l’anarchia in un sistema demo­cratico e dichiarano che nella Comune futura, anche se non vi sarà l’uniformità quasi assoluta, la maggioran­za dovrà sempre dettare legge alla minoranza. Cosicché 17 avranno, in tutti i casi, ragione contro 5 solo perché saranno 17. E ciò anche se i 5 si chiameranno Goethe, Heine, Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud; e i 17 si di­stingueranno in 4 accalappiacani, 7 spazzini, 2 guardia­ni di cessi pubblici, 3 raccoglitori di cicche ed un in­tellettuale della scuola di Masini.
L’anarchismo, invece, è qualcosa di molto di­verso. È individualismo. Che se potesse realizzarsi su scala universale produrrebbe lo sfacelo di ogni società organizzata, il ritorno alla natura e la nascita dell’uomo unico, sbarazzato da ogni catena. E se invece rimar­rà eternamente la rivolta di pochi indomabili, assetati di libertà, contro tutti gli ordini sociali che si succedo­no nel tempo, impedirà a questi ordini d’instaurare l’assoluto conformismo a cui tendono e di distruggere la personalità e la vita autonoma dell’individuo.
Vero è che le influenze della civiltà industriale meccanica che ci opprime sviluppano sempre più il gregarismo e l’uniformità e livellano gli uomini ,per na­tura diversi, nella massa indifferenziata. Oggi è ancor più difficile che nei tempi passati, trovare un fuori-se­rie. Non vi sono più grandi tiranni né grandi ribelli. I tiranni non somigliano ad Alessandro, a Cesare, a Napoleone e non conquistano il potere impiegando le loro qualità eccezionali, compiendo azioni prodi­giose, esponendosi a pericoli gravi; ma sono dei volga­ri ciurmatori, dei mediocri omiciattoli, che salgono imbonendo ed adulando la massa, prosternandosi ai suoi piedi e poi schiacciandola dopo che essa li ha por­tati in alto ( 1). E la massa servile tanto più li stima e li elogia quanto maggiormente questi capoccia la cal­pestano e la tosano. Nessuno si ribella e se qualcuno, raramente, insorge, lo fa nei limiti consentiti dalla leg­ge e per ottenere dal padrone un aumento di salario. Mentre i grandi ribelli del passato, da Spartaco a Bonnot, hanno lottato per la conquista di tutte le libertà, per l’abbattimento di ogni padrone, e sono caduti eroi­camente con l’arma stretta nel pugno.
Ma appunto per questo, proprio perché il gre­garismo è aumentato e la personalità va sparendo, oc­correrebbe potenziare il ribellismo individualista nel pensiero e nell’azione anarchica che servono come rea­zione alla compressione sociale. Invece gli anarchici (?) di oggi cercano risolvere sempre più l’anarchismo in una forma comunista che dall’attuale federazione or­ganizzata tende ad estendersi in una futura società nel­la quale il conformismo, assoluto o quasi, sarà assicurato da un maggiore gregarismo, o da una rigida auto­disciplina esercitata da ciascuno o, più facilmente, dal prevalere opprimente della maggioranza sulla mi­noranza. Quindi anche l’anarchia, degenerata per ope­ra di anarchici degenerati, è divenuta un elemento di soffocazione per l’individuo e di negazione della liber­tà che non può esistere nel gregge.
(1) Come Stalin, tiranno astuto e sanguinario ma privo di genio, che è riuscito a carpire il potere col pretesto di liberare il popolo e servire i suoi interessi.
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E allora, di fronte ad una prospettiva tanto tri­ste, sorge spontanea la domanda suggerita dall’ango­scia:
« Che fare ? »
«Nulla — risponde la ragione — lasciare cor­rere, lasciar passare. Occorre rassegnarsi all’inevitabi­le, ritirarsi dalla lotta, rimanere nelle grinfie della società attuale e poi, quando questa cadrà, passare sotto la frusta del suo erede, il bolscevismo, che ridurrà gli uomini ancora più iloti».
Ma il cuore si ribella a questa fredda dimostra­zione fornita dalla ragione che glacialmente constata. Perché il cuore non può soffocare i suoi sentimenti più cari, più intensamente sentiti, non può distrugge­re quell’impulso di rivolta che spinge l’uomo non gre­gario a scattare contro il giogo, anche quando sa che non riuscirà ad abbatterlo, e si sfascerà, invece, la te­sta nel cozzo. Ed io che seguo più il sentimento che la ragione, rimango al mio posto, attendendo la morte.
Forse rimarrò solo, come per il passato. Forse po­chi uomini, sperduti nello spazio e come me refrattari e maledetti dal gregge, risponderanno al richiamo del fratello lontano che sprona alla battaglia ed al cimento supremo.
Ma, avvenga quel che avvenga, solo o no, non farò mai macchina indietro, né mai mi pentirò. E se il mondo borghese mi troverà sempre nemico, la bestia mostruosa che avanza dall’Asia, m’incontrerà sulla sua strada, armato d’odio feroce e pronto ad attaccarla con la stessa risolutezza con la quale Sigfrido affrontò i1 drago divoratore.
SCHIACCIAMO IL BOLSCEVISMO
Io non credo, con Windelband, che esista una coscienza normale che sopra la relatività delle valuta­zioni individuali e della moralità dei singoli popoli, po­ne e fissa i valori assoluti. Non credo, con Paulsen, nella necessità di un tipo normale di uomo o di vita umana che costituisca la misura per l’apprezzamento del valo­re delle azioni e delle doti. Accetto invece la varietà e le attitudini diverse e, nelle contrastanti manifesta­zioni dell’esistenza e nella singolarità dei pensieri e del­le condotte, ammiro la ricchezza della realtà e la sua feconda produzione di tipi genuini e di valutazioni antinomiche.
V’è però un modo d’intendere la vita che non ha, secondo me, diritto di cittadinanza nella moltitudi­ne delle forme etiche e dei giudizi discordanti: ed è il modo bolscevico, quel modo che riduce l’uomo all’ani­malità, anzi all’automatismo materialista, e lo priva di ogni sentimento e d’ogni passione.
L’essere inanimato, il pezzo di legno che abiterà la simmetrica città del sole del futuro comunista, sfugge ad ogni classificazione morale e ripugna ad ogni coscienza. Francesco d’Assisi è comprensibile: rispon­de ad un sentimento umano, la pietà. Federico Nietz­sche è anch’esso comprensibile; risponde ad un altro sentimento, la volontà di potenza. Ma il fantoccio che non ama e non odia, e che non è spinto da nessun im­pulso buono o cattivo, e non è attirato, come dice Dostoevskij, né dall’ideale di Sodoma, né da quello della Madonna, ma vive meccanicamente per produrre e consumare, evade dall’umanità e non è concepibile che nel mondo vegetale.
Le morali della generosità e della rinunzia coe­sistono con le morali della lotta, della conquista, dell’aggressione, perché rispondono alle diverse tendenze della nostra natura; e non è possibile creare una mo­rale unica o un solo tipo di uomo, senza impoverire la vita riducendola a qualcuno dei suoi molteplici aspetti.
Tuttavia un apprezzamento delle azioni che ignora i sentimenti, gli slanci dell’anima, i tormenti del cuore e si basa soltanto sui bisogni fisiologici e sulla loro materiale estrinsecazione, ci trasporta fuori i limiti della nostra realtà, fuori dell’antropologia e della zoo­logia, nel dominio della botanica. La morale comunista aspira alla creazione dell’uomo automatico, scevro di passioni, privo di scatti, esente da spontaneità. Questa gelida creatura che non si sentirà mai attirata verso i suoi simili dall’amore e dalla simpatia ma accederà a rapporti necessari di produzione determinati dal bi­sogno economico; questa macchina umana che non co­noscerà il sogno, l’ideale, l’ambizione, l’odio, la lotta, ma si unirà agli altri per riempirsi il ventre e rendere la vita comoda; questo brutto congegno che non avrà pensieri e idee all’infuori di quelle confacenti ai suoi interessi materiali e inspirate dallo stomaco; sarà il cittadino dell’avvenire, il campione del grigio mondo marxista. Egli si muoverà oltre il bene ed oltre il male, non nel senso dell’abbandono alle varie ed opposte tendenze dell’anima e della natura umana, ma nel senso più mostruoso della mancanza d’ogni tendenza psichica, d’ogni anima, d’ogni natura. Sarà il rappre­sentante d’una vita ridotta a pura fisiologia e l’incar­nazione di un amoralismo derivante non dal riconosci­mento delle azioni e delle valutazioni diverse, ma dal­la realtà di un’azione e di una valutazione unica, in un’umanità spaventosamente uguale, nel generale ab­brutimento.
Per realizzare, in un prossimo futuro, questo tipo meccanico ed insensibile la morale comunista crea immediatamente un altro tipo che spianerà la strada al primo: la bestia fanatica e sanguinaria, assetata di do­minio e desiderosa d’impadronirsi del mondo con tutti i mezzi, con la strage e la calunnia, la menzogna e l’i­pocrisia. Il bolscevismo deve precedere il marxismo e la teocrazia dei preti rossi preparare la snaturalizzazione del genere umano sul quale potrà meglio imperare. Quando l’uomo sarà ridotto un fantoccio senza senti­menti e senza volontà, una macchina che avrà bisogno del solo lubrificante, l’oligarchia bolscevica dominerà eternamente senza temere rivolte.
Da oggi fino ad al­lora, violenze e lusinghe, pervertimenti e illusioni, per piegare la natura. E si riuscirà nello scopo. Cavat gutta lapidem.
Molti, allettati dal paradiso terrestre che il comunismo promette, si raccolgono intorno alla sua bandiera senza comprendere che l’eudemonismo socia­le e l’armonia generale della città futura s’identifiche­ranno, nella pratica, con la passività e l’inerzia dei pezzi di legno usati despoticamente dalla bestiaccia trionfante e da questa arbitrariamente riuniti nell’as­surda disposizione di un ordine artificioso e tirannico. Le folle, quasi sempre, respingono le idee sincere che non promettono felicità chimeriche, non rinnegano la lotta e il dolore e cercano migliorare la vita nei limiti del possibile; invece sono attirate da quelle altre idee, risplendenti e false, che ingannano col miraggio dell’E­den in cui la libertà non si conquista ma si ottiene sen­za sforzo, in cui la pace regna sovrana e il benessere e la gioia allietano tutti.
Gli uomini, affascinati dall’illusione, somigliano ai prigionieri nella caverna che Platone ricorda nel li­bro 7° della Repubblica: incatenati nel desiderio dell’età dell’oro essi non possono voltarsi e guardare la realtà della quale non vedono che l’ombra sulla parete di fronte. Le masse, gabbate dai pastori ed ebbre di cuc­cagna, considerano le promesse della demagogia come mete raggiungibili e precipitano nell’abisso nell’istan­te in cui credono toccare il fine ultimo, lo scopo defi­nitivo, il punto di confluenza dell’amore e del piacere. Esse non sanno ciò che Dostoevskij insegna, cioè « che il fine al quale l’umanità tende sulla terra consiste in questo slancio ininterrotto verso un fine, ossia nella vita stessa, piuttosto che nel fine vero che, evidentemente, deve essere una formula immobile del genere di due e due fanno quattro. Perché due e due fanno quattro, non è più la vita ma è il principio della morte (1)».
Il bolscevismo vuole distruggere la vecchia ci­viltà non per sostituirla con una civiltà nuova o con una barbarie eroica come quella della saga odinica ma bensì con una barbarie piatta, vile e nauseante. L’era fu­tura che promette all’umanità, non è che l’era dell’ultimo uomo di cui parla, con disprezzo, Zarathustra e nella quale tutto è rimpicciolito, castrato, suinizzato. Ed è questo regno dei porci, questo mondo meccanico dove non si vive che per mangiare, che le folle stupide invocano credendo che apporterà il nuovo paradiso ter­restre, il trionfo benefico della fratellanza e della li­bertà.
Ma, per fortuna, vi sono ancora pochi uomini che sentono l’orgoglio e la bellezza della vita e stimano l’acre gioia della lotta più della rammollente beatitu­dine della quiete. E a questi uomini lancio il mio grido di guerra: Schiacciamo il bolscevismo! Schiacciamo l’eudemonismo falso ed ipocrita! Distruggiamo la men­zogna del bene universale! Facciamo sì che la vita di­venti sempre più grande ed eroica, tumultuosa e protei­forme, eterna sorgente d’imprevisto, feconda matrice di novità!
Nel crepuscolo del vecchio mondo borghese e pavido, sulle rovine degli idoli consacrati dall’ignavia delle masse, saluteremo la morte della bestia rossa, ripetendo con Nietzsche:
« Noialtri filosofi e spiriti liberi alla notizia che il dio antico è morto, ci sentiamo illuminati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di riconoscenza, di stupore, d’apprensione e d’attesa; finalmente l’oriz­zonte ci sembra nuovamente libero, anche ammetten­do che non sia chiaro; finalmente le nostre navi posso­no di nuovo spiegare le vele, vogare incontro al pericolo; tutti i colpi d’azzardo di colui che cerca il sape­re sono nuovamente permessi; il mare, il nostro alto mare s’apre di nuovo davanti a noi, e forse non vi fu mai un mare altrettanto pieno (1)».
(1) F. Nietzsche, La gaia scienza.
POST SCRIPTUM
Un amico professore che si è lasciato sedurre dal­la maculata purezza della colomba di Picasso ed è iscritto al Movimento del Partigiani della Pace, ha vo­luto leggere prima che lo consegnassi al tipografo il manoscritto di questo libro. Poi mi ha detto:
« Ti consiglio di non pubblicare. Anche se è ve­ro quello che affermi, è bene che il popolo non lo co­nosca. Altrimenti perderebbe la fiducia nel Partito Co­munista che è il solo che può cambiare, in Italia, la situazione e darci il nuovo. E noi resteremmo sotto il peso della società borghese chissà fino a quando. E tu contribuiresti, sia pure involontariamente, a mantenere l’attuale stato di cose.
Del resto ad un immoralista come te, ad uno spregiudicato, ad un fautore del caos, non dovrebbe su­scitare orrore la pratica della violenza e dell’ipocrisia a cui i comunisti sono stati costretti a ricorrere per con­quistare il potere ».
Rispondo all’amico professore.
Pubblico!
E per le seguenti ragioni.
Io sono un nemico della società borghese e, at­traverso trentadue anni di lotta, ho cercato colpirla in tutti i modi.
Ma non voglio cadere dalla padella nella brace.
Non intendo preparare il terreno all’avvento di una ti­rannia peggiore di tutte quelle che l’umanità ha sop­portato fino ad oggi. E perciò, mentre combatto il mondo attuale, dico agli oppressi:
«Sbarazzatevi dei padroni ma non ne create al­tri, più crudeli e sfruttatori. Distruggete il presente ma astenetevi dall’edificare un futuro basato sullo stata­lismo ».
Perché dico ciò?
Per un motivo semplicissimo.
E cioè per la ripugnanza istintiva che m’ispira quel mostruoso impasto di barbarie mongolica e di au­tomatismo standardizzato che caratterizza il mondo so­vietico e che i bolscevichi italiani vorrebbero portare anche da noi. Proprio da noi che, per natura, per tra­dizione, per sentimento, siamo assolutamente restii a farci trattare come le pecore che, gregariamente, seguo­no il pastore tartaro o come le rotelle che, meccanica­mente ,s’ingranano nel congegno sociale.
L’amico professore mi ricorderà che la gente la­tina è degenerata, non ha più lo spirito romantico ed il senso della personalità che aveva nel passato.
D’accordo. Però, per quanto decaduti, non lo sia­mo ancor tanto da poter sopportare la frusta del Pic­colo Padre Stalin.
Ed il nuovo che il bolscevismo ci darebbe, sareb­be sentito da noi come una catena ben più pesante di quella che inflissero ai nostri padri i Goti di Teodorico o i Longobardi di Alboino.
Per questo mi oppongo al bolscevismo.
Perché non voglio che l’Italia diventi, come la Russia, un’orribile caserma nella quale uomini e donne saranno costretti a segnare il passo, cantando le lodi del Tamerlano motorizzato.
Perché non voglio che il popolo italiano sia ri­dotto simile ad una massa grigia di fantocci che non po­tranno pensare coi loro cervelli sentire coi loro cuori e camminare con le loro gambe, ma dovranno intende­re, avvertire ed agire nel modo unico che i capi rossi stabiliranno.
Perché non mi piace che all’operaio italiano avvenga ciò che capita oggi all’operaio russo il quale se arriva con cinque minuti di ritardo alla fabbrica, viene rinchiuso in questa per sei mesi ,non può uscirne, non può ricevere visite e, dopo le ore di lavoro ,deve rimanere segregato in appositi locali dove mangia e dorme (1).

(1) La legislazione sovietica sul lavoro stabilisce che l’operaio che, per tre volte, giunge con qualche minuto di ritardo alla fabbrica, deve essere segregato in questa per sei mesi. Se dopo tale punizione, continua a presentarsi con ritar­do, viene assegnato al campo di concentramento come « sa­botatore della produzione ».





Perché non considero umano che ai lavoratori sia negato il diritto di sciopero, la possibilità di preten­dere un miglioramento economico. Tanto accade nel­l’Unione Sovietica dove lo Stato — unico capitalista — possiede tutti i mezzi di produzione ed esige che i proletari li facciano fruttare nel suo esclusivo interes­se. In cambio lo Stato corrisponde ai proletari il mise­ro salario che esso stesso fissa e che i proletari debbono accettare senza discutere, senza fiatare, se non vogliono finire ai lavori forzati in Siberia, dove si muore di fa­me, di freddo e di frustate. Così i lavoratori languono nell’inedia e lo Stato che si identifica con il Partito Comunista assorbe tutte le ricchezze e se ne serve per mantenere molti gerarchi che conducono vita da na­babbi, un immenso esercito, una formidabile polizia, una burocrazia elefantiaca, un nugolo di spioni, insom­ma un’infinità di parassiti che vivono alle spalle e col sudore degli operai e dei contadini Questo avviene in Russia e questo avverrà anche in Italia se il piccolo Khan Togliatti la governerà per conto del gran Khan Stalin.
E qui, per similitudine, ricordo un episodio.
Un giorno, nel 1949, udii ad Incisa Valdarno, un discorso che teneva ai partigiani l’on.Walter Audisio altrimenti conosciuto come « Colonnello Valerio ». Questo signore compassionava la sorte dei poveri pro­letari italiani, costretti ad emigrare in Argentina e a lavorare in terre selvagge là dove, egli diceva, « mai mano d’uomo ha messo piede ». Ascoltandolo pensai subito che il Colonnello, tanto buono e caritatevole, cer­cava però adoperare non solo le mani piedate, ma anche il cervello e tutti gli altri organi di cui dispone, per ridurre gli operai e gli intellettuali italiani nelle stesse condizioni degli operai e degli intellettuali rus­si che, colpevoli solo di aver pensato con le loro teste, sono condannati a scavare grandi canali navigabili, sot­to la sferza degli aguzzini e le bufere di neve, con i crampi della fame che attanagliano lo stomaco e la no­stalgia della libertà che tormenta l’anima.
Tutte queste delizie i signori bolscevichi vorreb­bero trapiantare in Italia. Ed io, che ne sento profon­damente l’orrore, mi oppongo alla loro azione anche se, così facendo, contribuisco a tenere in vita la società borghese, come giudica (sic) il professore.
Valentino Gonzales, detto El Campesino, che è stato un eroe della resistenza spagnola contro Franco e che poi, per premio, ha ricevuto da Stalin l’accusa di deviazionismo e l’assegnazione al confino, quando è riuscito a scappare ha pubblicato ciò che ha visto in Russia. E, fra l’altro, ha detto che i milioni di soldati che, respingendo i tedeschi, avevano occupato le regioni dell’Europa centrale, a guerra finita, non sono ritor­nati alle loro case. Ma sono finiti nei campi di concen­tramento dove moriranno. E ciò per impedire che po­tessero raccontare nei loro paesi ciò che avevano vi­sto, ossia che nelle nazioni capitalistiche esiste minore schiavitù che nell’Unione Sovietica e un trattamento migliore per la classe operaia.
Questo è il paradiso bolscevico! Questo è l’Eden meraviglioso che don Palmiro e don Pietro prendono a modello! E questo è anche il nuovo che il serafico professore è disposto ad accettare pur di avere subito un’altra società che, forse, gli permetterà un avanza­mento nella … carriera.
Ma io che non ho carriera da seguire; io che ho pagato sempre di persona e di tasca, rimanendo fede­le ai miei sentimenti e alle mie idee; io che l’antibor­ghese l’ho fatto apertamente, spalancandomi la porta della galera e del confino, mentre altri rimanevano prudentemente nascosti dietro la comoda cattedra di un Liceo di provincia; dico no al bolscevismo. E gri­do questo no con tutta la forza dei miei polmoni, senza occuparmi del giudizio del professore scandaliz­zato che mi qualificherà reazionario, o venduto a De Gasperi, o corrotto dai dollari di un banchiere ameri­cano.
* * *
Il professore dichiara:
«Un immoralista, uno spregiudicato, un fautore del caos non dovrebbe sentire orrore per la pratica del­la violenza e l’uso dell’ipocrisia seguito dai comunisti per conquistare il potere ».
Replico subito come spregiudicato e immoralista. Ed affermo: io sono andato al di là dei rugginosi can­celli del Bene e del Male. Ma, malgrado questo, ho le mie preferenze. Certe cose mi piacciono e certe mi di­sgustano. Perciò è naturale che io cerchi realizzare quello che mi aggrada e combattere quello che mi nau­sea. Anche se considero tutto equivalente, rispetto alla natura, nel cui seno non esistono distinzioni qualitative.
Comprendo ed ammiro, come esteta, il delitto di Corrado Brando nella tragedia dannunziana « Più che l’amore ». Esalto l’eroismo del bandito anarchico Giulio Bonnot che saccheggia le banche e cade, nella lotta, con la pistola in pugno. Tutto ciò mi riesce simpa­tico perché esprime forza, coraggio, ardimento. Ma pu­re se non lo condanno obbiettivamente, pure se lo re­puto possibile per esseri diversi da me ed ai quali la natura ha risparmiato la sensibilità, sento schifo per quelle manifestazioni che rivelano viltà, simulazione, perfidia. E, in difesa dell’aquila, combatto il serpente. Anche se, con Zarathustra, penso che tanto l’aquila che il serpente sono entrambi necessari alla realtà univer­sale.
Del resto è dalla lotta che nasce l’equilibrio. E la reazione dei pazzi generosi, se non potrà mai soppri­mere la ferocia, potrà però impedire che essa diventi mezzo unico di governo. E che donne e fanciulli inno-centi, siano seviziati ed uccisi sol perché un loro con­giunto, inviso a Stalin, è fuggito all’estero, sottraendo­li alle grinfie della sbirraglia rossa. Come accadde al­la figlia dell’anarchico russo Pukov, da me conosciuto a Parigi, alla quale i compagni carnefici della Ghepeù strapparono i peli del pube, torsero le mammelle, usarono violenza carnale e, infine, appiccarono fuoco dopo averla cosparsa di benzina.
Il professore piccolo borghese mi chiama « fau­tore del caos ». Osservo: dal caos nasce l’equilibrio. Dall’equilibrio si ritorna al caos. E viceversa. Ma per­ché avviene ciò?
Perciò gli elementi hanno bisogno della coesio­ne ma, dopo, avvertono la necessità della dissociazione quando la coesione diventa troppo stretta e soffocatrice. Ogni peculiarità vuole rimanere se stessa e per non lasciarsi schiacciare dalle altre, sviluppa al massimo la propria energia e contiene le forze avverse degli ele­menti vicini. Così c’è vita per tutti.
Fra gli uomini è la stessa cosa. I legami della società generano l’esigenza di sciogliersi; ma, sciolti, gli individui debbono spremere la loro personalità, estrarne tutta la potenza, per arginare lo straripamento delle altre personalità che cercano soverchiare. E al­lora l’una arresta l’altra ma, a tutte, rimane un vasto campo per affermarsi e gioire. Chi non sa diventare forte, muore; ma cade eroicamente, cade nel tentati­vo di conquistare l’intera vita. E quelli che rimangono possono finalmente inebriarsi con l’ambrosia del super­uomo ed il nepente dell’unico.
Questa filosofia potrà essere giudicata immorale, mostruosa, diabolica, ma nessuno potrà negarle il me­rito di spronare gli individui a scuotersi dalla pigrizia o dalla rassegnazione e a sviluppare tutte le energie personali in vista di un’esistenza piena e tumultuosa. Quindi essa potrebbe essere definita la filosofia della individuazione.
Invece la filosofia che i bolscevichi insegnano sarebbe ben chiamata filosofia della menomazione. Es­sa dice all’uomo: « Tu non sei niente e nulla puoi da solo. Devi stare sempre con gli altri e renderti uguale a loro. Tu e gli altri dovete riconoscere il governo dei capi che rendono proficua la vostra unione e le permet­tono di funzionare. Tutti i capi debbono, a loro volta, dipendere dal capo supremo, Stalin, incarnazione del­la triade: saggezza, potenza, bontà. Quindi Stalin è Dio. L’individuo umano è meno dello sterco ».
Il professore che beve la camomilla ogni sera e accompagna la moglie alla Messa della domenica, pur non credendo nel Padreterno cristiano e anteponendo­gli, nel suo culto, l’idolo moscovita, può accettare la teoria dei fanatici delle cellule, il catechismo, ingenuo e barbarico, che divinizza l’assassino di venti milioni di slavi e nega all’io ogni possibilità creatrice.
Ma quelli che, come me, sono « fautori del caos » e nemici giurati d’ogni carcere e d’ogni caserma, spu­tano sull’immondo formicaio che, sotto le nevi scite, nasconde la Caienna, e preparano le bombe che, di­struggendo il bolscevismo, salveranno la vita e vendi­cheranno la libertà.

ENZO MARTUCCI

Gennaio 1953



INDICE


Prefazione …….. Pag. 5

Uccidere l’anima 8

Marxisti alla sbarra 12

Cos’è il marxismo 18

L’utopia comunista 24

A tu per tu con la setta 31

Ricordi del ‘20 39

Fra i fuorusciti 49

Primo confino 58

Secondo confino 67

Ancora nell’inferno 85

Schiacciamo il bolscevismo 95

Post scriptum 99

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