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sabato, settembre 20, 2014

Oltraggiati e curati l’uso politico dei corpi


Da Aristotele a Marx. Da Heidegger a Foucault. Il nuovo saggio di Giorgio Agamben raccoglie i frutti di una ventennale ricerca filosofica. Emerge l’idea di una “potenza destituente” capace di disinnescare i meccanismi del potere
ANTONIO GNOLI, la Repubblica • 20 set 14


NON so se il nuovo lavoro di Giorgio Agamben – L’uso dei corpi in uscita per Neri Pozza – sia il testo conclusivo di una ricerca ventennale nella quale l’autore ha posto al centro della riflessione la figura dell’ Homo sacer e le sue declinazioni (lo stato d’eccezione, Auschwitz, lo scavo nella teologia paolina e in quella francescana, l’archèe il giuramento). Sembrerebbe di sì. Dopotutto, vi è un punto di approdo rispetto al quale la parola fine ha un senso.
E quel senso lo si percepisce nella serietà con cui Agamben ha affrontato il dispositivo della nuda vita. Ma può davvero una ricerca considerarsi conclusa? Può fornirci tutte le risposte che in qualche modo ci saremmo aspettati da essa? O non è forse vero che una ricerca conserva un residuo, un resto, qualcosa che si può solo interrompere, abbandonare, lasciare ad altri come eredità o compito supplementare? Nel chiudere questo libro importante si ha la netta sensazione che nel momento in cui Agamben metta un punto definitivo, lì qualcos’altro dovrà generarsi.
Intanto cos’è l’” uso dei corpi ”? L’espressione mostra una certa familiarità con ciò che si è letto in passato. Aristotele – e in generale il mondo greco – paragona lo schiavo a uno strumento animato il cui uso lo rende simile alle suppellettili della casa. Lo schiavo non smette di essere uomo ma l’uso che viene fatto del suo corpo lo rende simile a uno strumento animato.
Il mondo moderno modellerà le proprie esigenze sulla figura dell’uomo libero. Sarà Marx a svelarci che il paradigma antropologico ereditato dal mondo classico, e posto in vario modo al centro dal liberalismo, non fosse poi così privo di inquietanti somiglianze con la schiavitù. Come avrebbe dimostrato l’analisi del lavoratore ai tempi del capitalismo.
Se questo è il possibile sfondo dal quale affiora l’idea di un corpo, in qualche modo oltraggiato (si pensi, tanto per indicare uno dei punti estremi del discorso, al modo in cui Sade teorizza come un fatto naturale la differenza corporea tra padroni e schiavi) resta da considerare il risvolto positivo che il corpo prospetta ove insieme all’uso se ne vede anche la cura.
Ma qual è la relazione tra “uso” e “cura”? Per intenderla – anche nelle sue aporie – Agamben si sofferma sulla riflessione di Michel Foucault. Che in un corso dedicato all’”ermeneutica del soggetto” richiamò l’attenzione su come Socrate distingue “colui che usa” da “ciò che usa”. È evidente la differenza tra me che uso un coltello per tagliare il pane e lo strumento in questione. Socrate ne conclude che anche l’uomo che usa il proprio corpo (prendendosene cura) sta usando qualcosa che è suo e non è suo. Non è suo perché il corpo non appartiene al corpo (una tesi grazie alla quale Aristotele poté giustificare la schiavitù). È suo perché il corpo non potrebbe essere usato senza la presenza di un’anima. Di un sé. Ciò che Platone, attraverso Socrate, scopre, ci dice Foucault, è la prima esperienza del soggetto. Senza la distinzione e la relazione tra uso e cura, difficilmente sarebbe emersa la figura della soggettività. Che il cristianesimo immobilizzerà dentro pretese universalistiche.
La filosofia moderna ha spesso rivestito la figura del soggetto di astratte considerazioni: sia immaginando che ci possa essere un “soggetto sovrano” separato dal mondo che pensa, desidera, anticipa e in seconda battuta riversa tutto questo all’esterno (posizione idealista); sia che vi è un mondo dal quale il “soggetto” si lascia condizionare in forza delle percezioni che prova (posizione materialista). Foucault – ma già Nietzsche e ancor prima Spinoza – respinge la logica del “prima e del dopo” (il dispositivo aristotelico della potenza e dell’atto) e dice che “soggetto” è colui che fa un certo numero di cose: si occupa di sé, entra in rapporto con il mondo e con altri soggetti. Non c’è il soggetto e poi l’oggetto distinto. C’è la relazione tra essi.
È stato Heidegger a spingere con forza il tema della relazione e del soggetto in quella espressione, resa familiare dalle molteplici interpretazioni, per cui l’esserci è da sempre gettato nel mondo. Come l’esserci (diciamo in senso lato l’uomo) si muova dentro questo mondo e si orienti, non è una questione scontata. Quello che l’esserci fa, lo realizza, strano il ripensamento radicale della figura del soggetto e preparano il campo alle analisi successive. In particolare a quelle svolte da Foucault. È difficile, come osserva Agamben, che egli, nonostante le dichiarazioni, non conoscesse i capitoli che Heidegger, nel testo del 1927, dedicò alla cura. Non ultimo c’è poi la questione dell’etica che il ripensamento del soggetto mette in discussione. Foucault smise di pensare l’etica come il portato di un insieme di norme e la legò con forza all’idea che un “soggetto morale” si forma nelle diverse pratiche del mondo. Non è un caso che egli dedicasse l’ultimo corso a un tema apparentemente lontano e dal sapore vagamente retorico: “Il coraggio della verità”. Che è da intendere come il tentativo di cercare attraverso la vita filosofica la vita vera. E di trovarla non in una dottrina (come farà Platone) ma in una pratica esistenziale scandalosa e sovvertitrice dei modelli correnti della società.
Siamo dunque in pieno tentativo di dare alla politica uno dei significati che sembrano essersi persi: avvicinarla a una forma d’arte. Come dimostrano le esperienze delle avanguardie novecentesche. Fino al situazionismo teorizzato da Guy Debord, figura assai presente nella riflessione di Agamben. Il quale proprio alla politica – come orizzonte entro cui l’Occidente ha cercato la propria fondabilità – ha rivolto costantemente la sua attenzione. È il punto conclusivo. Su cui vorremmo richiamare l’attenzione del lettore. Come la metafisica ha cercato di fondare qualcosa che si è dimostrato infondabile, ossia il dispositivo soggetto-oggetto, così la politica ha cercato il fondamento nella giustificazione del potere. Diciamo la sua legittimazione attraverso il potere costituente. Che è un potere originario e illimitato che prende corpo ogni qualvolta la storia ci mette di fronte a una rivoluzione, a una sommossa, alla nascita di un nuovo diritto. Si tratta di figure che spesso si sono imposte nella violenza e nel sangue. La desolante dialettica tra potere costituente e potere costituito – come ci insegnano i grandi e piccoli eventi – si iscrive in questo tragico orizzonte. Sapremo superarlo?
Agamben suggerisce l’idea di una “potenza destituente”, capace cioè di rendere inoperanti i meccanismi del potere. Quanto il “destituente” sia difficile, rischioso e complicato lo si può capire constatando i fallimenti che il Novecento ha vissuto ogni qual volta ha provato a mettere in discussione un potere costituito. Nondimeno resta viva l’esigenza di un soggetto che destituendo il potere (neutralizzandolo non distruggendolo) si prenda cura della vita. Quale vita, quale forma, resta tutta da inventare.
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IL LIBRO L’uso dei corpi
di Giorgio Agamben (Neri Pozza, pagg. 208, euro 18)

venerdì, settembre 19, 2014

Pierre Dardot et Christian Laval Du public au commun

Revue du Mauss N° 35 1er semestre 2010

Origine : http://www.sudeduclim.lautre.net/IMG/pdf/C-LAVAL_-_mauss-public-commun.pdf
La posture classique d’un certain « anti-libéralisme » consiste à dénoncer dans l’offensive néolibérale une marchandisation du monde et à lui opposer la défense des services publics nationaux pour les uns et des biens publics mondiaux pour les autres. Autant dire que la lutte politique se maintient sur un terrain bien connu où s’affrontent le Marché et l’État. Les « antilibéraux », sans trop le savoir ou sans trop s’en inquiéter, s’installent en fait sur le terrain de l’adversaire lorsqu’ils prennent fait et cause pour la production de services par l’État au nom d’une opposition qui s’est constituée précisément pour faire du marché la règle et de l’État l’exception. Ce travers est aussi pénalisant que l’aveuglement volontaire à l’égard des pratiques bureaucratiques étatiques au prétexte qu’il ne faudrait pas faire le « jeu du marché ». On sait pourtant que ce genre de raisonnement a coûté historiquement aux « forces de progrès » : un discrédit durable. Sortir du capitalisme néolibéral, c’est aussi sortir de ce double jeu du Marché et de l’État c’est définir une politique qui ne confondrait plus l’opposition à la marchandisation et la promotion de l’administration bureaucratique. Cette tâche est aujourd’hui d’autant plus nécessaire que le néolibéralisme montre tous les jours que le Marché et l’État désignent, non des entités indépendantes engagées dans un « face à face » planétaire pour la suprématie, mais des processus profondément enchevêtrés et des logiques étroitement imbriquées.
Pour oeuvrer à la définition de cette politique, on peut s’appuyer sur la problématique de l’association, de la solidarité, de la mutualité, qui a nourri toute la réflexion du mouvement ouvrier au cours de son histoire 1.
1 Cf. Philippe Chanial, La délicate essence du socialisme, L’association, l’individu & la République, Au bord de l’eau, 2009.
Aujourd’hui, cette problématique semble trouver un nouveau souffle et peut-être de nouveaux fondements dans la résurgence de la thématique du commun. Rien n’est joué cependant, tant l’emprise de la doctrine économique dominante tend à s’exercer sur ceux qui, aujourd’hui, tentent de penser la question des « biens » communs.
La question des services et des biens publics « Défendre les services publics » est une tâche politique nécessaire pour endiguer autant que possible les politiques de privatisation directe ou indirecte que les gouvernements successifs mènent depuis au moins trois décennies. On ne mettra donc pas ici sur le même plan les administrations publiques et les entreprises privées, tant du point de vue de leurs logiques d’action que du point de vue de leurs résultats. Il va sans dire que la production de services non marchands permet des avantages collectifs qu’il convient de défendre contre l’extension de l’accumulation du capital. Avec la poste, l’hôpital, l’école, il en va des liens sociaux, de la qualité de la vie, du bien-être, de la liberté de pensée. Mais il faudrait aussi interroger les limites de cette « défense des services publics » et se demander si, à demeurer sur le terrain de cette opposition du marché et de l’État, du bien privé et du bien public, on ne se condamne pas à une éternelle et stérile position défensive. Plus encore, il faudrait se demander si, en défendant l’État contre le Marché, on n’oublie pas un peu trop que l’État est aujourd’hui en train de se transformer profondément en entreprise selon les canons de la gouvernance du « corporate state ». La question est par conséquent de savoir de quel principe se soutient la défense de ces « services » : s’agit-il de les défendre au nom de l’Etat « impartial » et « redistributeur » ou bien au nom d’une certaine idée du lien social que l’action de l’Etat entrepreneurial tend à remettre en cause ? Il convient ainsi de remarquer que les « antilibéraux » qui dénoncent l’emprise des processus marchands emploient bien trop souvent le langage même de leurs adversaires et, plus encore que leur langage, leur mode de raisonnement, relève très fréquemment de l’économie publique la plus traditionnelle. Pour le dire vite, tout se passe comme si pour combattre un « ultralibéralisme » supposé vouloir tout privatiser, la seule ligne de défense résidait dans l’argument économique qui distingue les types de biens selon leurs caractéristiques intrinsèques. La seule « originalité » de la position, présentée parfois comme d’une extrême « radicalité », consisterait dès lors à étendre la problématique et la gestion des biens publics à l’échelle mondiale, ce qui ne veut rien dire d’autre que l’appel à la création d’un État mondial.
Il faut rappeler ici que la théorie des biens publics qui fonde une telle revendication n’est jamais qu’une partie d’une doctrine générale des biens économiques pour laquelle la plupart des biens doivent être produits pour des marchés concurrentiels. Ce sont leurs qualités propres, techniques et économiques, qui les destinent comme naturellement au marché 2. De la même manière, il existe des biens qui sont comme naturellement voués à être des biens publics. Comme l’indique la doctrine aujourd’hui en vigueur, les biens privés sont exclusifs et rivaux 3. Un bien est dit exclusif lorsque son détenteur ou son producteur peut empêcher par l’exercice du droit de propriété sur ce bien l’accès à toute personne qui refuse de l’acheter au prix qu’il en exige. Un bien est rival lorsque son achat ou son utilisation exclut toute consommation par une autre personne. On en déduit donc qu’un bien non exclusif est un bien qui ne peut être réservé par son détenteur à ceux qui sont prêts à payer et qu’un bien non rival est un bien ou un service qui peut être consommé ou utilisé par un grand nombre de personnes sans coût de production supplémentaire car la consommation de l’une ne diminue en rien la quantité disponible pour les autres.
Ce sont ces caractéristiques économiques et techniques qui justifient l’intervention de l’Etat selon les thèses classiques de Richard Musgrave et de Paul Samuelson formulées dans les années 1950 4. Selon Richard Musgrave, l’une des fonctions de l’État est de veiller à l’allocation optimale des ressources économiques, ce qui l’oblige à produire les biens qui ne pourraient pas être produits par le marché du fait de leurs particularités. D’où précisément l’appellation qu’on peut leur donner de biens publics. Mais observons bien le raisonnement qui est tenu. C’est parce que certains biens sont en quelque sorte défectueux ou déficitaires au regard de la norme qu’ils doivent être produits par le gouvernement. Un bien public est donc déterminé négativement. Quel est son défaut, quelle est sa déficience ? C’est que l’on ne peut individualiser suffisamment ses bénéficiaires, c’est qu’il bénéficie à un ensemble non divisible d’individus. Lorsque le bien par contre peut être divisé et faire l’objet d’une consommation individuelle sans effets externes, on a alors affaire à un bien qui peut et qui doit être produit sur un marché concurrentiel.
L’économie des biens publics est ainsi dans une relation de miroir avec celle des biens privés, comme le souligne avec pertinence Luc Weber. On n’entrera pas ici dans la discussion pour savoir si ces caractéristiques spécifiques suffisent à justifier l’intervention publique. Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une

2 Les distinctions économiques sont sur ce point des héritages du droit civil romain et de sa division des biens selon leur nature.
3 Cf. pour un exposé de la doctrine Luc Weber, L’Etat acteur économique, Economica, 1997.
4 Cf. Richard Musgrave, The Theory of Public Finance, 1959, et sa présentation canonique par Paul Samuelson, in L’économique, I, Armand Colin, 1982, p. 224.
Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une nature spéciale mais que cela ne rendait pas nécessaire pour autant leur production par l’État.
La doctrine de l’Union européenne, pour ne prendre que cet exemple, a renoncé pour sa part à utiliser les vocables de bien ou de service public, préférant employer les termes de « service d’intérêt général », ce qui laisse la place pour une production privée sous contrainte d’un cahier des charges fixé par des autorités publiques.
La renaissance des communs En réalité, cette présentation qui oppose deux types de biens privés et publics, s’est avérée très insuffisante. Si l’on combine comme cela a été fait dans les années 1970 les deux qualités des biens économiques, on distingue quatre types de biens. A côté des biens purement privés (rivaux et exclusifs) comme les doughnuts achetés au supermarché et des biens purement publics (non rivaux et non exclusifs) comme l’éclairage, la défense nationale ou les phares, on rencontre des biens hybrides ou mixtes, à la fois exclusifs et non rivaux, comme les ponts et les autoroutes sur lesquels on peut établir des péages, ou encore des clubs, des spectacles artistiques ou sportifs payants mais dont la consommation individuelle n’est pas diminuée par celle des autres spectateurs. Mais il est encore possible de rencontrer un autre type de biens mixtes qui sont à la fois non exclusifs et rivaux, comme des zones de pêche, des pâturages, des systèmes d’irrigation, c’est-à-dire des biens dont on peut difficilement interdire ou restreindre l’accès, mais qui peuvent faire l’objet d’une exploitation individuelle pour une utilité personnelle. Ce sont ces biens qu’Elinor Ostrom a désignés comme des« common-pool ressources »), c’est-à-dire des mises en commun de ressources qui donnent lieu à une gestion collective pour leur usage et partage.
La rencontre de cette problématique économique avec la mobilisation écologique à partir des années 1980 a donné un relief très particulier à la théorie des « commons » ( que l’on traduit ici par le mot « communs »), comme formes de gestion commune : parmi les ressources communes, on trouve en effet tous les « biens naturels » aujourd’hui menacés de dégradation ou de destruction, comme l’atmosphère, l’eau, les forêts. Un vaste débat s’est noué autour d’un article de Garrett Hardin qui, en 1968, dans la Tragedy of the Commons 5, avait cru pouvoir montrer, à partir de considérations sur la surpopulation, que les terres communales, avant même le mouvement des enclosures, avaient été détruites par la surexploitation auxquelles elles avaient été soumises par des paysans mus par leur seul intérêt égoïste, considérés tous comme des « resquilleurs » ou des « passagers clandestins » : « Freedom in a commons brings ruin to all », concluait Hardin.
5 Science, 13 décembre 1968, disponible en ligne
http://www.sciencemag.org/cgi/content/full/162/3859/1243
Une littérature abondante, d’inspiration néolibérale, a pris appui sur cet argument pour montrer les avantages de la propriété privée et l’inefficacité de la gestion collective en général. L’échec des services publics et des systèmes de protection sociale tenait au fait qu’ils sont la proie des passagers clandestins qui jouissent gratuitement des avantages sans payer et qui ne veulent surtout pas révéler cette jouissance pour ne pas avoir à en supporter le coût. Mais au-delà de cet aspect des choses, l’article de Hardin a réintroduit sans le vouloir la dimension des commons dans la discussion théorique, ce qui n’est pas un mince paradoxe lorsqu’on sait le discrédit de tout ce qui touchait de près ou de loin au « communisme » à cette époque. Mais il l’a fait en niant totalement l’existence de règles coutumières collectives comme condition d’usage des commons, c’est-à-dire en confondant le libre accès à des ressources et l’organisation collective des ressources. A cet égard, le principal apport de l’économie politique des communs est précisément d’être parti de la définition du commun comme forme de gestion collective 6.
Enfin, dans les années 1990, le développement de l’informatique et de l’Internet, a suscité un regain d’intérêt pour des communs d’un nouveau genre, les « communs de la connaissance ».
La connaissance, en un sens très large, est alors conçue comme une « ressource partagée » non seulement entre universitaires et scientifiques mais entre tous les coproducteurs susceptibles d’intervenir sur des réseaux qui peuvent s’élargir indéfiniment. Si Wikipedia est devenu l’exemple le plus visible de ces nouveaux types de ressources, il en existe de multiples formes correspondant à des communautés de coproduction digitale de toutes formes et de toutes tailles. Le mouvement des logiciels libres ou celui des« creative commons » en sont d’autres tout aussi significatifs. Ces communs de la connaissance, qui sont l’objet d’un vif intérêt aux Etats-Unis depuis une dizaine d’années, ont des particularités qui ont été mises en évidence par E.Ostrom et qui les distinguent des communs dits naturels. Alors que les ressources naturelles sont des ressources rares, à la fois non exclusives et rivales, les communs de la connaissance sont des biens non rivaux dont l’utilisation par les uns non seulement ne diminue pas celle des autres, mais a plutôt tendance à l’augmenter.
6 L’ouvrage désormais classique de Jared Diamond, Effondrement, Folio essais, 2009, est symptomatique de la façon dont une certaine écologie entend répondre à l’objection de G.Hardin en se référant aux travaux de E.Ostrom (p.843-844) : on tente de parer à l’argument de la « tragédie des communs » (p. 25 et 663) en mettant l’accent sur l’attitude responsable des « consommateurs » et non sur la co-production de règles. Cette approche révèle ainsi indirectement les limites de ces travaux.
C’est ainsi que progressivement un nouvel objet est apparu dans la littérature anglo-saxonne sous l’appellation de « commons ». Ce terme a été traduit en français tantôt par « biens publics » tantôt par « biens communs ». C’était pour la première traduction commettre une confusion théorique, puisque l’intérêt de la théorie est précisément de faire apparaître à côté des biens publics de nouvelles sortes de biens. Pour la seconde, c’était oublier que les « commons » ne sont pas nécessairement des biens au sens strict du terme, mais plutôt des systèmes de règles régissant des actions collectives, des modes d’existence et d’activité de communautés. C’est pourquoi il vaut sans doute mieux traduire le terme par « communs » pour faire entendre la dimension institutionnelle du concept et le lien étroit de l’ institution et de la pratique des « commons » avec l’existence de communautés non réductibles à un agrégat d’individus intéressés.
Les communs comme institutions Les limites de la nouvelle économie politique des communs à laquelle le nom d’E. Ostrom est désormais attachée tiennent au fait que cette théorie ne s’est pas complètement débarrassée des hypothèses économiques fondamentales qui fondent la théorie des biens publics 7. Elle reste en effet prisonnière du postulat selon lequel la forme de la production des biens dépend des qualités intrinsèques des biens eux-mêmes. De ce point de vue, la réponse que la théorie économique des communs a apportée à la thèse de Garret Hardin reste problématique. Car s’il est une réalité historique dont les économistes doivent tenir compte c’est bien que le mouvement des enclosures ne relève pas de la soudaine prise de conscience par les propriétaires fonciers de la nature de la terre comme bien exclusif et rival mais de la transformation en Angleterre des rapports sociaux à la campagne comme l’ont encore montré récemment les remarquables travaux de Ellen Meiksins Wood 8.
7 On trouve cette typologie dès 1977 in Vincent Ostrom et Elinor Ostrom , « Public Goods and Public Choices”, in E.S Savas, Alternatives for Delivering Public services, Boulder Westview press, 1977.
8 Cf. Ellen Meiksins Wood, L'origine du capitalisme, Une étude approfondie, Lux Humanités, 2009.
En un certain sens, la nouvelle théorie des communs n’est donc qu’un raffinement de la théorie des biens publics des années 1950 qui reconduit les limitations propres à tout économisme. En un certain sens seulement. Car outre le fait qu’elle prend en considération des questions nouvelles réelles et des transformations majeures comme l’environnement ou les technologies de l’information, cette théorie introduit la dimension fondamentale des institutions dans la gestion des communs, en soulignant que ce n’est pas tant la qualité intrinsèque du bien qui peut déterminer sa nature que le système organisé de gestion qui institue une activité comme un commun. Par là, elle répond à l’argument économique dominant selon lequel une économie ne peut fonctionner sans un système de droits bien définis par un contre-argument qui montre qu’un système institutionnel organisant la gestion commune peut être plus efficace dans un certain nombre de domaines que le marché.
Ce qui permet de mettre sur le même plan les « commons » dits naturels et les « commons » de la connaissance, c’est la prise de conscience des différentes menaces qui pèsent sur l’environnement et sur le partage libre des ressources intellectuelles en raison des règles d’usage explicites ou implicites, formelles ou informelles, actuelles ou potentielles, qui les détruisent ou empêchent leur développement. C’est donc la prise de conscience de leur fondamentale vulnérabilité. Ce qu’il y a de commun dans les « commons », si l’on peut ainsi s’exprimer, c’est le caractère destructeur des règles en usage pour l’exploitation des ressources naturelles et des risques de privatisation qui pèsent sur la production de la connaissance. Pour les unes, ce sont les comportements de prédation sans contrôle, favorisés par la compétition, qui sont les principaux dangers car ils épuisent les ressources naturelles.
Pour les autres, ce sont les processus de privatisation et de marchandisation qui menacent la créativité dans le domaine de la connaissance en imposant de « nouvelles enclosures » et en brisant la coproduction des idées et des oeuvres. C’est la « tragédie des anti-communs » selon l’expression du juriste américain Michael Heller à propos de la privatisation de la recherche biomédicale. La théorie des communs de la connaissance est de ce point de vue une réponse à l’expansion de la propriété intellectuelle et à la place qu’elle occupe dans le nouveau capitalisme. Les dangers ne sont évidemment pas les mêmes, mais dans les deux cas, il est besoin d’imposer des règles qui permettent d’instituer et de « gouverner » les communs et d’identifier le groupe qui gère le commun.
Ce qu’il y a donc de commun dans les communs, le point commun de tous les communs, est le fait qu’ils sont toujours utilisés collectivement et gérés par des groupes qui peuvent être de tailles différentes et obéir à des logiques variées 9.
9 Charlotte Hess et Elinor Ostrome (eds.), Understanding Knowledge as a Commons,
Les communs ne sont pas des « choses » qui préexisteraient aux règles, des objets ou des domaines naturels auxquels on appliquerait de surcroît des règles d’usage et de partage, que des relations sociales régies par des règles d’usage, de partage, ou de coproduction de certaines ressources. En un mot, ce sont des institutions qui structurent la gestion commune. Tout l’apport de la nouvelle économie politique des communs réside dans cette insistance sur la nécessité des règles et sur la nature des règles elles-mêmes qui permettent de produire et de reproduire les ressources communes.
Il faut en tirer une conclusion radicale qui va au-delà des formulations souvent équivoques de cette économie : seul l’acte d’instituer les communs fait exister les communs, à rebours d’une ligne de pensée qui fait des communs un donné préexistant qu’il s’agirait de reconnaître et de protéger, ou encore un processus spontané et en expansion qu’il s’agirait de stimuler et de généraliser 10.
Une politique des communs La gestion de la production des ressources communes doit obéir à un certain nombre de principes institutionnels que la théorie cherche à mettre en évidence. Certes, on peut penser qu’il n’y a rien de très original dans les résultats des travaux empiriques qui montrent que les communs auto-organisés requièrent un engagement volontaire, des liens sociaux denses, des normes fortes et claires de réciprocité. On peut même tenir que les concepts utilisés par cette théorie des communs restent insuffisants, cantonnés qu’ils sont à décrire la « gouvernance » collective des ressources partagées. Issus du corpus de l’économie appliquée aux rapports sociaux (capital social, passager clandestin, action collective, etc.), ils peinent à rendre compte des logiques et des normes de l’action qui permettent de faire fonctionner un « commun » et de penser l’articulation entre des ressources et des communautés humaines. On doit néanmoins réfléchir aux implications politiques des conditions nécessaires énoncées par The MIT Press Cambridge, Massachusetts, London, 2007, p. 5.
10 La thèse de Michael Hardt et Toni Negri est précisément que le commun est spontanément produit par l’action de la multitude comme sa propre condition, de telle manière que l’Empire échoue à capturer ce commun continuellement produit (Multitude, La Découverte, 2004).
Dans leur dernier ouvrage, Commonwealth, Belknap Harvard, 2009, les deux auteurs valorisent à juste titre la lutte organisée dans la « Coordination pour la défense de l’eau » à Cochabamba en 2000 en soulignant le fait que, dans cette expérience, le commun est considéré « non comme une ressource naturelle mais comme un produit social » (Ibid., p. 111). Toute la question est de savoir si ce « produit social » relève encore d’une production spontanée.
E.Ostrom et C.Hess pour la gestion des communs à partir de l’examen des situations qui ont réussi ou échoué.
Ce n’est pas qu’il y a une seule bonne manière de conduire les communs transposable partout. Au contraire, il existe une très grande variété de systèmes de gestion. Mais un certain nombre de questions fondamentales doivent être traitées et résolues par le système de règles pour faire exister un commun et le rendre pérenne. Selon ces deux auteurs, le commun doit avoir des limites nettement définies car il convient d’identifier la communauté concernée par le commun ; des règles doivent être bien adaptées aux besoins et conditions locales et conformes aux objectifs ; les individus concernés par ces règles doivent participer régulièrement afin de modifier ces règles ; leur droit à fixer et à modifier ces règles leur est reconnu par les autorité extérieures ; un système d’auto-contrôle du comportement des membres est collectivement fixé, ainsi qu’un système gradué de sanctions ; les membres de la communauté ont accès à un système peu coûteux de résolution des conflits et peuvent compter sur un ensemble d’activités réparties entre eux pour accomplir les différentes fonctions de régulation.
Cette liste des conditions du commun a sans doute à première vue quelque chose de décevant.
Elle permet pourtant de souligner une dimension essentielle, que la théorie économique standard ne permet pas de voir : le lien étroit entre la norme de réciprocité, la gestion démocratique et la participation active dans la production d’un certain nombre de ressources.
C’est qu’un commun ne réunit pas des consommateurs du marché ou des usagers d’une administration extérieurs à la production, ce sont plutôt des coproducteurs qui oeuvrent ensemble à l’édiction de règles ainsi qu’à leur mise en œuvre 11. En ce sens, la problématique des communs ne remet pas seulement en question l’économie des biens privés mais aussi celle des biens publics, qui lui est complémentaire. Entre le marché qui ne connaît que des biens privés et l’État qui ne connaît que des biens publics, il y a des formes d’activité et de production qui relèvent de communautés éminemment productrices, mais que l’économie politique a été radicalement incapable de penser jusqu’à présent.
11 En ce sens, la traduction de commoners par « usagers » qui est retenue par Isabelle Stengers est malheureuse, même si elle s’accompagne de la distinction entre « usager » et « utilisateur » : un commoner est non un usager, mais le gardien en acte d’une intelligence collective, comme elle le montre d’ailleurs elle-même très bien. Cf. Cf. Isabelle Stengers dans Au temps des catastrophes, résister à la barbarie qui vient, Les empêcheurs de penser en rond/La Découverte, 2009.
Plus encore, si l’on suit les résultats des travaux empiriques sur les communs de la connaissance, cette activité de production doit répondre à des conditions sociales et politiques précises. La production économique des ressources y est inséparable de l’engagement civique, elle est étroitement liée au respect des normes de réciprocité, elle suppose des rapports entre égaux et des modes d’élaboration démocratique des règles. L’économie politique des communs renoue ainsi avec les traditions de pensée du socialisme et de la sociologie.
La théorie des communs permet de souligner le caractère construit des communs. Rien ne peut laisser penser, comme les libertariens seraient tentés de le croire au vu de l’expansion de l’Internet, qu’un commun pourrait fonctionner sans règles instituées, qu’il pourrait être considéré comme un objet naturel, que le « libre accès » est synonyme du laisser faire absolu.
Pas de spontanéisme: la réciprocité n’est pas un don inné, pas plus que la démocratie n’est une donnée humaine éternelle. Le commun doit plutôt être pensé comme la construction d’un cadre réglementaire et d’institutions démocratiques qui organisent la réciprocité afin d’éviter les comportements de type « passager clandestin » mis en évidence par Garret Hardin ou la passivité des usagers dépendants des « guichets » de l’État. D’une certaine manière, la théorie des communs est parfaitement contemporaine du néolibéralisme qui pense, accompagne et favorise la création des objets marchands et la construction des marchés par le développement des droits de propriété, des formes de contrats, des modes construits de la concurrence. Elle permet d’envisager, à son tour, mais dans une voie opposée, un constructivisme théorique fondant une politique de construction des communs.

Fonte: http://1libertaire.free.fr/PDardotCLaval22.html

giovedì, settembre 18, 2014

F. Nietzsche Il viandante e la sua ombra



Parte seconda
Il viandante e la sua ombra


L 'ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene
un'occasione.
Il viandante: Parla — dove? e chi? E quasi come se sentissi parlare me stesso, solo
con voce più debole della mia.
L'ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un'occasione di parlare?
Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la
sento, ma non ci credo.
L'ombra: Accettiamolo e non pensiamoci oltre, tra un'ora sarà tutto finito.
II viandante: Pensai proprio così, quando in un bosco vicino a Pisa vidi prima due e
poi cinque cammelli.
L'ombra: E bene che ambedue siamo ugualmente indulgenti verso di noi, se per una
volta la nostra ragione tace: così anche nel nostro colloquio non ci adireremo e non
metteremo subito le manette all'altro se la sua parola ci suonerà incomprensibile.
Se proprio non si sa rispondere, basta già dire qualcosa: questa è l'equa condizione
alla quale io mi intrattengo con qualcuno. In un dialogo un po' lungo, anche il più
savio diventa una volta pazzo e tre volte babbeo.
Il viandante: Le tue modeste pretese non sono lusinghiere per colui al quale le
confessi.
L'ombra: Debbo dunque lusingare?
II viandante: Pensavo che l'ombra dell'uomo fosse la sua vanità: ma questa non
chiederebbe mai: «debbo dunque lusingare?».
L'ombra: La vanità umana, se ben la conosco, non domanda neppure, come io ho
già fatto due volte, se può parlare: parla sempre.
Il viandante: Solo adesso mi accorgo quanto sono scortese nei tuoi confronti, mia
cara ombra: non ho ancor neppure fatto parola su quanto mi rallegra di ascoltarti, e
non solo di vederti. Lo sai, io amo l'ombra come amo la luce. Perché esistano la
bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere,
l'ombra è necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: anzi si tengono
amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l'ombra le scivola dietro.
L'ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci
della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e
scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell'ombra che tutte le cose
mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza — io sono anche
quell'ombra.
Il viandante: Credo di capirti, anche se ti sei espressa in modo un po' umbratile. Ma
avevi ragione: i buoni amici si dicono talvolta una parola oscura, come segno
d'intesa, che dev'essere un enigma per ogni altra persona. E noi siamo buoni amici.
Perciò basta con i preamboli! Centinaia di domande premono il mio animo, e il
tempo in cui tu potrai rispondervi è forse troppo breve. Vediamo su che cosa
incontrarci in fretta e pacificamente.
L'ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non dirai a nessuno come
abbiamo parlato insieme!
Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? II cielo mi guardi da lunghi ed
elaborati dialoghi scritti! Se Platone avesse avuto meno gusto a elaborare, i suoi
lettori avrebbero più gusto a lui. Un dialogo che nella realtà delizia è, se
trasformato in scrittura e letto, un quadro con prospettive del tutto false: tutto è
troppo lungo o troppo corto. — Tuttavia potrò forse comunicarti su che cosa ci
siamo accordati?
L'ombra: Questo mi basta; perché tutti vi riconosceranno solo le tue opinioni;
nessuno si ricorderà dell'ombra.
Il viandante: Forse ti sbagli, amica! Sinora nelle mie opinioni si è vista più l'ombra
che me.
L'ombra: Più ombra che luce? È possibile?
Il viandante: Sii seria, cara matta! La mia prima domanda esige subito serietà!
8.
Nella notte. — Non appena scende la notte, cambia la nostra percezione delle cose
più vicine. C'è il vento che si insinua per vie proibite, bisbigliando, come se
cercasse qualcosa, turbato perché non la trova. C'è la luce della lampada, dal cupo,
rossastro bagliore, che guarda stanca e resiste malvolentieri alla notte, schiava
impaziente dell'uomo che veglia. Ci sono i respiri del dormiente, il loro ritmo
raccapricciante al quale un sempre ritornante affanno sembra scandire la melodia;
noi non la udiamo, ma come il petto del dormiente si solleva, sentiamo una stretta
al cuore e quando il respiro si abbassa, quasi estinguendosi in una quiete mortale, ci
diciamo: «riposa un poco, povero spirito travagliato!» — a ogni vivente
auguriamo, poiché vive così oppresso, una pace eterna: la notte induce alla morte.
Se gli uomini rinunciassero al sole e conducessero la lotta contro la notte al chiaro
di luna o al lume dell'olio, quale filosofia li avvolgerebbe nel suo velo! Già fin
troppo si nota dalla natura intellettuale e spirituale dell'uomo, come essa venga
complessivamente offuscata da quella metà di oscurità e assenza di sole che ricopre
la vita.
9.
Da dove ha origine la dottrina della libertà del volere. — Su uno la necessità grava
sotto forma delle sue passioni, su un altro come abitudine ad ascoltare e obbedire,
su un terzo come coscienza logica, sul quarto come capriccio e malizioso piacere
dell'avventura. Da questi quattro, comunque, la libertà del volere viene cercata
appunto là dove ognuno di loro è più strettamente legato: è come se il baco da seta
cercasse la libertà del suo volere proprio nel tessere. Da dove viene ciò?
Evidentemente dal fatto che ciascuno si ritiene più libero là dove è più grande la
sua sensazione di vita, quindi, come abbiamo detto, ora nella passione, ora nel
dovere, ora nella conoscenza, ora nel capriccio. il singolo individuo ritiene
istintivamente che ciò che lo rende forte e lo stimola debba anche essere sempre
l'elemento della sua libertà: egli considera dipendenza e ottusità, indipendenza e
sensazione vitale come abbinamenti necessari. — Viene così erroneamente traslata
all'estremo campo metafisico un'esperienza che l'individuo ha fatto nel campo
sociopolitico, dove l'uomo forte è anche l'uomo libero, dove il senso vitale di gioia
e di dolore, l'intensità della speranza, l'audacia del desiderio, la potenza dell'odio
sono pertinenza dei dominanti e degli indipendenti, mentre l'assoggettato, lo
schiavo vive oppresso e ottuso. — La teoria della libertà è una invenzione delle
classi dominanti.
10.
Non sentire nuove catene. — Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci
riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia
presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e
riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto
che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse,
sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento. — E se invece fosse vero
il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero
quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per
le nuove catene egli soffre ancora: — «libertà del volere» non significa altro che
non sentire nuove catene.
11.
La libertà del volere e l'isolamento dei fatti. — La nostra abituale, imprecisa
osservazione prende un gruppo di fenomeni come una unità e lo chiama un fatto:
fra questo e un altro fatto essa si figura uno spazio vuoto, essa isola ogni fatto. Ma
in verità tutto il nostro fare e conoscere non è una sequenza di fatti e di spazi vuoti,
intermedi, ma un flusso continuo. Ora, proprio la fede nella libertà della volontà è
incompatibile con l'idea di un fluire continuo, omogeneo, indiviso e indivisibile;
essa presume che ciascuna singola azione sia isolata e indivisibile; è un atomismo
nell'ambito del volere e del conoscere. — Proprio come comprendiamo
inesattamente i caratteri, così facciamo con i fatti: parliamo di caratteri uguali, di
fatti uguali: né gli uni né gli altri esistono. Ora, noi lodiamo o biasimiamo, ma solo
in base a questa falsa premessa che vi siano fatti uguali, che esista un ordinamento
graduato di generi di fatti al quale corrisponda un ordinamento graduato di valori:
quindi noi non isoliamo soltanto il singolo fatto, ma anche i gruppi di fatti ritenuti
uguali (azioni buone, cattive, pietose, invidiose eccetera) — in entrambi i casi
erroneamente. — La parola e il concetto sono il motivo più evidente per cui
crediamo a questo isolamento di gruppi di azioni: con essi noi non designiamo
soltanto le cose, noi intendiamo originariamente afferrare con essi l'essenza delle
cose stesse. Con parole e concetti veniamo ancor oggi continuamente tentati di
immaginare le cose più semplici di quello che sono, separate l'una dall'altra,
indivisibili, ognuna esistente di per sé. Nel linguaggio si nasconde una mitologia
filosofica che, per quanto si possa essere prudenti, sbuca fuori a ogni istante. La
fede nella libertà del volere, e cioè nei fatti uguali e nei fatti isolati, trova nel
linguaggio il suo fedele evangelista e avvocato.
13.
Dire due volte. — E bene esprimere subito una cosa due volte e darle un piede
destro e uno sinistro. La verità può si stare in piedi su una gamba, ma con due
camminerà e andrà in giro.
14.
L'uomo, il commediante del mondo. — Ci dovrebbero essere creature più di spirito
di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel
fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si
ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio
ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di
divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla
terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo.
Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per
trovare, nei gesti tragico-orgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma
soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa creatura, la sua gioia —
quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più
spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito. — Persino qui, dove la nostra
umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno
scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione,
qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel
mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca
talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la
goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del
mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni
simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi — ma francamente
neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il
germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di
questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una
vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé — quindi, in nessun
caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza. Forse la formica del bosco è
altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco,
come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente
la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo
a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un
crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato
non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante
sepolcro dell'umanità.
16.
Dove è necessaria l'indifferenza. — Nulla sarebbe più assurdo del voler attendere,
come tanto spesso viene consigliato, ciò che la scienza stabilirà definitivamente
circa le cose prime e ultime, e del pensare (e soprattutto credere!) fino a quel
momento nel modo tradizionale. L'impulso a voler assolutamente avere in questo
ambito solo certezze è una inclinazione religiosa, nulla di meglio, — una forma
nascosta e solo apparentemente scettica di «esigenza metafisica», abbinata al
pensiero recondito che ancora per molto, molto tempo non vi sarà alcuna
prospettiva di ottenere queste certezze ultime e che fino ad allora il «credente» avrà
diritto di non preoccuparsi dell'intero settore. Queste certezze sugli estremi
orizzonti non ci sono affatto necessarie per vivere un'umanità piena e valida: non
più di quanto siano necessarie alla formica per essere una buona formica. Assai più
dobbiamo invece chiarire a noi stessi da dove effettivamente provenga quella fatale
importanza che per tanto tempo abbiamo attribuito a quelle cose: e a tale scopo ci
serve la storia dei sentimenti etici e religiosi. Infatti solo sotto l'influsso di questi
sentimenti sono diventate così rilevanti e terribili per noi le più spinose questioni
della conoscenza: si sono trascinati negli estremi settori, dove l'occhio spirituale
ancora giunge ma senza penetrarvi, concetti come colpa e punizione (e
precisamente punizione eterna!): e questo tanto più incautamente quanto più oscuri
erano questi settori. Dai tempi più remoti si è fantasticato con temerarietà laddove
non si poteva stabilire nulla, e si sono indotti i posteri a prendere queste fantasie
come cose serie e vere, da ultimo con l'esecrabile espediente che il credere valga
più del sapere. Ora, a proposito di quelle ultime cose non è necessario opporre il
sapere al credere, ma piuttosto l'indifferenza circa il credere e il preteso sapere in
questi campi! Tutto il resto ci dev'essere più vicino di ciò che finora ci è stato
predicato come più importante — intendo quegli interrogativi: perché l'uomo?
quale sorte avrà dopo la morte? come si riconcilia con Dio? o comunque possano
essere formulate queste curiosità. Non più di questi interrogativi dei religiosi ci
interessano le questioni dei dogmatici filosofici, siano essi idealisti, materialisti o
realisti. Tutti quanti ci spingono a prendere una decisione in campi nei quali non è
necessario né il credere né il sapere; persino ai più grandi appassionati della
conoscenza è più utile che intorno a tutto ciò che è ricercabile e accessibile alla
ragione si stenda una fascia acquitrinosa, nebulosa e illusoria; la fascia
dell'impenetrabile, dell'eternamente fluido e indefinibile. Proprio dal confronto con
il regno dell'oscurità ai margini della terra del sapere aumenta continuamente di
valore il chiaro e vicino, vicinissimo mondo del sapere. — Dobbiamo ridiventare
buoni vicini delle cose prossime e non distogliere così sprezzantemente lo sguardo
da esse, come abbiamo fatto sinora, verso le nuvole e i mostri notturni. In selve e
caverne, in zone acquitrinose e sotto cieli coperti — qui l'uomo è vissuto troppo a
lungo come su gradini di civiltà di interi millenni, e vissuto miseramente. Qui ha
appreso a disprezzare il presente e i vicini e la vita e se stesso — e noi, abitanti dei
più luminosi campi della natura e dello spirito, riceviamo ancora, per eredità, nel
nostro sangue qualcosa di questo veleno del disprezzo per cose che è prossimo.
19.
Immoralisti. — oggi i moralisti debbono accettare di venir additati quali
immoralisti, perché sezionano la morale. Ma chi vuol sezionare deve uccidere:
tuttavia solo perché si possa meglio conoscere, meglio giudicare, meglio vivere;
non affinché tutto il mondo sezioni. Ma purtroppo gli uomini continuano a credere
che ogni moralista debba essere anche in tutto il suo agire un esempio che gli altri
debbono imitare: essi lo scambiano per il predicatore della morale. I primi moralisti
non sezionavano abbastanza e predicavano troppo spesso; da questo derivano
quella confusione e quelle spiacevoli conseguenze per i moralisti attuali.
35.
Casistica del vantaggio. — Non esisterebbe una casistica della morale se non
esistesse una casistica del vantaggio. L'intelligenza più libera e sottile spesso non
basta a scegliere tra due cose in modo che la sua scelta implichi necessariamente il
vantaggio maggiore. In tali casi si sceglie perché bisogna scegliere, e dopo si soffre
una specie di mal di mare del sentimento.
37.
Una specie di culto delle passioni. — Voi, uomini tetri e bisce filosofiche, per
accusare il carattere di tutto il mondo parlate del carattere terribile delle passioni
umane. Come se ovunque ci sono state passioni, ci sia anche stata questa terribilità!
Come se nel mondo dovesse sempre esserci questa terribilità! — Per aver
trascurato le cose piccole, per non aver osservato voi stessi e coloro che debbono
essere educati, avete fatto assurgere le passioni a mostri tali che oggi già alla parola
«passione» siete presi da paura! Stava a voi e sta a noi togliere alle passioni il loro
carattere terribile e prevenirle in modo che non diventino torrenti devastatori. —
Non bisogna gonfiare i propri errori a fatalità eterne; lavoriamo piuttosto
onestamente a trasformare tutte le passioni dell'umanità in gioia.
39.
Origine dei diritti. — I diritti risalgono in massima parte a una tradizione, e la
tradizione a un accordo accaduto una sola volta. Un tempo si fu dapprima
soddisfatti da entrambe le parti per le conseguenze dell'accordo raggiunto, e poi si
fu troppo pigri per rinnovarlo formalmente; così si continuò a vivere come se
l'accordo venisse sempre rinnovato, e gradualmente, quando la dimenticanza ne
coprì con le sue brume le origini, si credette di possedere una situazione sacra e
immutabile, sulla quale ogni generazione doveva continuare a costruire. La
tradizione divenne allora costrizione, anche se non recò più quell'utile in base al
quale si era originariamente stipulato l'accordo. — I deboli vi hanno trovato in ogni
tempo la loro solida rocca: e tendono a eternare quell'accordo di una volta, quella
concessione di grazia.
40.
Importanza del dimenticare nel sentimento morale. — Le stesse azioni che
all'interno della società primitiva furono dapprima dettate dall'utilità comune, sono
poi state compiute dalle generazioni successive in base ad altri motivi: per timore o
rispetto verso coloro che le esigevano e consigliavano, o per abitudine, perché sin
da bambini le si era vedute compiere intorno a sé, o per benevolenza, perché il farle
causava ovunque gioia e visi consenzienti, o per vanità, perché venivano lodate.
Tali azioni di cui è stato dimenticato il motivo fondamentale, quello dell'utilità,
vengono dette poi morali: non perché vengano compiute in base a quegli altri
motivi, ma perché non sono compiute per consapevole utilità. — Da dove proviene
quest'odio per l'utilità, che qui diviene visibile, dove ogni agire degno di lode si
separa formalmente da ogni agire in base a un'utilità? — Evidentemente la società,
focolare di ogni morale e di ogni lode per l'agire morale, ha dovuto combattere
troppo a lungo e troppo duramente contro l'utile personale e l'egoismo del singolo,
per non stimare moralmente più alto ogni altro motivo che non sia l'utilità.
S'ingenera così l'apparenza che la morale non sia nata dall'utilità; mentre in origine
essa è l'utilità della società, che a gran fatica si è affermata contro tutte le utilità
private e si è fatta considerare superiore ad esse.
44.
Livelli della morale. — La morale è innanzitutto un mezzo per conservare in
genere la comunità e scongiurarne la decadenza; poi è un mezzo per mantenere la
comunità a un certo livello e in una certa bontà. I suoi motivi sono la paura e la
speranza: e tanto più rudi, potenti e grossolani, quanto più forte è la tendenza
all'errore, all'unilateralità, all'individualismo. Debbono qui operare i mezzi di
intimidazione più terribili, sinché non vorranno agire mezzi più miti e non si possa
raggiungere in altro modo quella duplice specie di conservazione (tra i suoi mezzi
più forti è l'invenzione di un aldilà con un inferno eterno). Allora dovranno esserci
torture dell'anima e aiutanti del boia. Altri gradi della morale e quindi mezzi per lo
scopo indicato sono i dettami di un dio (come la legge mosaica); gradi ulteriori e
più elevati, i dettami di un'idea assoluta di dovere con il «tu devi» — gradini, tutti,
ancora rozzamente sbozzati ma larghi, perché gli uomini non sanno ancora posare
il piede su quelli più sottili e stretti. Viene poi una morale dell'inclinazione, del
gusto, e infine quella della conoscenza — la quale sta al di sopra di tutti gli
illusionistici motivi della morale, ma ha compreso come per lungo tempo l'umanità
non abbia potuto averne altri.
47.
Cloache dell'anima. — Anche l'anima deve avere le sue determinate cloache nelle
quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la
patria oppure il mondo oppure infine — per quelli molto boriosi (voglio dire i
nostri cari «pessimisti» moderni) — il buon dio.Contenuto della coscienza. — Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che
negli anni dell'infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da
persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel
senso del dovere («questo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché
debbo? In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un «perché», l'uomo agisce
senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. La fede nelle autorità è la fonte
della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell'uomo, ma la
voce di alcuni uomini nell'uomo.
74.
La preghiera. — Solo con due premesse il pregare — quest'usanza dei tempi
antichi non ancora completamente estinta — avrebbe un senso: dovrebbe esser
possibile persuadere o dissuadere la divinità, e chi prega dovrebbe saper meglio di
ogni altro di che cosa abbia bisogno, che cosa per lui sia veramente da desiderare.
Ma queste due premesse, accolte e tramandate in tutte le altre religioni, furono
negate proprio dal cristianesimo; se esso tuttavia conservò la preghiera, nonostante
la sua fede in una ragione divina onnisciente e onniprevidente, la quale appunto
rende in fondo la preghiera priva di senso, anzi sacrilega, — anche in questo
mostrò ancora una volta la sua ammirevole astuzia di serpente; perché un
comandamento chiaro, «non pregare», avrebbe portato i cristiani per noia a un noncristianesimo.
Nell'ora et labora cristiano, l'ora tiene il posto del piacere: e che
cosa avrebbero fatto senza l'ora quegli infelici che si negarono al labora, i santi! —
ma intrattenersi con Dio, chiedergli ogni sorta di cose piacevoli, e divertirsi persino
un po' sul fatto di esser tanto folli da avere ancora desideri, nonostante un padre
così eccellente, — questa fu per i santi un'ottima invenzione.
78.
Credere nella malattia in quanto malattia. — Solo il cristianesimo ha dipinto il
diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel
mondo. La fede nei rimedi che esso ha offerto contro di esso è stata a poco a poco
scossa sin nelle sue più profonde radici: ma tuttora esiste la fede nella malattia che
esso ha insegnato e diffuso.
81.
La giustizia del mondo. — E possibile sconvolgere la giustizia del mondo — con la
teoria della totale irresponsabilità e innocenza di ognuno: ed è già stato fatto un
tentativo nella stessa direzione proprio in base alla teoria opposta, della totale
responsabilità e colpevolezza di ciascuno. Fu il fondatore del cristianesimo a voler
abolire la giustizia terrena e cancellare dal mondo il giudizio e la punizione. Egli
infatti intendeva ogni colpa come «peccato», ossia come offesa nei confronti di Dio
e non come offesa nei confronti del mondo; d'altra parte riteneva tutti in
larghissima misura e quasi sotto ogni rispetto come peccatori. Ma i colpevoli non
debbono essere giudici dei loro pari: così sentenziò la sua equità. Tutti i giudici
della giustizia terrena erano dunque ai suoi occhi colpevoli quanto i condannati, e
la loro aria di innocenza gli appariva ipocrita e farisaica. Inoltre egli guardava ai
motivi delle azioni e non agli esiti, e riteneva che solo uno avesse l'acutezza
necessaria per giudicare sui motivi: lui stesso (o, come si esprimeva: Dio).
82.
Affettazione nel congedo. — Chi vuol separarsi da un partito o da una religione
pensa che ora gli sia necessario confutarli. Ma questo è un pensiero assai superbo.
Necessario è solo che egli comprenda chiaramente quali appigli lo tennero legato a
quel partito o a quella religione, e che essi non lo fanno più, quali propositi lo
hanno spinto verso di quelli e ora lo portano altrove. Noi non abbiamo aderito a
quel partito o a quella religione per rigorosi motivi di conoscenza: separandocene,
non dobbiamo nemmeno fingerlo.
84.
I prigionieri. — Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile dove lavoravano: il
sorvegliante mancava. Alcuni di loro si misero subito al lavoro com'erano soliti,
altri rimasero inoperosi guardandosi intorno con caparbietà. Allora si fece avanti
uno e disse: «Lavorate quanto vi pare, oppure non fate nulla: è la stessa cosa. Le
vostre macchinazioni segrete sono state scoperte, di recente il sorvegliante vi ha
spiato e nei prossimi giorni vuol pronunciare su di voi un terribile giudizio. Voi lo
conoscete, è duro e vendicativo. Ora però fate attenzione: sinora non mi avete
conosciuto bene: io non sono quel che sembro, ma molto di più: sono il figlio del
sorvegliante e posso tutto presso di lui. Posso salvarvi, voglio salvarvi; ma, beninteso,
solo quelli di voi che credono che io sono il figlio del sorvegliante; gli altri
raccolgano il frutto della loro incredulità». — «Ora», disse dopo un silenzio un
anziano prigioniero, «che cosa può importarti che ti crediamo o no? Se sei
veramente il figlio e puoi fare quel che dici, metti una buona parola per noi tutti:
sarebbe veramente molto buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso sul credere
e sul non credere!» — «E», gridò intanto un giovane, «io non gli credo: si è solo
messo in testa qualcosa. Scommetto che tra otto giorni noi ci troveremo
esattamente come ora, e che il sorvegliante non sa nulla.» — «E se anche sapeva
qualcosa, non lo sa più», disse l'ultimo dei prigionieri che solo allora era giunto nel
cortile, «il sorvegliante è morto ora, all'improvviso.» — «Olà», gridarono tutti
confusamente, «olà! Signor figlio, signor figlio, come la mettiamo con l'eredità?
Siamo forse ora tuoi prigionieri?» — «Ve l'ho detto», rispose quello dolcemente,
«lascerò libero chiunque creda in me, così com'è certo che mio padre vive ancora.»
I prigionieri non risero, alzarono le spalle e lo lasciarono.
85.
Il persecutore di Dio. — Paolo ha concepito il pensiero, e Calvino lo ha elaborato,
che per innumerevoli uomini la dannazione è stabilita dall'eternità, e che questo bel
piano del mondo è stato concepito in modo che vi si manifesti la maestà di Dio;
dunque cielo e inferno e umanità esistono — per soddisfare la vanità di Dio! Quale
crudele e insaziabile vanità deve aver divampato nell'animo di colui che per primo
o per secondo pensò una cosa del genere! — Paolo è dunque pur rimasto Saulo —
il persecutore di Dio.
193.
Le epoche della vita. — Le vere epoche della vita sono quei brevi periodi di sosta
tra il sorgere e il tramontare di un pensiero o di un sentimento dominante. Qui c'è
ancora una volta sazietà: tutto il resto è sete e fame — oppure noia.
194.
Il sogno. — I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e giungono a
completarsi — il sogno di solito è una abborracciatura — , sono concatenazioni
simboliche di scene e immagini al posto di un linguaggio poetico narrante; essi
parafrasano le nostre esperienze o aspettative o relazioni con audacia ed esattezza
poetiche, sicché la mattina nel ricordare i nostri sogni ci meravigliamo sempre di
noi. Nel sogno consumiamo troppa arte — ed è per questo che di giorno spesso ne
siamo così poveri.
218.
La macchina come maestra. — La macchina insegna, attraverso se stessa,
l'interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa
fornisce il modello dell'organizzazione partitica e della condotta bellica. Non
insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni
individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare
il vantaggio della centralizzazione.
220.
Reazione contro la civiltà delle macchine. — La macchina, essa stessa prodotto del
più alto raziocinio, mette in moto nelle persone che le sono addette quasi
esclusivamente le energie più basse e prive di pensiero. Essa scatena così una
quantità di forze in genere, che altrimenti dormirebbe, questo è vero; ma non dà la
spinta a salire più in alto, a far meglio, a diventare artisti. Rende attivi e uniformi
— ma ciò produce alla lunga un effetto contrario, una disperata noia dell'anima che
per mezzo suo impara ad aver sete di un ozio ricco di mutamenti.
266.
Gli impazienti. — Proprio colui che diviene non vuole ciò che diviene: è troppo
impaziente per questo. Il giovane non vuole attendere sino a che dopo lunghi studi,
sofferenze e privazioni, il suo quadro degli uomini e delle cose sia completo: così
in buona fede ne accetta un altro, che è pronto e gli viene offerto, come se questo
dovesse anticipargli linee e colori del suo quadro: si getta tra le braccia di un
filosofo, di un poeta, e allora deve stare per lungo tempo a servizio e rinnegare se
stesso. In tal modo impara molto: ma spesso un giovane dimentica così ciò che è
più degno di essere appreso e conosciuto — se stesso, e rimane per tutta la vita un
partigiano. Bisogna ahimè superare molta noia, versare molto sudore prima di
trovare i propri colori, il proprio pennello, la propria tela! — E neanche allora si è
maestri nella propria arte di vivere — ma almeno si è padroni nella propria
officina.
267.
Non esistono educatori. — Come pensatori si dovrebbe parlare solo di
autoeducazione. L'educazione dei giovani ad opera d'altri o è un esperimento
condotto su un essere ancora sconosciuto e non conoscibile, oppure è un
livellamento di principio, volto a rendere il nuovo essere, quale esso sia, conforme
alle abitudini e ai costumi dominanti: dunque in ambedue i casi è cosa indegna del
pensatore; è opera dei genitori e dei maestri, che un coraggioso sincero ha definito
nos ennemis naturels. Un giorno, quando secondo l'opinione del mondo si è già
educati da tempo, si scopre se stessi: allora comincia il compito del pensatore;
allora è tempo di rivolgersi a lui, non come a un educatore, ma come a uno che ha
educato se stesso, che ha esperienza.
269.
Le età della vita. — Il paragone tra le quattro età della vita e le quattro stagioni è
una venerabile sciocchezza. Né i primi vent'anni della vita né gli ultimi venti
corrispondono a una stagione: posto che, in tale paragone, non ci si accontenti del
bianco dei capelli e di quello della neve e simili giochi cromatici. Quei primi
vent'anni sono una preparazione alla vita in genere, a tutto l'anno della vita, come
una specie di lungo capodanno; e gli ultimi venti sono uno sguardo d'insieme, una
interiorizzazione, una riconnessione e armonizzazione di tutto quel che si è vissuto
prima: così come si fa, in piccolo, nel giorno di San Silvestro con tutto l'anno che è
passato. In mezzo sta però effettivamente un periodo che suggerisce il paragone
con le stagioni: il periodo dai venti ai cinquant'anni (per calcolare qui in blocco a
decenni, mentre è ovvio che ciascuno dovrà affinare secondo la propria esperienza
questa rudimentale impostazione). Quei tre decenni corrispondono a tre stagioni:
all'estate, alla primavera e all'autunno — un inverno nella vita umana non c'è, a
meno che non si vogliano definire periodi invernali dell'uomo quei lunghi periodi
di malattia che purtroppo non di rado intessono la sua vita, duri, freddi, solitari,
poveri di speranze, infruttuosi. Gli anni dai venti ai trenta: caldi, fastidiosi,
burrascosi, pieni di esuberanza, stancanti, anni in cui alla sera, quando il giorno è
finito, si esalta questo asciugandosi la fronte: anni in cui il lavoro ci appare duro
ma necessario — questi anni sono l'estate della vita. Gli anni sulla trentina sono
invece la sua primavera; l'aria ora è troppo calda, ora troppo fredda, sempre
inquieta e stimolante: sgorgare di linfa, piena fioritura, profumo di fiori,
dappertutto: molti mattini e notti incantevoli, il lavoro, al quale ci risveglia il canto
degli uccelli, un vero e proprio fervore, una specie di godimento del proprio vigore,
potenziato da speranze anticipatrici di gioia. Infine gli anni dai quaranta ai
cinquanta: misteriosi, come tutto ciò che si arresta; simili a un elevato, vasto
altopiano sul quale spiri un vento fresco; sovrastato da un cielo chiaro e senza nubi,
che notte e giorno guarda con la stessa soavità: il tempo del raccolto e della più
grande serenità del cuore — è l'autunno della vita.
L'ombra: Di quel che hai detto, più di tutto mi è piaciuta una promessa: che volete
ridiventare buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di
noi, povere ombre. Perché, ammettetelo, sinora ci avete calunniato anche troppo
volentieri.
Il viandante: Calunniato? Ma perché non vi siete difese? Avevate pur vicine le
nostre orecchie.
L'ombra: Ci sembrava appunto di esservi troppo vicine per poter parlare di noi
stesse.
Il viandante: Delicato! Assai delicato! Ah, voi ombre siete «uomini migliori» di
noi, me ne accorgo.
L'ombra: Eppure ci avete chiamato «importune» — noi, che almeno una cosa
sappiamo fare — tacere e attendere — nessun inglese lo sa far meglio. È vero, ci si
trova molto, molto spesso al seguito dell'uomo, ma mai come sue schiave. Quando
l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà.
Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l'uomo e allora anche voi lo
abbandonate.
L'ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose
dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre intorno a lui. Pur di
possedere una totale conoscenza dell'uomo, sarei volentieri la tua schiava.
Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente
padrona? Oppure se tu rimarresti schiava ma, disprezzando il tuo padrone,
condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della
libertà, così come è rimasta a te — a te e a me! Giacché la vista di un essere non
libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero,
se qualcuno dovesse dividerle con me, — non voglio sapere di schiavi intorno a
me. Per questo non amo il cane, il pigro e scodinzolante parassita, che è diventato
«cane» solo come servo degli uomini, e di cui essi sogliono addirittura decantare la
fedeltà al padrone e il fatto di seguirlo come la sua …
L'ombra: Come la sua ombra, essi dicono. Forse anch'io oggi ti ho seguito per
troppo tempo? È stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un
attimo di pazienza! Il prato è umido, ho i brividi.
II viandante: Oh, è già tempo di separarsi? E ho dovuto alla fine farti ancora male,
l'ho visto: sei diventata più scura.
L'ombra: Arrossivo, nel colore in cui posso farlo. Mi è venuto in mente che spesso
sono stata ai tuoi piedi come un cane, e che tu allora …
Il viandante: E, in tutta fretta, non potrei farti ancora un piacere? Hai qualche
desiderio?
L'ombra: Nessuno, tranne quello che ebbe il «cane» filosofico davanti al grande
Alessandro: togliti un poco dal sole, ho troppo freddo.
Il viandante: Che debbo fare?
L'ombra: Cammina sotto quei pini e guarda i monti: il sole tramonta.
Il viandante: Dove sei? Dove sei?

FONTE:F. Nietzsche, Umano,, toppo umano, I e II, Arnoldo Mondadori, 2008

giovedì, settembre 11, 2014

Rolando Perez On An(archy) and Schizoanalysis 2.0


  

Algoritmi del capitale Matteo Pasquinelli

Algoritmi del capitale

Sta per uscire Algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune (Ombre corte, 2014), a cura di Matteo Pasquinelli. Il libro raccoglie i contributi di Franco Berardi "Bifo", Mercedes Bunz, Nick Dyer-Witheford, Stefano Harney, Christian Marazzi, Antonio Negri, Matteo Pasquinelli, Nick Srnicek, Tiziana Terranova, Carlo Vercellone, Alex Williams.
Essendo un tema molto dibattuto e di grande valore per tutti coloro che seguono la rubrica di cheFare, abbiamo chiesto all'editore, che ringraziamo, il permesso di pubblicare un estratto dell'introduzione, a firma del curatore.




La limousine aveva il pavimento in marmo di Carrara, estratto dalle cave in cui Michelangelo, mezzo millennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata. Guardò Chin, abbandonato sul sedile, perso in divagazioni.
“Quanti anni hai?”
“Ventidue. Cosa? Ventidue...”
“Metti in bocca una gomma e prova a non masticarla. Per
uno della tua età, con le tue doti, c’è una sola cosa al mondo
degna di interesse professionale e intellettuale.
“Che cos’è, Michael?”
“L’interazione tra tecnologia e capitale, la loro inseparabilità.”
Don DeLillo, Cosmopolis


La limousine di un miliardario non ancora trentenne procede lentamente per le strade di New York, tagliando l’orizzonte verticale delle torri del capitale finanziario. Più che la pornografia folkloristica di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, è stato Cosmopolis di Don DeLillo, scritto negli stessi anni del movimento di Seattle e prima del tragico attacco alle Twin Towers, ad averci accompagnato nelle pieghe sofisticate della crisi attuale, nella virtualizzazione della finanza e delle relazioni sociali.

I finestrini insonorizzati della limousine inquadrano, come schermi digitali, i marciapiedi di Manhattan, mentre all’interno altri monitor rimandano silenziosamente agli algoritmi delle fluttuazioni di borsa. In questo racconto ambientato nell’anno 2000 si anticipa già il connubio tra speculatori finanziari e giovani hacker maestri nel software di analisi dei mercati, in particolare quella manipolazione e astrazione del tempo collettivo in prodotti finanziari che tutti abbiamo imparato a conoscere come futures e “derivati”.

L’atmosfera è sospesa e i dialoghi metafisici, ma la limousine si muove goffa nel traffico e goffamente incontra la storia nei corpi di una protesta anticapitalista proprio negli stessi luoghi in cui esploderà, dieci anni più tardi, il movimento Occupy Wall Street. Ma questa odissea orizzontale e lineare sembra appunto solo estremizzare la vertigine dei grattacieli soprastanti, l’abisso rovesciato della proiezione numerica del capitale, l’astrazione di torri bancarie che appaiono architetture svuotate e proiettate fuori da questo mondo e da questo tempo, dove il futuro rincorre se stesso. Non è solo dal tettuccio di una limousine che questo si intravede.

Diversamente dai personaggi di Cosmopolis, la tesi variamente sostenuta dagli autori del presente libro è che capitalismo e sviluppo tecnologico possano essere radicalmente separati e ridisegnati in senso rivoluzionario, che le lotte politiche taglino di traverso la composizione tecnica, che l’astrazione più estrema dell’intelligenza sia un’arma propria della moltitudine e che il futuro debba essere riconquistato come terreno di una visione politica contro il moralismo dell’austerity. Coincidenza vuole che questa raccolta esca a cinquant’anni dalla prima traduzione italiana, nel quarto numero dei “Quaderni Rossi”, nel 1964, del cosiddetto “frammento sulle macchine” di Marx.

Un quarto di secolo fa, Paolo Virno diceva che il capitolo sulle macchine dei Grundrisse, in cui Marx profetizzava la crisi dell’accumulazione di valore a causa dell’egemonia del general intellect, si citava negli anni Sessanta per attaccare la supposta neutralità della scienza nella produzione industriale, negli anni Settanta come critica del socialismo di stato e dell’ideologia del lavoro e finalmente tra gli anni Ottanta e Novanta veniva acquisito come vera e propria incarnazione della tendenza del postfordismo e della società della conoscenza (senza alcuna eruzione conflittuale, veniva fatto notare). Tuttavia il fine di questo volume non è quello di compiere (narcisisticamente) un bilancio della questione techné all’interno dell’operaismo italiano: al contrario, si tratta di riprendere le provocazioni del presente, soprattutto quelle che ci raggiungono da latitudini intellettuali inaspettate e che prendono di mira i baluardi teorici più rassicuranti.


Parafrasando Virno, si potrebbe dire che nel XXI secolo il capitolo sulle macchine dei Grundrisse debba essere riletto e confrontato con un ulteriore stadio di sviluppo: ovvero con il livello di astrazione della cosmopolis finanziaria, logistica, securitaria e digitale. Le stesse tesi del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale devono oggi essere nuovamente sondate per comprendere l’accelerazione globale dell’intelligenza macchinica che gestisce tanto le reti della finanza quanto quelle della logistica, i social media quanto i confini dei flussi migratori, gli apparati di polizia e di intelligence quanto i calcolatori che misurano il cambiamento climatico.

In una battuta, si potrebbe dire che non è sufficiente affermare che il capitalismo di oggi è un capitalismo cognitivo, ovvero che valorizza e organizza la conoscenza e le informazioni prodotte dal lavoro di una moltitudine globale ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica e a un dispositivo digitale (tutti hanno almeno un telefono cellulare). Il capitalismo ha sviluppato forme di intelligenza autonoma e di scala superiore. Si deve dire: il capitale stesso “pensa”.

Un po’ come quando la prospettiva moderna di Leon Battista Alberti nacque portando a Firenze le tecniche di proiezione ottica e astrazione geometrica dei matematici di Baghdad, raddrizzando molti quadri sghembi, aggiungendo una dimensione di profondità all’estetica e aprendo dunque una visione nuova delle spazio collettivo e politico, così sarebbe oggi salutare importare una visione aliena nella filosofia politica (e in particolare nella cosiddetta Italian Theory), per potere vedere i network globali e l’orizzonte tecnologico globale con la profondità e la proiezione di un nuovo paradigma, che faccia emergere e dischiuda uno spazio collettivo e politico più complesso. Si dà oggi un salto di qualità, un passaggio di paradigma, una breccia epistemica che dovrebbe essere riconosciuta da qualunque forma di pensiero. Urge un Machiavelli del nomos tecnologico globale.

Il trontiano punto di vista “di parte” ha bisogno di un nuovo paio di occhiali per osservare la nuova profondità del “tutto” macchinico. Si prendano quattro esempi macroscopici e quattro aree di tensione politica con le quali tutti si devono confrontare, ovvero: il monopolio dell’economia digitale da parte di Google, Facebook e altri social media; le gigantesche reti della distribuzione e della logistica, come Amazon o Walmart; il recente datagate, ovvero lo scandalo che ha coinvolto le agenzie di intelligence americane intorno all’intercettazione e analisi dei metadati delle comunicazioni globali; i sensori, i calcolatori e i modelli attraverso i quali il cosiddetto cambiamento climatico della terra si dice venga registrato, calcolato e previsto. Ognuna di queste infrastrutture tecnologiche sta ridisegnano i confini del nomos politico degli stati tradizionali semplicemente aprendo nuovi spazi ed estendendosi in nuove dimensioni.

Non essendo questa la sede per addentrarci in tutti e quattro i livelli, basti qui tracciare un parallelo tra la questione del cambiamento climatico e gli apparati, le reti e la scala delle tecnologie messe in opera nel piano di sorveglianza PRISM della National Security Agency americana. Quello che è importante sottolineare è la scala di questa ultima operazione: immensi data center, paragonabili a quelli di Google e Facebook, sono stati costruiti dalla NSA al fine di intercettare, archiviare e analizzare il traffico internet e le comunicazioni individuali di mezzo mondo. Ma quel che è più importante è la scala epistemologica, la qualità della informazione e della conoscenza che in questo modo si estrae, analizza e produce. Un ex direttore della CIA lo ha riassunto in modo cinico ma efficace: “Uccidiamo persone sulla base dei metadati”.


L’intercettazione di contenuti e il pedinamento individuale risultano molto meno interessanti ed efficaci della capacità di visione collettiva estratta nei metadati, ovvero nei dati che descrivono la dimensione collettiva (e quindi politica) di altri dati. Dal punto di vista di una epistemologia della scienza, non è arbitrario stabilire un parallelo tra i protocolli usati per l’intercettazione e la “previsione” dei crimini e del terrorismo con quelli usati per la misurazione e la “previsione” delle anomalie del riscaldamento globale. Scettici o meno riguardo al cambiamento climatico, la sua percezione collettiva e quindi politica (perché quella individuale e soggettiva non è un dato scientifico), dipende da una infrastruttura globale di sensori e calcolatori che è al di fuori dalle portata e del controllo di qualunque individuo, comunità o movimento. Solo superpotenze hanno la possibilità di accedere e controllare una tale mole di dati. “Una macchina immensa” – la definisce Paul Edwards nel libro A Vast Machine a proposito delle tecnologie che servono appunto per registrare il cambiamento climatico.

Data questa nuova conformazione del comando imperiale, come si ridefinisce il conflitto? Dove si danno e come si chiamano le lotte? Dove sono le forme di resistenza lungo questo nuovo asse maestro del comando? Ovunque. Non possiamo dire che le lotte contro le condizioni di lavoro della logistica asiatica siano più importanti di quelle degli studenti americani, che le lotte contro la gentrificazione a Berlino siano più importanti di quelle dei migranti in Campania, che quelle contro la corruzione e i nuovi oligopoli della rendita vengano prima di quelle contro l’austerity e contro il debito. Già nel Capitale (riprendendo le note dei Grundrisse), Marx scriveva a proposito di un “asse maestro” della produzione industriale che, separando e continuamente intrecciando potenza intellettuale e potenza manuale, oggi vediamo esteso organicamente a tutta la produzione globale:

“È nella grande industria organizzatasi sul fondamento delle macchine che si verifica la separazione delle facoltà intellettuali [Potenzen] dal processo di produzione dal lavoro manuale, e la trasformazione di queste facoltà in dominio [Mächte] del capitale sul lavoro. L’abilità specifica del singolo operatore-macchina [Maschinen-arbeiter] s’annulla come accessorio assolutamente trascurabile di fronte alla scienza, alle gigantesche forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incorporati nel sistema delle macchine e formano insieme ad esso il potere del master.”

È possibile visualizzare quindi anche un asse comune delle lotte globali? La comprensione di questo automaton tecnologico planetario, che ruota come fosse il vero e proprio asse gravitazionale delle terra, non viene né prima né dopo l’organizzazione politica. Né è parte consustanziale. Contro gli algoritmi del capitale vanno inventate nuove macchine del comune, macchine che intervengano su questo asse maestro della produzione mondiale per organizzare nuove e visionarie forme della politica, e immaginare persino avventure spaziali che, come ben suggerito dall’Afrofuturismo ripreso dagli stessi accelerazionisti, siano capaci di contrastare e sfidare la forza di gravità del capitalismo terrestre.

[…] Con J.G. Ballard dovremmo davvero ripetere che la terra è per noi l’unico e vero “pianeta alieno” da esplorare, come aliena deve essere sempre la nostra stessa intelligenza politica – intelligenza che viene a sfidare il capitale in quanto macchina di altissima astrazione e a rilanciare il comune come macchina di ben più potente astrazione.

FONTE: http://www.doppiozero.com

martedì, settembre 09, 2014

Il grande calibano Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale Silvia Federici e Leopoldina Fortunati

L’analisi della formazione del proletariato che proponiamo in questo saggio procede su binari diversi da quelli percorsi generalmente dagli storici marxisti i quali ‒ dai classici, ai teorici dell'autonomia del politico ‒ danno, a parer nostro, un'immagine limitata e parziale di tale processo. Il limite che rileviamo qui, per quanto li concerne, è quello di aver considerato il passaggio al capitalismo essenzialmente negli effetti che esso ha avuto sul processo della produzione delle merci. Di conseguenza, i sostanziali mutamenti indotti nell'individuo sono stati assunti come il risultato immediato e diretto delle trasformazioni operate dall'organizzazione di «fabbrica» (intesa in senso lato), quali l'allungamento della giornata lavorativa, l'approfondimento della divisione del lavoro, la tendenza alla concentrazione dei mezzi e degli agenti della produzione e interamente ricondotti a queste.
Radicalmente diverse sono, come accennavamo sopra, le premesse teoriche da cui noi partiamo. È oggi ormai acquisito che la riproduzione è l'altro polo della produzione di plus-valore. Ma riconoscere questo non basta: non ha senso nemmeno dire prima la fabbrica, poi la «società». Certamente è in prospettiva l'organizzazione della fabbrica che determina il tipo di individuo che il capitale cerca di plasmare. È altrettanto vero tuttavia che l'instaurarsi della nuova disciplina del lavoro ha richiesto come passaggio preliminare la determinazione sul terreno della riproduzione di un nuovo individuo sociale, forgiato sia attraverso la distruzione di quegli elementi precapitalistici che si presentavano antagonistici rispetto alla nuova disciplina, sia attraverso lo sviluppo di nuove capacità e attitudini.
Anzi, sarebbe opportuno rovesciare l’ordine temporale e dire prima «società» e poi fabbrica, nel senso che ci sono voluti ben tre secoli per sedimentare la forza-lavoro come merce disponibile sul mercato. Tre lunghi secoli di lotte tra proletariato e capitale: così a lungo è infatti durato il loro braccio di ferro, prima che si sedimentasse un individuo ad immagine e somiglianza di una merce, la forza-lavoro. Questa merce, che il capitale della grande industria pone come presupposto e condizione della sua esistenza, è in realtà il risultato di un laborioso processo nel corso del quale il capitale rivoluziona ogni rapporto sociale e soprattutto le condizioni sociali del processo di riproduzione. Quella che viene definita la «società» del capitale è basilarmente fondata sull'invisibile fabbrica in cui si produce e riproduce la forza-lavoro: è questa la prima fabbrica sviluppata dal capitale, nonché vincolata fin da subito a una produzione di massa.