Alceste De Ambris (1874-1934), il sindacalista rivoluzionario italiano che consacrò l'intera sua esistenza alla lotta senza esclusione di colpi e senza requie contro lo Stato borghese prima, contro il fascismo e le sue vigliacche e tiranniche consorterie poi, morendo in esilio, in Francia, così come decessi in esilio, vittime dell'ostracismo espresso e sanzionato dall'infida plebe, furono i migliori tra gli esseri umani che calcarono la nostra brulla terra, da Dante Alighieri a Napoleone I Bonaparte, da Nestor Makhno a Lucio Sergio Catilina, Alceste dunque scriveva a questo modo in un articolo emesso su "L'Internazionale", organo della Camera del Lavoro sindacalista rivoluzionaria di Parma, già una delle voci dell'interventismo rivoluzionario del 1914-1918 e poi del sindacalismo dannunziano, intitolato "D'Annunzio e il proletariato" e pubblicato il 3 Dicembre 1922: "L'amico Tommaso Bruno, in un suo articolo "Chiarificazione" ha espresso con riguardosa franchezza le preoccupazioni che tormentano l'animo di molti lavoratori quando pensano a D'Annunzio. Molti fra i più sinceri militanti della causa proletaria, sono infatti divisi fra la speranza e il timore, e chiedono perciò "che si chiuda il ciclo malinconico di induzioni, indagini e ricerche sul pensiero dannunziano; pensiero che tutti forse interpretano in modo più rispondente alle proprie aspirazioni, ai propri sentimenti, che non ai sentimenti ed alle aspirazioni dell'uomo stesso, verso cui tanti sguardi si protendono".
Io comprendo questo stato d'animo pur senza condividerlo; ma credo che si possa trovare la certezza richiesta con tanta ansia anche senza pretendere da Gabriele D'Annunzio una definizione geometrica del suo pensiero, che repugna alla natura del pensiero stesso.
Quello che noi abbiamo il diritto di chiederci è la direzione in cui costantemente si mantiene e si sviluppa, il pensiero dannunziano, fermandoci sulle espressioni veramente significative di esso e trascurando certi episodi cui dà rilievo il pettegolume della cronaca giornalistica.
Fanno ridere coloro i quali giudicano che si debba ritenere D'Annunzio, volta a volta, fascista, socialista, comunista, liberale, perchè riceve Finzi, Baldesi, Cicerin, Orlando.
Anzitutto: quando mai è stato adottato il criterio d'interpretare il pensiero di un cittadino in base all'elenco degli uomini con i quali ha avuto contatto? E poi: è lecito credere che D'Annunzio possa subire influenze modificatrici delle sue direttive per il fatto di conversare qualche ora con un uomo politico? Se c'è al mondo una individualità spiccata, autonoma, libera fino alla più assoluta libertà spirituale, organicamente incapace di subire qualsiasi influenza esteriore-anche dei suoi più devoti e più vicini-quella è certamente l'individualità di D'Annunzio.
Lo sa bene chi lo conosce, ed Egli stesso l'ha detto nella prefazione di quel suo libro "Contro uno e contro tutti" che gli italiani hanno il torto di non conoscere abbastanza:
"Intanto io preservo la mia azione, pur contro i miei stessi partigiani: chè in tutti i partigiani anche fidi è la smania nascosta o mal dissimulata di vincolare il capo. Sul camino di una mia casa vecchia era scritto: "Chi 'l tenerà legato?" Distrutta è la casa, ma sopravvive lo spirito indocile dell'elemento".
Così gli accaparramenti del nome e della personalità di D'Annunzio, tentati di continuo con le più audaci mistificazioni, che vogliono essere astute e sono soltanto gaglioffe, riescono sempre allo scopo contrario, ed hanno torto coloro che di tali conati inani s'impensieriscono.
Ma quali sono le direttive del pensiero dannunziano nel campo sociale e politico; che è quello di cui s'interessa il popolo lavoratore?
Cominciamo con lo stabilire che voler incasellare D'Annunzio in un partito od in una scuola, appioppandogli qualsiasi tessera, sarebbe come voler costringere un'aquila a stare dentro una stia di galline.
D'Annunzio è un tipo d'eccezione e come tale non può essere il partigiano di una dottrina quale che essa sia. Egli obbedisce ad una sua logica intima che supera i dettami della logica comune, armonizzando in una sintesi il cui processo sfugge spesso alla nostra comprensione di uomini medi, elementi fra loro in apparenza contrastanti. Per questo bisogna saperlo intendere lasciandoci guidare piuttosto dalla fede, che non dal freddo ragionamento. E sopra tutto non bisogna chiedere ad un uomo siffatto di piegarsi al consueto costume del partito politico e dell'organizzazione economica.
Ciò non vuol dire che nella espressione del pensiero di Gabriele D'Annunzio non si possa rintracciare una costante direttiva. Ogni qual volta la Sua arte toccò i temi che più ci interessano, si espresse sempre nel medesimo senso, anche quando il Poeta sembrava più lontano dall'anima del popolo.
C'è un dramma intitolato "La Gloria" che i più hanno dimenticato. In quel dramma "che fu incompreso e vilipeso", Gabriele D'Annunzio esprimeva la sua luminosa visione di quella libertà politica che noi pure vorremmo vedere instaurata in Italia:
"Vi ricordate voi di quel suo discorso sul fiorire dei Comuni? E di quell'altro su le Repubbliche? Quando mai le virtù attive di un popolo, la varietà delle opere, la sapienza degli istituti, la prevalenza degli ottimi, il fervore della passione civica, l'impronta dell'uomo su la cosa, l'utensile fatto vivente, le pietre adunate da un decreto di gloria, la potenza pubblica espressa dall'edifizio, la città scolpita come un simulacro, tutta quella grande concordia discorde che costituiva lo stato libero, quando mai ebbero un dimostratore più efficace e più caldo?"
Ed anche, in quel dramma, era annunziato l'avvento dei lavoratori della terra nella rappresentazione del "rito romano dell'investitura agli uomini della gleba, il dominio della terra trasmesso agli inviati delle Federazioni rurali, sul Campidoglio riconsacrato nel segno del Vomere. La supremazia del contado oggi sarebbe giusta. Nel decadimento di tutte le classi, il contadino-forte, rude, sobrio, tenace, sano-non è oggi il migliore? Essendo il migliore, sarebbe giusto che egli regnasse".
Questo nel 1899, quando al lavoratore della terra era conteso ogni diritto, a cominciare dal diritto di sciopero. Chi non ricorda il "Canto di Calendimaggio"? E lo spirito che anima il poema "Laus Vitae"? Ivi non si canta soltanto l'eroismo glorioso, ma una umana uguaglianza ed una divina giustizia.
Ma se le parole del vecchio dramma suonano lontane nel tempo e se la poesia è così difficile ad essere compresa, vi sono di Gabriele D'Annunzio parole recenti e troppo chiare per aver bisogno di sforzo interpretativo: ad esempio, un brano del vietato discorso che Egli avrebbe dovuto pronunziare in Roma il 24 Maggio 1919:
"Se il popolo italiano avesse l'ardire di trapassare, senza esitazioni e senza conciliazioni, da un regime rappresentativo bugiardo a una forma di rappresentanza sincera che rivelasse ed innalzasse i produttori veri della ricchezza nazionale contro i parassiti e gli inetti della odiosa casta politica non emendabile, le sette e sette vittorie dell'Alpe, del Carso e del Piave impallidirebbero davanti a questa meravigliosa vittoria civile. Ma non abbiamo noi fatta la guerra per giungere a questo? La nostra guerra non l'abbiamo noi guerreggiata per giungere ad un rinnovamento vittoriale? Non intendevamo che fosse questa la causa dell'Anima delle reclute del '99 e del '900, gli ultimogeniti della gran madre sanguinosa? La rivincita non è sognata e non è premiata se non dai vinti. Ma se tanto il popolo italiano volesse o potesse, per una volta i vincitori veri avrebbero la rivincita vera".
Ma tutte queste espressioni d'arte non avrebbero per noi se non un valore relativo, se non fossero state confermate dagli atti. Non ricorderò il gesto di Gabriele D'Annunzio alla Camera dei Deputati: nel 1900, quando passò all'estrema sinistra- durante l'ostruzionismo- per andare "verso la vita". Mi basterà di ricordare fatti assai più vicini, compiuti da lui quando aveva una enorme responsabilità, durante l'impresa di Fiume. Il senso più intimo e vero di questa impresa sfuggì a quasi tutti: a chi la vide e la esaltò come la conquista di alquanti chilometri quadrati di terreno e di un porto importante, ed a chi credette di doverla deprecare come l'estremo e più pericoloso conato di un imperialismo frenetico.
A capire D'Annunzio e l'opera sua non rimasero in realtà che pochi giovani semplici, ingenui, cui la guerra aveva dischiuso l'anima all'eroismo che si prodiga per l'Idea pura, al sacrificio che non cerca compenso. Non li guidava il ragionamento gelido ma una fresca spontanea intuizione fatta di ardore e di fiducia. Essi non tentavano di analizzare D'Annunzio, e molto meno ancora di attribuirgli i loro pensieri o di vincolarlo ai loro interessi: sentivano d'istinto che Egli era lo spirito vivo della stirpe e lo seguivano con assoluta fede e con purità di cuore. Questa breve schiera vide D'Annunzio-il Comandante di Fiume-schierarsi apertamente a lato degli operai, quando questi fecero lo sciopero generale, nell'Aprile del 1920, per ottenere il minimo di salario, ed esaltò il Comandante nella affermazione del nuovo diritto sociale consegnata nella Carta del Carnaro.
" (...) Il proletariato italiano, che ha già commesso un primo errore scambiando la rivoluzionaria impresa di Fiume per un tentativo reazionario, in base a false informazioni ed a tendenziose induzioni, vorrà ancora una volta misconoscere e rinunziare all'immenso valore spirituale che D'Annunzio potrebbe recargli, mantenendosi sospettoso-od almeno incerto-perchè il Comandante non crede di dover sciupare il suo tempo a rettificare corbellerie di giornalisti faciloni o a controbattere speculazioni dei politicanti poco scrupolosi?"
Nino Bixio, scrivendo alla moglie il suo stato d'animo nel trovarsi accanto a Garibaldi, diceva: "Io mi trovo nella poesia". Non facciamo accostamenti per numerose ragioni, ma possiamo dire che vicino a D'Annunzio giovani e anziani, colti o non colti, spiriti semplici o anime complicate, tutti si trovavano, vicini a Lui, nella poesia; oggi quella poesia rimane a trasfigurare molti degli aspetti umani della vita del Poeta, ma rimane soprattutto un materiale che non può essere letto che nella sua concretezza effettiva, per quello che dice, non per quello che chiosatori interessati vogliono fargli dire. D'Annunzio ha sbalordito tre o quattro generazioni e ora sconta questa vendemmia orgiastica: i sopravvenienti non sanno perdonare a chi ha fatto man bassa di tutto durante un lungo cammino.
Gabriele D'Annunzio troppo spesso ha giocato a nascondersi, ad apparire quello che non era, e ha spesso annunziato questo suo gioco delizioso di luci ed ombre: "Ho abbacinato i miei fedeli perchè vacillassero, ho deluso i miei partigiani perchè mi tradissero", ha detto nelle "Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire" (1935), ma era questa un'affermazione che corrispondeva a considerazioni retrospettive in un momento di ripresa orgogliosa della sua personalità di artista solitario, ne' riusciva ad annullare con essa le vibrazioni commosse e immediate che lo assalirono numerosissime di fronte ad un problema presentatosi alla sua fantasia di poeta, o alla sua mente di uomo.
La grandezza inalterabile e cristallina della sua eccelsa Individualità gli consentiva di operare quei suoi funambolici acrobatismi politico-cerebrali.
Caro, dolcissimo, soavissimo, pertinace Comandante, che davvero la matrigna e dolente terra possa esserti lieve e ti avvolga in un benigno e febbrile abbraccio: sempre ti idolatreremo, o D'Annunzio, non defletteremo mai nella lotta contro gli speculatori e i loro servi, le canaglie fasciste, come tu li nomavi e vituperavi saviamente e con ciò onoreremo la tua feconda e nivea memoria, il tuo incorrotto ed incontaminato Spirito, che soltanto le Alte Idealità movean a pugnare. Per la Santa Causa dell'Anima, per la Purezza e la Rivoluzione Spirituale, noi ci eterneremo a te devoti, o Soggetto senza limiti.
La via degli infami, dei traditori, dei vili e degli schifosi che venne aperta ed inaugurata da Enrico De Marinis, il deputato socialista che seguì affranto e a capo chino il corteo funebre in suffragio di Umberto I di Savoia Re d'Italia, giustiziato dal santo Gaetano Bresci, officiante umbratile e misterioso della Religione del Nulla, è lastricata dai suoi numerosi e medagliettati e solenni e sporchi e luridi e lordi epigoni.
Nostro compito è quello di schiantarla, di disossarla, quella laida via, con un necessario e necessitante botto. Sapremo ben valere. Noi rifiutiamo la orrida e mistificante realtà borghese e plutocratica odierna. Patologicamente ma sacrosantamente.
Che il grido di battaglia lanciato dalla Lega di Fiume e ripreso dai feniani irlandesi e dagli indipendentisti egiziani, dai nazionalisti indiani e dai comunisti ungheresi, dai socialisti belgi e dagli avventurieri americani, dai senzapatria giapponesi e da quegli anarchici italiani, volontari e legionari fiumani dannunziani, indifferenti e superiori all'ortodossia malatestiana e alle reprimende pretesche e beghine e bigotte e baciapile di Luigi Fabbri, quegli individualisti immacolati tratteggiati così supremamente da Umberto Foscanelli, possa divenire anche la nostra prece e la nostra invettiva insieme.
Giovanni Giolitti, nelle sue "Memorie della mia vita", Garzanti Editore, Milano 1945, ricorda così un episodio del 1915: "In un comizio tenuto al Teatro Costanzi a Roma, vicino a casa mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone di cavalleria e un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise che arrivassero a me".
Davvero ancora oggi, è un immenso cruccio che continuamente rimugino e non sono in grado di rimuovere, un lutto (mancato) che non sono nelle condizioni di elaborare, il fatto che una revolverata liberatrice non sia seguita agli allettanti auspicii e proponimenti del Vate. Noi non obliamo invece a quel comando risolutore e sempiternamente rispetteremo la consegna: agli ordini, o Comandante, Gabriele D'Annunzio, Ernesto Che Guevara italico, ultimo italiano figlio delle Muse!
"D'Annunzio non si è contentato di chiudersi nel mondo dei suoi sogni, e ha tentato violentemente di uscirne, trasferendo la celebrazione dell'attività individuale dal chiuso della poesia nel campo aperto e discorde della vita sociale".
(Luigi Russo)
"Forse bisognerà dimenticare l'epiteto di poeta della lussuria che non gli risponde a pieno. D'Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta di ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento. In nessuno degli scritti ascetici, che sono stati forse la sua più forte passione letteraria, si troverà contemplata e indagata la morte come nei suoi libri erotici: la carne non è se non uno spirito devoto alla morte. In questo senso nessuno è stato più carnale di Gabriele D'Annunzio, devoto costante alla morte. Non solo egli s'è visto più volte e s'è descritto morto... egli ha temuto la morte. La sua devozione nasce, come nei primitivi, dall'orrore del suo Dio o demone. Che egli l'abbia cercata, la morte, che ne sia stato tentato, non significa che non la tema... Egli sente come la morte sia l'esperienza maggiore; più grande dell'amore; più decisiva dell'arte; più pericolosa dell'eroismo tragico. Ma essa è anche l'unica esperienza che non consenta ritorni. Egli vorrebbe arricchire la sua vita con la morte".
(Pietro Bargellini)
Nessun commento:
Posta un commento