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lunedì, giugno 30, 2014

Potere, politica, autonomia Cornelius Castoriadis

E' possibile una società fondata sull'autonomia dei soggetti e non sul potere, l'eteronomia istituita?
L'immaginario radicale permette di pensare questa progettualità che mira a portare alla luce il potere istituito e che permette il riassorbimento del politico nella politica (attività consapevole degli individui) e che rende esplicita l'istituzione della società. Questa è, molto sommariamente, la tesi dell'autore: sociologo, economista, psicanalista e nel 1948 tra i fondatori della rivista Socialisme ou Barbarie. Tra le sue opere: L'institution imaginaire de La societé (1975), Domaines de l'homme (1986), L'immaginario capovolto (a cura di Eduardo Colombo, 1987), Gli incroci del labirinto (1988). Questo articolo è stato pubblicato sulla Revue de Metaphysique et de Morale (1988) con il titolo Pouvoir, politique, autonomie.

L'autodispiegamento dell'immaginario radicale come si produce unicamente attraverso la società e come storia (come socio-storico) all'interno delle due dimensioni dell'istituente e dell'istituito.
L'istituzione, nel senso fondante, è creazione originaria del campo socio-storico, del collettivo anonimo che oltrepassa, in quanto eidos, tutte le possibili produzioni degli individui o della soggettività. L'individuo (e gli individui) è istituzione che si dà una volta per tutte e che si fa altra in ogni società altra. Si tratta della questione ogni volta specifica dell'imputazione e delle attribuzioni sociali normative senza le quali non può esserci società. La soggettività come istanza riflessiva e deliberante (come pensiero e volontà) è progetto socio-storico, la cui origine (ripetutasi due volte, con modalità diverse, in Grecia e in Europa occidentale) è databile e localizzabile. La monade psichica ne costituisce il nucleo, irriducibile al socio-storico ma quasi del tutto malleabile a condizione che l'istituzione soddisfi certi minimi requisiti della psiche. Il principale tra questi: fornire alla psiche il senso diurno; attraverso un'educazione che comincia dalla nascita e che si rafforza lungo tutta la vita, forzare e indurre il singolo essere umano a investire e a dare senso alle parti emerse dal magma delle significazioni sociali immaginarie istituite ogni volta dalla società e che tengono insieme la società stessa e le sue istituzioni particolari. è chiaro che il piano socio-storico oltrepassa infinitamente qualunque intersoggettivita. Questo termine è la foglia di fico che non arriva a coprire la nudità del pensiero ereditato a questo riguardo, la sua incapacità di concepire il sociostorico in quanto tale. La società non è riducibile all'intersoggettività, non si tratta di un faccia-a-faccia moltiplicato all'infinito; e il faccia-a-faccia, o il dos-à-dos, possono avere luogo sempre e soltanto tra soggetti già socializzati. La cooperazione tra soggetto, per esempio, non saprebbe mai creare il linguaggio. E un assemblea di inconsci atomizzati sarebbe inimmaginabilmente anche a Hyeronimus Bosch e peggio di un reparto di furiosi di un vecchio ospedale psichiatrico. La società, in quanto sempre già istituita, è autocreazione e capacità di autoalterazione, opera dell'immaginario radicale istituente che si fa società istituita e immaginario sociale ogni volta specifico.
L'individuo in quanto tale non è dunque contingente rispetto alla società. Concretamente, si da società solo attraverso l'incarnazione e l'incorporazione, frammentaria e complementare, della sua istituzione e dei suoi significati immaginari, e con gli individui viventi, parlanti, agenti. La società ateniese non è altro che gli ateniesi (senza i quali di essa resterebbero soltanto i residui di un paesaggio un tempo abitato, frammenti di marmi e di vasi, inscrizioni indecifrabili, statue ripescate da qualche parte nel Mediterraneo), ma gli ateniesi non sono ateniesi che per il nomos della polis. In questo rapporto tra una società istituita (che oltrepassa infinitamente la totalità degli individui che la compongono, ma che non può essere società di fatto se non in quanto realizzata negli individui che essa forma) e i suoi individui, si può distinguere un tipo di relazione inedita e originale, non pensabile secondo le categorie del tutto e delle parti, dell'insieme e dei suoi elementi, dell'universale e del particolare. Creando se stessa la società crea l'individuo e gli individui, all'interno dei quali e attraverso i quali essa può esistere di fatto. Ma la società non è una proprietà di composizione, né un tutto contenente qualcosa che è altro da sé o che è più delle sue stesse parti. Anche perché queste parti sono chiamate a essere, e a essere così, proprio da questo tutto che non può essere se non attraverso di esse, in un tipo di relazione originale che deve essere pensata per se stessa, a partire da se stessa, come modello di se stessa. Del resto anche qui è necessario procedere con cautela. Non si avanzerebbe di molto (come certi credono) dicendo: la società fa gli individui che fanno la società. La società è opera dell'immaginario istituente. Gli individui vengono fatti, nello stesso tempo in cui fanno e rifanno, dalla società ogni volta istituita: in un certo senso essi la sono. I due poli irriducibili sono, da una parte, l'immaginario radicale istituente (cioè il campo di creazione socio-storica) e, d'altra parte, la psiche individuale. Incominciando dalla psiche la società fa ogni volta degli individui che, come tali, non hanno altra possibilità che fare la stessa società che li ha fatti. è solo per questo che l'immaginazione radicale della psiche riesce a traspirare attraverso gli strati successivi della corazza sociale ( l'individuo che la ricopre e la penetra) fino al punto, limite insondabile, in cui si verifica un'azione di ritorno da parte del singolo essere umano sulla società. Notiamo anticipatamente che una tale azione è rarissima, e in ogni caso impercettibile, in quasi tutte le società nelle quali regna l'eteronomia istituita e nelle quali, a parte il ventaglio di ruoli sociali predeterminati, gli unici modi di manifestazione reperibile della psiche singolare sono la trasgressione e la patologia. Diversamente succede in quelle rare società in cui la rottura dell'eteronomia completa consente una vera e propria individuazione dell'individuo, e in cui l'immaginazione radicale della psiche singolare può al tempo stesso trovare, o creare, i modi sociali di un'originale espressione pubblica e contribuire all'autoalterazione del mondo sociale. Ed è ancora un'altra questione constatare che nell'epoca delle alterazioni manifeste e marcate, società e individuo si alterano insieme, e che queste due alterazioni hanno implicazioni reciproche. L'istituzione e le significazioni immaginarie (che essa porta con sé e che la animano) sono creatrici di un mondo (il mondo della società data) che s'instaura fin dall'inizio nell'articolazione tra un mondo naturale e sovrannaturale (o, più genericarnente, extra-sociale) e un mondo umano propriamente detto. Questa articolazione può andare dalla fusione inimaginaria quasi totale alla volontà di separazione più esplicita, dalla sottomissione della società all'ordine cosmico o a dio fino al delirio più estremo della dominazione e del controllo della natura. Ma in tutti i casi sia la natura che la sovra-natura sono ogni volta istituite in quanto tali e nelle innumerevoli articolazioni del loro significato; articolazioni che intrattengono a loro volta relazioni multiple incrociate con le articolazioni della società stessa e che vengono instaurate ogni volta a partire dall'istituzione di essa. La società si crea ogni volta come eidos singolare (le influenze, le trasmissioni storiche, le continuità, le similitudini, esistono certamente, e sono enormi quanto le questioni che esse aprono, ma non modificano la situazione di principio e non sono pertinenti alla presente discussione) e si dispiega in una molteplicità di forme organizzatrici e organizzate. Essa si dispiega in primo luogo come creazione di un tempo e di uno spazio appropriati, popolati da una moltitudine di oggetti naturali, sovrannaturali e umani connessi tra loro tramite le relazioni che la società pone ogni volta, e che sono sempre rinforzati dalle proprietà immanenti dell'essere, come del mondo. Ma queste proprietà vengono ricreate, estratte, scelte, filtrate, messe in relazione e, soprattutto, dotate di senso attraverso l'istituzione e i significati inimaginari della società data. Il discorso generale su queste articolazioni, è quasi impossibile: ogni volta sono opera della società considerata, pregna dei suoi significati immaginari. La materialità, la concretezza di questa o di quella istituzione può sembrare identica o molto simile in due società diverse, ma l'immersione, ogni volta, di questa apparente identità materiale nel magma altro dei significati altri, basta ad alterarla nella sua effettività socio-storica (così troviamo una scrittura con lo stesso alfabeto ad Atene nel 450 e a Costantinopoli nel 750). La constatazione dell'esistenza di universali nelle diverse società (linguaggio, produzione della vita materiale, organizzazione della vita sessuale e della riproduzione, norme e valori) è lungi dalla possibilità di fondare una qualsiasi teoria della società e della storia. Certo è innegabile, all'interno di questi universali formali, l'esistenza di altri universali più specifici; nello stesso modo è innegabile, per ciò che riguarda il linguaggio, l'esistenza di certe leggi fonologiche. Ma più precisamente come la scrittura con lo stesso alfabeto, queste leggi riguardano solo il margine dell'essere della società che si dispiega come senso e significato. Non appena si considerano gli universali grammaticali o sintattici si incontrano delle questioni molto più temibili. Per esempio, l'impresa di Noani Chomsky urta inevitabilmente contro il seguente dilemma impossibile: o le forme grammaticali (sintattiche) sono totalmente indifferenti al senso (enunciato di cui qualsiasi traduttore conosce bene l'assurdità) oppure esse contengono a partire dal primo linguaggio umano, e non si sa come, tutti i significati che non emergeranno mai nella storia. Enunciato che genera una metafisica pesante e naif della storia. Dire che in ogni linguaggio deve essere possibile esprimere l'idea "John ha dato una mela a Mary" è corretto; ma tristemente spiccio. Uno degli universali che possiamo dedurre dall idea ai società, una volta che sappiamo che cos'è una società e che cos'è la psiche, riguarda la validità effettiva (geltung), positiva (nel senso del diritto positivo), dell'immenso edificio istituito. Com'è che l'istituzione e le istituzioni (linguaggio, definizione della realtà e della verità, modi di fare, lavoro, regolazione sessuale, permesso/proibito, appello a morire per la tribù o per la patria quasi sempre accolto con entusiasmo) riescono a imporsi alla psiche che è, per sua stessa essenza, radicalmente ribelle a tutto questo ammasso di elementi confusi? I versanti di questa questione sono due: lo psichico e il sociale. Dal punto di vista psichico la costruzione sociale dell'individuo è un processo storico mediante il quale la psiche è costretta (dolcemente o brutalmente, si tratta sempre di una violenza fatta alla sua stessa natura) ad abbandonare (mai totalmente, ma abbastanza per il bisogno/utilizzo sociale) i suoi oggetti e il suo mondo iniziali e a investire degli oggetti, delle regole, un mondo che sono istituiti socialmente. Risiede qui il vero senso del processo di sublimazione. Il requisito minimo che consente a questo processo di svolgersi è che l'istituzione offra alla psiche del senso, un senso diverso dal proto-senso della monade psichica. L'individuo sociale si costituisce così interiorizzando il mondo e i significati creati dalla società; interiorizzando esplicitamente certi frammenti importanti di questo mondo, e implicitamente la sua totalità virtuale, attraverso gli interminabili rimandi che collegano magmaticamente ogni frammento di questo mondo agli altri.
Il versante sociale di questo processo è costituito dall'insieme delle istituzioni con le quali l'essere umano ha costantemente a che fare fin dalla sua nascita;
in primo luogo con l'altro sociale (generalmente ma non ineluttuabilmente la madre) che si prende cura di lui essendo già esso stesso socializzato in un determinato modo, e con il linguaggio che questo altro parla. Da un punto di vista più astratto si tratterà di quella parte di tutte le istituzioni che riguarda l'istruzione, la formazione, l'educazione dei nuovi venuti (ciò che i greci chiamavano paideia: la famiglia, le classi di età, i riti, la scuola, i costumi e le leggi). La validità effettiva delle istituzioni è così assicurata inizialmente e prima di tutto dal processo stesso mediante il quale il piccolo mostro frignante diviene individuo sociale. E può divenirlo soltanto nella misura in cui ha interiorizzato le istituzioni stesse.
Se noi definiamo potere la capacità, per un'istanza qualunque (personale o impersonale), d'indurre qualcuno (o più persone) a fare (o a non fare) ciò che, lasciato a se stesso, non avrebbe necessariamente fatto (o che forse avrebbe fatto), è evidente che il più grande potere concepibile risulta essere quello di poter preformare qualcuno in modo che faccia ciò che si vorrebbe facesse senza alcun bisogno di dominio o di potere esplicito. è altrettanto evidente che per il soggetto assoggettato questo procedimento crea sia l'apparenza della spontaneità più completa, che la realtà dell'eteronomia più totale. Rispetto a questo potere assoluto qualunque dominazione sarà carente, testimoniando di uno smacco irrimediabile (parlerò d'ora in poi di potere esplicito e non di dominio; questo termine va riservato alle situazioni sociostoriche specifiche in cui si è istituita una divisione asimmetrica e antagonista del corpo sociale). Prima di qualunque potere esplicito, e di più, prima di qualunque dominazione, l'istituzione esercita un infrapotere radicale su tutti gli individui da essa generati.
Questo infra-potere (manifestazione e dimensione del potere istituente dell'immaginario radicale) non è localizzabile. Certamente esso non è mai quello di un individuo e neanche quello di un'istanza designabile. Esso è esercitato dalla società istituita, ma dietro a questa si regge la società istituente; e, da quando l'istituzione viene posta, il sociale istituente comincia a sottrarsi, si mette a distanza, è già altrove. A sua volta la società istituente, per quanto radicale sia la sua creazione, lavora sempre a partire da e sul già istituito. Essa è sempre (salvo per un punto d'origine inaccessibile) nella storia, è sempre, in una parte non misurabile, ripresa del già dato; è dunque sotto il peso di un eredità, anche se con un beneficio d'inventario del quale, nello stesso modo, è difficile fissare i limiti. Cosa questo significhi per il progetto di autonomia e per l'idea di libertà umana effettiva verrà considerato più avanti. Resta il fatto che l'infra-potere in questione, il potere istituente, è al tempo stesso quello dell'immaginario istituente, della società istituita e di tutta la storia, la quale vi trova il suo esito provvisorio. Si tratta dunque, in un certo senso, del potere dello stesso campo socio-storico, il potere di outis, di nessuno. Preso in se stesso l'infra-potere esercitato dall'istituzione dovrebbe essere assoluto, e formare gli individui in modo che essi riproducano eternamente il regime che li ha prodotti. E del resto è manifestamente questa la stretta intenzione (o finalità) delle istituzioni esistenti quasi ovunque, quasi sempre. In questo modo non ci sarebbe storia, e si sa che non è affatto vero. La società istituita non giunge mai a esercitare il suo infra-potere come assoluto. Al massimo (ed è il caso delle società selvagge e, genericamente, delle società che dobbiamo chiamare tradizionali) essa può riuscire a instaurare una temporalità dell'apparente-ripetizione-essenziale, entro la quale lavora, impercettibilmente e su dei periodi lunghi, la sua ineliminabile storicità. In quanto assoluto e totale, l'infra-potere della società istituita (e dietro a questa, della tradizione) è dunque votato al fallimento. Questo fatto che noi constatiamo con semplicità (c'è storia, c'è una pluralità di società altre) richiede qualche delucidazione. Quattro fattori sono qui chiamati in causa. La società crea il suo mondo, lo investe di senso, fa scorta del significato destinato a coprire anticipatamente tutto ciò che potrebbe presentarsi. Il magma di significati immaginari socialmente istituiti riassorbe potenzialmente tutto ciò che potrebbe succedere e non può, in linea di principio, venire sorpreso o essere preso alla sprovvista. In questo, evidentemente, il ruolo della religione (e la sua essenziale funzione di chiusura del senso) è sempre stato centrale (l'olocausto diviene una prova della singolarità e dell'elezione del popolo ebreo). L'organizzazione in sè insiemistico-identitaria del mondo é non soltanto sufficientemente stabile e sistematica nel suo primo strato da permettere la vita umana in società, ma è anche altrettanto lacunosa e incompleta per poter produrre un numero indefinito di creazioni sociostoriche di significati. Questi due aspetti rinviano a delle dimensioni ontologiche del mondo in sé, che nessuna soggettività trascendentale, nessun linguaggio, nessuna pragmatica della comunicazione saprebbero far esistere. Ma anche il mondo, in quanto mondo pre-sociale, limite del pensiero, benché in se stesso non significhi nulla, è sempre là, come scorta inesauribile di alterità, come rischio sempre imminente di lacerazione del tessuto dei significati con i quali la società lo ha rivestito. L'assenso del mondo è sempre una possibile minaccia per il senso della società, è il rischio sempre presente di distruzione dell'edificio sociale dei significati. La società forma gli individui a partire da una materia prima, la psiche. Che cosa bisogna ammirare di più? La quasi totale plasticitàd ella psiche rispetto alla formazione sociale che la sottomette, oppure la sua capacità invincibile di preservare il nucleo monadico e la sua immaginazione radicale, che mette sotto scacco, almeno parziale, l'educazione perpetuamente subita? Di qualunque genere sia la rigidità o l'impermeabilità del tipo d'individuo nel quale essa si è trasformata, l'essere proprio e irriducibile della psiche singolare si manifesta sempre, come sogno, malattia psichica, trasgressione, litigio e bisticciosità, ma anche come singolare contributo alla lentissima alterazione dei modi sociali di fare e di rappresentare. La società è solo eccezionalmente (mai?) unica e isolata. Esiste una pluralità indefinita di società umane, coesistenza sincronica a contatto tra società altre. L'istituzione delle società altre e dei loro significati costituisce una minaccia mortale per le nostre: ciò che per noi è sacro per loro è abominio e il nostro senso è il volto stesso del non-senso. Infine, e forse soprattutto, la società non può mai sfuggire a se stessa. La società istituita è sempre il prodotto della società istituente. Sotto l'immaginario sociale costituito scorre sempre l'immaginario radicale. Del resto è proprio il fatto primo, bruto, dell'immaginario radicale che consente non di spiegare, ma di spostare la questione posta da espressioni quali "si dà il caso" e "vi sia" usate precedentemente. Dire che c'è pluralità essenziale di società, sincronica e diacronica, significa dire che c'è un immaginario istituente. Contro tutti questi fattori che minacciano la sua stabilità e la sua auto-perpetuazione, la società prevede sempre delle difese e delle risposte pre-stabilite e pre-incorporate. Principale tra queste è la cattolicità e la virtuale onnipotenza del suo magma di significazioni. Le irruzioni del mondo amorfo e bruto saranno segni di qualche cosa, interpretati ed esorcizzati; il sogno come la malattia. Gli altri saranno presentati come strani, selvaggi, empi. Il punto nel quale le difese della società istituita sono più deboli è senza dubbio il proprio immaginario istituente. Esso è anche il punto per il quale sia stata inventata la difesa più forte. La più forte, fintanto che dura, e sembra che duri almeno da centomila anni. è la denerazione e l'occultamento della dimensione istituente della società, e l'imputazione dell'origine e del fondamento dell'istituzione e dei suoi significati a una sorgente extra-sociale (extra-sociale in rapporto alla società effettiva, vivente: può trattarsi di dei o di dio, ma anche di eroi fondatori o di antenati che si reincarnano continuamente nei nuovi venuti). Delle supplementari linee di difesa, benché più deboli, vengono create all'interno degli universi storici più tormentati, quando la denegazione dell'alterazione della società, o l'occultamento dell'innovazione attraverso il suo esilio in un passato mitico, divengono impossibili, il nuovo può essere sottomesso a una riduzione fittizia ma efficace mediante il commento e l'interpretazione della tradizione (è il caso delle weltreligionen, delle religioni cosmo-storiche, e in particolare dei mondi ebraico, cristiano e islamico). Il fatto che tutte queste difese possano fallire (e in un certo senso falliscono sempre), che possano esserci il delitto, il litigio violento e insolubile, la calamità naturale che distrugge la funzionalità delle istituzioni esistenti, la guerra, è una delle radici del potere esplicito. Nell'istituzione della società c'è sempre, e ci sarà sempre, una dimensione incaricata di questa funzione essenziale: ristabilire l'ordine, proteggere la vita e l'opera della società contro tutto ciò che attualmente o potenzialmente la mette in pericolo.
Esiste un'altra radice, forse più importante, del potere esplicito. L'istituzione della società, e il magma delle significazioni immaginarie che essa incarna, sono molto più di un ammasso di rappresentazioni (o di idee). La società s'istituisce all'interno e attraverso le tre dimensioni indissociabili della rappresentazione, dell'affetto e dell'intenzione. Anche se la parte rappresentativa (che non significa necessariamente rappresentabile o dicibile) del magma delle significazioni sociali immaginarie si presentasse come la più accessibile, tale accesso rimarrebbe comunque insufficiente (e lo è spesso nelle filosofie della storia e nelle storiografie) se mirasse soltanto a una storia e a un'ermeneutica delle rappresentazioni e delle idee, se ignorasse il magma di affetti proprio a ogni società (la sua Stimmung, la sua "maniera di viversi e di vivere il mondo e la vita"), se ignorasse i vettori intenzionali che intrecciano insieme l'istituzione e la vita della società, cioè la sua caratteristica spinta (che idealmente potrebbe essere ridotta alla sua mera conservazione, ma che in realtà non lo è mai). è per questa spinta che il passato/presente della società è abitato da un a-venire che è sempre un da-fare. è questa spinta che da senso all'incognita più grande: ciò che non è ancora ma che sarà, che darà ai viventi il modo di partecipare alla costituzione o alla preservazione di un modo che prolungherà il senso stabilito. E ancora mediante questa spinta che la pluralità innumerevole delle attività sociali, nello stesso tempo in cui è sottomessa a una gerarchizzazione, oltrepassa sempre il livello della mera conservazione biologica della specie. Ora, l'ineliminabile tensione della spinta verso ciò che è da-fare introduce un altro tipo di disordine nell'ordine sociale, poiché anche nell'ambito più fisso e più ripetitivo l'ignoranza e l'incertezza nei confronti dell'avvenire non consentono mai una piena codificazione preliminare delle decisioni. Il potere esplicito appare così radicato tanto nella necessità della decisione quanto in ciò che è da fare e da non fare, rispetto ai fini più o meno esplicitati che la società considerata si dà come oggetti. è così che mentre ciò che noi chiamiamo potere legislativo e potere esecutivo possono restare nascosti nell'istituzione (nel costume e nell'interiorizzazione delle norme supposte essere eterne), un potere giudiziario e un potere governativo dovranno invece essere esplicitamente presenti, in una forma qualunque, non appena si dà società. La questione del nomos (e della sua applicazione in qualche modo meccanica: il preteso potere esecutivo) può venire nascosta da una società; le questioni della dikè e del telos no. Comunque sia l'articolazione esplicita del potere istituito, non può mai essere pensata unicamente in funzione dell'opposizione "amico/nemico" (Carl Schmitt); il potere esplicito non potrebbe neanche (non più della dominazione) essere ridotto al "monopolio della violenza legittima". A monte del monopolio della violenza legittima c'è il monopolio della significazione valida. Il padrone della significazione troneggia sul padrone della violenza. è soltanto in mezzo al fracasso prodotto dal crollo dell'edificio delle significazioni istituite che la voce delle armi può cominciare a farsi sentire. E ancora, perché la violenza possa intervenire bisogna che la parola (l'ingiunzione del potere esistente) conservi il suo potere sui "gruppi di uomini armati". La quarta compagnia del reggimento Pavlosky (guardie del corpo di Sua Maestà) e il reggimento Semenovsky, sono i più solidi sostegni del trono dello Zar fino al 26 e 27 febbraio del 1917, giorno in cui essi fraternizzeranno con la folla e rivolgeranno le armi contro i propri ufficiali. L'armata più potente del mondo non vi proteggerà se non vi resta fedele. E il fondamento ultimo della sua fedeltà è la credenza immaginaria nella vostra legittimità immaginaria. In una società dunque c'è e ci sarà sempre potere esplicito, a meno che essa non riesca a trasformare i suoi soggetti in atomi che abbiano completamente interiorizzato l'ordine istituito, e a costruire una temporalità che ricopra anticipatamente tutto l'avvenire; compiti impossibili visto ciò che noi sappiamo della psiche, dell'immaginario istituente, del mondo. è questa dimensione dell'istituzìone della società che dobbiamo chiamare dimensione del politico, in riferimento al potere esplicito, cioè all'esistenza di istanze che possano emettere delle ingiunzioni sanzionabili. A questo livello, poco importa che tali istanze siano incarnate dall'intera tribù, dagli anziani, dai guerrieri, da un capo, dal demos, da un apparato burocratico o da qualsiasi altra cosa. Tre motivi di confusione devono essere a questo punto dissolti. Il primo riguarda l'identificazione del potere esplicito con lo stato. Le "società senza stato" non sono delle "società senza potere". In esse regna non soltanto, come dappertutto, un infra-potere enorme (tanto più enorme quanto il potere esplicito è ridotto) dell'istituzione già data, ma anche un potere esplicito della collettività (o dei maschi, dei guerrieri) relativo alla diké e al telos, alle controversie e alle decisioni. Il potere esplicito non è lo stato; termine e nozione questa che dobbiamo riservare a un eidos specifico, la cui creazione storica è più o meno databile e localizzabile. Lo stato è un'istanza separata dalla collettività, istituita in modo da assicurare costantemente questa separazione. Lo stato è una tipica istituzione seconda . Da parte mia propongo che si riservi il termine stato ai casi in cui questo è istituito come apparato di stato, il quale implica una burocrazia separata, civile, clericale o militare, anche rudimentale, cioè un'organizzazione gerarchica delimitata per regioni di competenza. Questa definizione ricopre l'immensa maggioranza delle organizzazioni statali conosciute e lascia fuori solo quei rari casi sui quali si accaniscono coloro che dimenticano che qualsiasi definizione nel dominio socio-storico non vale che per la stragrande maggioranza dei casi, come avrebbe detto Aristotele. In questo senso la polis democratica greca non è uno stato, considerando che il potere esplicito (la posizione del nomos, la diké e il telos) appartiene a tutto il corpo dei cittadini. E questo spiega tra l'altro le difficoltà di uno spirito potente come quello di Max Weber di fronte alla polis democratica: l'impossibilità di far rientrare la democrazia ateniese nel tipo ideale di dominazione tradizionale o razionale (non dimentichiamo che per Weber dominazione razionale e dominazione burocratica sono termini intercambiabili!) e i suoi infelici sforzi per assimilare i demagoghi ateniesi a dei detentori di un potere carismatico. I marxisti e le femministe ribatteranno senza dubbio che il demos esercitava un potere sugli schiavi e sulle donne, dunque che esso era lo stato. Ma allora si dirà che i bianchi degli Stati del sud degli Usa erano lo stato per gli schiavi neri fino al 1865? O che i maschi adulti francesi erano lo stato per le donne fino al 1945 (e, perché no, gli adulti per i non-adulti oggi?). Né il potere esplicito, né la dominazione prendono necessariamente la forma dello stato. La seconda confusione è quella del politico (dimensione del potere esplicito) con l'istituzione complessiva della società. Si sa che il termine "il politico" è stato introdotto da Carl Schmitt (Der Begriffdes Politischen, 1928) in un senso stretto, e, se si accetta ciò che precede, essenzialmente difettoso. Si assiste oggi a un tentativo inverso, che pretende di dilatare il senso del termine fino a fargli riassorbire l'istituzione complessiva della società. La distinzione del politico rispetto ad altri fenomeni sociali si rivelerebbe, sembra, positivista (naturalmente non si tratta dei fenomeni, ma delle dimensioni ineliminabili dell'istituzione sociale: linguaggio, lavoro, riproduzione sessuale, educazione delle nuove generazioni, religione, costumi, cultura in senso stretto). Sarebbe così il politico ad avere l'incarico di generare i rapporti degli umani tra loro e con il mondo, la rappresentazione della natura e del tempo, o il rapporto tra potere e religione. E, beninteso, tutto questo non è nient'altro che quello che dal 1965 ho definito come l'istituzione immaginaria della società e il suo essenziale sdoppiamento in istituente e istituito. A parte i gusti personali, non è chiaro cosa si guadagni nel chiamare il politico l'istituzione catholou della società, mentre è chiaro cosa si perde. Dei due casi almeno uno è vero: chiamando il politico ciò che tutti naturalmente chiamerebbero l'istituzione della società, o compiono un cambiamento di vocabolario che non apporta sostanzialmente nulla, e crea piuttosto, una confusione e che urta con "nomina non sunt praeter necessitatem multiplicanda". Oppure si mira a salvaguardare in questa sostituzione di termini le connotazioni che il termine politico possiede dal momento della sua creazione da parte dei greci, cioè quelle che si riferiscono a delle decisioni esplicite e, almeno in parte, coscienti. In questo caso, per uno strana capovolgimento, il linguaggio, l'economia, la religione, la rappresentazione del mondo deriverebbero dalle decisioni politiche, in un modo che non deluderebbe né Charles Maurras né Pol Pot. Dire che tutto è politico o non significa niente, oppure significa che tutto deve essere politico, derivare cioè da una decisione esplicita del sovrano. La radice di questa seconda confusione risiede forse in una terza, quella che afferma che i greci hanno inventato la politica. Si possono accreditare ai greci molte cose (soprattutto altre cose da quelle che vengono loro abitualmente attribuite) ma certamente non l'invenzione dell'istituzione della società, e neanche del potere esplicito. I greci non hanno inventato il politico, nel senso della dimensione del potere esplicito sempre presente in tutte le società; essi hanno inventato, o meglio creato, la politica, che è tutt'altra cosa. A volte si discute per cercare di definire in che misura c'era politica prima dei greci. Vana querelle, termini vaghi, pensiero confuso. Prima dei greci (e dopo) vi sono intrighi, cospirazioni, millantato credito, lotte sorde o aperte per impossessarsi del potere esplicito, un'arte di gestire il potere esistente (fantasticamente sviluppata in Cina, per esempio) e anche di migliorarlo. Ci sono dei cambiamenti espliciti e decisi di certe istituzioni, e anche delle pre-istituzioni radicali (Mosé o, comunque, Maometto). Ma in questi casi il legislatore gode del potere d'istituire per diritto divino, che sia profeta o re egli invoca o produce dei libri sacri. Se i greci hanno potuto creare la politica, la democrazia, la filosofia, è anche perché essi non avevano né libro sacro, né profeti. Essi avevano dei poeti, dei filosofi, dei legislatori e dei politaì. La politica, così come i greci l'hanno creata, è stata l'esplicita messa in discussione dell'istituzione costituita della società, che presupponeva l'idea (e ciò viene chiaramente affermato nel quinto secolo) che delle parti rilevanti di questa istituzione non avessero niente di sacro né di naturale, ma discendevano dal nomos. Il movimento democratico si salda a quello che ho chiamato il potere esplicito, e tende a re-istituirlo. Come si sa, esso fallisce (o non riesce nemmeno a partire) almeno nella metà delle poleis. Ciò non toglie che la sua emergenza operi in quasi tutte le poleis. Poichè anche i regimi oligarchici o tirannici devono, rispetto a esso, definirsi come tali, apparire dunque per ciò che sono. Ma il movimento democratico non si limita a questo, esso tende potenzialmente alla re-istituzione globale della societa', che può attualizzarsi attraverso la creazione della filosofia. Non piu' commento o interpretazione di testi tradizionali o sacri, il pensiero greco è ipso facto messa in questione della dimensione più importante dell'istituzione della societa': delle rappresentazioni e delle norme della tribù e della nozione stessa della verità. Certo, sempre e dappertutto esiste la verita' socialmente istituita, equivalente alla conformità canonica delle rappresentazioni e degli enunciati con ciò che è socialmente istituito come l'equivalente di assiomi e di procedure di convalida. Ma i greci creano la verità, come movimento interminabile del pensiero, nel mettere costantemente alla prova i suoi stessi limiti e nel ritornare su se stesso (riflessività), e la creano come filosofia democratica: pensare non è una faccenda per rabbini, preti, cortigiani o rinunciatari, ma per cittadini che vogliono discutere nello spazio pubblico creato attraverso questo stesso movimento. Tanto la politica greca quanto la politica possano venire definite come attività collettiva esplicita, che si vuole lucida, ponderata e deliberata, che si dà come oggetto l'istituzione della società in quanto tale. Essa è dunque un venire alla luce, certo parziale, dell'istituente in persona (drammaticamente ma non esclusivamente illustrato dai momenti rivoluzionari). La creazione della politica ha luogo quando l'istituzione data della società viene messa in causa in quanto tale e nei suoi differenti aspetti e dimensioni (che è ciò che ne fa rapidamente scoprire, esplicitare, ma anche articolare diversamente la solidarietà); quando dunque un altro rapporto, fino ad allora inedito, viene creato tra l'istituente e l'istituito. La politica si situa subito, e potenzialmente, a un livello che è al tempo stesso radicale e globale; cosi' come il suo rampollo, la filosofia politica classica. Dico potenzialmente poichè, è noto, molte istituzioni esplicite (e tra esse alcune che ci colpiscono particolarmente: schiavitù, condizione delle donne) in pratica non sono mai state messe in discussione. Ma questa considerazione non è qui pertinente. La creazione della democrazia e della filosofia è l'origine del movimento storico, che va dall'ottavo al quinto secolo, e che si conclude di fatto con la sconfitta del 404. La radicalità di questo movimento non può essere sotto valutata. Anche non considerando l'attività dei nomoteti, sulla quale possediamo poche informazioni affidabili (ma sulla quale potrebbero venir formulate molte inferenze ragionevoli, in particolare sulle colonie che cominciano nell'ottavo secolo) è sufficiente ricordare l'audacia della rivoluzione clisteniana, che riorganizza profondamente la società ateniese tradizionale verso un'uguale ed equilibrata partecipazione di tutti al potere politico. Le discussioni e i progetti politici, di cui sono testimoni i busti mutilati e sparsi del sesto e quinto secolo (Solone, Ippodemo, i sofisti, Democrito, Tucidide, Aristofane), fanno apparire questa radicalità in modo clamoroso. L'istituzione della società viene chiaramente considerata dai greci come opera umana (Democrito, Mikros Diakosmos ). Ma al tempo stesso essi scoprono rapidamente che l'essere umano sarà ciò che ne faranno i nomoi della polis. Essi sanno dunque che non c'è uomo che valga senza una polis che valga e che non sia retta dal nomos appropriato. Essi sanno anche, contrariamente a Leo Strauss, che non si da nomos naturale (in greco sarebbe un accostamento di termini contraddittori). Si tratta della scoperta dell'arbitrarietà del nomos e contemporaneamente della sua dimensione costitutiva all'essere umano, individuale e collettivo, che apre l'interminabile discussione sul giusto e sull'ingiusto, e sul buon regime. E questa radicalità, e questa coscienza della fabbricazione dell'individuo da parte della società nella quale egli vive, che sta dietro le opere filosofiche della decadenza (del quarto secolo, di Platone e di Aristotele), che le ordina come una Selbstverstándlichkeit e che le nutre. Essa consente a Platone di pensare un'utopia radicale; lo spinge a mettere l'accento, come Aristotele, più sulla paideia che sulla costituzione politica in senso stretto. Non è affatto un caso che la rinascita della vita politica in Europa occidentale si accompagni, abbastanza rapidamente, alla riapparizione di utopie radicali. Le utopie testimoniano, in primo luogo e prima di tutto, di questa consapevolezza: l'istituzione è opera umana. E non è affatto un caso che, contrariamente alla povertà della filosofia politica contemporanea a questo riguardo, la grande filosofia politica, da Platone a Jean Jacques Rousseau, abbia messo la paideia al centro dei suoi interessi. Questa grande tradizione muore con la rivoluzione francese, anche se nella pratica la questione dell'educazione ha sempre preoccupato i moderni. E bisognerebbe essere un idiota o un ipocrita per mostrare di stupirsi di quello che Platone ha pensato di legiferare sui nomoi musicali o sulla poesia (oggi lo stato decreta quali poesie i bambini devono imparare a scuola); che egli abbia avuto ragione o torto nel farlo come lo ha fatto e fino al punto in cui ha voluto farlo, è un'altra questione. Ci torneremo sopra. La creazione della politica e della filosofia dei greci è la prima emergenza storica del progetto di autonomia collettiva e individuale. Se vogliamo essere liberi dobbiamo fare il nostro nomos. Se vogliamo essere liberi nessuno deve poterci dire ciò che dobbiamo pensare. Ma liberi come, e fino a che punto? Queste sono le questioni della vera politica (sempre più svuotata dai discorsi contemporanei sul politico, sui diritti dell'uomo o sul diritto naturale) che dobbiamo ora affrontare. Quasi dappertutto e quasi sempre le società hanno vissuto nell'eteronomia istituita; la rappresentazione istituita di una sorgente extrasociale del nomos ne è parte integrante. Il ruolo della religione è in questo senso centrale: fornisce la rappresentazione di questa sorgente e dei suoi attributi, assicura che tutte le significazioni del mondo e delle cose umane scaturiscano dalla stessa origine, cementa questa sicurezza attraverso la credenza, che gioca su delle componenti essenziali dello psichismo umano. Sia detto incidentalmente: la tendenza attuale (della quale Weber è in parte responsabile) a presentare la religione come un insieme di idee, quasi come un'ideologia religiosa, conduce a dei risultati catastrofici, poichè essa misconosce le significazioni immaginarie religiose, che sono altrettanto importanti e altrettanto variabili delle rappresentazioni quali l'affetto religioso e la spinta religiosa. Il diniego della dimensione istituente della società, l'occultamento dell'immaginario istituente mediante l'immaginario istituito, vanno di pari passo con la creazione di individui assolutamente conformi, che si vivono e si pensano nella ripetizione (malgrado quello che possano fare di diverso; e fanno molto poco), la cui immaginazione radicale è inevitabilmente imbrigliata e che non sono davvero individuati (si paragoni per esempio la somiglianza delle sculture di una stessa dinastia egiziana con la differenza tra Saffo e Archiloco o tra Bach e Haendel). Tale diniego va di pari passo anche con il prematuro decadere dell'interrogazione sul fondamento ultimo delle credenze della tribu' e delle sue leggi, dunque di quella sulla legittimità del potere esplicito istituito. In questo senso il termine stesso legittimità della dominazione applicato a delle società tradizionali è anacronistico. Tradizione significa che la questione della legittimità della tradizione non verrà posta. Gli individui vengono formati in modo che la questione resti mentalmente e psichicamente impossibile. L'autonomia comincia a sorgere in germe da quando esplode l'interrogativo esplicito e illimitato, che non verte su dei fatti ma su delle significazioni immaginarie sociali e sui loro possibili fondamenti. Momento di creazione che inaugura sia un altro tipo di società che un altro tipo d'individui. Parlo di germe perché l'autonomia, individuale e sociale, è un progetto. L'emergere dell'interrogativo illimitato crea un nuovo eidos storico: la riflessività nel suo pieno senso, o autoriflessività, l'individuo che la incarna e le istituzioni che la stipulano. Sul piano sociale si chiede: le nostre leggi sono buone? Sono giuste? Quali leggi dobbiamo fare? E sul piano individuale: ciò che penso è vero? Posso sapere se ciò che penso è vero? E come? Il momento della nascita della filosofia non è nell'apparizione della "questione dell'essere", ma nell'emergere di questo interrogativo: cosa dobbiamo pensare? (la questione dell'essere non è che una parte se d'altronde essa viene posta e risolta nel Pentateuco e nella maggior parte dei libri sacri). Il momento della nascita della democrazia, e della politica, non è nel regno della legge o del diritto, né in quello dei diritti dell'uomo, e neanche dell'uguaglianza dei cittadini in quanto tale, ma è l'emergere della messa in discussione della legge nel fare effettivo della società. Quali leggi dobbiamo fare? E in questo preciso momento che nasce la politica; che è come dire che nasce la libertà in quanto socio-storicamente effettiva. Nascita indissociabile da quella della filosofia (è l'ignoranza sistematica e per niente accidentale di questa indissociabilità che deforma costantemente lo sguardo di Heidegger sui greci e sul resto). Autonomia: autos-nomois, (darsi) da sé le proprie leggi. Precisazione quasi inutile dopo ciò che è stato detto sull'eteronomia: sapendo cioè che lo si fa. Insorgenza di un eidos nuovo nella storia dell'essere: un tipo di essere che si da da sè, riflessivamente, le sue leggi d'essere. Questa autonomia non ha niente in comune con l'autonomia kantiana. E per molte ragioni è sufficiente menzionarne qui una soltanto: non si tratta di scoprire in una ragione immutabile una legge che essa si darebbe una volta per tutte, ma d'interrogarsi sulla legge e sui suoi fondamenti, di non restare affascinati da questo stesso interrogativo ma di fare e di istituire (dunque anche di dire). L'autonomia è l'agire riflessivo di una ragione che si crea in un movimento senza fine, al tempo stesso individuale e sociale. Ritorniamo alla politica propriamente detta e per facilità di comprensione cominciamo con il proteron pros hemas: l'individuo. In che senso un individuo può essere autonomo? Questa questione ha due facce, una interna l'altra esterna. La faccia interna: il nucleo dell'individuo è una psiche inconscia (le pulsioni) che non si tratta nè di eliminare nè di dominare; non soltanto sarebbe impossibile, ma sarebbe come uccidere l'essere umano. L'individuo porta con sé a ogni istante, dentro di lui, una storia che egli non può e non deve eliminare, poiché la sua stessa riflessività, la sua lucidità, ne è, in un certo senso, il prodotto. L'autonomia dell'individuo consiste nel fatto che si stabilisca un altro rapporto tra l'istanza riflessiva e le altre istanze psichiche (così come tra il suo presente e la storia attraverso la quale esso si è costituito in quanto tale) che gli permetta di sfuggire all'asservimento alla ripetizione, di ritornare su se stesso, sulle ragioni dei suoi pensieri e sui motivi dei suoi atti; guidato dall'aspirazione al vero e dalla elucidazione del suo desiderio. Che questa autonomia possa effettivamente alterare il comportamento dell'individuo (e noi sappiamo che essa può farlo) significa che quest'ultimo ha cessato di essere il puro prodotto della sua psiche, della sua storia e dell'istituzione che lo ha formato. Detto altrimenti, la formazione di un'istanza riflessiva e deliberante, della vera soggettività, libera l'immaginazione radicale dell'essere umano singolare come sorgente di creazione e di alterazione e gli fa raggiungere una libertà effettiva, che certo presuppone l'indeterminazione del mondo psichico e la sua permeabilità al senso, ma che comporta anche che il senso meramente dato cessi di essere causa (ed è sempre tale nel mondo socio-storico) e che ci sia scelta del senso non dettata prima. Detto ancora diversamente, nel dispiegamento e nella formazione di questo senso, qualsiasi sia la sorgente (immaginazione radicale creatrice dell'essere singolare o ricezione di un senso creato socialmente) l'istanza riflessiva, una volta costituita, gioca un ruolo attivo e non predeterminato. Ciò presuppone a sua volta un meccanismo psichico: essere autonomi implica che si abbia psichicamente investito la libertà e l'aspirazione alla verità. Se non fosse così non si capirebbe perchè Immanuel Kant fatichi tanto sulle critiche al posto di divertirsi su qualcos'altro. Questo investimento psichico (determinazione psichica) non toglie niente all'eventuale validità delle idee della critica, all'ammirazione meritata verso l'audace vegliardo, al valore morale della sua impresa. Perché essa trascina tutte queste considerazioni e la libertà della filosofia ereditata resta finzione, fantasma inconsistente, constructum senza interesse "per noi altri uomini", secondo l'espressione ossessivamente ripetuta dallo stesso Kant. La faccia esterna ci immerge nel bel mezzo dell'Oceano socio-storico. Non posso essere libero da solo, e neanche in una qualsiasi societa' (illusione di Descartes, che pretendeva di dimenticare di essere seduto su ventidue secoli di interrogativi e altrettanti di dubbi, che dimenticava di vivere in una società in cui da secoli la rivelazione come la fede del carbonaio avevano smesso di essere sufficienti, essendo ormai diventata esigibile la dimostrazione dell'esistenza di dio da tutti quelli che pensano, anche dai credenti. Non si tratta dell'assenza di costrizione formale, ma dell'ineliminabile interiorizzazione dell'istituzione sociale senza la quale non c'è individuo. Per investire la libertà e la verità bisogna che esse siano già emerse come significazioni sociali immaginarie. Perchè possano sorgere degli individui che mirino all'autonomia bisogna che il campo socio-storico si sia già auto-alterato in modo da aprire uno spazio d'interrogazione senza limiti (senza rivelazioni istituite, per esempio). Perché qualcuno possa trovare in se stesso le risorse psichiche, e in ciò che lo circonda i mezzi, per alzarsi e dire che le nostre leggi sono ingiuste e i nostri dei falsi, è necessaria un'auto-alterazione dell'istituzione sociale, opera dell'immaginario istituente (l'enunciato: "la legge è ingiusta" è per un ebreo classico linguisticamente impossibile o perlomeno assurda, perché la legge è stata data da dio e la giustizia è un attributo esclusivamente di dio). Bisogna che l'istituzione sia divenuta tale da permettere la sua messa in discussione da parte della collettività che essa fa esistere e degli individui che vi appartengono. Ma questi stessi individui che camminano, parlano, agiscono, sono l'incarnazione concreta dell'istituzione. E dunque nello stesso momento, relativamente all'assenza della cosa, che devono sorgere (e che sorgono infatti: in Grecia a partire dal settimo secolo e in Europa occidentale a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo) un nuovo tipo di società e un nuovo tipo di individui, che hanno un'implicazione reciproca. Non c'è falange senza opliti, e non ci sono opliti senza falange. E Archiloco non potrebbe vantarsi, poco dopo il '700, di aver gettato il suo scudo fuggendo e di dire che il danno non è grave poichè potrà comprarsene un altro, senza una società di guerrieri-cittadini che possano onorare al tempo stesso la bravura in battaglia e il poeta che per una volta la ridicolizza. La necessaria simultaneità di questi due elementi in un momento di alterazione storica crea una situazione impensabile per la logica ereditata della determinità.
Come comporre una società libera se non a partire da individui liberi? E dove trovare questi individui se essi non siano gia' stati cresciuti nella libertà? (Si tratterebbe della libertà inerente alla natura umana? Allora perché essa avrebbe sonnecchiato durante millenni di dispotismo, orientale o altro?). Essa rinvia nuovamente al lavoro creatore dell'immaginario istituente come immaginario radicale depositato nel collettivo anonimo. Fin dall'inizio dunque l'interiorizzazione ineliminabile dell'istituzione rinvia l'individuo al mondo sociale. Chi dice di voler essere libero e di non avere niente a che fare con l'istituzione (o, che è lo stesso, con la politica) deve essere rimandato alle scuole elementari. Ma questo rinvio si produce a partire dal senso stesso del nomos, della legge: farsi da soli la propria legge può avere un senso soltanto in certe dimensioni della vita, e nessun senso in altre dimensioni. Non soltanto quelle in cui incontro gli altri, con i quali posso andare d'accordo, contro i quali posso battermi o che posso semplicemente tentare di ignorare, ma soprattutto quelle in cui incontro la società in quanto tale, la legge sociale, l'istituzione. Posso dire che pongo la mia legge quando vivo necessariamente sotto la legge della società? Si, ma solo in un caso e cioè se posso dire, dopo aver riflettuto lucidamente, che questa legge è anche la mia. Per poter dire questo non è necessario approvarla, è sufficiente che io abbia la possibilità effettiva di partecipare attivamente alla formazione e al funzionamento della legge. La possibilità di partecipare sta in questo: se accetto l'idea di autonomia come tale e non soltanto perchè essa "va bene per me". Cosa che nessuna "dimostrazione" potrebbe mai obbligarmi a fare, così come niente potrebbe obbligarmi ad accordare le mie parole ai miei atti, allora la pluralità indefinita di individui che appartengono alla società implica subito la democrazia, come possibilità effettiva di uguale partecipazione di tutti sia alle attivita' istituenti sia al potere esplicito (è inutile qui dilungarsi sulla necessaria implicazione reciproca dell'uguaglianza e della liberta', una volta pensate rigorosamente le due idee, e sui sofismi mediante i quali, da molto tempo, si cerca di rendere antitetici questi due termini). Tuttavia sembra che siamo ritornati al punto di partenza, poiché il potere fondamentale in una società, il primo potere da cui dipendono tutti gli altri, quello che sopra ho chiamato l'infra-potere, è il potere istituente. Se si smette di essere affascinati dalle costituzioni, si rileva che questo potere non è localizzabile nè formalizzabile, perché esso appartiene all'immaginario istituente. La lingua, la famiglia, i costumi, le idee, una quantità innumerevole di altre cose e la loro evoluzione, sfuggono essenzialmente alla legislazione. D'altronde, tutti partecipano a questo potere nella misura in cui esso è partecipabile. Tutti sono autori dell'evoluzione della lingua, della famiglia, dei costumi, e così via. Qual è stata dunque la radicalità della creazione della politica dei greci? Essa sta in questo: e una parte del potere istituente viene esplicitato e formalizzato (concretamente, sia la parte che concerne la legislazione in senso proprio, pubblica, costituzionale, e quella privata; sono state create delle istituzioni per rendere partecipabile la parte esplicita del potere (compreso il potere politico nel senso definito prima): da ciò deriva l'uguale partecipazione di tutti i membri del corpo politico alla determinazione del nomos, della diké e del telos, cioè della legislazione, della giurisdizione, del governo (non esiste, rigorosamente parlando, il potere esecutivo: esso era a carico degli schiavi ad Atene ed è oggi realizzato da uomini che agiscono come degli animali dotati di voce, nell'attesa di essere realizzato dalle macchine).
Ora, da quando la questione è stata posta in questi termini, la politica ha inghiottito, almeno di diritto, il politico nel senso descritto precedentemente. La struttura e l'esercizio del potere esplicito sono divenuti di principio e di fatto, ad Atene e nell'occidente europeo, oggetto di deliberazione e di decisione collettiva (della collettività ogni volta auto-posta e, di fatto e di diritto, sempre necessariamente auto-posta). Ma la cosa più importante è che la totale messa in discussione dell'istituzione è divenuta potenzialmente radicale e illimitata. Lo sconvolgimento della ripartizione tradizionale delle tribù ateniesi operato da Clistene è forse storia antica. Resta il fatto che noi riteniamo di vivere in una repubblica: è dunque necessaria un'educazione repubblicana. Ma dove comincia e dove finisce l'educazione, repubblicana o meno?
I movimenti moderni di emancipazione (soprattutto quello operaio, ma anche il movimento delle donne) hanno posto la questione: può esserci democrazia, può esserci uguale possibilità effettiva per tutti coloro che vogliono partecipare al potere, in una societa' in cui esiste, e si ricostituisce costantemente, una formidabile inuguaglianza di potere economico, immediatamente traducibile in potere politico? In una società che, sebbene abbia accordato qualche decennio fa i diritti politici alle donne, continua di fatto a trattarle come dei cittadini passivi? Le leggi della proprietà (privata o di stato) sono cadute dal cielo? In quale Sinai le si è raccolte?
La politica è progetto di autonomia, attività ponderata e lucida mirante all'istituzione globale della società. In altri termini, essa concerne tutto ciò che nella società è partecipabile e condivisibile. Ora, questa attività autoistituente sembra non conoscere e non riconoscere, de jure, alcun limite (non parlo ovviamente delle leggi naturali e biologiche). Possiamo e dobbiamo fermarci a questo? La risposta è negativa sia ontologicamente a monte della questione quid juris sia politicamente (cioè a valle).
Il punto di vista ontologico conduce alle riflessioni più complesse, ma poco rilevanti rispetto alla questione politica. In tutti i modi l'auto-istituzione esplicita della società incontrerà sempre i limiti di cui abbiamo parlato precedentemente. Qualunque istituzione, anche lucida, ponderata, voluta, scaturisce dall'immaginario istituente, che non è nè formalizzabile né localizzabile. Qualunque istituzione (persino la più radicale rivoluzione che si possa concepire) è sempre interna a una storia già data, e se anche si avesse il folle progetto di fare tabula rasa di tutto, sarebbe ancora con gli stessi oggetti della tabula che si cercherebbe di farlo. Il presente trasforma sempre il passato in passato prossimo, cioè come rilevante adesso, anche se lo reinterpreta a partire da ciò che si è in procinto di creare, pensare, porre, è sempre quel passato, e non un altro, né un passato qualunque, che il presente modella secondo il proprio immaginario. Ogni società deve proiettarsi in un a-venire che è essenzialmente incertezza e rischio. Ogni società dovrà socializzare la psiche degli esseri che la compongono; e la natura di questa psiche imporrà delle costrizioni, tanto incerte quanto decisive, ai modi e al contenuto di questa socializzazione.
Considerazioni con molteplici implicazioni, ma senza rilevanza politica. Esse sono profondamente analoghe, e non incidentalmente, a quelle che nella mia vita personale mostrano come io mi faccia in una storia che mi ha sempre fatto, come i miei progetti più maturi possono essere istantaneamente distrutti da possibili eventi futuri, come, in quanto vivente, io resti sempre per me stesso una delle sorgenti più potenti di stupore e un enigma che non ha eguali (perché visto dall'interno), e come io possa convivere con la mia immaginazione, i miei affetti, i miei desideri, ma non posso, anzi non devo, dominare. Devo dominare i miei atti e le mie parole, che è tutt'altra cosa. E anche se queste considerazioni non mi dicono niente di sostanziale su quello che devo fare (poiché posso fare tutto quello che posso, ma non devo fare qualunque cosa, e per quanto riguarda quello che devo fare la struttura ontologica della mia temporalità personale, per esempio, non mi è di alcun aiuto). Così i limiti, sia certi che indefinibili, posti dalla natura stessa del socio-storico alla possibilità per una società di stabilire un altro rapporto tra istituente e istituito, non dicono niente su come dobbiamo volere l'istituzione effettiva della società in cui viviamo. Per esempio, dal fatto che "i vivi vivono dei morti", ricordato da Marx, non posso trarre alcuna politica. I vivi non sarebbero più tali se non vivessero, ma non lo sarebbero neanche se vivessero totalmente ed esclusivamente dei morti. Cosa posso concludere sul rapporto che una società deve voler stabilire, per quanto dipenda da lei, con il suo passato? Non posso nemmeno dire che una politica che volesse ignorare o esiliare i morti, cioé il passato, in quanto contrario alla natura delle cose, sarebbe "votata al fallimento" oppure "folle": essa sarebbe nella totale illusione rispetto al suo obiettivo proclamato, ma non sarebbe comunque inesistente o non avvenuta. Essere folli non impedisce di esistere: il totalitarismo è esistito, esiste, sotto i nostri occhi, tenta sempre di riformare il passato in funzione del presente (ricordiamo incidentalmente che esso ha fatto, sistematicamente e violentemente ciò che, in un altro modo, qualsiasi persona fa dal momento che respira e ciò che fanno tutti i giorni i giornali, i libri di storia e anche i filosofi). E ancora, dire che il totalitarismo non sarebbe potuto riuscire perché contrario alla natura delle cose (che è come dire: "alla natura umana") significa ancora confondere i livelli, e porre come necessità di essenza ciò che è un puro fatto. Adolf Hitler è stato sconfitto, il comunismo non riesce a dominare il pianeta. Questo è tutto. Sì tratta di puri fatti e le parziali spiegazioni che se ne possono dare sono anch'esse dell'ordine dei puri fatti, non svelano nessuna necessità trascendente, nessun "senso della storia". E diverso se si adotta un punto di vista politico, a valle dell'ammissione di non saper definire i limiti essenziali, non banali, dell'auto-istituzione esplicita della società. Se la società è progetto di autonomia individuale e sociale (due facce della stessa medaglia), ne derivano delle conseguenze sostanziali. Certo il progetto di autonomia deve essere posto (accettato, postulato). L'idea di autonomia non può essere nè fondata nè dimostrata, perché qualsiasi fondazione o dimostrazione la presuppone (non si dà alcuna fondazione della riflessività senza il presupposto della riflessivitaà stessa). Una volta posta, essa può essere ragionevolmente argomentata a partire dalle sue implicazioni e dalle sue conseguenze. Ma essa può e deve, anche e soprattutto, essere esplicitata. Ne derivano allora delle conseguenze sostanziali, che danno un parziale contenuto a una politica dell'autonomia, ma che le impongono anche delle limitazioni. In effetti, in questa prospettiva, viene richiesto di aprire il più possibile la strada alla manifestazione dell'istituente, ma altrettanto d'introdurre il massimo possibile di riflessività nell'attività istituente esplicita e nell'esercizio del potere esplicito. Non bisogna dimenticare, infatti, che l'istituente come tale e le sue opere non sono né "buoni" né "cattivi", o piuttosto che essi possono essere, dal punto di vista della riflessività, o l'uno o l'altro al punto più estremo (come l'immaginazione dell'essere umano singolare). Diventa allora imperativo formare delle istituzioni che rendano questa riflessività collettiva effettivamente possibile e che la stipulino concretamente (le conseguenze di questo sono innumerevoli), e che diano anche a tutti gli individui la massima possibilità effettiva di partecipare al potere esplicito e la sfera più estesa possibile di vita individuale autonoma. Se ci si rammenta che l'istituzione della società esiste soltanto in quanto incorporata negli individui sociali, si potrà allora evidentemente giustificare (o se si vuole, fondare) a partire dal progetto di autonomia i "diritti dell'uomo"; soprattutto si potrà comprendere, abbandonando le superficialità della filosofia politica contemporanea e ricordando Aristotele (la legge tende alla «creazione della virtù totale» mediante le sue prescrizioni peri paideia ten pros to koinon relative alla paideia orientata verso la cosa pubblica) che la paideia, l'educazione che va dalla nascita alla morte, è una dimensione centrale di qualunque politica di autonomia, e si potrà riformulare, correggendolo, il problema di Rousseau: "Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con la forza comune la persona e i beni di ogni associato, e attraverso la quale ognuno, sebbene unito agli altri, non obbedisca che a se stesso, restando libero come prima". E' inutile commentare la formula di Rousseau e la sua pesante dipendenza nei confronti di una metafisica dell'individuo-sostanza e delle sue proprietà. Ma ecco la vera formulazione: Creare le istituzioni che, interiorizzate dagli individui, ne facilitino il più possibile l'accesso all'autonomia individuale e la possibilità di partecipare effettivamente a ogni potere esplicito esistente nella società. Questa formulazione sembrerà paradossale solo a coloro che sostengono la libertà - folgorazione, di un per-sè fittizio slegato da tutto, anche dalla propria storia. Risulta anche, ed è una tautologia, che l'autonomia è ipso facto autolimitazione. Qualsiasi limitazione della democrazia non può essere qualcosa di piu' o di diverso dalla semplice esortazione, se essa s'incarna nella creazione di individui liberi e responsabili. Non c'è alcuna garanzia per la democrazia, se non relativa e contingente. Là meno contingente di tutte si trova nella paideia dei cittadini, nella formazione, sempre sociale, di individui che abbiano interiorizzato contemporaneamente la necessità della legge e la possibilità di metterla in discussione, l'interrogazione, la riflessività e la capacità di deliberare, la libertà e la responsabilità. L'autonomia è dunque il progetto (e ora siamo sia sul piano ontologico che su quello politico) che mira, in senso lato, a che il potere istituente venga alla luce e alla sua esplicitazione riflessiva (che possono essere sempre solo parziali) e che mira, in senso più stretto, al riassorbimento del politico, in quanto potere esplicito, nella politica, attività consapevole e deliberata che ha come oggetto l'istituzione esplicita della società (dunque anche ogni potere esplicito) e la sua azione come nomos, dike, telos (legislazione, giurisdizione, governo) in vista dei fini comuni e delle opere pubbliche che la società si è deliberatamente proposta.
Traduzione di Cecilia Gallotti
Tratto da Volontà n°4/1984

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