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lunedì, giugno 30, 2014

La morale eroica dell'inutile da Anarcotico.net


Il pensiero dell'inutile non è, come si potrebbe credere, sterile e scoraggiante. Anzi coll'approfondirlo e col dominarlo si può giungere a una concezione moralmente eroica della vita, la quale permetta di agire anche a coloro che a forza di analisi hanno corrose in sè le molle ordinarie dell'azione.
Noi abbiamo già notati quanti residui utilitaristi vi siano ancora nelle forme più alte dell'attività spirituale degli uomini. Abbiamo visto che tutti hanno bisogno di un fine, di uno scopo, di un resultato, di un compenso, di un premio. Ognuno, facendo qualsiasi cosa, si chiede: A che pro? Cui bono?
Nell'arte cerchiamo la fortuna, nel patriottismo la gloria, nella filosofia la calma interiore, nella religione la beatitudine eterna. Ora da questa nostra perpetua attitudine interessata deriva in gran parte il pessimismo che da tanto tempo minaccia e rallenta l'evasione dallo stato presente. Molti dicono: se questa teoria non deve avere un valore assoluto non val la pena di travagliarcisi intorno; se non son certo che ciò che faccio porterà un reale miglioramento alla sorte degli uomini non val la pena ch'io la faccia - s'io non son sicuro che vi sarà un'altra vita per l'eternità non merita il conto d'esser virtuoso. Appena, cioè, essi intravedono l'inutilità dei loro sforzi questi perdono ai loro occhi ogni valore ed entra a dinervarli il pessimismo, lo scetticismo, lo scoraggiamento, il cinismo. E da questi pessimismi particolari è facile passare al pessimismo cosmico e universale.
Se l'umanità deve scomparire dalla faccia della terra, se la terra deve scomparire nel gelido e sconfinato buio dello spazio, se di tutto il nostro pensiero e del nostro lavoro nulla assolutamente deve restare come resultato e come conquista, allora non val la pena di fare, di pensare, di sforzarsi e di affaticarsi. L'uomo ha il terrore di questa mancanza definitiva di un qualsiasi compenso. E allora sorgono e sono ascoltati coloro che proclamano la vanità del tutto e il dolore senza speranza. Al pessimismo- che sorge spontaneo, e con mille ragioni, negli spiriti delicati, sensibili, analisti e perciò superiori - le filosofie e le religioni hanno cercato e consigliato rimedi di varia sorta. Dice il Buddhismo: la vita è cattiva e perciò bisogna giungere, per mezzo della rinunzia, all'annientamento. Dice il Cristianesimo: questa vita è cattiva, ma se voi la sopporterete ve ne sarà data un'altra infinitamente migliore. Dice Nietzsche: la vita è cattiva, ma bisogna consentire a viverla per contemplarla, perchè essa è bella agli occhi dell'Artista. Nella prima soluzione abbiamo la fuga pura e semplice - nella seconda il rinvio a un mondo sconosciuto in cui non tutti possono aver fede - nella terza c'è il tentativo di estrarre la medicina dal veleno, ma una medicina che solo pochissimi possono distillare e gustare. Mi sembra invece che dallo stesso riconoscimento del male e della vanità della vita dovrebbe uscire, quasi come contrapposto e rimbalzo, l'accettazione e l'affermazione della vita. Se anche l'inutile è degno di esser compiuto, se ciò che non ci fa ottener niente è, appunto per questo, più degno di esser ricercato, noi possiamo trar fuori dallo stesso nulla il tutto di cui abbiamo bisogno, e dalla stessa disperazione il massimo conforto: "Tutto ha studiato ed inteso - così un indiano - tutto ha compiuto, chi, voltate le spalle alla speranza, della disperazione ha fatto il suo fondamento".
La vera posizione eroica dell'uomo sarebbe questa: riconoscere senza tremare che il mondo va male, che gli uomini sono incorreggibili, che la verità è irraggiungibile e ciò nonostante restare nel mondo, accettare la vita, occuparsi degli uomini e ricercare il Vero. Questo eroismo di chi ha perduto la fede nella verità e pur continua a cercarla fu visto dal Foscolo là dove confronta la sorte di Cartesio e di Bayle. "Chi de' due fu meno infelice nel mondo? A me pare Cartesio: ma se Bayle non fu atterrito da quel suo pirronismo, se trovò in tutte le cose discordia e incertezza ed errore e notte perpetua e nondimeno fu sì forte d'animo da tenere aperti sempre gli occhi in quel Caos, io lo giudicherei l'intelletto più eroico che abbia creato mai la natura" (Epistolario, II, 130). Si ricordi anche la magnifica frase di Proudhon: "Tutto quel che so io lo devo alla disperazione".
La vera grandezza dell'uomo deve consistere nel fare l'inutile appunto perchè inutile. Finora tutte le teorie volevan persuader gli uomini ad agire e li sostenevano con speranze e ideali nello sforzo dell'azione e siccome gli uomini non agiscono che interessatamente, cioè colla promessa di qualcosa oltre l'azione stessa, esse eran costrette, senza avvedersene, a supporre realizzabili certi ideali e possibili certi fini, non sapendo in fondo dare altra prova di questi che la loro desiderabilità. Con queste finzioni esse riuscivano il più delle volte a muovere e a calmare gli uomini, ma se alcuno di essi, trascinati dalla terribile logica dell'intelligenza pura, non si fermavano alle prime ideologie e non si contentavano dei miti consolatori e seguitavano a pensare e a pensare coraggiosamente, senza arretrare dinanzi a nulla, allora il vuoto e la tristezza che si sfuggivano riapparivano più minacciosi e inevitabili ed essi ricadevano nel pessimismo e nello scoramento non vedendo più nel futuro i premi aspettati. Invece bisogna risolversi a partire dal nulla e dalla disperazione e ciò nonostante aver la forza di agire per andare più rapidamente verso il nulla e trarre dallo stesso dolore la più profonda ragione di vivere. Ma nessuna filosofia ha osato partire dalla promessa del nulla e del male - anzi ogni teoria tende a far dimenticare il nulla e a nascondere il male. Assai meglio invece affrontarli sin dal principio per abituare ad essi l'anima nostra e poterli così superare, non già colle menzogne o colle false speranze ma colla fiera e nobile risposta del pazzo disinteresse. Noi abbiamo avuto esempi di uomini che pur non sperando più in nulla ne' in cielo ne' in terra hanno continuato a vivere, a combattere, a cercare. Forse, come gli stoici, essi trovavano il loro compenso nella stessa grandezza della loro accettazione eroica dell'inutile. Ma codesto compenso, che non trascende l'azione stessa ed è, in fondo, l'azione stessa, è ben diverso dall'utilitarismo volgare che sotto forme più raffinate, metafisiche o teologiche, ispira e sorregge la quasi universalità degli uomini. E' da notare che l'unica ricompensa delle cose superiori consiste nella cessazione di esse: la conquista della verità significa l'arresto della ricerca; il nirvana o l'estasi son l'ultimo compimento della fede; l'immedesimamento colle cose l'estremo termine dell'arte. Solo le attività più basse non bastano a sè stesse e non si negano colla loro perfezione.Resta il problema della scelta: perchè pensare se il pensiero non ha altro effetto al di fuori del pensiero? Perchè consacrarsi a un'attività piuttosto che ad un'altra? Questa non è questione che possa essere risolta dal teorico: è questione di preferenze e di valutazioni e non di verità. Tocca all'apostolo influire sulle scelte e non al filosofo. Ma per quelli che hanno già scelto, per quelli che si senton portati alla vita dello spirito e che se ne ritraggono o vi si muovono lenti e con tristezza in seguito alla scoperta della sua "in-ultimo-inutilità" spero di avere offerto, con queste riflessioni, una via d'uscita sicura, virile e prometeicamente valorosa.
"Essere un uomo utile mi è sempre apparso come qualche cosa di ben odioso".
(Charles Baudelaire)
"Noi siamo nati per Nulla, amiamo Nulla, crediamo in un Nulla, lavoriamo per Nulla, e tutto questo per andare un giorno nel Nulla".
(Friedrich Holderlin, "Iperione", lett.11a)
Questo lungo paragrafo, dal titolo omonimo, si trova in Giovanni Papini, "L'altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica", 1911

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