La Terza Repubblica dei movimenti***
Considerazioni sull'alternativa e il conflitto costituente
21 / 10 / 2011
Dopo la giornata del 15 Ottobre il movimento in Italia ha come compito prioritario quello di non farsi comprimere nella morsa delle semplificazioni o nelle secche dicotomie e, allo stesso tempo, di preservare il suo carattere aperto e molteplice. Questo rischio ci sembra sia stato delineato, meglio che da chiunque altro, dall'editoriale di Piero Ostellino apparso sulle pagine del Corriere della Sera. Ostellino, infatti, utilizza gli scontri avvenuti nel corso della manifestazione per ammonire che non esistono possibilità di trasformazione dell'esistente che non siano chiuse nella scelta tra la guerra civile e il riformismo rispettoso della democrazia rappresentativa e delle regole del mercato capitalistico. Tertium non datur. Il conflitto anche radicale quando si presenta sulla scena, è presto o tardi destinato ad imboccare una delle due strade, lasciando dietro di sé qualsiasi velleità di modificazione dei rapporti sociali.
Muovendo da queste premesse riteniamo che sia decisivo oggi, ancor più di prima, approfondire la riflessione sulla categoria politica che va sotto il nome di 'alternativa' in quanto questa dovrebbe precisamente occupare quel posto che, la riflessione di Ostellino, tenta di escludere dal gioco. La necessità è facilmente comprensibile: siamo in una fase storica segnata da una crisi strutturale del capitalismo neoliberale che riguarda insieme i fondamenti del sistema economico-sociale e di quello istituzionale che si è andato costruendo negli ultimi trent’anni. Questa crisi porta con sé la diffusa consapevolezza che non è più possibile, per nessuno, tornare indietro. Per chi vuole cogliere sul serio la radicalità del tempo storico che stiamo vivendo, quella sull’alternativa è dunque una discussione obbligata. Obbligata ma, è bene precisarlo, anche assai ambigua: la categoria politica dell’alternativa infatti riassume in sé un insieme di significati ed opzioni differenti e potenzialmente divergenti. È bene dunque cominciare a districare i fili di questa densa matassa.
1. Lo statuto della rivolta
Negli interventi di Fausto Bertinotti su il manifesto, vi è un presupposto da cui ci sembra utile iniziare: la dimensione politico-istituzionale è attualmente imbrigliata all’interno di un recinto che non offre vie d’uscita. Dentro questo recinto, espressione diretta della governance finanziaria (platealmente mostrata dalle letterine della Bce al governo italiano), non è più possibile alcuna esperienza di governo realmente alternativa. Tanto meno possibile è il ricorso, fuori tempo massimo, a opzioni politiche che passino per una riabilitazione della democrazia rappresentativa, già da lungo tempo in crisi ed oggi costretta a confrontarsi con la fase terminale del suo declino. Solo la «rivolta», qualora fosse in grado di rompere il quadro delle compatibilità, sarebbe capace di produrre un ripensamento della politica stessa.
Questa riflessione, a grandi linee condivisibile, necessita tuttavia di un paio di specificazioni. La prima, a monte, è che la presa in ostaggio operata dalla governance finanziaria nei confronti dei governi non è affatto riducibile ad un’“invasione di campo” nei confronti della politica. Essa è casomai l’espressione e l’altra faccia di quello stato di compenetrazione fra economia finanziaria e reale che ha ridefinito la stessa forma dell’accumulazione capitalistica. La pervasività della finanza (tanto nel campo economico quanto in quello politico) è piuttosto l’esito di una crisi (che precede di molto quella attuale) che riguarda da un lato la capacità di sfruttare forze produttive radicalmente mutate, dall’altra di governare popolazioni che hanno reso inadeguata, nel tempo, l’organizzazione disciplinare del potere. Quello che frettolosamente viene chiamato «strapotere della finanza» è in realtà una nuova forma di prelievo (di ricchezza e di decisione) che opera su forme di vita inedite; questo appare tanto più autoritario quanto più i vecchi schemi di organizzazione sociale si mostrano incapaci di organizzare e di comandare la vita. Questo significa che la crisi, insieme economica e politica, non è affatto l’espressione di uno stato di eccezionalità, ma il cortocircuito avvenuto nel nuovo ordine che si è da tempo cementificato.
Questa prima specificazione è strettamente connessa a quella, per così dire a valle, relativa allo statuto della rivolta. Se è vero che l’attuale crisi ha radici profonde e lontane e riguarda ad un tempo la modificazione della forma dell’accumulazione capitalistica e quella del governo, il “ruolo” attribuito alla rivolta non può essere in alcun modo riducibile ad una mera funzione di destrutturazione, fosse anche quella della «rottura del recinto». Non intendiamo attribuire tali pensieri all’ex Presidente della Camera, ma ci interessa denunciare una possibile interpretazione delle sue riflessioni. Questa cattiva interpretazione potrebbe essere così schematicamente riassunta: solo la rivolta, rompendo le compatibilità che imbrigliano le funzioni di governo, può riattivare il dispositivo sovrano e con questo, la legittimità della rappresentanza politica e sociale. Questo ci pare un modo assai discutibile ed inadeguato di rendere conto della nuova natura dei movimenti sociali.
Così come inadeguate, quando non proprio pericolose, ci sembrano le retoriche insurrezionaliste che circolano in questi giorni in rete. La loro logica parte da una lettura semplificata della situazione attuale secondo la quale l’aumento di intensità della crisi produrrebbe un’estensione del campo della rabbia sociale, la quale a sua volta tende ad esprimersi in un “corpo a corpo” simmetrico con la macchina statale: la molteplicità delle forme di conflitto viene schiacciata nell’immagine angusta della guerra civile. La rivolta, intesa in senso del tutto generico e indifferenziato come “scarica”, si trova stranamente ad essere in entrambi i casi il passaggio fondamentale tanto per una “sospensione” cieca dell’ordine sovrano, quanto per una sua “riabilitazione”. Entrambe le letture, benché da punti di vista diametralmente opposti, sembrano essere subalterni allo stesso «mito dello Stato» che già Foucault aveva convenientemente dissolto puntando l’attenzione sulla realtà del governo. In altri termini, per quanto possa suonare paradossale, a ricongiungere letture così differenti è l’idea secondo la quale nelle rivolte attuali si debba leggere l’espressione di un potere essenzialmente destituente.
Un ragionamento sulla categoria politica dell’alternativa dovrebbe invece partire dal presupposto contrario, ovvero dal riconoscimento del carattere costituente della tumultuosità sociale. Questo carattere costruttivo, istituzionale e normativo, è ben visibile nelle esperienze di movimento che passano dalla Spagna all’Islanda (caso quest'ultimo nel quale la pretesa democratica di rifiutare-rinegoziare il default diviene vera e propria norma costituente), dalle lotte dei lavoratori dello spettacolo che riscrivono lo statuto proprietario di un teatro occupato, a quelle degli studenti universitari che lanciano il processo dell’autoriforma dell’università, e arrivano fino alla straordinaria esperienza del referendum italiano dello scorso giugno. Queste esperienze ed altre ancora descrivono una vera e propria istanza trasformativa che punta a spezzare precisamente la vecchia politica dei due tempi che attribuiva alla conflittualità una funzione essenzialmente negativa e difensiva e alla politica della rappresentanza il mandato di tradurre le istanze provenienti “dal basso”. Disporre il discorso politico di movimento sul piano dell’alternativa non ha altro senso che interrogare l’esaurimento di questo “doppio tempo” e ci permette di collocare la creazione di momenti di lotta e di costruzione di rapporti di forza efficaci, all’interno di una traiettoria di mutamento.
2. I movimenti e la transizione italiana
Ora, occorre collocare queste premesse all’interno della cosiddetta «anomalia italiana». In Italia, infatti, siamo posti di fronte ad una sfida assai complessa ma non meno avvincente: davanti ai nostri occhi si consumano già da tempo trattative e prove di alleanze che puntano a ricomporre un quadro politico capace di garantire la transizione alla Terza Repubblica, facendo fuori precisamente, questo potere costituente che deriva dai movimenti. Questo quadro, anche prescindendo per ora dalle forma che prenderà (Governo Tecnico, Grande Coalizione, Nuovo Ulivo, assumendo che tra queste forme ci sono delle differenze) sarà edificato sugli stessi presupposti: rispetto del pagamento del debito, costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, patto sociale sul modello di quello siglato da Confindustria e Sindacati lo scorso 28 giugno e esecuzione delle misure di austerity e di privatizzazione del pubblico impartite dalle grandi istituzioni finanziarie. In questo quadro, e se questo quadro non viene preventivamente messo in questione, qualsiasi “partecipazione” dei movimenti è destinata, bene che vada, ad uno scontato quanto misero fallimento.
Tuttavia, benché scivoloso, occorre non abbandonare questo piano: dobbiamo sforzarci di capire come i movimenti sociali si inseriscono all’interno di questa transizione. Due sono, a nostro parere, i versanti sui quali aprire la discussione.
Il primo riguarda le attuali trasformazioni del Welfare State. Non basta qui limitarsi a constatare quanto le politiche di austerità stiano contribuendo alla sua distruzione. Molto più interessante è partire dall’idea secondo la quale oggi il Welfare si colloca, rispetto al sistema produttivo, in una posizione completamente differente rispetto al periodo storico in cui esso è stato edificato. Alcuni economisti (tra gli altri Boyer, Marazzi e Vercellone) hanno denominato con l’espressione «modello antropogenetico», l’emergenza di un nuovo sistema economico sempre più basato sui servizi incentrati sulla produzione dell’uomo per l’uomo, quali sanità, istruzione, cultura, sicurezza ecc. Se si accetta questa ipotesi, del resto confermata dalle dimensioni dominanti che questi settori occupano nel determinare la crescita, appare da subito evidente quanto le attuali trasformazioni del Welfare riguardino non più settori posti “accanto” ai processi produttivi, ma ne definiscano una profonda centralità. La modificazione o privatizzazione del Welfare è, in altri termini, il terreno centrale per rilanciare l’accumulazione capitalistica. Non è affatto un caso che i mercati finanziari se ne stiano occupando con tanta premura. Questa trasformazione del Welfare passa da una parte per un’accelerazione del disfacimento della cosiddetta società salariale (il lavoro gratuito, l’indebitamento privato, la precarizzazione dei rapporti lavorativi ne sono da tempo un lampante esempio), dall’altra per una messa in crisi, attraverso il blocco dei finanziamenti statali, delle stesse istituzioni pubbliche (ospedali, università e scuole, luoghi deputati alla cultura, ecc.). I movimenti sembrano aver ben compreso fino in fondo questo stato di cose, tanto che la loro azione si concentra sempre di più non solo nella rivendicazione di un reddito garantito sganciato dal rapporto salariale, ma più profondamente nella riappropriazione democratica di quelle stesse istituzioni. Abbiamo già prima citato alcuni esempi: ci basta qui dire che queste lotte, mentre difendono ciò che l’austerity mette in ginocchio, riscrivono le pratiche di gestione dei luoghi che occupano, ridefiniscono i soggetti che partecipano alla produzione del servizio, estendono e socializzano i modi di fruizione del servizio stesso ed arrivano ad affermare un nuovo tipo di proprietà comune, alternativa tanto ai processi di privatizzazione quanto alla vecchia gestione statuale. A partire da queste esperienze locali, che scommettiamo continueranno a svilupparsi, è possibile pensare ad una Federazione di questi prototipi di nuova istituzionalità sociale.
Riteniamo sia di fondamentale importanza riaprire la riflessione e il confronto su un nuovo federalismo post-statale, da intendere non come modello o forma di governo ma, al contrario, come processo orizzontale, pattizio, aperto, in grado di coinvolgere una pluralità di poteri, soggetti e istituzioni dotati ab origine di capacità costituente. Un federalismo, per usare le parole di Luciano Ferrari Bravo, concepito come concentrazione di potere non centralizzata, capace di tagliare trasversalmente e ricombinare dimensione territoriale e sociale.Nel contesto italiano questo ci sembra un tema di grande urgenza e attualità per ogni discussione seria sull'alternativa, a meno che non si consideri come federalismo già realizzato la riforma del Titolo V della Costituzione o, ancor peggio, l'attuale dibattito sul federalismo fiscale. Il terreno degli Enti locali, oggi strozzati dalla morsa dei tagli governativi, si può candidare ad esserne un primo canale significativo.
3. Una Costituzione per i prossimi vent’anni
In secondo luogo occorre constatare con un certo realismo che il prossimo passaggio alla Terza Repubblica è già segnato da una vera e propria transizione costituzionale. L’inserimento nella Costituzione della regola aurea del pareggio di bilancio e la modifica degli articoli relativi alla libertà d’impresa, descrivono già un processo, benché regressivo, di riforma che ne intacca la sostanza. La costituzione economica italiana risulterà profondamente mutata da questo processo. Perché non inserirsi in questa transizione ribaltandone però il segno?
Proponiamo questo discorso nonostante siamo ampiamente consapevoli della crisi in cui versano le costituzioni democratiche, sia che le si intenda come mera interfaccia e mediazione tra Stato e società o, più materialisticamente, come grande compromesso tra forze politiche, sociali ed economiche (il Welfare State appunto). E questa crisi, come ogni crisi, non ha di certo prodotto un vuoto. Le correnti neoistituzionaliste della scienza giuridica hanno già da diverso tempo osservato come essa sia stata accompagnata dall'emergere di nuovi dispositivi costituzionali che frammentano e al contempo sconfinano i perimetri dello Stato nazione, rendendo sempre più indistinta la linea che separava il diritto pubblico dal diritto privato. Muovendo da questi assunti risulta del tutto evidente l’insufficienza di un piano di proposta che non riguardi direttamente il campo europeo e transnazionale.
Siamo consapevoli, infine, che in Italia il dibattito sulla transizione sia stato il più delle volte del tutto ingannevole: il leitmotiv delle c.d. riforme istituzionali, che da più di ventennio informa il dibattito politico nel nostro paese, è stato utilizzato per negare alla radice la possibilità di riaprire un vero processo costituente. Si è rimasti a metà del guado o, meglio, in una palude: la Prima Repubblica sembra non essersi mai del tutto chiusa, la Seconda non ha mai del tutto preso forma se non in maniera distorta e deviata. In buona sostanza la parola transizione è stata utilizzata per ostacolare la possibilità della trasformazione reale.
Tuttavia crediamo che proprio per queste ragioni la legittima e condivisibile difesa della costituzione del '48 è, in questo quadro, una prospettiva assai debole. Se è vero che i movimenti oggi presentano un carattere istituzionale e normativo e che questo carattere si gioca fuori dai binari conosciuti della rappresentanza, allora è anche vero che i conflitti devono ambire ad un processo politico che non recuperi, ma prenda atto e casomai approfondisca, il disfacimento delle forme partitiche lavorando ad una vera e propria riconversione istituzionale. Occorre partire dall’idea che la stessa costituzione materiale si è oramai radicalmente modificata con la comparsa di nuove figure sociali che insistono su un comune terreno che è già politico. Allo stesso modo quello di una nuova Costituzione, conservando gli aspetti più avanzati di quella precedente, può diventare il punto più alto di convergenza e di ricomposizione delle molteplici istanze che si danno nelle lotte attuali e future. Una nuova Costituzione intesa come leva per l'apertura di un processo e non certo come suo esito conclusivo o come suo assorbimento su un piano meramente formale e procedurale (tenendo presente e sempre aperto, dunque, lo spazio politico e giuridico che distingue il potere costituente dalla stessa costituzione).
L’egemonia del discorso programmatico contenuto nell’espressione Beni Comuni e sancita dalla vittoria referendaria, dovrebbe rappresentare l’infrastruttura di questa nuova Costituente. In Francia, durante la Rivoluzione, la Costituzione del 1793, mai attuata, all'art. 28 recitava: 'Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi generazioni future'. Negli Stati Uniti, pochi anni prima, Thomas Jefferson opponendosi alla proposta di rieleggibilità del Presidente dell'Unione, auspicava una revisione completa della costituzione 'ogni vent'anni'. Rinnovando questa 'tensione costituente' riteniamo vada affrontato il dibattito sull'alternativa, perché questo è quello che chiedono a gran voce le piazze indignate globali.
*** Francesco Brancaccio, Alberto De Nicola e Francesco Raparelli
Nessun commento:
Posta un commento