LE ISTITUZIONI DELLA FRONTIERA
(1981)
l’egualitarismo antisocialista
C’è un lato per cui l’utopia politica della «frontiera» [si parla qui del valore sociopolitico, e anche etico, che assunse l’abbondanza di terre libere a Ovest, negli Stati Uniti, durante il XIX secolo N.d.E.] ha il sapore bruciante di un discorso sui limiti della democrazia politica: un discorso che si alimenta insieme di egualitarismo e di odio antisocialista. E una cultura operaia, quella della «frontiera», nutrita da un individualismo che non è fatto di culto piccolo borghese della proprietà ma di nomadismo sociale, di fuga dalla fabbrica e dal lavoro salariato. Chi l’ha descritta più a fondo è stato Alexis de Tocqueville, che non era un colono né un americano. Era un aristocratico francese repubblicano. Ministro di Napoleone III prima del colpo di stato, amico fraterno dei macellai del giugno 1848,, quelli che sventrarono a colpi di cannone la Parigi operaia, antisocialista al punto da non poter reprimere un moto di genuino orrore fisico alla vista della figura rattrappita di Blanqui, che a suo dire voleva imporre a tutto il popolo francese quella sofferenza con cui la prigione aveva reso sgradevole il suo viso. Al tempo stesso, Tocqueville è colui che più a fondo ha studiato le istituzioni americane del suo tempo e sta nel novero di quelli che più le hanno amate, nel nome di un egualitarismo né operaio né socialista. Ciò per cui odiava i socialisti non era l’eguaglianza di cui si dicevano portatori, ma la tendenza all’accentramento politico e amministrativo, il centralismo e lo statalismo che sembravano animarli: eguaglianza e centralismo era per lui un binomio ereditato dalla grande Rivoluzione, ma cresciuto prima, insieme al dispotismo; alle spalle dei socialisti, Tocqueville vedeva, ben più che la Rivoluzione dell’89, la tradizione assolutista. Anche le istituzioni americane le considerava figlie dell’eguaglianza, anima del mondo moderno, potenza non contenibile e di gran lunga capace di spezzare ogni barriera; ma conoscevano un centralismo minore, erano in guerra per mitigarlo, e per questo le amava.
E su questo punto che si divaricano non solo due grandi miti democratici, ma anche due scienze della politica, due strategie della liberazione.
Per il taglio particolare del suo discorso, Tocqueville non appartiene al dibattito europeo sullo Stato, che, per il versante per cui è democratico ed egualitario, né autoritario, né reazionario, è sempre socialista', Tocqueville appartiene per intero al «sognò americano».
Il discorso sul dominio nel dibattito europeo è sempre discorso sulla diseguaglianza: il dominio deriva da questa e ne è funzione subordinata. La diseguaglianza che governa lo Stato moderno è quella tra proletariato e borghesia, che fonda i rapporti sociali tipici del modo capitalistico di produzione: questo assunto è comune a tutte le parti, ed è al suo interno che il mito socialista governa la prospettiva, fissa i ruoli e amministra i punti di riferimento.
Questa diseguaglianza è fondata dal diritto di proprietà ed è gestita dal mercato: per i conservatori, lo Stato la deve tutelare dall’esterno, badando a che nessuno saboti il meccanismo; per i progressisti, lo Stato, che è espressione dell’eguaglianza politica di tutti gli uomini, dell’eguaglianza dei loro diritti, deve abbattere, o per lo meno governare ed attenuare, quella diseguaglianza, forzando i ciechi automatismi del mercato e introducendo in esso la razionalità della macchina politica. Il movimento progressista e democratico europeo è fortemente statalista, naturalmente orientato in senso socialista: anche nelle sue tendenze più gra-dualiste, l’idea-forza resta che l'eguaglianza- la realizza lo Stato contro il mercato, facendo prevalere un «interesse generale» sui particolarismi che abitano la società. Insieme, c’è l’idea che una società egualitaria, che abbia sottomesso gli arbitri della proprietà, non conoscerà dominio perché sarà armonica e aconflittuale, governata da quella capacità di cooperazione che è propria del lavoro di fabbrica, dove tutti concorrono a un medesimo scopo. L’eguaglianza, dentro questo ambito di discorso, porta il segno del lavoro operaio, ed è per questo che appare non conflittuale ma partecipativa: è un’eguaglianza che, nello stesso momento in cui si costruisce attraverso lo Stato, lo rende superfluo, lo scioglie nell’amministrazione.
Tocqueville fa un discorso opposto: nel mondo moderno la diseguaglianza è un fatto residuale, l’eguaglianza è sovrana; ciò non solo non elimina il dominio ma ne crea forme nuove, capaci di incredibili oppressioni se non contrastate. Non è che Tocque-ville non veda la diseguaglianza dell’avere e del non avere. La vede, ma la ritiene fragile in una società che si è liberata dell’aristocrazia, dove tutti hanno gli stessi desideri e gusti, la stessa lingua e cultura: dove non ci sono istituzioni che inchiodano gli uomini ai loro ruoli come a destini, la proprietà appare povera cosa, argine debole allo spirito egualitario.
Dire che era un ideologo piccolo borghese ha la povertà propria delle cose ovvie: certo, non ha visto il capitalismo, il concentrarsi della proprietà e dei poteri, il crescere dell’impero a ridosso della democrazia della «frontiera». Gli altri, però, non hanno visto la sindacalizzazione, il crescere della ricchezza operaia nella società opulenta, la redistribuzione delle risorse e lo sminuzzamento dei poteri; non hanno visto il ventre molle dell’impero Usa, un impero che si diletta a fucilare i suoi presidenti sulle pubbliche piazze invece che impegnarsi a vincere le loro guerre. È vero che il capitalismo concentra potere e ricchezza; è vero anche che la lotta operaia opera in senso inverso, e i consumi di massa, l’appiattirsi delle differenze gerarchiche e la diffusione del potere sociale che segnano la «governabilità» dei paesi dello sviluppo, stanno a dimostrarne la potenza. Che il potere si concentri è un assioma socialista, che si diffonda è l’assioma della «frontiera». Un assioma democratico non è necessariamente ingenuo. In questo caso ha dietro, semplicemente, un discorso sul sindacato: l’operaio «concepisce un’idea più elevata dei suoi diritti, del suo avvenire, di se stesso; è pieno di ambizione e desideri nuovi, assediato da nuovi bisogni. Ogni momento lancia uno sguardo pieno di desiderio sui profitti di colui che l’impiega, e, per poter riuscire a condividerli, si sforza di elevare il prezzo del suo lavoro, finendo generalmente per riuscirvi». E così che, man mano «che le condizioni si fanno più uguali, i salari si elevano, e, a conseguenza di ciò, le condizioni si fanno uguali».
LA FUGA DAL LAVORO OPERAIO
Tocqueville non era un economista e non li amava; ne parlava, con quel disprezzo che solo gli aristocratici ogni tanto sanno provare, come di funzionari dell’assolutismo, di gente che vede leggi oggettive là dove c’è solo volontà di potere assoluto. Per questo si riferisce continuamente al desiderio come a una forza storica potente, al punto da pensare che se tutti desiderano le stesse cose, nulla riuscirà per lungo tempo a conservarli diseguali, e che è questa l’eguaglianza sancita dalla scomparsa dell’aristocrazia. Ed è dal desiderio che vede ridisegnata la geografìa del «nuovo mondo», spinta in avanti la Frontiera, governato l’assetto sociale degli Stati Uniti: «Non sono cinquant’anni che è stato fondato lo Stato dell’Ohio; la maggior parte di quelli che l’abitano non vi è nata, la sua capitale non ha ancora trentanni di esistenza e un’immensa estensione di campi deserti copre il suo territorio; eppure la popolazione delTOhio si è già rimessa in cammino verso l’Ovest: la maggior parte di coloro che discendono nelle fertili praterie dell ’Illinois sono abitanti dell’Ohio. Questi uomini hanno lasciato la prima patria per stare bene, ora abbandonano anche la seconda per star meglio: quasi ovunque essi trovano la fortuna, ma non la felicità. In loro il desiderio del benessere è divenuto una passione inquieta e ardente che si accresce soddisfacendosi. Essi han rotto da tempo i legami che li univano al suolo natio e non ne hanno stretti degli altri. Per loro l’emigrazione ha cominciato coll’essere un bisogno, oggi essa è diventata ai loro occhi una specie di gioco d’azzardo, di cui essi amano le emozioni oltre al guadagno». Questa spregiudicatezza del desiderio, questa irrequietezza della vita che anima il nomadismo, sono ciò che distingue l’America dall’Europa, ciò che rende diverse le regole della convivenza e la filosofia delle istituzioni: «In Europa siamo abituati a considerare l’irrequietezza dello spirito, lo smodato desiderio di ricchezze, l’amore estremo dell’indipendenza, come pericoli sociali»; ma sono proprio queste cose che garantiscono la pace e la sicurezza delle repubbliche americane, dove è debolezza d’animo la nostra «moderazione dei desideri», dove sono pericoli le nostre virtù. La ricerca della felicità governa una mobilità sociale che attraversa sia territori geografici, mutando l’estensione dello Stato, che ruoli sociali, collocazione all’interno del processo produttivo e della scala gerarchica, mutandone la composizione: un discorso per nulla vago, del tutto scevro di folklore. Il suo riferimento non è un egualitarismo generico: ciò di cui si parla è la migrazione a Ovest di operai ricchi, non inchiodati alla fabbrica dalla miseria né dalla legislazione contro il vagabondaggio, che fuggono il loro lavoro. La fuga dal lavoro operaio è ciò che spinge in avanti la frontiera, è l’anima del sogno americano; sono gli operai che viaggiano, è Temi-grante europeo che sbarca in un «paese semivuoto, in cui l’industria ha bisogno di braccia; e diviene un operaio agiato; suo figlio va a cercar fortuna in un paese quasi completamente vuoto, e diviene un ricco proprietario».
Ineguaglianza della «frontiera» non è l’eguaglianza socialista del lavoro operaio; al contrario, porta il segno della fuga dalla fabbrica. Non è partecipativa ma attraversata dal conflitto.
LA DITTATURA DELLA DEMOCRAZIA
Della dittatura dell’eguaglianza hanno parlato in molti, che odiavano l’eguaglianza. Tocqueville è il primo che ne parla amandola. Benché siano molte le ingenuità che costellano il suo pensiero, egli non condivide quella, egemone nella tradizione socialista, di identificare il governo con la classe che lo esprime, chi esercita il potere con chi lo delega. «Quando il popolo governa, è necessario che sia felice, affinché non rovesci lo Stato»; ciò vuol dire che il potere sociale è del popolo in questa società, ma che esso non si identifica mai con lo Stato, che è una macchina che produce cose. Se non è soddisfatto, il popolo è abbastanza forte da rovesciare la macchina statale, e attraverso questa minaccia la controlla e la vincola, ma non «partecipa» a essa.
Anche nel migliore dei casi, quando non c’è opposizione di interessi tra popolo e Stato, quest’ultimo cercherà sempre di concentrare tutto il potere, di governare dall’alto, di decidere tutto: di conquistare il monopolio della decisione politica e amministrativa. Cercherà cioè di uccidere pluralismo e libertà, uniformando i modi di vita, ampliando all’infinito la sfera di competenza dell’interesse pubblico. Ciò che distingue la democrazia dalle altre forme di governo non è la maggiore partecipazione alle decisioni, ma il fatto che la società democratica è quella più esposta al rischio dello strapotere del governo centrale, al rischio di un centralismo senza limiti: perché in essa non vi sono corpi intermedi, privilegi e corporazioni capaci di esprimere un potere autonomo da quello centrale e quindi di limitarlo. Il potere, in essa, è uno solo perché una sola fonte legittima lo genera, il popolo; quest’ultimo, tanto più è fiducioso e disposto alla delega, quanto più si sente rappresentato fedelmente, quanto più vede nel suo delegato una figura familiare e simile, che per origine di classe non ha interessi contrapposti ai suoi. In democrazia, proprio perché tutti sono uguali,
ciò che solo emerge è il potere centrale, che per questo tende, più che in ogni altra forma di governo, a concentrare tutto presso di sé. Per questo la società democratica esige che ci si associ liberamente al di fuori dello Stato, che si sviluppino le autonomie locali, che ci si batta per evitare che l’accentramento amministrativo sia pari a quello politico, pena la scomparsa di ogni libertà.
La tendenza al centralismo è più antica della rivoluzione francese, che si limita a portarla a compimento: «Prima che compisse l’anno dallo scoppio della Rivoluzione, Mirabeau scriveva segretamente al re: “Confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime e ne troverete conforto e speranza. Una parte degli atti dell’Assemblea nazionale - e la più considerevole - è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non è nulla Tessersi liberati del parlamento, del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L’idea di formare una sola classe di cittadini avrebbe sedotto Richelieu: questa superficie eguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi regni di governo assoluto non avrebbero fatto per il potere regio quanto ha fatto questo solo anno di rivoluzio-»
ne ».
Il potere della maggioranza non conosce limiti, questo è il problema di Tocqueville. Ed è un problema tipicamente moderno. Non è figlio dell’eguaglianza, ma è suo compagno di viaggio, e l’eguaglianza ne segna le caratteristiche: «Nei secoli democratici, il potere assoluto non è per sua natura crudele 0 selvaggio, ma è minuzioso e faccendone». Le istituzioni della «frontiera» conoscono l’antidoto: il culto della minoranza che impone il decentramento, il proliferare dei poteri locali.
Un popolo di vagabondi emigranti ha una diffidenza istintiva nei confronti della «maggioranza» che sta in un’assemblea che siede sempre in qualche luogo lontano; preferisce considerarsi un agglomerato di minoranze, che il potere centrale deve riconoscere e tutelare; preferisce raggrupparsi per entità etniche, culturali, religiose, sviluppare le forme più varie di associazionismo e difendere il proprio localismo, per quanto è possibile ricorrendo all’elezione diretta dei titolari delle funzioni pubbliche locali per eludere la morsa del funzionariato centrale.
Tocqueville non pensava che gli americani ce l’avrebbero fatta, che quel decentramento potesse averla vinta; sapeva di lavorare su una mera ipotesi politica, di essere partecipe di un mito: il solo mito antisocialista dei nostri tempi che è anche dernocratico', perché non consegna tutta la società al capitale e diffida dello Stato, perché ravvisa l’eguaglianza nel rifiuto del lavoro operaio. Come ogni mito, non spiega tutto, ma definisce le regole dello scontro politico.
(Da «Metropoli», n. 6, settembre 1981)
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