Paolo Virno Dell'Esodo
Tra i tanti modi in cui Marx ha
descritto la crisi del processo di accumulazione capitalistico
(sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio del profitto ecc.),
ve n'è per lo più misconosciuto: la diserzione operaia dalla
fabbrica.
Di una febbrile e sistematica
disubbidienza alle leggi del mercato del lavoro, Marx parla a
proposito della fase iniziale del capitalismo nordamericano, allorché
la sua analisi del moderno modo di produzione si imbatte nell”epopea
del West. Le carovane dei coloni dirette verso le grandi
pianure e l'individualismo esasperato
del frontièrsman si affacciano nei suoi testi come un segnale di
difficoltà per Monsieur le Capital. La “frontiera” è inclusa a
viva forza nella critica dell'economia politica.
Non si tratta solo di glosse marginali
intorno alle anomalie dello sviluppo nelle aree extraeuropee. C ӏ
piuttosto da parte di Marx, la ricerca di nuove categorie
interpretative da mettere alla prova rispetto alle tendenze di fondo
implicite nel rapporto di capitale. Per questo, più che agli
articoli
marxiani sulla guerra civile americana
o alla sua corrispomdenza con i socialisti tedeschi immigrati negli
Stati Uniti dopo il 1848, conviene prestare attenzione a un luogo
teorico per eccellenza: a un capitolo de IL Capitale. Precisamente,
all'ultimo capitolo del primo libro, laddove si discorre delle
colonie, ma poi in concreto quasi esclusivamente della funzione
sociale della “frontiera” nordamericana [Marx 1867: cap. XXV,
“La moderna teoria della colonizzazione”; e cfr. Turner 1920:
242-601.
La domanda che Marx si pone è
semplice: com'è potuto accadere che il modo di produzione
capitalistico abbia incontrato tante difficoltà a imporsi proprio in
un paese;
che ha l'età del capitalismo, nato con
esso, su cui non grava l'eredità vischiosa dei modi di produrre
tradizionali.
Negli Stati Uniti, le condizioni per lo
sviluppo si sono avute in tutta la loro purezza, eppure qualcosa non
ha funzionato. Non è bastato che dal vecchio continente fluissero in
abbondanza denaro e forza-lavoro e non è bastato che le “cose”
del capitale si radunassero in una terra senza nostalgie. Le “cose”
sono rimaste tali, per lungo tempo non si sono transustanziate in
rapporto sociale. La causa di questa paradossale impasse sta, secondo
Marx, nell'abitudine contratta dagli immigrati abbandonare dopo un
breve periodo la fabbrica, dirigendosi a Ovest, inoltrandosi nella
frontiera.
La frontiera, ossia la presenza di uno
sconfinato territorio da popola e colonizzare, ha offerto agli operai
americani l'opportunità, davvero straordinaria, di rendere
reversibile la propria condizione di partenza. Quando si cita famosa
“ricchezza delle occasioni” quale radice e blasone della
civilizzazione nordamericana, ci si dimentica di solito i mettere in
risalto l'occasione decisiva, che segna uno scarto rispetto alla
storia dell”Europa industriale: quella cioè, di fuggire in massa
dal lavoro sotto padrone.
Già un padre della patria, Benjamin
prodigar consigli a chi avesse voluto trasferirsi in America
scriveva:
Tra noi il lavoro di solito è troppo
costoso, e gli operai difficili da tenere insieme, perché ciascuno
desidera essere padrone, mentre, d'altra parte, il basso costo della
terra induce i più ad abbbandonare l'industria per
l'agricoltura.[...] I grandi stabilimenti manifatturieri richiedono
abbondanza di poveri che facciano il lavoro a basso salario; quei
poveri si possono trovare in Europa, ma non si troveranno in America
finché tutta la terra non sarà occupata e
coltivata [W/illiams 1933: 206-7].
Wakefield l'esperto ufficiale dei
problemi delle colonie che Marx elegge a bersaglio polemico ammette
candidamente nel suo England and America:
Dove la terra è molto a buon mercato e
tutti gli uomini sono liberi, dove ognuno può mantenere per se
stesso un pezzo di terra il lavoro è carissimo per quanto riguarda
la partecipazione dell'operaio al suo prodotto; non solo, ma la
difficoltà sta nell'ottenere lavoro combinato, a qualsiasi prezzo
[Marx 1867: H, 552-3).
La disponibilità di
terre libere fa si che il lavoro salariato resti una rete a maglie
larghe, uno status provvisorio, un episodio limitato nel tempo: non
più perpetua identità, destino irrevocabile, ergastolo. La
differenza è profonda, e ci parla dell'oggi. La dinamica della
frontiera, ovvero l'enig-
ma americano, costituisce
una potente anticipazione di comportamenti collettivi contemporanei.
Esaurita ogni valvola di sfogo spaziale, nelle società del
capitalismo maturo ritorna tuttavia il culto della mobilità,
l'aspirazione a rifuggire una condizione definitiva, la vocazione a
disertare il
regime di fabbrica.
All'inverso di quanto
avvenne in Europa, agli albori dell'industrialismo americano non vi
sono contadini ridotti in miseria che diventano operai, ma operai
adulti che si trasformano in liberi coltivatori. Il problema del
lavoro indipendente assume qui una conformazione insolita, anclfcssa
con molte note di
attualità. L'attività autonoma, infatti, non è residuo striminzito
e asfittico, ma si radica oltre la sottomissione salariata (o almeno
al suo fianco). Rappresenta il futuro, ciò che segue e si oppone
alla fabbrica. Inoltre, anziché marchiato da idiotismo e impotenza,
il rapporto con
la natura prende i tratti
di una esperienza intelligente appunto perché viene dopo
l'esperienza dell'industria.
Il paradigma della
diserzione, emerso dapprima nei pressi della “frontiera”, apre
prospettive teoriche impreviste. Né il concetto di “società
civile” elaborato da Hegel, né il funzionamento del mercato
delineato da Ricardo aiutano a capire la strategia della fuga. Ossia
un'esperienza di
civilizzazione imperniata
sulla continua sottrazione ai ruoli stabiliti, sull'inclinazione a
truccare il mazzo mentre la partita è in corso. La “frontiera”
diviene un'arma critica tanto( nei confronti di Hegel che di Ricardo,
perché colloca la crisi dello sviluppo capitalistico in un contesto
di abbondanza, mentre il “sistema dei bisogni” hegeliano e la
caduta del saggio del profitto ricardiana sono esplicativi solo in
relazione alla scarsità dominante.
Un certo grado di
abbondanza ridicolizza la pretesa naturalità mercato del lavoro a
utopia scientifica. Il rapporto di forza tra le classi è ora
definito anche dall'elusione, insomma dall'esistenza di vie di fuga.
Scrive Marx:
Quivi la popolazione
assoluta cresce molto più rapidamente che
nella madrepatria, perché
molti operai arrivano sulla scena
maturi; eppure il mercato
del lavoro è sempre al di sotto delle.
sue necessità. La legge
della domanda e dell`offerta di lavoro se
ne va a pezzi. Da una
parte il vecchio mondo getta in continua-
zione nelle colonie
capitale voglioso di sfruttamento, bisognoso
' di rinuncia; dall`altra
parte la riproduzione regolare dell'operaio
salariato come operaio
salariato si imbatte in ostacoli scortesissi-
mi e in parte
insuperabili. Peggio che ,mai per la produzione di
operai salariati in
soprannumero in proporzione dell'accumulazione
del capitale! Questa
trasformazione costante dei salariati in
produttori indipendenti
si ripercuote in modo assai dannoso
{...l. Non solo il grado
di sfruttamento dell'operaio salariato si
mantiene basso in modo
indecente; ma l'operaio perde per
giunta assieme al
rapporto di dipendenza, anche il senso di dipendenza
dal capitalista dedito
all'astinenza [ivíz H, 554
In tal modo si
sperimentano precocemente gli effetti dell'inesistenza, o peggio
ancora, dell'inefficacia dell'esercito salariale di riserva come
strumento di compressione
del salario operaio. La
medesima situazione si ripeterà su grande scala con il Welfare
State. Il reddito non dipende più esclusivamente dal'elargizione di
lavoro salariato; anzi,
questa elargizione è
concessa o negata in stretto riferimento a un eventuale reddito
altrimenti conseguito (non importa se percependo l'assistenza statale
o svolgendo attività autonome). Marx ricorre alla “frontiera”
per rendere ragione degli alti salari, scandalo e croce del
capitalismo
americano agli esordi. Ma
si è già detto che non è questione meramente storiografica. Il l
nomadismo, la libertà individuale, la diserzione, il sentimento
dell'abbondanza nutrono il conflitto sociale odierno.
La cultura della
defezione è estranea alla tradizione democratica e socialista.
Quest'ultima ha interiorizzato e riproposto l'idea europea di
“confine” contro quella americana di “frontiera”.
ll confine è una linea
su cui fermarsi, la frontiera è un'area indefinita in cui procedere.
Il confine è
stabile e fisso, la
frontiera mobile e incerta. L'uno è ostacolo, l'altra occasione. La
politica democratica e socialista si basa su identità fisse e
delimitazioni sicure. Suo fine è restringere l'“autonomia del
sociale”, rendendo esaustivo e trasparente il meccanismo di
rappresentanza che congiunge il lavoro allo Stato. L'individuo
rappresentato nel lavoro, il lavoro nello Stato: una sequenza senza
crepe, basata comè sul carattere stanziale della vita dei singoli.
Si capisce, così, perché
il pensiero politico democratico abbia fatto naufragio dinanzi ai
movimenti giovanili e alle nuove propensioni del lavoro dipendente.
Per dirla nei termini di un bel libro di Albert O. Hirscbman (Exit,
Voice and Loyalty, 1970), la sinistra non ha visto che l'opzione-
exit (abbandonare, se
appena possibile, una situazione svantaggiosa) diventava
preponderante rispetto all'opzione-voice (protestare attivamente
contro quella situazione).
Anzi, ha denigrato
moralmente i comportamenti di “uscita”. La disubbidienza e la
fuga non sono, peraltro, un gesto negativo, che esenti dall'azione e
dalla responsabilità. Al contrario. Disertare significa modificare
le condizioni entro cui il conflitto si svolge, anziché subirle. E
la costruzio-
ne positiva di uno
scenario favorevole esige più intraprendenza che non lo scontro a
condizioni prefissate. Un “fare” affermativo qualifica la
defezione, imprimendole un gusto
sensuale e operativo per
il presente. ll conflitto è ingaggiato a partire da ciò che si è
costriuto, per difendere relazioni sociali e forme di vita nuove, di
cui già si va facendo esperienza. All'antica idea di fuggire per
colpire meglio, si unisce la sicurezza che la lotta sarà tanto più
efficace, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le proprie
catene.
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