Renzo Novatore
I
Sono individualista perché anarchico, e sono anarchico perché sono nichilista. Ma anche il nichilismo lo intendo a modo mio…
Non
mi occupo di sapere se esso sia nordico od orientale, né se abbia o non
abbia una tradizione storica, politica, pratica o teorica, filosofica,
spirituale od intellettuale. Mi dico nichilista solo perché so che
nichilismo vuol dire negazione!
Negazione di ogni società, di ogni
culto, di ogni regola e di ogni religione. Ma non agogno al Nirvana come
non anelo al pessimismo disperato ed impotente dello Schopenhauer, che è
qualche cosa di peggio della stessa rinnegazione violenta della vita.
Il mio, è un pessimismo entusiasta e dionisiaco come le fiamme che
incendiano la mia esuberanza vitale, che irride a qualsiasi prigione
teoretica, scientifica e morale.
E
se mi dico anarchico individualista, iconoclasta e nichilista, è
appunto perché credo che in questi aggettivi siavi l'espressione massima
e completa della mia volitiva e scapigliata individualità, che, come un
fiume straripante, vuole espandersi impetuosamente travolgendo argini e
siepi, fintanto che, urtando in un granitico masso, s'infranga e si
disperda a sua volta. Io non rinnego la vita. La sublimo e la canto.
II
Chi
rinnega la vita perché crede che questa non sia che Male e Dolore e non
trova in se stesso l'eroico coraggio dell'autosoppressione è — per me —
un grottesco posatore, un impotente; come è un essere
compassionevolmente inferiore colui che crede che l'albero santo della
felicità sia una pianta contorta sulla quale tutte le scimmie possono
arrampicarsi in un più o meno prossimo avvenire, e che allora la tenebra
del male sarà fugata dai razzi fosforescenti del vero Bene…
III
La
vita — per me — non è né un bene né un male, né una teoria né un'idea.
La vita è una realtà, e la realtà della vita è la guerra. Per chi è nato
guerriero la vita è una sorgente di gioia, per gli altri non è che una
sorgente di umiliazione e di dolore. Io non chiedo più alla vita la
gioia spensierata. Essa non potrebbe darmela ed io non saprei più che
farmene ormai che l'adolescenza è passata…
Le
chiedo invece la gioia perversa delle battaglie che mi danno i fremiti
dolorosi delle sconfitte ed i voluttuosi brividi delle vittorie.
Vinto sul fango o vittorioso nel sole, io canto la vita e l'amo!
Per
l'anima mia ribelle non vi è pace che nella guerra, come, per il mio
spirito vagabondo e negatore, non vi è felicità più grande della
spregiudicata affermazione della mia capacità di vivere e di tripudiare.
Ogni mia sconfitta mi serve soltanto come preludio sinfonico ad una
nuova vittoria.
IV
Dal
giorno ch'io venni alla luce — per una casuale combinazione che non mi
importa ora di approfondire — portai con me il mio Bene ed il mio Male.
Vale
a dire: la mia gioia e il mio dolore ancora in embrione. L'uno e
l'altro progredirono con me nel cammino del tempo. Quanto più intensa ho
provata la gioia tanto più profondo ho inteso il dolore.
Ma questo non può essere soppresso senza la soppressione di quello.
Ora
ho scardinato la porta del mistero ed ho sciolto l'enigma della Sfinge.
La gioia ed il dolore sono i due soli liquori componenti la bevanda
eroica colla quale si ubriaca allegramente la vita. Perché non è vero
che questa sia uno squallido e pauroso deserto ove non germina più
nessun fiore né più matura nessun frutto vermiglio.
Ed
anche il più possente di tutti i dolori, quello che sospinge il forte
verso lo sfasciamento cosciente e tragico della propria individualità,
non è che una vigorosa manifestazione d'arte e di bellezza.
Ed
anch'esso rientra nella corrente universale dell'umano pensiero coi
raggi folgoreggianti del crimine che scardina e travolge ogni
cristallizzata realtà del circoscritto mondo dei più per ascendere verso
l'ultima fiamma ideale e disperdersi nel sempiterno fuoco del nuovo.
V
La
rivolta dell'uomo libero contro il dolore non è che l'intimo passionale
desiderio d'una gioia più intensa e più grande. Ma la gioia più grande
non sa mostrarsi all'uomo che nello specchio del più profondo dolore,
per poscia fondersi con questo in un enorme e barbaro amplesso. Ed è da
questo enorme e fecondo amplesso che scaturisce il superiore e saettante
sorriso del forte, che attraverso la lotta canta l'inno più scrosciante
alla vita.
Inno
intessuto di disprezzo e di scherno, di volontà e di potenza. Inno che
vibra e palpita fra la luce del sole che irradia le tombe; inno che
rianima il nulla e lo riempie di suoni.
VI
Sopra
lo spirito schiavo di Socrate che accetta stoicamente la morte e lo
spirito libero di Diogene che accetta cinicamente la vita, si erge
l'arco trionfale sul quale danza il sacrilego frantumatore de' nuovi
fantasmi, il radicale distruttore di ogni mondo morale. È l'uomo libero
che danza in alto, fra le magnifiche fosforescenze del sole.
E
quando si alzano dai paludosi abissi le gigantesche nubi gonfie di cupa
tenebra per impedirci la vista della luce ed ostacolarci il cammino,
egli si apre il varco a colpi di Browning o ferma il loro corso colla
fiamma del suo pensiero e della sua fantasia dominatrice, imponendo loro
di soggiacere come umili schiave ai suoi piedi.
Ma
solo chi conosce e pratica i furori iconoclastici della distruzione può
possedere la gioia nata dalla libertà, di quella unica libertà
fecondata dal dolore. Io mi ergo contro la realtà del mondo esteriore
per il trionfo della realtà del mio mondo interiore.
Nego
la società per il trionfo dell'io. Nego la stabilità di ogni regola, di
ogni costume, di ogni morale, per l'affermazione di ogni istinto
volitivo, di ogni libera sentimentalità, di ogni passione e di ogni
fantasia. Irrido ad ogni dovere ad ogni diritto per cantare il libero
arbitrio.
Schernisco
l'avvenire per soffrire e godere nel presente il mio bene ed il mio
male. L'umanità la disprezzo perché non è la mia umanità. Odio i tiranni
e detesto gli schiavi. Non voglio e non concedo solidarietà perché
credo che sia una nuova catena, e perché credo con Ibsen che l'uomo più
solo è l'uomo più forte.
Questo
è il mio Nichilismo. La vita, per me, non è che un eroico poema di
gioia e di perversità scritto dalle mani sanguinanti del dolore e del
male o un sogno tragico d'arte e di bellezza!
[Nichilismo, Anno I, n. 4, 21 maggio 1920]
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