[DeriveApprodi l’edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista
di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito
sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera
«genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione
all’edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società
contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il
neoliberismo non è solo un’ideologia o una politica economica: è
innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che
struttura l’identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti
di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza
mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del
capitolo finale].
La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che
caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio,
possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello
che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale
ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo
dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In
questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con
un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la
propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso
assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto
costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine
di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa
stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o
«imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la
generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].
A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima
lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo
tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l’«ordine-quadro» a
partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare
sul quadro generale»[3] e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino.
Terzo, e ancora più innovativo
sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli
anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro,
ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della
concorrenza. Seguendo l’ideale di una «società di diritto privato»[4],
non c’è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di
diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di
autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal
ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del
diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le
categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza
essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi
come un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue
relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la
costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le
norme del mercato.
Quarto, l’esigenza di
universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto le
frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro
rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve
prevalere al livello dell’azione statale, trova un naturale
prolungamento nel governo di sé dell’«individuoimpresa ». Ovvero, più
correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance,
deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come
imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo
comprende dunque «l’insieme delle tecniche di governo che oltrepassano
l’azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se
stessi degli individui »[5]. L’impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. […]
Un dispositivo di natura strategica
Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante.
Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto,
condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica
talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il
neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto
discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che
formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e
aggiustamenti dovuti all’insorgere di effetti indesiderati a volte in
completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo
senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault[6].
Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento
concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a
modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo
strategico»[7].
L’obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto
collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e
produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è
proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l’innesto
di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione,
combinazione di due logiche che arriva a imporre l’obiettivo strategico
della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente
di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello,
che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere
realizzato seguendo un piano in una fase successiva.
Attribuire un carattere strategico al
dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne
permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va
soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a
questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti
dei paesi capitalisti dominanti dall’ampiezza della crisi finanziaria.
Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista.
Oggi, al di là delle prime «riparazioni»
d’urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi
fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d’insieme del
dispositivo Stato/mercato. Non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni
economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione
del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato
sull’indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il
nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi
dall’inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà
spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista,
sarebbe d’altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo
avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate,
ancorato stabilmente all’«economia reale», rispettoso dell’ambiente,
attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene
comune dell’umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è
almeno un’illusione altrettanto nociva che l’utopia del mercato
autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo.
È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano
ideologico, da una patina di «ritorno alle origini». Dopotutto,
l’appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse
i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon
«codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale»
dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli
spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell’ideologia, a un
ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo
escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine
dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata[8].
Il carattere strategico del dispositivo neoliberista sarebbe altrettanto misconosciuto se lo si mettesse in rapporto con il Gestell dell’- Heidegger più tardo o con l’oikonomía della teologia cristiana del II secolo, come suggerisce indirettamente Agamben in Che cos’è un dispositivo?[9].
Parlare, come fa lui, di una «genealogia teologica» dei «dispositivi»
foucaultiani, vuol dire trascurare che anche se i dispositivi non hanno
effettivamente «alcun fondamento nell’essere» e sono di conseguenza
votati a «produrre il loro soggetto», non per questo ripetono la «cesura
che separa in Dio essere e azione, ontologia e prassi»[10]:
a differenza del governo degli uomini da parte di Dio, che rinvia al
problema teologico dell’Incarnazione, essi si costituiscono sempre a
partire da condizioni storiche singolari e contingenti,
e dunque hanno un carattere esclusivamente «strategico», e non
«destinale» o «epocale». A questo proposito è bene ricordare l’appunto
di Foucault sulla specificità della nuova problematizzazione del governo
che vede la luce tra il 1580 e il 1660: se l’azione del governo dà
luogo a tematizzazione, è perché non trova «modelli ricavabili da Dio o
dalla natura»[11]. In altri termini, non è il «retaggio teologico» del governo degli uomini e del mondo da parte di Dio che spiega come il governo degli uomini da parte degli uomini sia
un problema, ma la crisi del modello del «governo pastorale» del mondo
da parte di Dio che libera la riflessione sull’arte di governare gli
uomini. Ciò che è vero per l’emergere del problema generale del governo è
vero anche per la costituzione della forma specificamente neoliberista
della governamentalità. Quest’ultima non è né la conseguenza necessaria
del regime di accumulazione del capitale, né una delle metamorfosi della
logica generale dell’Incarnazione, né un misterioso «invio
dell’Essere», e tanto meno una semplice dottrina intellettuale o una
forma effimera di «falsa coscienza».
Resta il fatto che la razionalità
neoliberista può entrare in contatto con ideologie estranee alla pura
logica commerciale, senza per questo cessare di essere la razionalità
dominante. Come scrive giustamente la Brown, «il neoliberismo può
imporsi come governamentalità anche senza costituire l’ideologia
dominante»[12].
Certo, ciò non si verifica mai senza tensioni o contraddizioni.
L’esempio americano è particolarmente istruttivo a questo riguardo. Il
neoconservatorismo si è imposto come ideologia di riferimento della
nuova destra, anche se l’«alto tasso di moralismo» di tale ideologia
sembrerebbe incompatibile con il carattere «amorale» della razionalità
neoliberista[13].
Un’analisi superficiale potrebbe far pensare a un «doppio gioco». In
realtà, tra neoliberismo e neoconservatorismo esiste una corrispondenza
che non è per nulla fortuita: se la razionalità neoliberista eleva
l’impresa al rango di modello della soggettivazione, è proprio perché la forma-impresa è la «forma cellulare» di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia è la «forma cellulare di moralizzazione del bambino[14]. Di qui l’elogio incessante dell’individuo calcolatore e responsabile
(presentato il più delle volte come un padre di famiglia lavoratore,
economo e previdente) che accompagna lo smantellamento dei sistemi
pensionistici, istruzione pubblica e sanità. Molto più che una semplice
«zona di contatto», il collegamento di impresa e famiglia costituisce il
punto di convergenza o sovrapposizione tra normatività neo479 liberista
e moralismo neoconservatore. Ragion per cui è sempre pericoloso
criticare il conservatorismo morale e culturale attaccandosi al presunto
«liberismo» dei suoi partigiani in campo economico: cercando di
smascherare l’«incoerenza» di questi ultimi, si rivelerebbe soprattutto
la propria scarsa comprensione della differenza tra neoliberismo e laissez-faire,
e per di più si rischierebbe di dover assumere una sorta di
laissez-fairismo integrale e sistematico per salvare la coerenza della
propria critica.
Ma la temporanea alleanza di
neoconservatorismo e neoliberismo non vuol dire che un nuovo amalgama
ideologico, una combinazione di ingredienti di provenienze diverse, non
possa prendere il posto di una corrente di pensiero oggi piuttosto
anemica. La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato
che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti,
compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la
razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello
della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non
vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio
temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di
stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei
mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la
ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a
rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo
guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di
per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che
potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.
[1] Cfr. W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, in W. Brown, Edgework. Critical essays on knowledge and politics, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 40.
[2]
Tale norma non esclude affatto strategie di «alleanza» messe in atto
dalle imprese per potenziare i loro «vantaggi competitivi», anzi le
rende necessarie. Da cui la fortuna nel vocabolario del management del
termine «coopetizione», che evidenzia il ricorso a una combinazione
morbida di cooperazione e concorrenza. Tuttavia le relazioni informali
tramite le quali avviene lo «scambio di saperi» tra aziende concorrenti
non si possono ricondurre, non più della «cooperazione volontaria»
vantata da Spencer sotto la forma del contratto, a una vera cooperazione
nel senso di una condivisione non transazionale.
[3] Sul senso di queste espressioni si veda il capitolo 7 per la prima, il capitolo 10 per la seconda.
[4] Su questa espressione di Böhm si veda il capitolo 7, sulla ripresa e approfondimento di Hayek il capitolo 9.
[5] W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 43.
[6]
Sul concetto allargato di «dispositivo» in quanto rete di elementi
eterogenei che dipendono tanto dal discorsivo quanto dal «sociale non
discorsivo», vedi M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et Écrits, cit. vol. II, pp. 299-301.
[7] Ibid.
[8] Quest’indifferenza, che può arrivare fino alla pura e semplice negazione (l’ordoliberalismo
non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.
non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.
[9] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006, pp. 15-18. Il termine Gestell indica
un ordinamento in cui l’uomo è costretto a svelare il reale «sul modo
dell’ordinare», il che definisce per Heidegger l’essenza della tecnica
moderna. Quanto all’oikonomía dei teologi, essa permette di
concepire il governo degli uomini e del mondo come affidato da Dio a suo
Figlio. È significativo che Agamben dia al concetto di «dispositivo »
un’estensione difficilmente compatibile con la preoccupazione di
Foucault per la singolarità storica (Ivi, pp. 19-20).
[10] Ivi, p. 17. L’idea è ripresa e approfondita ne Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Neri Pozza, Vicenza 2007, cap. 3, pp. 69-80.
[11] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005., p. 173.
[12]
L’autrice aggiunge subito dopo che «la prima fa riferimento
all’esercizio del potere, mentre la seconda a un ordine di credenze
popolari che può corrispondere perfettamente alla prima o meno, e che
può addirittura costituire un punto di resistenza alla
governamentalità», W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 49
[13] Ivi, p. 143, nota 5 [«the high moral tone»]. Va osservato che l’autrice parla nella stessa nota del neoconservatorismo come di un’«ideologia»: «Neoliberalism and neoconservatism are quite different, not least because the former functions as a political rationality while the latter remains an ideology». Mentre in un altro recente saggio, intitolato American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization («Political
Theory», XXXIV, n. 6, 2006, pp. 690-714), la Brown parla del
neoliberismo e del neoconservatorismo come di due «razionalità
politiche». Per quanto ci riguarda, crediamo che nessuna simmetria tra razionalità neoliberista e ideologia neoconservatrice sia possibile.
[14]
L’impresa costituisce lo «zoccolo etico-politico» del neoliberismo. In
effetti già in Röpke, agli albori del pensiero neoliberista, la
forma-impresa è concepita come forma di
«moralizzazione-responsabilizzazione» dell’individuo (cfr. capitolo 7).
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