Carlo Formenti
La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e
mezzo, sta per ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la
distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie
sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da
qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti
intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da
un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è
molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile
che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di
opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere
effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo
rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità,
daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di
affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi. Prima, proverò a
evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre
componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree
tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti
anticapitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario;
transizione alla società postcapitalista; uso della violenza per la
realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario,
di evidenziare le differenze fra anarchici e postoperaisti che, a mio
parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di
composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine,
cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è
invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso
posto-peraista su quello anarchico.
La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della
delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna
autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.
Comune è il timore che un processo rivoluzionario egemonizzato da
gerarchie professionali possa dare vita a strutture di dominio ancora
più oppressive di quelle dello Stato borghese, analogo è l’impegno a
creare istituzioni di democrazia diretta e partecipativa che esorcizzino
il rischio (anche se persistono differenze nelle motivazioni: ideali e
«di principio» quelle anarchiche, analitico scientifiche quelle degli
intellettuali autonomi, che considerano la forma partito obsoleta
rispetto alla nuova composizione di classe). Ciò detto, è indubbio che
gli anarchici abbiano lavorato più concretamente per mettere in pratica
le proprie idee. Ispirati alle descrizioni antropologiche delle civiltà
precapitalistiche e alla pratica femminista, i modelli elaborati da
Graeber e altri hanno di fatto egemonizzato (ma a loro non piacerebbe il
termine!) la recente cultura di movimento (dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street):
rifiuto di leader designati e permanenti; ricerca del consenso
attraverso il confronto e la mediazione (non si vota per non provocare
frustrazione nelle minoranze); privilegiare i piccoli gruppi autonomi e
autorganizzati (comuni) dove è più facile applicare il principio di
orizzontalità; visione «spontaneista» della diffusione dei movimenti
(una volta sperimentate le pratiche di azione diretta, le persone le
imitano spontaneamente, diffondendole per via virale). Su questi punti
c’è totale convergenza con i neosituazionisti (che mettono però
l’accento sulla produzione di «eventi» simbolici, in grado di accelerare
i processi di «contaminazione»). I postoperaisti si accodano a loro
volta anche se, troppo sofisticati per condividere certe ingenuità,
lasciano trasparire qualche imbarazzo, come quando Franco Berardi scrive
che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, che è già
nelle cose», per poi smentire parzialmente questa professione di fede
spontaneista, allorché aggiunge che si tratta di suscitare la coscienza
dei precari cognitivi e organizzare la loro collaborazione politica
(perché suscitare e organizzare, se l’insurrezione è nelle cose?)
La convergenza si fa più evidente nelle due aree tematiche,
strettamente interconnesse, del ruolo rivoluzionario dell’immaginazione e
della transizione al postcapitalismo. Per Graeber, la riscoperta dello
slogan sessantottino sull’immaginazione al potere si ammanta di accenti
ottimistici che sarebbe eufemistico definire sfrenati. Nei suoi lavori
leggiamo frasi di questo tenore: «L’affermazione che un altro mondo è
possibile è un atto di fede»; «L’ottimismo è un imperativo morale»; «Il
neoliberismo è un piano politico per annientare l’immaginazione»; «Il
movimento contro la globalizzazione si è dissolto perché non ha saputo
riconoscere le sue vittorie», «Ci sono buone ragioni per credere che il
capitalismo, nel giro di una generazione, non esisterà più». All’ultima
professione di fede fanno eco due affermazioni di Franco Berardi,
secondo cui «La situazione sembra volgere verso il crollo», e «Il
capitalismo entra nella sua fase agonica»; mentre lo stesso Bifo
rilancia il tema della centralità della guerra degli immaginari
scrivendo a sua volta che «Il collasso europeo non è provocato da una
crisi economica e finanziaria ma da una crisi dell’immaginazione
sociale».
Nessuno mette in dubbio che il progetto neoliberista si fondi (anche
ma non solo) sullo sforzo, finora coronato da successo, di annientare,
non la fede, ma anche la più tenue speranza che un altro mondo sia
possibile (un classicissimo esempio di egemonia gramsciana!), ma ciò non
giustifica il giudizio secondo cui il terreno decisivo dello scontro di
classe sarebbe oggi quello dell’immaginazione. L’idea che il
capitalismo sia arrivato alla fine, motivata dal comportamento «folle»
dei governi che affrontano la crisi con politiche che ne aggravano le
cause, non tiene conto del fatto che ciò, nella storia del capitalismo,
si è ripetuto innumerevoli volte, dalla grande crisi della seconda metà
dell’Ottocento a quella del 1929. L’intera storia del capitale è
punteggiata da simili catastrofi e follie, ma il «crollo» vagheggiato
non è mai arrivato, né basta spostarne le cause dalla caduta del saggio
del profitto al collasso dell’immaginazione per realizzare il sogno.
D’altro canto, la «immaginarizzazione» (o se si preferisce la
«culturalizzazione») dello scontro finale è l’inevitabile pendant della
rimozione del problema della transizione, comune a tutte le correnti
rivoluzionarie di cui ci stiamo qui occupando. In altri interventi ho
sottolineato l’interesse relativo che Negri e altri teorici
postoperaisti manifestano per il tema della transizione, in quanto
convinti che, nell’era del capitalismo postfordista e digitale, la
socializzazione dal basso, sostanzialmente spontanea e autonoma, delle
forze produttive sia arrivata a un punto tale da ridurre il problema a
una sorta di gestione imprenditoriale alternativa della ricchezza da
parte delle moltitudini. Analogamente, Graeber rifiuta l’idea di un
«cataclisma rivoluzionario» che abbia come obiettivo immediato il
rovesciamento dei governi. L’azione rivoluzionaria viene piuttosto
descritta come un processo graduale di creazione dal basso di forme
alternative di organizzazione sociale, un insieme di pratiche ed
esperienze che consentirebbero al nuovo di crescere negli interstizi del
vecchio (esperienze come quelle della crisi argentina e del movimento
zapatista vengono citate a esempio di tale processo, e descritte come
«tessere» di un mosaico globale in via di composizione).
Insomma, la rivoluzione come proliferazione delle comuni e delle loro
interconnessioni reciproche. Un modello che consente oltretutto di
bypassare la spinosa questione dell’uso (o del rifiuto) della violenza
come strumento rivoluzionario. Pur avendo posizioni assai articolate
(dal pacifismo radicale, di principio, alla giustificazione dello
scontro militare sotto certe condizioni) tutte le componenti di cui ci
stiamo qui occupando condividono infatti il presupposto (del resto
incontestabile) secondo cui, oggi, qualsiasi scontro frontale contro le
forze professionali della repressione sarebbe destinato alla sconfitta.
Dunque le tesi di Graeber in merito sia alla convergenza, sia alla
complementarietà fra discorsi anarchici e autonomi sembrano trovare
sostanziale conferma. Resta però da sciogliere un nodo decisivo, messo
in luce dallo stesso Graeber: la vera, irriducibile differenza fra
discorso anarchico e discorso neomarxista, consiste nel fatto che il
primo è soprattutto un discorso etico sulla pratica, mentre il secondo è
un discorso teorico sulla strategia. Condivido pienamente e credo sia
questo il motivo per cui oggi i postoperaisti sembrano in qualche modo
muoversi «a rimorchio» delle pratiche di movimento anarchiche, nella
misura in cui il loro discorso teorico, come cercherò di dimostrare
nell’ultima parte di questo intervento, contiene alcune aporie di fondo
che impediscono di formulare un progetto politico coerente.
Gli anarchici danno scarso o nessun peso all’analisi della
composizione di classe: per loro il soggetto rivoluzionario coincide, in
ultima istanza, con le persone, i singoli individui che si associano
liberamente in comunità fondate su legami di affinità. L’intero impianto
del discorso operaista e postoperaista, viceversa, si fonda proprio
sull’analisi della composizione di classe, la cui finalità consiste
nell’identificare, in ogni situazione storica determinata, le modalità
con cui la composizione tecnica (operaio professionale, operaio massa,
tecnici, lavoratori della conoscenza, ecc.) si converte in composizione
politica (quali strati di classe incarnano il punto più alto della
contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e quali
altri – non sempre sono gli stessi! – mettono in atto le forme di lotta
più avanzate). Questa tradizione, inaugurata negli anni Sessanta con
l’identificazione dell’operaio massa quale nuovo soggetto antagonista in
alternativa all’operaio professionale, e proseguita con lo slittamento
dell’attenzione sull’operaio sociale, dopo che la ristrutturazione
capitalistica aveva neutralizzato la grande fabbrica fordista come luogo
dell’antagonismo, sembrava essersi definitivamente incagliata con la
ipostatizzazione metafisica della «moltitudine». La lettura
«biopolitica» della relazione antagonistica fra capitalismo immateriale e
pura vita, messa al centro del processo di creazione di valore, al di
fuori di ogni relazione «fabbrichista» fra capitale e lavoro, ha segnato
probabilmente il punto di massima convergenza fra discorso
postoperaista e discorso anarchico (spontaneista, individualista e
populista). Da qualche tempo, tuttavia, messa fra parentesi – pur senza
riflessioni autocritiche – la categoria di moltitudine, l’analisi sembra
avere rimesso al centro dell’attenzione la classe, come certificato da
un articolo apparso sul numero di maggio di «alfabeta2» (n. 19, Per una politica della composizione) a firma collettiva Uninomade.
In questo testo alcune interessanti novità convivono con la «vulgata»
delle precedenti elaborazioni. Partiamo dalle prime. In primo luogo si
afferma che il nodo politico fondamentale consiste oggi nel mancato
incontro fra working poors, ciò che resta della classe operaia
tradizionale, lavoratori della conoscenza e classi medie declassate.
Dopodiché si aggiunge che tale nodo non può essere affrontato attraverso
una «politica delle alleanze», ma solo attraverso una «politica della
composizione». Infine, e questa mi pare la novità più significativa, si
riconosce che tale composizione non si dà naturalmente, nemmeno quando
esistano interessi comuni, ma che la si può realizzare solo attraverso
un «lavoro militante». Qui ci sarebbero tutti gli elementi per una
svolta strategica; sennonché queste aperture appaiono neutralizzate
dalla volontà di difendere a tutti i costi il «paradigma» consolidato
nei precedenti vent’anni. Il cui punto più debole, a parere di chi
scrive, coincide con l’ostinata identificazione (clamoroso esempio di
confusione fra composizione tecnica e composizione politica!) del
soggetto antagonista con il lavoro cognitivo.
Negli anni Novanta, fino alla crisi del 2001, abbiamo condiviso tutti
(compreso chi scrive) questa convinzione. Insistervi oggi, dopo dieci
anni di ristrutturazione in salsa 2.0, significa tuttavia commettere un
errore analogo a quello di chi, dopo la crisi degli anni Settanta,
continuava a scommettere sul ruolo strategico dell’operaio massa. È un
errore condito da una serie di quelli che suonano ormai come luoghi
comuni. Per esempio, l’idea che l’evoluzione tecnologica abbia creato le
condizioni per «il divenire autonomo di cooperazione sociale,
conoscenza e linguaggio come mezzi di produzione incorporati nel lavoro
vivo»; laddove basta leggere il bell’articolo di Franco Piperno sul
numero di giugno di «Alfabeta2» (Dall’ora locale all’ora globale)
per capire che quelle tecnologie incorporano anche e soprattutto
formidabili modelli di disciplinamento e dominio del lavoro morto sul
lavoro vivo (taylorismo digitale), in modo non molto diverso da quanto
faceva il «vecchio» capitale fisso. E ancora: da un lato si riconosce
che il lavoratore cognitivo in rete è isolato e incapace di solidarietà
(Bifo), che ha creduto di poter soddisfare tramite il lavoro bisogni di
gratificazione personale, di sentirsi utile e creativo, al punto da
configurare «un patto implicito fra nuova composizione del lavoro e
capitale» (Uninomade, Per una politica della composizione,
cit.), che ci siamo assuefatti a farci pagare non per quanto facciamo ma
per quello che siamo (per la nostra padronanza dei codici sociali,
talento relazionale, aspetto esteriore, ecc.) in un’orgia di
identificazione totale con la mission e la vision aziendali;
dall’altro lato non se ne traggono le conseguenze. Si ammette, per
esempio, che la Apple non può fare a meno di Foxconn, per precisare
subito dopo che questo «non mette in discussione il nuovo paradigma» (ma
per quale oscura ragione, se non per miopia eurocentrica, qualche
decina di migliaia di nerd angloamericani dovrebbero incarnare il punto
più alto della composizione di classe rispetto a due miliardi di operai
cinesi, indiani e latino-americani?!).
Discorsi che appaiono paradossalmente egemonizzati dall’ideologia dei guru della New Economy,
con i loro vaneggiamenti sulla smaterializzazione/virtualizzazione del
mondo, quasi a voler dare credito all’esistenza di quel soggetto
impersonale che i media borghesi chiamano «i mercati». Non a caso, Bifo
scrive che la classe finanziaria non ha un volto riconoscibile ma agisce
come uno sciame, un pulviscolo impersonale guidato da una volontà
inconsapevole. Ma è davvero così? Che il mercato funzioni in modo
«anarchico» ce lo aveva già spiegato Marx, il quale ci aveva però anche
spiegato che la classe capitalistica non è una semplice astrazione
matematica, un algoritmo. La borghesia non è morta, come spesso si dice,
se mai ha cambiato pelle, come fa di secolo in secolo, secondo la
lezione degli storici dei lunghi cicli (da Braudel a Wallerstein e
Arrighi). Dietro ai mercati ci sono sempre state e sempre ci saranno
persone in carne ed ossa, dai vecchi padroni delle ferriere, ai manager
stile Marchionne, a mostri come quello descritto nell’ultimo film di
Cronenberg, Cosmopolis. Mostri che non «crollano» da soli, per
quanto catastrofiche possano essere le crisi innescate dalla loro
follia, ma possono essere esorcizzati solo da un progetto politico
organizzato. Il che ci riporta al tema del confronto fra anarchici e
postoperaisti, e alla necessità di dare corpo al termine «politica della
composizione», evitando che resti l’ennesima categoria astratta.
Ironizzando sulla «tristezza del postoperaismo» (è il titolo di un capitolo del suo libro La rivoluzione che viene),
Graeber prende in giro le arzigogolate astrazioni (con particolare
riferimento alla «biopolitica») di questa scuola teorica. Sotto certi
aspetti si tratta di giudizi ingenerosi, visto che altrove lo stesso
Graeber ammette di avervi attinto molte idee (a partire dal tema del
rifiuto del lavoro) ma, occorre ammettere, non del tutto infondati. In
particolare, trovano giustificazione nel «moto pendolare» che le aporie
messe in luce poco sopra sembrano imprimere al discorso postoperaista:
da un lato, l’idea secondo cui oggi esisterebbe una «intellettualità di
massa» che svuota di senso ogni pretesa di leadership da parte di
avanguardie intellettuali e politiche «esterne» al movimento,
sembrerebbe neutralizzare qualsiasi differenza con il discorso
anarchico, configurando una sostanziale convergenza di obiettivi, forme
di lotta e modelli organizzativi; dall’altro lato, dietro certe
«sofisticazioni» teoriche, si intravedono riflessioni che vanno in
tutt’altra direzione, giustificando la diffidenza anarchica nei
confronti di una irriducibile anima «leninista» aleggiante nel discorso
postoperaista. Personalmente, ritengo che esistano fondate ragioni per
esplicitare e chiarire i temi che citavo prima in riferimento al
documento di Uninomade: se è vero, e io sono convinto sia vero, che una
politica della composizione non emerge naturalmente e spontaneamente dai
movimenti, ma può essere solo il frutto di un lavoro militante, è
arrivato il momento di smetterla di civettare con lo spontaneismo di
maniera e l’illusione di rovesciare il capitalismo federando piccoli
gruppi di affinità che praticano una orizzontalità politically correct. La discussione su organizzazione politica, strategie di lotta e scenari della transizione è ri-aperta.
"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post
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giovedì, settembre 27, 2012
Tra postoperaismo e neoanarchia Carlo Formenti
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