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Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea
di Yanis Varoufakis
Nel maggio 2013 ho avuto il piacere di trattare quest’argomento durante il sesto Subversive Festival di Zagabria. Solo ora sono riuscito a metterlo per iscritto e ad espanderlo per quanto riguarda alcuni aspetti significativi.
- 1. Introduzione. Una confessione radicale
Negli scorsi tre anni, mi è capitato di esprimermi sul momento difficile dell’Europa di fronte a platee estremamente variegate. Migliaia di dimostranti anti-austerity a Piazza Syntagma ad Atene, staff della Federal Reserve di New York, europarlamentari dei Verdi al Parlamento Europeo, analisti della Bloomberg a Londra e New York, studenti nei sobborghi degradati di Atene e New York, la Camera dei Comuni di Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, proprietari di fondi comuni d’investimento a Manhattan e a Londra, la lista è lunga tanto quanto la progressiva ritirata dei leader europei da principi umanisti, e la ragione di tali interventi continua a persistere. Nonostante l’eterogeneità delle platee, il messaggio è stato sempre uno: l’attuale crisi europea non è solamente una minaccia per i lavoratori, per gli spossessati, per i banchieri, per gruppi particolari, classi sociali o persino nazioni. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una seria minaccia alla civiltà così come noi oggi la conosciamo.
Se la mia prognosi è corretta, e la crisi europea non è solamente un’altra caduta ciclica che verrà presto superata nel momento in cui i tassi di profitto aumenteranno in seguito all’inevitabile caduta dei salari, la questione all’ordine del giorno per i pensatori radicali è questa: dovremmo accogliere questo stallo totale del capitalismo europeo come un’opportunità per rimpiazzarlo con un sistema migliore? O dovremmo esserne talmente preoccupati da intraprendere una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta in questi tre anni è stata chiara, e la sua sostanza è stata male interpretata dalla summenzionata lista di diverse platee che ho tentato di influenzare. La crisi europea è, per come la vedo, gravida non di potenziali alternative progressiste, ma di forze radicalmente regressive che avrebbero la capacità di causare un bagno di sangue umanitario estinguendo la speranza di qualsiasi azione progressista per generazioni a venire.
A causa di tale teoria, da voci radicali in buona fede, sono stato accusato di “disfattismo”: un menscevico fuori tempo massimo che si batte senza sosta a favore di analisi il cui scopo sarebbe quello di salvare un sistema socio-economico europeo indifendibile. Un sistema che rappresenta tutto quello che un radicale dovrebbe condannare e combattere: un’Unione Europea anti-democratica, irreversibilmente neoliberista, altamente irrazionale, transnazionale, che ha possibilità praticamente nulle di evolvere in una comunità sinceramente umanista in cui le nazioni europee possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, mi fa male. E mi fa male perché contiene più di una parte di verità.
Infatti, condivido la visione di questa Unione Europea come un’istituzione fondamentalmente anti-democratica e irrazionale che sta conducendo i popoli europei verso un sentiero di misantropia, conflitto e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica che io mi sto battendo su un’agenda che si basa sul presupposto che la sinistra era, e rimanga, sconfitta in pieno. E così si, in questo senso, mi sento costretto ad accondiscendere al fatto che vorrei che i miei obiettivi fossero di un altro tipo; vorrei molto più promuovere un programma la cui ragion d’essere sia la sostituzione del capitalismo europeo con un differente sistema più razionale – piuttosto che sforzarsi solamente per stabilizzare il capitalismo europeo che fa a pugni con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto, forse può essere pertinente introdurre una seconda confessione: confessare che… le confessioni tendono sempre ad essere egocentriche. In effetti, le confessioni sono sempre molto simili a quel che John Von Neumann una volta disse parlando di Robert Oppenheimer dopo aver sentito dire che il suo ex direttore nel Manhattan Project si era trasformato in un attivista contro il nucleare e aveva confessato di sentirsi in colpa per il suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di John Von Neumann furono: “Sta confessando il peccato per rivendicarne la gloria”.
Grazie al cielo, non sono Oppenheimer e, di conseguenza, non sarà difficile evitare di rivendicare vari peccati come tentativo di auto-promozione ma, piuttosto, come una finestra da cui dare un’occhiata alle mie visioni di un capitalismo europeo ossessionato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui esplosione, malgrado i suoi molti mali, dovrebbe essere evitata ad ogni costo. È una confessione con cui convincere i radicali del fatto che siamo chiamati ad una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo allo scopo di guadagnare il tempo di cui c’è bisogno per formulare l’alternativa.
- 2. Perché sono un marxista?
In virtù di questo lungo sentiero attraverso le università e i dibattiti politici in Europa, uno potrebbe essere sorpreso dal vedermi tirar fuori il proverbiale segreto dal cassetto dichiarandomi marxista. Tali affermazioni non mi giungono naturali. Vorrei poter evitare le etero-definizioni (ovvero l’essere definiti in base al metodo e alla visione del mondo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano, humiano, sarei naturalmente predisposto a dire che non sono nessuna di queste cose; che ho trascorso il mio tempo cercando di diventare l’ape di Francis Bacon: una creatura che raccoglie il nettare da milioni di fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di personale, un qualcosa che è debitore di ogni singolo fiore ma che non è definito da nessuno di essi preso singolarmente. Ma, ahimè, questo sarebbe falso, e dunque non un buon metodo per iniziare una…confessione.
A dire il vero, Karl Marx è stato responsabile nel formare la mia prospettiva del mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia al giorno d’oggi. Non è qualcosa di cui parlerei volentieri molto nella buona società odierna perché la sola menzione della parola che inizia con M estingue ogni interesse della platea. Ma è una cosa che non ho mai nemmeno negato. In effetti, dopo alcuni anni trascorsi ad indirizzarmi a platee con le quali non condividevo il retroterra ideologico, è sorto recentemente in me un bisogno di parlare candidamente dell’influenza di Marx sul mio pensiero. Per spiegare il perché, il perché essere un marxista impenitente, penso che sia importante resistergli con ardore su molti argomenti. Essere, in altre parole, eretici nel proprio marxismo.
Se la mia carriera accademica ha largamente ignorato Marx, e i miei attuali consigli politici sono impossibili da descrivere come marxisti, allora perché tirar fuori ora il mio marxismo? La risposta è semplice: persino le mie visioni economiche non-marxiste sono guidate da un assetto mentale pesantemente influenzato da Marx. Ho sempre pensato che un teorico sociale radicale possa sfidare il pensiero economico dominante in due modi diversi: uno è attraverso la strada della critica immanente. Accettare gli assiomi dominanti e quindi esporne le contraddizioni interne. Dire: “Non contesto i tuoi presupposti, ma ecco perché le tue conclusioni non derivano logicamente da quelli”. Questo era, infatti, il metodo usato da Marx per minare il sistema dell’economia politica britannica. Marx accettò ogni singolo assioma di Adam Smith e David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto delle loro assunzioni, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda strada che un teorico radicale può perseguire è, ovviamente, quella della costruzione di teorie alternative a quelle dell’establishment, sperando che esse verranno prese sul serio (che è ciò che gli economisti marxisti del tardo XX secolo stanno facendo).
Il mio parere su questa doppia alternativa è sempre stato che i poteri in carica non sono mai perturbati da teorie che partono da assunti diversi dai propri. Nessun economista dell’establishment presterà mai attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano in questi giorni. L’unica cosa che può destabilizzare e sfidare seriamente gli economistimainstream neoclassici è la dimostrazione dell’inconsistenza dei loro propri modelli. È per questa ragione che, fin dall’inizio, ho scelto di penetrare nelle viscere della teoria neoclassica e di non spendere quasi nessuna energia nel tentativo di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di capitalismo. Le mie ragioni, lo ammetto, erano piuttosto…marxiste[1].
Quando spinto a commentare il mondo in cui viviamo, in quanto contrario all’ideologia dominante sul funzionamento dell’economia globale, non avevo alternative che tornare alla tradizione marxista che aveva forgiato il mio pensiero sin da quando mio padre, metallurgista, aveva impresso in me, quando ero ancora bambino, l’importanza dei cambiamenti tecnologici e delle innovazioni nel processo storico. Come, per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro velocizzò la storia; come la scoperta dell’acciaio accelerò il tempo storico dieci volte; e come le tecnologie informatiche basate sul silicio sono discontinuità storiche e socio-economiche di primaria importanza.
Questo trionfo costante della ragione umana sulla natura e sui mezzi tecnologici, che serve anche periodicamente ad esporre l’arretratezza delle nostre sovrastrutture sociali e delle nostre relazioni, è una prospettiva insostituibile che devo a Marx. Il suo materialismo storico fu rinforzato nel modo più interessante e inaspettato. Chiunque abbia guardato l’episodio di Star Trek Voyager intitolato “In un batter d’occhio”, riconoscerà una meravigliosa raffigurazione in quarantacinque minuti del materialismo storico al lavoro: un’impressionante narrazione del processo per cui lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi tecnologici che costantemente mettono in discussione la superstizione e creano impulsi storici che, in maniera non lineare, generano nuove fasi della civilizzazione.
Il mio primo incontro con i testi di Marx avvenne molto presto nella mia vita, come risultato degli strani tempi in cui mi ritrovai a crescere, con la Grecia intenta ad uscire dall’incubo della dittatura neofascista del 1967-1974. Quel che attirò la mia attenzione fu l’insuperabile, affascinante dono di Marx nel ritrarre la storia umana come un’opera teatrale, in cui la dannazione umana è riscattata da una reale possibilità di salvezza e da una spiritualità autentica. Leggendo frasi quali…
“la moderna società borghese con le sue condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, una società che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate”. (Il Manifesto del Partito Comunista, 1848)
…sembrava quasi di presenziare a un incontro fra, da una parte, Faust e il Dottor Frankestein, e dall’altra, Adam Smith e David Ricardo, nella creazione di una narrativa popolata da figure (lavoratori, capitalisti, funzionari, scienziati), che erano gli attori drammatici della Storia, agenti che combattevano per imbrigliare la ragione e la scienza allo scopo di rendere più forte l’umanità mentre, contrariamente alle loro intenzioni, scatenavano forze infernali che usurpavano e sovvertivano la loro libertà e la loro umanità.
Questa prospettiva dialettica, in cui ogni cosa genera il suo opposto, e l’occhio acuto con cui Marx individuava il potenziale per il cambiamento nelle strutture sociali apparentemente più fisse e immutabili, mi aiutò a cogliere le grandi contraddizioni dell’epoca capitalista. Dissolveva il paradosso di un’età che generava le condizioni di benessere più notevoli e, nello stesso istante, la povertà più nera. Oggi, volgendosi alla crisi europea, alla crisi di realizzazione americana, alla stagnazione di lungo termine del capitalismo giapponese, quasi tutti i commentatori non riescono a cogliere il processo dialettico che si svolge sotto il loro naso. Riconoscono la montagna di debiti e le perdite delle banche, ma dimenticano l’altro lato della medaglia, la sua antitesi: la montagna di risparmi inattivi che sono congelati dalla paura e che dunque non si convertono in investimenti produttivi. Un’attenzione marxista alle opposizioni binarie li avrebbe aiutati ad aprire gli occhi…
Una delle ragioni principali per cui l’opinione dominante non riesce a fare i conti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la tensione dialettica della produzione congiunta di debiti e surplus, di crescita e disoccupazione, di benessere e povertà, di spiritualità e depravazione, per non dire di bene e male, di nuove forme di piacere e di schiavitù, di libertà e sottomissione: di questo calderone di opposizioni binarie che gli scritti drammatici di Marx ci indicavano come le risorse dell’ingegno della Storia.
Fin dalle mie prime riflessioni come economista, giungendo ad oggi, mi è sempre parso chiaro come Marx abbia compiuto una scoperta che sarebbe dovuta rimanere il punto centrale di ogni utile analisi del capitalismo. Questa scoperta era, ovviamente, quella di un’altra opposizione binaria intrinseca al lavoro umano. Questo è dotato di due nature differenti: 1) lavoro come creazione di valore (respiro vitale), attività che non può mai essere specificata o quantificata in anticipo (e per cui impossibile da mercificare) e, 2) lavoro come quantità (numero di ore di lavoro), utilizzato per la vendita e trasformato in un prezzo. Ciò è quel che contraddistingue il lavoro da altre risorse produttive come l’elettricità: la sua duplice, contraddittoria natura. Una differenza-contraddizione che gli economisti politici dimenticavano di fare prima di Marx, e che gli economisti mainstream rifiutano fermamente di accettare tutt’oggi.
Sia l’elettricità che il lavoro possono essere pensati come merci. Tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. I datori di lavoro usano tutta la loro ingegnosità, e quella dei loro manager delle risorse umane, per quantificare, misurare e omogeneizzare il lavoro. Allo stesso tempo i potenziali impiegati si dannano l’anima in un tentativo ansioso di mercificare il loro potere lavorativo, scrivendo e riscrivendo i loro curricula per ritrarsi come fornitori di unità di lavoro quantificabili. E questo è il problema! Perché se lavoratori e datori di lavoro riuscissero a mercificare completamente il lavoro, il capitalismo morirebbe. Questa è una prospettiva senza la quale la tendenza del capitalismo di generare crisi cicliche non potrà mai venire pienamente compresa, una prospettiva alla quale nessuno, senza una conoscenza di base del pensiero di Marx, avrà mai accesso.
- 3. La fantascienza diventa documentario
Provate a pensarci, ogni singola teoria economica non marxista che tratta gli impulsi produttivi umani e non-umani come se fossero intercambiabili, quantità qualitativamente equivalenti, adotta il presupposto che la de-umanizzazione del lavoro umano sia completa. Ma se tale processo giungesse mai ad essere completo, il risultato sarebbe la fine del capitalismo inteso come sistema capace di creare e distribuire valore. Innanzitutto, una società di simulacri de-umanizzati, o automi, assomiglierebbe ad un orologio meccanico pieno di ingranaggi e molle, ognuno con la sua propria funzione, e che nel complesso producono un “bene”: la misurazione del tempo. Ma se questa società contenesse nient’altro che automi, la misurazione del tempo non sarebbe un “bene”. Sarebbe un “prodotto”, certamente, ma perché mai un “bene”? Senza esseri umani reali a sperimentare il funzionamento dell’orologio, non potrebbero esserci cose come “beni” o “mali”. Una “società” di automi sarebbe, così come gli orologi meccanici o dei circuiti integrati, piena di ingranaggi funzionanti, dimostrando una funzione, una funzione che però non potrebbe venire descritta né in termini morali, né di valore.
Dunque, per ricapitolare, se il capitale dovesse mai riuscire nel quantificare, e dunque nel mercificare completamente, il lavoro, così come prova a fare in ogni momento, lo prosciugherebbe anche di quell’indeterministica, recalcitrante libertà umana che permette la generazione del lavoro. La brillante rivelazione di Marx riguardo l’essenza più profonda delle crisi capitaliste era precisamente questa: maggiore sarà il successo del capitalismo nel convertire il lavoro in una merce, minore sarà il valore che ogni unità genererà, minore il profitto e, infine, più vicina la prossima odiosa recessione sistemica dell’economia. Il ritratto della libertà umana intesa come categoria economica è un aspetto unico del pensiero di Marx, rendendo possibile una peculiare e astute interpretazione drammatica e analitica della propensione del capitalismo a piombare nella recessione, persino nella depressione, a partire dalle fasi più sfrenate di crescita.
Quando Marx scriveva che il lavoro era il fuoco vivente che dava forma alle cose, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava fornendo il più grande contributo che ogni economista abbia mai dato alla nostra comprensione della profonda contraddizione sepolta dentro il DNA del capitalismo. Quando ritraeva il capitale come “una forza cui dobbiamo sottometterci…che sviluppa un’energia cosmopolita, universale, che oltrepassa ogni limite e rompe ogni legame, e si pone come unica regola, unica universalità, solo limite e solo legame”[2], stava evidenziando la realtà per cui il lavoro può essere comprato tramite capitale liquido (denaro), nella sua forma di merce, ma porta sempre dentro di sé un desiderio ostile al capitalista compratore. Ma Marx non stava solamente facendo un’affermazione psicologica, filosofica o politica. Stava, piuttosto, fornendo una ragguardevole analisi del perché nel momento in cui il lavoro (inteso come attività non quantificabile) si spoglia di tale ostilità, diviene sterile, incapace di produrre valore.
In un momento in cui i neoliberisti hanno invischiato la maggior parte delle persone nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando incessantemente l’ideologia del miglioramento della produttività del lavoro allo scopo di aumentare la competitività e creare così “crescita” e così via, le analisi di Marx offrono un potente antidoto. Il capitale non potrà mai vincere nella sua lotta per trasformare il lavoro in una risorsa infinitamente elastica e meccanizzata senza distruggere sé stesso. Questo è ciò che né i neoliberisti né i keynesiani comprenderanno mai! “Se l’intera classe dei salariati venisse annichilita dai macchinari” scriveva Marx, “quanto terribile sarebbe ciò per il capitale che, senza lavoro salariato, cesserebbe di essere quello che è”[3]. Quanto più il capitale si avvicina alla sua vittoria finale sul lavoro, tanto più la nostra società si fa somigliante a quella di un altro film di fantascienza. Un film che era stato presagito proprio da Karl Marx: Matrix.
Ciò che è unico in Matrix è che, in esso, la ribellione dei nostri manufatti non è un semplice caso di uccisione del padre creatore. A differenza della Cosa di Frankestein, che aggredisce irrazionalmente gli esseri umani a causa della sua assoluta angoscia esistenziale, o delle macchine della serie diTerminator, che vogliono solamente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in Matrixl’emergente impero delle macchine vuole conservare l’esistenza umana per i propri fini: mantenerci in vita in quanto risorsa primaria. L’Homo sapiens, nonostante abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza precedenti nell’infliggere orrori indicibili ai nostri consanguinei, non avrebbe mai potuto neppure immaginare il ruolo spregevole che le macchine ci assegnano in Matrix: bloccati in apparecchiature che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci sottopongono ad alimentazione forzata con una miscela di sostanze nutrienti nauseabonde volte a intensificare la produzione di calore.
Ad ogni modo, ben presto le macchine scoprono che gli umani non durano a lungo una volta che il loro spirito è spezzato e la loro libertà infranta. Il nostro curioso bisogno di libertà minaccia l’efficacia dei loro impianti a energia umana. Così, le macchine ci imprigionano in quella che Marx avrebbe chiamato “falsa coscienza”. Non instillano nei nostri corpi solamente sostanze nutrienti, ma anche le illusioni che il nostro spirito brama. Ingegnosamente, attaccano degli elettrodi ai nostri crani con i quali percepiscono, direttamente nel nostro cervello, la vita virtuale, ma profondamente realistica che, come umani, vorremmo vivere. Mentre i nostri corpi sono brutalmente attaccati ai loro generatori di potenza, alimentandoli con l’elettricità scaturita dal calore dei nostri corpi, il software delle macchine noto come Matrix riempie le nostre menti con visioni di una vita immaginaria, illusoria, ma verosimile e “normale”. In questo modo i nostri corpi, ignari della realtà, possono vivere per decenni, tutto a vantaggio delle macchine che possono così generare l’energia bastante per sostenere la loro nuova civiltà. L’oblio dell’umanità costituisce così un fattore cruciale per la produzione dell’economia di Matrix.
“Le macchine hanno acquisito il dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti”[4], così Marx descriveva l’ascesa delle macchine, un incrocio fra un’antica tragedia greca e una shakespeariana che si svolgeva sullo sfondo di una rivoluzione industriale in cui i pochi possedevano le macchine e i molti le facevano lavorare. Il punto centrale di Marx era che, nell’universo del capitale, siamo già trans-umani. Matrix non è futurologia. È parte della nostra realtà già da un pezzo! È il miglior documentario possibile sulla nostra era o, per essere precisi, sulla tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle caratteristiche che gli impediscono di diventare pienamente flessibile, perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il suo ruolo è stato quello di fornirci l’opzione della pillola rossa[5]; una possibilità per guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni dell’ideologia borghese, la squallida realtà di un sistema che produce crisi e deprivazione ogni giorno, intenzionalmente e non certo per caso.
Leggete qualsiasi manuale di management, qualsiasi articolo in qualsiasi rivista accademica di economia, qualsiasi documento prodotto dall’Unione Europea sull’istruzione, sulla scuola, sull’università, i programmi di innalzamento della produttività, sulla competitività eccetera. Capirete immediatamente che stiamo già vivendo nella nostra versione di Matrix. Gli inesorabili sforzi del capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infestato tutti questi documenti, che sponsorizzano una società in cui le persone aspirino a divenire automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica è la trasformazione del lavoro umano in una versione di energia termica che permetta alle macchine maggiori margini di funzionamento e la costruzione di altre macchine che, tragicamente, mancheranno di ogni capacità di generare…valore.
In questo senso, la nostra Matrix può essere solo provvisoria poiché più si avvicina alla perfetta versione del film più probabile è lo scatenamento di una crisi di dimensioni catastrofiche, e, con il precipitare dei valori economici, il sopraggiungere di una Grande Recessione, e il ruolo delle macchine è rovesciato quando gli investimenti in esse divengono negativi. Da questa prospettiva marxiana, tornando nuovamente al film, il gruppo di uomini liberati nel cuore della società delle macchine (che guidano la risorgenza degli esseri umani) simbolizza la resistenza umana al diventare capitale umano; l’irriducibile ostilità intrinseca nei confronti della quantificazione che rimane insita nei cuori e nelle menti persino di coloro che spendono tutte le loro energie nel cercare di mercificarsi per conto dei propri datori di lavoro. L’ironia deliziosa in tutto ciò è che proprio quest’ostilità che il capitale tenta di sradicare nel lavoro è proprio ciò che rende il lavoro capace di produrre valore e permette al capitale di accumularsi.
- 4. Cos’ha fatto Marx per noi?
Oltre all’aver individuato il dramma fondamentale della dinamica capitalista (vedere la precedente sezione), Marx mi ha fornito gli strumenti con cui divenire immune dalla propaganda tossica dei nemici neoliberisti della vera libertà e razionalità. Ad esempio, l’idea che la ricchezza sia prodotta privatamente e quindi fatta oggetto di appropriazione da parte di uno stato quasi illegittimo attraverso la tassazione è un’idea cui è facile soccombere se non si è fatti i conti con l’acuta osservazione di Marx per cui è vero esattamente il contrario: la ricchezza è prodotta collettivamente e quindi fatta oggetto di appropriazione privata attraverso le relazioni sociali di produzione e i diritti di proprietà che si basano, per la loro riproduzione, quasi esclusivamente sulla falsa coscienza. Vale lo stesso per il concetto di “autonomia” che suona così bene nel nostro mondo “postmoderno”. Anch’essa è prodotta collettivamente, attraverso la dialettica del mutuo riconoscimento, e quindi fatta oggetto di privatizzazione. Se solo Marx fosse stato preso sul serio (dai marxisti prima ancora che dai suoi detrattori, deve essere detto), molta dell’aria fritta prodottasi nella storia degli annali degli studi culturali sarebbe stata evitata.
Phil Mirowski ha recentemente[6] sottolineato, in maniera piuttosto convincente, il successo dei neoliberisti nel convincere vasti strati di persone che il mercato non sia solamente un mezzo utile, ma anche un inalienabile fine in sé. Che mentre l’azione collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai capaci di fare la cosa giusta, le operazioni senza restrizioni dell’interesse privato decentralizzato generano una sorta di laica provvidenza divina che garantisce la produzione non solo dei risultati voluti, ma anche dei desideri, dell’indole, dell’etica voluta perfino. Il miglior esempio della grossolanità neoliberista è ovviamente, il dibattito sul cambiamento climatico e su cosa fare per fermarlo. I neoliberisti si sono affrettati ad argomentare che, se proprio si deve fare qualcosa, è necessario che questo qualcosa prenda la forma di una sorta di mercato degli “scarti” (come, ad esempio, un mercato di scambio delle emissioni) poiché solamente i mercati sanno come valutare appropriatamente i beni e gli scarti. Per capire sia perché una tale soluzione sia destinata a fallire sia, cosa più importante, da dove giunge la motivazione di certe soluzioni, è sufficiente acquisire un minimo di familiarità con la logica di accumulazione del capitale sottolineata da Marx e che Michal Kalecki ha adattato ad un mondo governato da oligopoli connessi tra loro.
Nel XX secolo i due movimenti politici che affondavano le loro radici nel pensiero di Marx erano i partiti comunisti e quelli socialdemocratici. Entrambi, in aggiunta ai loro altri errori (e persino crimini) fallirono, a loro danno, nel seguire la guida di Marx su una questione cruciale: invece di imbracciare libertà e razionalità come loro parole d’ordine e concetti organizzativi, optarono per uguaglianza e giustizia, lasciando la libertà al campo dei neoliberisti. Marx era irremovibile: il problema del capitalismo non è la sua ingiustizia, ma la sua irrazionalità, perché condanna intere generazioni alla miseria e alla disoccupazione e trasforma persino i capitalisti stessi in automi oppressi dall’angoscia, resi schiavi dalle macchine che nominalmente possiedono, costretti a vivere nella perenne paura di cessare di essere capitalisti, a meno di non riuscire a mercificare completamente gli altri umani in modo da sottoporli più efficientemente al servizio dell’accumulazione di capitale.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è solo perché schiavizza tutti alla maniera di Matrix, siano essi lavoratori o capitalisti; sperpera risorse naturali ed umane; produce in seria infelicità, schiavitù e crisi dalla stessa catena produttiva che genera notevoli innovazioni e benessere mai visto prima. Avendo fallito nell’accennare ad una critica del capitalismo in termini di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva fondamentale, la socialdemocrazia e la sinistra in generale ha permesso ai neoliberisti di usurpare il testimone della libertà e di ottenere un trionfo decisivo sul campo culturale e ideologico[7].
Rimanendo sulla questione del trionfo neoliberista, forse la sua dimensione più significativa è quella del cosiddetto “deficit democratico”. Fiumi di lacrime di coccodrillo sono stati versati sul declino delle nostre grandi democrazia negli scorsi tre decenni di finanziarizzazione e globalizzazione. Marx avrebbe deriso fragorosamente e a lungo coloro che sembrano sorpresi, o turbati, dal “deficit democratico”. Quale era il grande obiettivo del liberalismo del XIX secolo? Era, così come Marx non si stancò mai di far notare, la separazione della sfera economica da quella politica e il confino della politica nella seconda, lasciando la sfera economica al capitale. Ciò che stiamo osservando oggi non è altro che lo splendido successo del liberalismo nell’ottenere quest’obiettivo a lungo perseguito. Date un’occhiata al Sudafrica odierno, più di vent’anni dopo che Mandela è stato liberato e che la sfera politica ha abbracciato, finalmente, l’intera popolazione. La difficile situazione dell’ANC è stata quella per cui per poter dominare la sfera politica doveva accettare l’impotenza su quella economica. E se la pensate in un’altra maniera, vi suggerisco di parlare con le decine di minatori uccisi a colpi di fucile dalle guardie armate pagate dai loro padroni dopo che avevano osato chiedere un aumento di paga.
- 5. Perché eretico? I due errori imperdonabili di Marx
Il primo errore di Marx, che suggerisco sia dovuto a un’omissione, è il fatto che egli sia stato insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Ha fallito nel dedicare una riflessione sufficiente, e nel mantenere un silenzio giudizioso, sull’impatto delle sue stesse teorie sul mondo riguardo al quale stava teorizzando. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli, persone con una capacità di comprensione di queste potenti idee migliori di quella del lavoratore medio, potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei propri compagni, per costruire la loro personale base di potere, per guadagnare posizioni di influenza, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?
Per fornire un secondo esempio, sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo, a tempo debito, a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per gli scopi dei liberali. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica, rivelatasi in un primo tempo con una serie di invasioni, diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre più.
Il secondo errore di Marx, quello che considero di commissione, è peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli (i cosiddetti ‘schemi di riproduzione’). Questo è stato il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo stesso sistema teoretico. L’uomo che ci ha insegnato a considerare la libertà umana un concetto economico fondamentale, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato lo stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, gli economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Immersi completamente in dibattiti irrilevanti sul problema della trasformazione e sul cosa fare in proposito, sono diventati alla fine una specie pressoché estinta, mentre la devastante furia neoliberista distruggeva ogni dissenso sul suo sentiero.
Come ha potuto Marx illudersi così? Perché non ha capito che nessuna verità sul capitalismo può venir fuori da qualsivoglia modello matematico per quanto brillante possa essere il modellista? Non aveva forse gli strumenti intellettuali necessari a comprendere che la dinamica capitalista viene fuori da quella parte non quantificabile del lavoro umano, ovvero da una variabile che non può mai venire definita matematicamente? Ovviamente li aveva, poiché li aveva forgiati lui stesso! No, la ragione del suo errore è un po’ più sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito (e che continuano a dominare i dipartimenti di Economia oggigiorno), egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.
Se ho ragione, Marx sapeva quel che stava facendo. Capiva, o aveva la capacità di capire, che una teoria comprensiva del valore non poteva essere contenuta in un modello matematico della crescita, di un’economia capitalista dinamica. Era, non ho dubbi in proposito, consapevole del fatto che una corretta teoria economica doveva rispettare il detto di Hegel per cui “le regole su ciò che è indeterminato sono esse stesse indeterminate”. In termini economici questo significa riconoscere che il potere del mercato, e quindi la capacità di ottenere profitto, dei capitalisti non è necessariamente riducibile alla loro capacità di estrarre lavoro dai loro salariati; che alcuni capitalisti possono estrarre di più da un bacino dato di manodopera o da una data comunità di consumatori per ragioni che sono esterne alla teoria economica.
Ma, ahimè, questo riconoscimento sarebbe equivalso all’ammettere che le sue ‘leggi’ non erano immutabili. Avrebbe dovuto riconoscere nei confronti delle voci a lui avverse nel movimento sindacale che la sua teoria era indeterminata e, quindi, che le sue affermazioni non potevano essere in maniera ultimativa e non ambigua corrette, ma piuttosto perennemente provvisorie. Ma Marx provava un irrefrenabile impulso a domare persone come Citizen Weston[8] che osava preoccuparsi del fatto che un innalzamento dei salari (acquisito attraverso azioni di sciopero) avrebbe potuto rivelarsi una vittoria di Pirro se i capitalisti avessero di conseguenza alzato i prezzi. Invece di limitarsi a argomentare contro persone come Weston, Marx era determinato a provare con precisione matematica che esse avessero torto e che fossero non scientifiche, volgari, non degne di una serie attenzione.
Questi erano i tempi in cui Marx aveva capito, e confessato, di aver sbagliato sul versante del determinismo. Una volta passato alla stesura del terzo volume del Capitale aveva capito che, persino una minima variazione (ad esempio l’ammettere differenti gradi di intensità del capitale in differenti settori) avrebbe confutato la sua argomentazione contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio monopolio sulla verità che passò sopra la questione, in maniera stupefacente ma troppo brusca, imponendo per legge l’assioma che avrebbe, alla fine, difeso la sua dimostrazione originale; quello che avrebbe inferto il colpo fatale a Citizen Weston. Strani sono i rituali della fatuità e tristi sono quando portati avanti da menti eccezionali, quali Karl Marx e un numero considerevole di suoi discepoli del XX secolo.
Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Si rivelò, alla fine, responsabile di una gran quantità di errori e, ancora di più, di autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista.
- 6. L’idea radicale del signor Keynes
La sua revisione radicale doveva iniziare da qualche parte. Iniziò quando Keynes ruppe i ranghi dei suoi colleghi facendo l’impensabile: riprendendo il dibattito tra David Ricardo e Thomas Malthus e prendendo le parti dell’ecclesiastico. In maniera tutt’altro che ambigua, durante la Grande Depressione, scrisse: “Se solo Malthus, piuttosto che Ricardo, fosse stato il capostipite di tutti gli economisti del XIX secolo, che posto più saggio e più ricco sarebbe il mondo oggi!”[9] Con quest’affermazione provocatoria, Keynes non stava adottando né la posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici né le sue visioni teologiche sul potere redentore della sofferenza[10]. Piuttosto, Keynes abbracciava lo scetticismo di Malthus per quanto riguardava a) l’opportunità di ricercare una teoria del valore che fosse compatibile con la complessità e la dinamicità del capitalismo e b) la convinzione di Ricardo, che più tardi condivise anche Marx, che una persistente depressione sia incompatibile con il capitalismo.
Perché Keynes non converse in direzione della posizione di Marx, che dopotutto era stato il primo economista politico a spiegare le crisi come costitutive del processo capitalistico? Perché la Grande Depressione non era come le altre crisi del tipo che Marx aveva descritto così bene. Nel primo volume delCapitale Marx racconta la storia di cicliche recessioni redentrici dovute alla doppia natura del lavoro e che generano periodi di crescita che contengono in sé l’ennesimo crollo che, a sua volta, causa la successiva ripresa, e così via. Ma non c’era nulla di redentore nella Grande Depressione. La crisi degli anni Trenta era semplicemente questo: una crisi che si comportava come un equilibrio statico – uno stato economico che sembrava perfettamente capace di perpetuarsi, con la ripresa anticipata che rifiutava testardamente di apparire all’orizzonte persino dopo che i tassi di profitto risalirono in risposta al collasso dei salari e dei tassi d’interesse.
Il cuore della scoperta di Keynes sul capitalismo era duplice: A) era un sistema intrinsecamente indeterminato, che presentava quella che gli economisti di oggi chiamerebbero un’infinità di equilibri multipli, alcuni dei quali erano coerenti con la disoccupazione endemica di massa, e B) sarebbe potuto precipitare in uno di questi terribili equilibri in un batter d’occhio, in maniera imprevedibile senza ragione alcuna, solamente a causa del timore di una porzione significativa di capitalisti per un tale evento.
Per dirla semplicemente, ciò significa che, riguardo alla predizione delle depressioni e del loro superamento da parte delle forze del mercato, “che ci venga un colpo se ne possiamo sapere qualcosa!”. Significa che non abbiamo nessun modo per sapere ciò che il capitalismo farà l’indomani persino quando, nel presente, sembra rinforzarsi sempre più. Che potrebbe benissimo precipitare all’improvviso e rifiutarsi di alzarsi nuovamente. La nozione degli “spiriti animali” di Keynes rappresentò un’idea estremamente radicale, in grado di catturare la radicale indeterminazione del cuore del meccanismo capitalista. Un’idea introdotta per la prima volta da Marx, con le sue analisi sulla natura dialettica del lavoro, ma che, nel processo di scrittura del Capitale, abbandonò in modo da stabilire i suoi teoremi come prove matematiche e indiscutibili. Di tutti i passaggi della Teoria Generale di Keynes questa idea, quella della capricciosità autodistruttiva del capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per radicalizzare nuovamente il marxismo.
- 7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Persino quando la disoccupazione raddoppiò e quindi triplicò, sotto l’effetto dei radicali interventi neoliberisti della signora Thatcher, continuai a nutrire la speranza che Lenin avesse ragione: “le cose devono peggiorare perché possano migliorare”. Mentre l’esistenza si faceva più dura, e, per molti, più breve, realizzai di essere tragicamente in errore: le cose potevano peggiorare in perpetuo, senza migliorare mai. La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la diminuzione degli standard di vita della maggioranza, la diffusione della povertà in ogni angolo del paese potessero condurre, automaticamente, ad una rinascita della sinistra era appunto solo questo: speranza!
La realtà si stava rivelando, invece, tragicamente differente. A ogni giro di vite della recessione, la sinistra si ripiegava sempre più su se stessa, meno capace di produrre una convincente agenda progressista e, nel frattempo, la classe operaia si divideva fra coloro che venivano emarginati dalla società e coloro che venivano cooptati del nuovo assetto neoliberista. Il concetto per cui un peggioramento delle condizioni oggettive avrebbe in qualche modo dato vita a condizioni soggettive tali per cui da esse sarebbe sorta una nuova rivoluzione politica era assolutamente fasullo. Tutto ciò che venne fuori dal thatcherismo furono trafficoni, finanziarizzazione estrema, il trionfo dei supermercati sui negozi di quartiere, la feticizzazione della casa e… Tony Blair.
Invece di radicalizzare la società britannica, la recessione così attentamente pianificata dal governo della signora Thatcher, come parte della sua guerra di classe contro il lavoro organizzato e contro le pubbliche istituzioni di sicurezza sociale e redistribuzione che erano state fondate subito dopo la guerra, distrusse permanentemente la possibilità stessa di politiche radicali e progressiste nel Regno Unito. Infatti, rese inconcepibile la stessa nozione di valori che trascendessero ciò che il mercato determinava come “giusto” prezzo.
L’amara lezione che mi impartì la signora Thatcher sulla capacità di una recessione di lungo termine di minare le politiche progressiste e di instillare la misantropia nelle fibre della società, è una lezione che porto con me nel mezzo dell’odierna crisi europea. È, infatti, ciò che determina più di ogni altra cosa la mia posizione in relazione alla crisi dell’Euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero in maniera quasi esclusiva in questi ultimi anni. Ed è la ragione per cui sono felice di confessare il peccato che mi viene attribuito dai critici radicali della mia posizione “menscevica” sull’Eurozona: il peccato di scegliere di non proporre programmi politici radicali al fine di sfruttare la crisi dell’Euro come un’opportunità per rovesciare il capitalismo europeo, di smantellare l’odiosa Eurozona e di colpire al cuore l’Unione Europea dei cartelli economici e dei banchieri corrotti.
Si, mi farebbe piacere porre una tale agenda radicale come prioritaria. Ma, no, non sono pronto a commettere lo stesso errore due volte. Che vantaggi abbiamo ottenuto nel Regno Unito nei primi anni Ottanta nel promuovere un programma di cambiamento socialista che la società britannica disprezzava mentre cadeva a capofitto nella trappola neoliberista della signora Thatcher? Nessuno. Che bene ne deriverebbe oggi dal predicare lo smantellamento dell’Eurozona, dell’Unione Europea stessa, quando il capitalismo europeo sta facendo tutto il possibile per smantellare l’Eurozona, l’Unione Europea, se stesso persino?
Un’uscita greca, portoghese o italiana dall’Eurozona si trasformerebbe ben presto in una frammentazione del capitalismo europeo, producendo una regione in forte recessione a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto dell’Europa giacerebbe in una palude senza scampo di stagnazione economica e inflazione. Chi pensate trarrebbe profitto da questa situazione? Una sinistra progressista, risorgente dalle ceneri delle pubbliche istituzioni europee come una fenice? O i nazisti di Alba Dorata, i neofascisti vari, gli xenofobi e i maneggioni? Non ho assolutamente dubbi in proposito. Non sono pronto a spingere per la realizzazione di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se questo significa che è compito nostro, dei marxisti eretici, salvare il capitalismo europeo da se stesso, così sia. Non per amore o apprezzamento del capitalismo europeo, dell’Eurozona, di Bruxelles o della Banca Centrale Europea, ma solo perché vogliamo minimizzare i superflui tributi umani a questa crisi; le innumerevoli vite le cui prospettive sarebbero ulteriormente distrutte senza un qualsiasi beneficio per le future generazioni in Europa.
- 8. Conclusione: quale è il compito dei marxisti?
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino, Lisbona, Madrid; a ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea o della Commissione Europea sulla prossima fase dell’austerity che dovrà essere messa in pratica da Parigi o da Roma, tornano in mente le parole di Bertolt Brecht: “la forza bruta è passata di moda. Perché mandare sicari prezzolati quando gli ufficiali giudiziari possono fare lo stesso lavoro?”. Il punto è: come resistergli?
Sempre consapevole della colpa collettiva della sinistra per il feudalesimo industriale cui abbiamo condannato per decenni milioni di persone in nome di…politiche progressiste, vorrei nonostante questo formulare un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro grandi differenze, esse hanno una cosa in comune: l’uniforme linea di partito che scorre senza soluzione di continuità dal vertice (il Politburo o la Commissione) alla base (ogni giovane ministro di ogni Stato membro, o ogni commissario di infima importanza, che ripete a pappagallo le stesse futilità). Sia l’apparato dell’Unione Sovietica che quello dell’Unione Europea condividono una determinazione da setta religiosa ad accettare i fatti solamente se concordi con le profezie e i loro testi sacri. Il signor Olli Rehn, ad esempio, che è il membro della Commissione Europea responsabile delle questioni economiche e finanziarie, recentemente ha avuto l’audacia di accusare il Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato alcuni errori nel calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’Eurozona perché una tale rivelazione “minava la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni”. Neppure Leonid Breznev avrebbe osato fare pubblicamente una tale dichiarazione!
Con le élite europee allo sbando, volte a negare la realtà con le teste sotto la sabbia come gli struzzi, la sinistra deve ammettere che, semplicemente, non siamo pronti a colmare il baratro che un capitalismo europeo al collasso aprirà con un sistema socialista funzionante, capace di creare benessere condiviso per le masse. Il nostro obiettivo deve quindi essere duplice: portare avanti un’analisi del corrente stato delle cose che i non-marxisti, ossia gli europei sedotti in buona fede dalle sirene del neoliberismo, possano trovare condivisibile. E dar seguito a questa solida analisi con proposte per stabilizzare l’Europa – per porre fine alla spirale recessiva che, alla fine, rinforzerà solamente gli intolleranti e incuberà le uova dei serpenti. Ironicamente, noi che aborriamo l’Eurozona abbiamo l’obbligo morale di salvarla!
Questo è quello che abbiamo cercato di fare con la nostraModesta proposta[11]. Indirizzandoci a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi speculativi, l’idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice interesse: un interesse nel porre fine al circolo vizioso tra austerità e crisi, tra stati in bancarotta e banche in bancarotta; un circolo vizioso che danneggia tanto il capitalismo quanto ogni programma progressista in grado di rimpiazzarlo. Questa è la ragione per cui difendo i miei tentativi per arruolare alla causa della Modesta proposta gente come i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, membri conservatori del Parlamento inglese, finanzieri che sono preoccupati dalla tragica situazione dell’Europa.
Il lettore mi concederà di concludere con due confessioni finali. Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale lo scopo del programma per stabilizzare il sistema che propongo, non pretendo comunque di esserne entusiasta. Questo è quel che dobbiamo fare, spinti dalle circostanze odierne, ma mi dispiace dover dire che probabilmente non farò in tempo a vedere adottato un programma più radicale. Infine, una confessione di natura più strettamente personale: io so di correre il rischio di alleviare, surrettiziamente, la tristezza dell’abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso della mia esistenza indulgendo nel sentimento di essere diventato “gradevole” agli occhi degli appartenenti ai circoli della “buona società”. Il senso di soddisfazione personale nell’essere onorato dai ricchi e dai potenti ha iniziato, di tanto in tanto, a farsi strada in me. Ed è una sensazione assolutamente brutta, non radicale, che sa quasi di corruzione.
Il mio nadir personale è arrivato in un aeroporto. Un gruppo danaroso mi aveva invitato a tenere un discorso di apertura sulla crisi europea e aveva sborsato la considerevole somma necessaria a comprarmi un biglietto aereo in prima classe. Sulla strada del ritorno verso casa, stanco e reduce già da diversi voli, mi stavo facendo strada attraverso la lunga fila di passeggeri della classe economica per raggiungere il mio gated’imbarco. Improvvisamente realizzai, con notevole orrore, quanto facile fosse per la mia mente venire infettata da questa sensazione di essere “autorizzato” a sorpassare la massa. Capii quanto facile fosse per me dimenticare quel che il mio pensiero di sinistra aveva sempre saputo: che nulla riesce a riprodursi meglio di un falso senso di potere. Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per stabilizzare l’Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati, di gettare alle ortiche il nostro radicalismo in cambio della piacevole sensazione di essere “arrivati” nei corridoi del potere.
Confessioni radicali, come quella che ho appena tentato di fare, sono forse l’unico antidoto programmatico agli scivoloni ideologici che minacciano di trasformarci in ingranaggi del sistema. Se dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale, con i neoliberisti che, nonostante questo, sono contrari a quella che chiamano la dittatura delle banche fallite, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a migliorare la loro situazione personale. Il trucco è evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti a aggirare qualsiasi opposizione alla loro cattiveria autodistruttiva ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio mentre cerchiamo di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso. Confessioni radicali possono essere utili nel mantenere questo difficile equilibrio. Dopotutto, il marxismo umanista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
[1] Come esempio delle ricerche che sono venute fuori, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[2] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[3] Marx in “Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849[diffuso come conferenza nel 1847]. Rivisto con un’introduzione di Friedrich Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York, Labor New Company, 1902.
[4] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[5] Verso l’inizio di Matrix, un guerrigliero urbano che aveva appena aiutato Thomas Anderson, detto Neo, a fuggire da alcuni agenti in borghese, gli offre una scelta cruciale fra due pillole. Se prenderà la pillola blu, tornerà a letto e si sveglierà al mattino pensando che l’intera vicenda sia stata un incubo prima di tornare alla sua vita “normale”. Se invece opterà per la pillola rossa, apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In un trionfo dell’incauta curiosità sulla tentazione del semplice piacere, Neo rigetta la prospettiva di beata ignoranza offerta dalla pillola blu, optando invece per la crudele realtà promessa dalla rossa.
[6] Vedere Mirowski (2013).
[7] Per approfondire quest’argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998).
[8] Vedere Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, in cui Marx stesso racconta il suo dibattito con Citizen Weston.
[9] Vedere il suo saggio su Malthus, “Robert Malthus: il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in John Maynard Keynes (1972). The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London, Macmillan. La citazione appare alle pagine 100-101. Pubblicato originariamente in Essays in Biography, 1933.
[10] Malthus deve la sua fama alla previsione per la quale la crescita della popolazione sarebbe avvenuta più velocemente di quella delle risorse del pianeta, nonostante I nostri migliori sforzi, e che quindi la fame costituisce un indispensabile meccanismo di equilibrio. In quanto uomo di Chiesa, spiegò ciò come parte del disegno divino: la sofferenza delle masse, le pance turgide dei bambini ridotti allo stremo dalla fame, e i volti esausti delle madri piangenti erano un’opportunità data da Dio agli umani per abbracciare il bene e combattere il male.
[11] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K. Galbraith, A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
BIBLIOGRAFIA
Keynes, J.M. (1933,1972). “Robert Malthus: The First of the Cambridge Economists,” penned in 1933, in The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London: Macmillan.
Marx, K, (1865,1969). “Wages, Prices and Profit’ in Value, Price and Profit, New York: International Co. (edizione itliana Salario, prezzo e profitto disponibile on line)
Marx, K. (1844,1969). Economic and Philosophical Manuscripts, in Marx/Engels Selected Works, Moscow, USSR: Progress Publishers (edizione italiana disponibile on line)
Marx, K. (1849,1902). “Wage-Labour and Capital”, first published in the Neue Rheinische Zeitung, April 5-8 and 11, 1849. [Delivered as lectures in 1847] Edited with an introduction by Friedrich Engels in 1891. Translated by Harriet E. Lothrop, New York: Labor News Company (edizione italiana di Lavoro salariato e capitale disponibile on line)
Marx, K. (1972). Capital: Vol. I-III. London: Lawrence and Wishart
Mirowski, P. (2013). Never Let a Good Crisis Go To Waste: How Neoliberalism survived the financial meltdown, London and New York: Verso
Varoufakis Y. (2013). Economics Indeterminacy: A personal encounter with the economists’ peculiar nemesis, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y. (1991). Rational Conflict, Oxford: Blackwell
Varoufakis, Y. (1998). Foundations of Economics: A beginner’s companion, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y., J. Halevi and N. Theocarakis (2011). Modern Political Economics: Making sense of the post-2008 world, London and New York: Routledge
Varoufakis, S. Holland and J.K. Galbraith (2013). A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
[traduzione a cura di Federico Vernarelli e Maurizio Acerbo]
fonte: Sandwiches di realtà
fonte: http://www.rifondazione.it
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