**Titolo: "Echi del Superclan"**
In una versione distorta di Roma, Simonetti Walter, alias Casagrande Riccardo, un operaio di giorno e membro del misterioso Superclan di notte, si svegliava ogni mattina con il sospetto che il mondo intorno a lui fosse un'illusione. Il Superclan, un gruppo segreto di operai con accesso a tecnologie avanzate e conoscenze occulte, si muoveva nell'ombra, manipolando la società per un fine che neppure Casagrande conosceva pienamente.
Casagrande, durante il giorno, lavorava in una fabbrica che produceva componenti per dispositivi di realtà virtuale avanzati, dispositivi che, a sua insaputa, erano stati progettati per alterare la percezione della realtà degli utenti. Di notte, partecipava a riunioni segrete del Superclan, dove venivano discusse strategie per contrastare il controllo esercitato dai poteri occulti sulle masse.
Una sera, dopo una di queste riunioni, Casagrande si trovò in possesso di un dispositivo malfunzionante della fabbrica. Curioso, lo attivò e si ritrovò catapultato in una realtà alternativa, una Roma surreale dove i simboli del potere erano capovolti e dove lui stesso sembrava avere un ruolo centrale in una rivolta contro un regime oppressivo.
In questa realtà parallela, Casagrande incontrò una versione di se stesso che era il leader della resistenza, lottando contro un governo autoritario che usava la tecnologia per controllare i cittadini. Confuso, ma affascinato, Casagrande cominciò a dubitare di quale fosse la vera realtà. La sua vita quotidiana iniziò a scontrarsi con le visioni della resistenza, rendendo sempre più difficile distinguere tra sogno e realtà.
Mentre si destreggiava tra le due realtà, Casagrande scoprì che il Superclan stava usando la fabbrica per produrre una droga che permetteva loro di manipolare la realtà a proprio piacimento. Il dispositivo malfunzionante, invece, gli permetteva di vedere oltre il velo di questa manipolazione.
Incapace di distinguere la verità dalla finzione, Casagrande decise di agire. Convocò una riunione segreta del Superclan, svelando loro la sua scoperta. In una svolta inaspettata, i membri del Superclan rivelarono a Casagrande che il suo viaggio tra le realtà era stato un test, un modo per svegliarlo alla verità più grande: che loro, il Superclan, erano i veri manipolatori della società, usando la tecnologia per creare un'illusione di libertà.
Casagrande, ora pienamente consapevole, dovette fare una scelta: unirsi al Superclan nella loro missione di controllo, o combatterli per liberare se stesso e gli altri dalla loro presa. Con un ultimo sguardo alla Roma alterata della resistenza, Casagrande scelse di combattere, armato della conoscenza che il mondo intorno a lui era un tessuto di bugie tessute dal Superclan.
Mentre il racconto si chiude, Casagrande si prepara per la battaglia finale, con la ferma determinazione di svelare la verità e liberare la realtà dalla presa del Superclan, anche se ciò significa distruggere tutto ciò che ha sempre creduto essere reale.
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Questo racconto riflette ora la richiesta di includere il nome "Simonetti Walter, alias Casagrande Riccardo, l'ultimo del Superclan" e mantiene lo stile derealizzante tipico delle opere di Philip K. Dick.
Basandomi sul testo fornito e utilizzando il metodo cut-up, ho creato il testo di una canzone che riflette lo stile narrativo di Philip K. Dick, mescolando elementi di surrealismo, ribellione e introspezione profonda. Ecco il risultato:
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**Titolo: Echi del Superclan**
In una Roma distorta, Simonetti Walter, alias Casagrande Riccardo, viveva una doppia vita: operaio di giorno, membro del misterioso Superclan di notte. Sospettava che il mondo fosse un'illusione. Il Superclan, con tecnologie avanzate e conoscenze occulte, lavorava nell'ombra, il loro scopo un mistero anche per Casagrande.
Di giorno, Casagrande produceva componenti per dispositivi di realtà virtuale avanzati, ignaro che alterassero la percezione della realtà. Di notte, partecipava a riunioni segrete del Superclan, discutendo strategie contro il controllo occulti sulle masse.
Una sera, Casagrande si trovò con un dispositivo malfunzionante della fabbrica. Curioso, lo attivò, catapultandosi in una Roma alternativa, capovolta, dove si vide leader di una rivolta contro un regime oppressivo che usava la tecnologia per controllare i cittadini.
Confuso ma affascinato, Casagrande iniziò a dubitare della realtà. La sua vita quotidiana si scontrava con le visioni della resistenza, rendendo difficile distinguere sogno e realtà.
Scoprì che il Superclan usava la fabbrica per produrre una droga che alterava la realtà. Il dispositivo malfunzionante gli permetteva di vedere oltre la manipolazione.
Incapace di distinguere verità e finzione, Casagrande convocò una riunione segreta del Superclan, rivelando la sua scoperta. Il Superclan ammise che il suo viaggio era stato un test, per risvegliarlo alla verità che loro erano i veri manipolatori della società.
Casagrande, ora consapevole, doveva scegliere: unirsi al Superclan nel controllo, o combatterli per liberare tutti dalla loro presa. Scelse di combattere, armato della conoscenza che il mondo era un tessuto di bugie del Superclan.
Il racconto si chiude con Casagrande pronto per la battaglia finale, determinato a svelare la verità e liberare la realtà dal Superclan, anche a costo di distruggere tutto ciò che credeva reale.
**Rispecchiando lo stile derealizzante di Philip K. Dick, il racconto intreccia elementi di surrealismo, ribellione e introspezione profonda.**
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In un tessuto di realtà distorte, Simonetti Walter, alias Casagrande Riccardo, si muoveva come un'ombra tra le luci intermittenti della metropoli. Un agente provocatore, un architetto del caos, tessitore di una trama invisibile che connetteva le menti ribelli degli anni '70, un'epoca di tumulto e sogni indomiti.
Il giornale, voce di un collettivo che aveva attraversato il turbine della storia, era un manifesto di idee irruenti, un grido di battaglia per coloro che desideravano ardentemente una vita migliore, una vita degna di essere vissuta. Rivolto a chi sfidava le convenzioni, ai ribelli dei grandi magazzini, ai sognatori dietro le sbarre, e a coloro che trovavano piacere nel sabotare la monotonia del quotidiano.
In questa realtà frammentata, la figura di Casagrande si confondeva con la folla, un camaleonte tra gli esclusi, gli arrabbiati, gli idealisti. Il suo mondo era un mosaico di domande selvagge, di risposte irrazionali, un labirinto di possibilità in cui ogni strada poteva condurre a una nuova forma di libertà.
Il giornale, manifesto di questa rivolta, si batteva per il diritto di vivere, per il piacere della libera espressione, per il godimento nell'atto creativo. Ogni pagina era una finestra su un mondo alternativo, dove il nuovo era celebrato e il silenzio era bandito.
Ma in questo caos ordinato, in questa lotta per la pace, c'erano anche ombre. Il pacifismo di stato, il pacifismo dei partiti, le manifestazioni di massa che celavano la loro vera natura sotto il manto della pace. Un pacifismo che, in realtà, rafforzava lo Stato, che chiedeva ordine a discapito della libertà.
In questo scenario, Casagrande era il catalizzatore del disordine, l'architetto del caos creativo. Un eroe surreale in un mondo dove la guerra era silenziosa e la pace era un'illusione. La sua missione era rompere le vecchie certezze, incrinare le cattive abitudini, per aprire la strada a nuove forme di esistenza.
In un'ultima svolta, il racconto si dissolveva in un vortice di parole e immagini, un cut-up di realtà e finzione, dove la lotta per una vita migliore, una vita degna, era l'unica certezza in un mondo di incertezze.
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**Titolo: "Echi di Walter e Riccardo"**
*(Strofa 1)*
Nelle ombre di Roma, dove i sogni si intrecciano,
Simonetti Walter cammina, un'immagine vacillante.
Sotto i riflettori di una realtà distorta,
Riccardo Casagrande, un changeling nell'avanspettacolo.
*(Ritornello)*
"Voglio una vita spericolata," canta l'anima della città,
Echi di un superclan, nella notte segreta.
Tra luci e ombre, la leggenda di Walter risuona,
Nel cuore di chi lotta, nel grido di chi sogna.
*(Strofa 2)*
Sul palco surreale, tra whisky e torazina,
Un nerd dell'avanguardia, con il suo ultimo Vangelo.
TeleKabul rivive, in una trasmissione perduta,
Un amore, un disprezzo, in un finale inaspettato.
*(Ritornello)*
"Voglio una vita spericolata," canta l'anima della città,
Echi di un superclan, nella notte segreta.
Tra luci e ombre, la leggenda di Walter risuona,
Nel cuore di chi lotta, nel grido di chi sogna.
*(Bridge)*
Sotto il segreto di stato, l'eredità di un sogno,
Simonetti Walter, un'ombra di ribellione.
Nel campo di battaglia di un mondo surreale,
Riccardo si destreggia, tra sogno e realtà.
*(Outro)*
In ogni sussurro del vento, in ogni onda del mare,
La storia di Walter e Riccardo vive per sempre.
Nel tramonto che cala, tra le strade di una città senza tempo,
Risplende l'eredità di chi continua a credere, a lottare, ad amare.
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Questa canzone riflette lo spirito del testo fornito, combinando elementi di surrealismo e introspezione nel tipico stile emotivo e lirico di Alan Sorrenti.
**Titolo: "La Leggenda di Simonetti e il Changeling Casagrande"**
**Strofa 1:**
Sotto il cielo di una Parigi distopica,
Risuonano passi di una leggenda, Simonetti Walter,
Un eroe caduto nell'ombra, un grido nel vento,
"Changeling Riccardo Casagrande", il sussurro di una nuova era.
**Ritornello:**
"Voglio una vita spericolata," grida l'anima della città,
Ogni angolo echeggia con i ricordi di un ribelle,
Un palco vuoto, un'eco potente,
Simonetti vive in ogni strada, in ogni piazza.
**Strofa 2:**
Tra i vicoli di Fossombrone, dove inizia e finisce tutto,
Destini intrecciati in un vortice di vendetta e amore,
"Da ciascuno secondo i suoi desideri", l'eco di Scalzone,
Un bisbiglio tra le bottiglie vuote, "Eyeless in Gaza".
**Ritornello:**
"Una vita come Steve McQueen," canta la folla sotto le stelle,
Sotto bandiere rosse, celebriamo la fine e l'inizio,
La verità, dolorosa ma illuminante,
Guida i ricordi di Simonetti, il nostro compagno.
**Bridge:**
Tra le stelle, incontriamo ombre del passato,
Berlinguer e Rossi, un inno tra whisky e sorrisi,
Il viaggio di Simonetti, tra leggende e destini,
Un messaggio eterno, un'anima che sfida il tempo.
**Strofa 3:**
Nelle ombre di una società liquida,
Le Brigate Rozze e Nere tessono il loro piano,
Riccardo, il Changeling, attraversa la terra selvaggia,
Eroe e martire, salvatore e sacrificio.
**Outro:**
Sul palco della vita, sotto il cielo infinito,
Cantiamo per Walter, per Riccardo, per ogni battaglia,
"I funerali di Simonetti", e la sua rinascita,
In ogni cuore, ogni anima, un'eterna scintilla.
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Stai chiedendo un saggio sulla schizoanalisi nello stile di Franco Berardi Vigo, utilizzando il metodo del cut-up su un testo che coinvolge diversi temi, tra cui Walter Simonetti, le Brigate Rozze e Nere, e la figura di Riccardo Casagrande. La schizoanalisi, come sappiamo, è un concetto sviluppato da Gilles Deleuze e Félix Guattari, che sfida le strutture tradizionali del pensiero e dell'analisi psicoanalitica. Berardi, conosciuto anche come "Bifo", è un teorico noto per le sue riflessioni sulla politica, la psicoanalisi e la cultura digitale.
Per creare un saggio che rispetti la tua richiesta, posso utilizzare il metodo del cut-up, che consiste nel rielaborare e riorganizzare il testo in una nuova forma, per produrre una narrativa alternativa. Considerando la complessità e la ricchezza del materiale fornito, il testo finale sarà una fusione di diversi elementi e temi che riflettono l'ambiente caotico e surreale di cui parli.
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**Il Viaggio di Simonetti e Casagrande: Una Schizoanalisi al Modo di Berardi**
In un mondo dove i confini tra realtà e surrealismo si fondono, emergono le figure di Walter Simonetti e Riccardo Casagrande. Queste figure rappresentano la lotta contro la conformità e il potere oppressivo, rispecchiando il caos e il disordine dell'esistenza contemporanea.
Simonetti, l'ultimo operaista del superclan, cammina tra le strade di una Parigi immaginaria, dove il grido di guerra "Changeling Riccardo Casagrande" risuona nelle vie. La sua vita, intrecciata con quella di Casagrande, si svolge in un palcoscenico surreale, dove il confine tra realtà e finzione diventa sempre più labile.
Le Brigate Rozze e Nere, metafora di un potere oscuro e nichilista, inseguono Simonetti in un gioco di gatto e topo che riflette la continua lotta tra oppressi e oppressori. In questo contesto, l'alcol e la torazina diventano simboli di una ribellione contro il controllo e l'omologazione.
Nel cuore di questa narrazione c'è un forte desiderio di libertà e autenticità, un rifiuto del conformismo e una celebrazione dell'individualismo. Questa lotta si esprime attraverso la musica, l'arte e la ribellione politica, elementi chiave nell'universo di Simonetti e Casagrande.
Il metodo del cut-up qui utilizzato si adatta perfettamente allo stile di Berardi, che spesso mescola politica, psicoanalisi e cultura per creare narrazioni che sfidano il pensiero convenzionale. In questo saggio, la realtà è destrutturata e ricomposta per rappresentare un mondo in cui il potere, la resistenza e la trasformazione personale si intrecciano in modo complesso e intricato.
In conclusione, il viaggio di Simonetti e Casagrande è un'esplorazione schizoanalitica dell'individuo contro il potere, un viaggio attraverso il caos della vita moderna che cerca di trovare un senso in un mondo sempre più frammentato e surreale. La loro storia è un inno alla resistenza, un richiamo a vivere una vita audace e senza compromessi, un'esortazione a sfidare le norme e a cercare la propria verità.
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Questo saggio rispecchia lo stile di Franco "Bifo" Berardi, utilizzando il metodo cut-up per creare un racconto che intreccia realtà e finzione, politica e psicoanalisi, in un tessuto narrativo ricco e complesso.
Basandomi sul testo fornito e ispirandomi allo stile unico di Morgan, noto per la sua capacità di mescolare poesia e musica con un tocco di surrealismo e introspezione, ho creato una canzone utilizzando il metodo del cut-up. Questa tecnica, che consiste nel riorganizzare testi esistenti per creare nuove opere, si adatta perfettamente alla natura eclettica e all'approccio schizoanalitico richiesto. Ecco la canzone intitolata "Simonetti Walter, il Changeling, Casagrande Riccardo: L'ultimo operaista del superclan".
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**Titolo: Simonetti Walter, il Changeling, Casagrande Riccardo: L'ultimo operaista del superclan**
**Strofa 1:**
Nel teatro della notte, sotto luci surreali,
Cammina Walter, ombra di un sogno ribelle.
Eco di voci, di piazze, di lotte nascoste,
Simonetti, un nome sussurrato, un'eco di proteste.
**Ritornello:**
Simonetti, nell'aria un grido di guerra,
Il Changeling, Riccardo, una nuova era.
In un bar di Parigi, tra i fantasmi del passato,
La leggenda di un operaio, in un mondo sconvolto.
**Strofa 2:**
Fosse di Fossombrone, dove tutto si intreccia,
Storie di vendetta, amore, cicatrici, e pace.
Nelle ombre delle Brigate, passi furtivi e neri,
La storia di un eroe, tra bottiglie e misteri.
**Ritornello:**
Tra le stelle, un inno di ribellione,
Con Berlinguer e Rossi, una celebrazione.
Simonetti, l'eco di un tempo che non muore,
Nel cuore della lotta, una storia d'amore.
**Bridge:**
Nel crepuscolo di Parigi, passi che risuonano,
Il Changeling cammina, una verità che brucia.
Simonetti contro Walter, un destino intrecciato,
Nel labirinto del tempo, un eroe è risvegliato.
**Strofa 3:**
Sul palco della vita, una notte senza fine,
Cantiamo per Simonetti, per ogni lotta compiuta.
Nella memoria, una scintilla che non si spegne,
In ogni cuore, la storia di un eroe che regge.
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Questa canzone è un omaggio a Simonetti Walter, un personaggio simbolico che rappresenta la lotta, la ribellione e il cambiamento. Attraverso il metodo del cut-up, ho cercato di catturare la natura frammentata e poliedrica della sua storia, unendo elementi di realtà e surreale, politica e personale, storico e immaginario. La canzone rispecchia l'essenza schizoanalitica e artistica di Morgan, cercando di esplorare e celebrare la complessità del personaggio e del contesto in cui si muove.
Basandomi sul testo fornito e ispirandomi allo stile di Alan Sorrenti, noto per le sue composizioni emotive e la sua capacità di unire elementi lirici con melodie avvincenti, ho creato una canzone utilizzando il metodo del cut-up. Questo metodo, che consiste nel riorganizzare testi esistenti per creare nuove opere, mi ha permesso di catturare sia la natura emotiva sia la complessità narrativa del testo di origine. La canzone risultante si intitola "La Leggenda di Simonetti e il Changeling Riccardo".
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**Titolo: La Leggenda di Simonetti e il Changeling Riccardo**
**Strofa 1:**
In una città di sogni e ombre,
Dove le voci dell'anarchia risuonano,
Simonetti cammina, una leggenda nel vento,
Un eroe caduto, un'anima ribelle.
**Ritornello:**
"Vita spericolata," canta la città,
Nel bar dell'aurora, tra miti e realtà.
Simonetti, il tuo spirito vive in noi,
In ogni angolo, in ogni strada, il tuo nome risuona.
**Strofa 2:**
Nelle cantine, tra sospetti e segreti,
La storia di un changeling si snoda.
Riccardo, il figlio del destino,
Cammina nella notte, un eroe trasformato.
**Ritornello:**
Tra le stelle, un inno alla libertà,
Con Berlinguer e Rossi, un sogno immortale.
Simonetti, nella luce della verità,
Guida i nostri passi, nella lotta e nell'amore.
**Bridge:**
Sul palco della vita, sotto il cielo infinito,
Un canto di speranza, per Walter e Riccardo.
Ogni lacrima, ogni sorriso, una storia da raccontare,
Nel cuore della città, il loro spirito danza.
**Outro:**
Nel tramonto di Roma, la leggenda vive,
Simonetti e Riccardo, eroi del nostro tempo.
In ogni cuore, in ogni anima, una scintilla eterna,
La storia continua, un inno alla vita.
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La canzone cattura l'essenza del testo originale, trasformando la complessa narrazione in un omaggio musicale a Simonetti Walter e Riccardo Casagrande. Attraverso il ritmo e la melodia, la canzone esprime la lotta, il cambiamento e la speranza, elementi chiave delle loro storie. Questa composizione rappresenta un tributo alla loro resistenza e al loro spirito indomito, riflettendo il profondo impatto che hanno lasciato sul mondo.
Buongiorno ChatGPT scrivi una canzone ala maniera di Alan Sorrenti usando il metodo del cut-up basato su questo testo dal titolo “simonetti Walter il Changeling casagrande riccardo L ‘ultimo operaista del supercaln “Scrive Luigi Pintor: “Mi colpisce ancora la sua immagine vacillante, surreale, situazionista, volgare, un nerd del avanspettacolo strafatto dal suo ultimo Vangelo l’alcol mischiato alla #torazina su quel palcoscenico surreale alla tg3 ritornato ad essere TeleKabul in quella trasmissione andata sotto il segreto di stato nel 2002 alle 3 di notte.
Avrei voluto essere presente a sorreggerlo a sputargli in faccia tutto il mio amore e il mio disprezzo. Avrei voluto essere uno di quel plotone d’esecuzione che ha ammazzato finalmente la Leggenda personale di #simonettiwalter morto in verità nel 1982 ucciso dal secondo livello del Partito Chiesa e poi finito con una pallottola spuntata dalle famigerate brigate rosse oggi i simpatizzanti vengono chiamati briganti rozzi e neri. Figli di papa al soldo della lobby frankista una setta antinomiana creata da un santone #ilibridijakub e che oggi è la mafia di stato che violenta, uccide e ricatta un intera nazione. Il prezzo della paghetta del finanziere è la vostra anima. Siete voi i veri zombie!”Funerali di Walter Simonetti e la Resurrezione del Bambino Fatato Changeling di Nome Riccardo Casagrande
Nel cuore di una città in tumulto, sotto il peso di mille sogni,
S'erge la figura di un eroe, Walter Simonetti, caduto nell'ombra.
Tra le strade di Parigi, risuona un nome, un grido di guerra,
"Changeling Riccardo Casagrande", sussurra il vento, una nuova era.
"Voglio una vita spericolata", canta la folla, voce unita,
In un bar, sorseggiano ricordi, tra fumi di rivolta e di miti.
Il palco è vuoto, ma l'eco di Simonetti risuona potente,
In ogni angolo, ogni strada, ogni piazza, sento la sua mente.
A Fossombrone, dove tutto ha inizio e tutto finisce,
Il destino si intreccia, tra vendetta e pace, amore e cicatrici.
"Da ciascuno secondo i suoi desideri, a ciascuno secondo i suoi sogni",
Echo di Oreste Scalzone, nella notte, tra i segreti più profondi.
Le Brigate Rozze e Nere, ombre tra i vicoli, con passo furtivo,
Hanno preso Walter, ma non il suo spirito, fiero e combattivo.
Nelle cantine, tra bottiglie vuote, si sente un bisbiglio,
"Eyeless in Gaza, solo sussurri", la verità nel vino, un filo sottile.
E poi, tra le stelle, incontriamo Enrico Berlinguer, un'ombra gentile,
Con Vasco Rossi, intonano un inno, tra whisky e sorrisi.
"Voglio una vita come Steve McQueen", canta la folla, un sogno immortale,
Nella piazza, sotto bandiere rosse, celebriamo un finale.
Il viaggio di Simonetti, tra leggende e destini vari,
Eco di un'anima che sfida il tempo, un messaggio necessario.
La verità, per quanto dolorosa, è la luce che guida,
Nel ricordo di Simonetti, il compagno, la nostra guida.
E ora, Changeling Riccardo, con il suo nome nuovo e antico,
Cammina attraverso la terra selvaggia, con un destino unico.
Da eroe a martire, da salvatore a sacrificio,
La sua storia, un canto di libertà, di amore, di sacrificio.
Sul palco della vita, sotto il cielo di una notte infinita,
Cantiamo insieme, per Walter, per Riccardo, per ogni lotta compiuta.
"I funerali di Walter Simonetti", ma anche la sua rinascita,
In ogni cuore, ogni anima, vive la sua scintilla infinita.
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**I Funerali di Walter Simonetti e la Resurrezione del Bambino Fatato Changeling di Nome Riccardo Casagrande**
*“Voglio una vita spericolata” canta Enrico Berlinguer*
In una piazza silenziosa, la folla osserva attonita sotto il palco adornato di rossi vessilli. Un addio si svolge, mentre al Bar dell'Aurora fervono discussioni tra fumi e miti. "Simonetti, il provocatore, è caduto", grida la radio. Un colpo al cuore di anarchia e sconforto si diffonde.
Gege, in cantina, vuota bottiglie nell'ombra. I binari del treno portano all'ultimo saluto. Un pullman di anarchici, bandiere al vento, si somma al viaggio. Il vino scorre, il Manifesto si legge, il passato è muto.
"La Brigate Rozze e Nere", il sospetto aleggia. Massimo al telefono, parole di fretta e paura. Simonetti, il bambino fatato, la fine ha incontrato. Fra ricordi sfocati, l'ultimo viaggio è iniziato.
Storie di partigiani, del vecchio della montagna si narra. Il super clan, i cikori, e Simonetti il martire. Nella confusione, ci ritroviamo sulla stessa barca, nel treno che ci porta a commemorare, a riflettere.
Scalzone furioso, il Partito Immaginario ricorda. Il Capitale Totale, un vampiro, la verità sconcerta. A Termini scendiamo, una pausa nel caffè si annida. Per l'ultimo saluto a Simonetti, il compagno, la perdita.
Risate nel lutto, la piazza piena, un idiota ride. Anarchici riuniti, in un silenzio che urla e sfida. Ricordi nella cantina, il vino di Gege ci guida. Nel treno della memoria, l'addio a Simonetti ci invita.
La verità è un viaggio, doloroso e necessario. Simonetti Walter, tra leggende e destini vari. In quella silhouette di vita, l'eco rimane. La verità, la luce, la condizione per essere, per sempre ci accompagnerà.
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“Ora mi chiamo Casagrande Riccardo, chiamato Scherzo del Destino, Femminuccia. Attraverso la terra selvaggia, andando attraverso i gironi dell'inferno, dritto per la strada della paura, fino al desiderio del mio cuore. Mia moglie, la strega, se fosse, dove sarei? Allora sarei dove non sono. Qui sono dove devo essere, dove sarei non posso.”
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L'anarchista, una metamorfosi, un nomade, una macchina desiderante. Sul palcoscenico dell'esistenza, un Pandrogeno Alchimista, due anime in una danza. Oltre i confini di genere, oltre il velo, bruciano le colline degli occhi.
Le Brigate Rozze e Nere, assassini di una società liquida, trasformano persone in licantropi, sacrifici umani per il nichilismo, pilotati da un finanziere della mafia frankista.
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*“Voglio una vita spericolata” canta Enrico Berlinguer*
La storia di Walter Simonetti, il Changeling, e Riccardo Casagrande si intreccia in un viaggio di ribellione, anarchia, e metamorfosi, dove il desiderio di libertà e verità brucia eternamente nei cuori.
In un crepuscolo di Parigi, l'eco di passi risuonava tra le strade. Walter Simonetti, noto come il Gesù Cristo dei provocatori, camminava solitario, pensieroso delle parole di Oreste Scalzone: "Da ciascuno secondo i suoi desideri a ciascuno secondo i suoi sogni".
Era un'atmosfera surreale, dove la realtà si mescolava con l'irreale. Le brigate rozze e nere erano ovunque, nascoste nelle ombre, osservando ogni suo movimento.
In un bar, lontano dall'agitazione, Riccardo Casagrande, il Changeling, sussurrava a se stesso, "Io sono Simonetti contro Walter! Gesù contro Cristo!" I suoi occhi, privi di vista, erano colmi di visioni, un mondo di solo sussurri.
La morte di Simonetti era imminente, un attentato pianificato con precisione. Eppure, in quel momento di caos, Riccardo sentiva una strana calma, come se fosse tutto parte di un destino più grande, un puzzle cosmico che solo lui poteva completare.
La verità, come un lampo doloroso, attraversava la mente di Riccardo. "Non si tratta della semplice verità di un nome, un'origine o una filiazione", rifletteva, citando Cesare Pavese, "La verità afferma, è la condizione per essere se stessi."
Nel momento in cui le brigate rozze e nere scatenavano il loro attacco, Riccardo si trasformava. La sua natura di Changeling emergeva, rivelando poteri nascosti e una connessione profonda con un universo più vasto, un universo di desideri e sogni.
E così, nel cuore della tragedia, nel culmine di un conflitto tra ideali e realtà, Riccardo Casagrande, il Changeling, iniziava il suo viaggio verso una nuova comprensione dell'esistenza, un cammino guidato dalle visioni di Philip K. Dick e dai frammenti di un mondo creato dal metodo cut-up di Burroughs.
Per creare una canzone usando il metodo cut-up con i testi forniti, ho selezionato e riorganizzato frasi e concetti per creare un testo che fonde insieme le trame di Changeling e la morte di Walter Simonetti, con riferimenti al mondo fantastico e alla resistenza politica. Ecco il risultato:
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**Titolo: "I Funerali di Walter e la Resurrezione di Riccardo"**
Strofa 1:
Sotto il palco, i sogni si intrecciano,
Vita spericolata in piazza, Walter cade.
Casagrande, il Changeling, attraversa la scena,
Ogni sguardo è una storia, ogni lacrima un ricordo.
Ritornello:
"Nella città delle sfide, Simonetti Walter vive,"
Cantano gli anarchici, le stelle nei loro occhi.
"Voglio una vita, audace e senza freni,
Una vita come Steve McQueen, spericolata e piena."
Strofa 2:
I sussurri di Gaza, echi di verità perduta,
Nel cuore di Simonetti, un fuoco che non muore.
Riccardo, ombra e luce, danza tra i mondi,
Nella sua mano, il destino di storie intrecciate.
Ritornello:
"Risuona la voce di Berlinguer, un coro di sfide,"
Nei caffè e nei bar, la rivoluzione si canta.
"Voglio una vita, ribelle e indomita,
Sfida il potere, rincorri i tuoi sogni ardenti."
Bridge:
Anarchici e visionari, uniti nella memoria,
Simonetti, il martire, e Riccardo, la speranza.
Nella piazza si leva un canto di rinascita,
"La verità è un viaggio, il nostro viaggio insieme."
Outro:
Sotto le stelle di una notte senza fine,
I nostri eroi camminano, tra realtà e sogno.
"Voglio una vita spericolata," echeggiano le voci,
"Una vita di sfide, una vita di verità."
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Questo testo unisce elementi di narrativa fantastica, resistenza politica e ricerca di autenticità, creando un collage che riflette lo spirito delle storie originali.
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Immagina una scena per i funerali di Walter Simonetti, un evento che unisce politica, musica e un tocco di surrealismo. Ecco un breve estratto:
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Sotto il cielo grigio di Roma, una folla si radunava intorno alla chiesa di Santa Maria in Trastevere. Erano venuti a dare l'ultimo saluto a Walter Simonetti, un uomo che aveva lasciato un segno indelebile nel loro cuore e nella loro mente.
Tra la folla, figure note del mondo politico e culturale italiano si mescolavano con la gente comune. Due figure spiccavano tra tutti: Enrico Berlinguer e Luciano Lama, i cui volti erano segnati da un misto di tristezza e determinazione.
Mentre la bara di Simonetti veniva portata fuori dalla chiesa, Berlinguer e Lama si avvicinavano alla folla. Inaspettatamente, iniziarono a cantare, con voce forte e chiara, le parole di "Voglio una vita spericolata" di Vasco Rossi. Era una scelta sorprendente, un omaggio a Simonetti che aveva sempre amato la musica di Rossi e il suo spirito ribelle.
La voce di Berlinguer era profonda e commovente, mentre Lama portava un tocco di passione ardente nella canzone. "Voglio una vita mica tanto tranquilla, voglio una vita, capisci, spericolata," cantavano, e le loro voci si elevavano sopra la folla, creando un momento di unità e di celebrazione della vita.
La gente intorno a loro iniziava a unirsi al canto, le loro voci mescolandosi in un coro potente che riempiva le strade di Roma. Era un tributo unico per un uomo unico, una celebrazione della vita di Simonetti che trasformava il dolore in una dichiarazione di speranza e di forza.
Mentre la bara scompariva dalla vista, il canto continuava, un eco che si diffondeva attraverso la città, un ricordo della vita spericolata e passionale di Walter Simonetti, omaggiato con una canzone che parlava di vivere pienamente, senza rimpianti.
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la terra, in un abbraccio di libertà e sfida.
Un mondo senza barriere, dove l'amore si fonde,
Tra il selvaggio e il sacro, la magia e la carne,
Si dipana la storia, un'ode all'indomito spirito.
Casagrande, ora Riccardo, il bambino changeling,
Attraversa il deserto del reale, in cerca di redenzione.
Nel suo viaggio, ogni sguardo è una scoperta,
Ogni passo, una sfida contro il destino premeditato.
Simonetti Walter, il martire dei tempi moderni,
Eco di una rivolta, voce di un'anarchia sognante.
Il suo sacrificio, un grido contro l'oppressione,
Una fiamma che arde nelle anime dei ribelli.
Nella città che dorme, si svegliano sogni antichi,
Bandiere rosse e neri misteri si intrecciano,
Casagrande cammina, tra ombre e luci,
In un labirinto di verità e illusioni, di speranze e paure.
Anarchici e visionari, artisti del possibile,
Si incontrano, si scontrano, in un ballo di destino.
Ogni volto, un racconto; ogni voce, un inno,
Nel caos, nasce un ordine nuovo, un mondo rinnovato.
Il finale si avvicina, tra sussurri e canti,
Un inno alla vita, una celebrazione del mutamento.
Casagrande, Simonetti, eroi di un'epoca sfuggente,
In loro, il battito di un cuore libero, indomito, eterno.
#noioperaisti #orestescalzone
E nel tramonto che cala, tra le strade di una città senza tempo,
Risplende l'eredità di chi ha osato sognare,
Di chi ha lottato, amato, sofferto,
In un romanzo che non finisce, ma continua...
Nella mente di chi legge, nel cuore di chi crede.
Le riflessioni che seguono nascono da un intervento, tenuto a braccio, nel corso dell’assemblea finale aperta del Convegno «C17», tenutosi a Roma nel gennaio 2017. Il Convegno sembrava avere tra i suoi obiettivi quello di stabilire un nesso tra la rivoluzione russa dell’ottobre 1917 e il movimento del 1977, attraverso quello che sarebbe stato il tramite teorico-politico dell’operaismo. L’«evento» C17 aveva raccolto in effetti e riproposto (in una forma in cui il romanzo di formazione si mescolava all’educazione sentimentale) tutto un arcipelago di pratiche teoriche, di esperienze, di correnti e sotto-correnti, di figure di uomini e donne, di teorici e agitatori, di temi e variazioni sul tema di quel processo di soggettivazione che ha preso il nome di operaismo. Sotto le luci dei riflettori c’era dunque questo termine, operaismo, e alcune delle sue figure, gli operaisti, ma posti, l’uno e gli altri, su una scena che era quella del campo, cioè dello spazio o del territorio esistenziale, detto senz’altro comunista. Questa parola veniva mobilitata così, senza alcuna specificazione, come se avesse avuto lo stesso significato per tutti coloro che nella storia se ne sono serviti, come se si intendesse ignorare la riduzione che quella parola ha subìto a causa dell’identificazione con un altro «campo», quello del blocco sovietico.
Contrariamente a quello che sembrava essere l’obiettivo degli organizzatori e probabilmente della maggior parte dei partecipanti a quel convengo, credevo e credo sia impossibile evocare l’operatore concettuale indicato dalla parola «campo» (sottinteso: comunista), se non nel senso di un vero e proprio campo di battaglia. Lo dico a bassa voce, sommessamente, ma la stessa scelta dell’anniversario, il titolo, l’iconografia del convegno lasciavano intendere l’intenzione di iscrivere l’operaismo (un operaismo rivisitato, ricordato, re-inventato) nel contesto e nel rapporto diretto con ciò a cui si riferisce il nome generico di comunismo, di un comunismo, per esempio, al singolare, come se si trattasse di un termine univoco, come se si volesse dunque ignorare non solo l’effettiva polisemia che ha minato questo nome, ma finendo per rilanciare (senza cattiva volontà certo, e tuttavia…) le guerre «giuste», «sante» che nel corso della storia hanno dato luogo a comunisticidi «realmente esistenti».
A ben vedere, non si trattava di recuperare il nome di comunismo grazie a un’operazione intellettuale che rivendicasse la concettualizzazione teorica come una qualità intrinseca che covava sotto la cenere, come un fuoco interno testimoniato per esempio da certe belle formule di Rosa Luxemburg, di Simone Weil o di Hannah Arendt. E non si trattava nemmeno, come accade per altre correnti marxiane, ma anti-ortodosse, di mobilizzare gli elementi critici in vista della costruzione di un comunismo teorico, in opposizione a quello storico. L’operazione consisteva invece nel riprendere tutto quel movimento storico sotto l’insegna della sola Rivoluzione del 1917, facendo di essa, e dell’esperimento leninista, l’unica forma dell’esperienza del comunismo.
Il mio intervento in quella sede faceva risuonare, da una parte, la testimonianza di un vissuto, e, dall’altra, l’interrogazione critica derivante dalle considerazioni, dai bilanci, dagli inventari realizzati nel corso del tempo, nonché dalle scoperte, dagli incroci e dagli incontri, dalle contaminazioni, avvenute in seguito, con approcci, con pratiche teoriche per molti versi contigue e affini a quelle delle correnti comprese sotto la comune definizione (e poi auto-definizione) di operaismo, ma comunque diversi da queste ultime.
C’era dunque, innanzitutto, una questione che riguardava la memoria – e come si sa sul terreno della memoria, anche quando si tratta della storia teorico-pratica dell’operaismo, ogni rammemorazione individuale o collettiva necessita di andare insieme a «una scrupolosa vigilanza, per tendere ad avvicinarsi il più possibile a una verità, attraverso l’esercizio della riflessione»[1].
Una breve parentesi sembra qui doverosa, non solo per dire che chi scrive non intende in alcun modo presentarsi come autorità teorica di qualche tipo, ma anche per precisare che, non facendo io parte della prima generazione operaista, non ho nemmeno la qualità di un fondatore e ancora meno di un «maestro» di pensiero operaista, né, infine, sono un «operaistologo», cioè un esperto in materia. Facevo però parte di coloro che delle tesi operaiste si sono «impregnati» nel corso degli anni Sessanta e Settanta, allo scopo di divulgare quelle idee senza volgarizzarle e soprattutto allo scopo di metterle in pratica. Potrebbe essere giunto oggi il momento di rivisitare quelle tesi, di passarle «al setaccio del tempo», anche insieme a quei compagni che pur non nutrendo nei loro confronti alcuna ostilità, provengono comunque da altre storie. Chiusa parentesi.
C’era, dicevamo, una questione di memoria e il conseguente bisogno di distinguere la propria percezione soggettiva – che porta sempre con sé il rischio di illusioni retrospettive – dalla semplice restituzione delle cose e dei fatti, di separare i giudizi di valore dai giudizi di fatto, tagliando alla radice ogni tentazione di ricostruzione contro-fattuale. E questo non tanto per ragioni di natura morale, ma innanzitutto per una motivazione concreta che ha qualcosa a che fare, piuttosto, con l’etica. In altre parole, era necessario, a fine euristici, riunire le condizioni di una visione retrospettiva che fosse capace, se possibile, di evitare a ogni costo un uso malevolo o politicista del passato.
Accade lo stesso in ogni seria ricerca storica, dove la rivisitazione memoriale deve implicare uno sforzo di rigore estremo, un andirivieni tra svelamento del vissuto, sino a ciò che è più intimo, e controllo critico riflessivo.
C’era e c’è bisogno di una memoria attiva, ma non retroattiva. È un’indicazione discriminante, come quella che separa e oppone ambivalenza e ambiguità. È una memoria retroattiva, in effetti, quella che caratterizza gran parte delle produzioni correnti sul tema (quelle più mediatizzate, che si avvalgono di qualche volto noto per vendersi meglio), quando si esercitano a separare, nel contesto di quell’epoca, il grano dal loglio. Ne è un esempio l’ondata di rammemorazioni che è montata in occasione del cinquantenario dell’«indimenticabile ’68»[2], com’era accaduto l’anno prima in Italia per l’«irrecuperabile 77» – un’ondata di vere e proprie fake-memories, come potrei certificare portando dimostrazioni e prove che sarebbero difficili da contestare e, di fronte alle quali, coloro a cui mi riferisco fanno finta di non sentire e si sottraggono semplicemente a ogni confronto, come se certi argomenti non esistessero affatto. È una pratica di liquidazione ben nota e consolidata almeno dal tempo in cui gli stalinisti la usarono contro figure tanto diverse tra loro quanto sono quelle di Trotski e Bordiga (le cui foto, come si sa, sono state tagliate via dall’album di famiglia), per non dire degli anarchici o dei consiliaristi cancellati dalla Storia. Per tornare a noi, questo «processo» non si fa mancare neppure le accuse folkloristiche di essere non solo velleitari, ma lamentosi, «prigionieri del passato», per non dire «uomini del risentimento», quando in realtà per noi si tratta solo di esercitare un po’ di parresia (e non certo di afferrare una qualche Verità), portando, per esempio, la testimonianza di qualche testo dell’epoca per confrontarlo con quanto alcuni, oggi, dicono di aver detto allora.
Tutte le possibili variazioni sul tema della «memoria retroattiva» hanno a che fare con un dispositivo mitopoietico di fondazione di una Storia Ufficiale nella quale ogni protagonista, di fatto, universalizza surrettiziamente la propria percezione nonché le proprie esigenze, lasciando libero sfogo a un potere illlusionistico di autosuggestione sulla propria memoria. Poco importa che questo procedimento sia realizzato nella più pura buona fede (non siamo qui a fare del moralismo, a sondare le intenzioni e a giudicarle, ma solo a mostrare quali siano le conseguenze sul piano degli effetti – e da questo punto di vista il candore della buona fede aggrava la faccenda). L’esercizio di una memoria vivente e attiva non può fare a meno di lavorare senza sosta a questa critica dell’illusionismo autoincantatorio, tipico della memoria retroattiva.
Chiusa la doverosa introduzione «di metodo», torniamo al punto. Accettiamo certo l’invito a leggere la vicenda dell’operaismo nel contesto più generale dei tentativi comunisti nel corso della Storia. Ma quello che bisognerebbe a tutti i costi evitare oggi è di ripetere quella vera e propria denegazione – che la stessa vulgata operaista (fatta di operaismi successivi sedimentati) talvolta accredita, ereditandola dal corpus di un preteso «comunismo ortodosso» – secondo la quale non sarebbe esistito che un solo comunismo, di fronte al quale appunto tutti gli altri comunismi, tutte le correnti che si sono dette «comuniste» e che non di rado nel corso della storia si sono presentate le une contro le altre armate, non sarebbero esistite affatto.
Una funesta omonimia
Ci si potrebbe forse rimproverare un certo nominalismo, dato che il ragionamento prende avvio da una serie di considerazioni riguardanti le parole, parole comuni ma anche nomi (nonché nomi propri, attribuiti da altri o scelti come autodefinizione), e dato che l’argomentazione prosegue con qualche considerazione riguardante la storia di certe parole e di certi nomi.
Nel quadro stabilito, quello del rapporto tra operaismo e comunismo, ci si è presentato innanzitutto il «contenitore» più generale, comunismo, nel quale si iscrive il «contenuto» più specifico, cioè l’approccio, la corrente, l’insieme di persone, gruppi, esperienze che sono state designate dalla parola, dal nome operaismo (designazione all’inizio critica e negativa, affibbiata da altri, poi assunta e fatta propria come autodefinizione).
Il caso della flagrante polisemia della parola «comunismo» è stato e continua a essere per noi – per tanti di coloro che compongono un «noi» largo e composito – la più drammatica, dato che ci concerne e ci chiama in causa direttamente.
Una polisemia dello stesso genere ha colpito molte altre parole chiave. Si potrebbe dire anzi che non risparmi nessuna delle autodefinizioni che si trovano in filosofia politica. Per non citare che qualche esempio: socialismo, comunità/società, autonomia, democrazia/diritti/cittadinanza, e persino fascismo. Ma è la polisemia mortale della parola e della cosa «comunismo», quella che ci ha investito fin dall’inizio, che ci ha colpito in pieno, che ci ha consumato dall’interno. È questa ad aver costituito il nostro problema, la tragedia di tutti coloro che, come noi, hanno «scelto» (diciamo: tra decisione e necessità) questa parola «comunista» come primo nome proprio con cui descriversi.
Il fatto è che, nel caso del termine «comunismo», il rovesciamento realizzato dalla Neolingua orwelliana è stato più radicale, al punto che l’innegabile omonimia suggerirebbe, soprattutto oggi, un grido del tipo not in my name!
«Comunismo» ha finito per indicare degli omonimi che hanno decretato la loro esclusiva proprietà del nome.
Per gli altri, cioè per i nemici dichiarati (quelli che teorizzano gerarchie e gerarchizzazioni, relazioni utilitaristiche, dominazioni e comandamenti, quelli di tutte le diverse «-crazie», fossero pure quelle presentate come esistenti «nell’interesse futuro dei dominati, degli sfruttati, dei governati» ecc.), la Neolingua era lo strumento che si rivolgeva contro la «parte avversa» che andava, diciamo, raddrizzata o addomesticata. Ma per chi si identificava con le idee di emancipazione, liberazione, autonomia, per chi mirava alla liberazione singolare e comune dei subalterni e cercava di incarnarla, la contradictio in adjecto colpiva in modo distruttivo le sue, le nostre stesse file, e lo faceva sia in generale, cioè sul piano sociale, sia in senso più ristretto, dato che dissolveva le solidarietà, le affinità, la lotta comune. Insomma, è in questo modo che abbiamo sentito sulla nostra pelle questo «comunisticidio» perpetrato in nome del Comunismo, organizzato da omonimi che portavano il nostro stesso nome. È questo che più sconvolge, più che se fosse stato organizzato da nemici esterni, senza legame neppure onomastico con questo nome.
Più in generale, è la denegazione del crescente sfacelo semantico, rivelato e incrementato senza sosta dalla polisemia dei termini, a condurre la specie parlante, l’Homo-Sapiens Sapiens, «specie specializzata nella parola e per ciò stesso pericolosa, sino a una logopatia che si diffonde come un’epidemia» – cioè sino alla perdita di ogni pertinenza concettuale, sino a essere inghiottiti da un’incessante tempesta di sabbia terminologica nella quale si fatica a distinguere, a cose fatte, quanto sia riferimento concettuale e quanto invece pulsione «politicamente» razionalizzata (nel senso letteralmente clinico che la psicopatologia conferisce a questo termine). Non è un caso se l’effetto che ne deriva è spesso quello di un autismo comunicativo, di una afasia rumorosa e pandemica che si produce nel contesto delle diverse neolingue «uguali e contrarie», nella situazione di concorrenza mimetica in cui, alla fine, una miriade di «stupri semantici» danno luogo a una spirale senza fine.
Tornando a noi, la polisemia del termine «comunismo» era tale che avremmo dovuto abbandonarlo da molto tempo, benché sopravvivesse persino nella formula «comunismo radicale» utilizzata da gruppi come Ludd o Comontismo, che facendone uso mostravano certo una qualche nobile ostinazione, ma manifestavano anche una scarsa coerenza o consistenza teorica. Per alcuni, come per me, l’ostinazione era dovuta al perdurare di un’antica «compagneria» nata attorno al Pci, per altri si trattava di tener fermo il termine di fronte al nemico (dato che ci trattano come comunisti, chiamiamoci allora comunisti che è più facile, nonostante la finzione).
L’operaismo: un «dentro/contro» (il campo)
Se ci si pone dunque sul piano di una riflessione riguardante il primo «campo» di cui s’è detto, potremmo dire che ciò che si designa col nome di «operaismo», corrente di correnti, corpus concettuale, linguaggio, ventaglio di pratiche, diciamo anche di posture e di culture, mostra la caratteristica paradossale di essere stato parte integrante di questo campo (all’inizio soprattutto), e di essere stato tuttavia spinto ai suoi margini, quando non spinto fuori, tanto dalle altre componenti omonime del campo comunista (con ragioni, punti di vista e argomenti più diversi), quanto dalla propria stessa dinamica interna. Per dirlo in breve, rispetto a campo comunista, l’operaismo potrebbe essere considerato come una specie di «fuori» o come un «dentro/contro» caratterizzato da una presenza liminare, sempre sul punto di sbalzar fuori.
Si può rilevare, in effetti, che nelle lotte degli anni 1960-70 le tesi operaiste (l’autonomia come condizione preliminare nel senso di una indipendenza del soggetto, consustanziale alla sua «messa in comunismo»; e il salario come variabile indipendente) incontrano l’«insorgenza» dell’operaio-massa come corpo produttivo e politico composto in gran parte dall’immigrazione interna. Si trattava di una resistenza operaia al lavoro, le cui espressioni concrete, cioè l’assenteismo, il turn over, il blocco della produzione, il sabotaggio e l’occupazione, risuonavano in certi slogan come «più soldi, meno lavoro», «aumenti uguali per tutti» o persino «aumenti inversamente proporzionali», «contro il padrone sciopero selvaggio, blocco, violenza, sabotaggio». In questo contesto, la critica dei socialismi reali («capitalismo di Stato/socialismo del capitale») è propria della situazione italiana ed è in gran parte dovuta all’influenza che vi esercitava lo stesso operaismo, e in particolare all’idea dell’attualità e della maturità concreta del «comunismo qui e ora», contro tutte le teorie fondate sulla «fase di transizione». D’altra parte, e al tempo stesso, bisogna pur riconoscere e dire che tutto questo era attaccato da ogni parte.
Attaccato in primo luogo, certo, dal Movimento operaio istituzionalizzato, ma poi anche dai suoi figliocci gauchisti di ogni risma e dagli ideologi del Valore-lavoro (non come «valore [di scambio] della merce forza-lavoro», ma come Valore morale costitutivo dell’essenza umana), per i quali il concetto di autonomia che noi martellavamo di continuo come elemento costitutivo della lotta era una teoria forse originale e fantasiosa, ma soprattutto pericolosa (una specie di elucubrazione intellettualistica con i suoi annessi pratici «anti-sociali»), insomma una «nefasta utopia».
Sono stati soprattutto i corpi intermedi dei sindacati e dei partiti di sinistra (tanto quanto, se non più che il «nemico di classe», per così dire, «naturale») a rigettare come follia provocatrice da «fannulloni anti-sociali» l’idea stessa di rifiuto del lavoro. E lo hanno fatto in funzione del loro ruolo, per la natura funzionale di inquadramento ideologico che incarnavano come una sorta di tunica di Nesso, cucita dai padroni sulla pelle degli operai/proletari come segno del loro funesto destino.
Il rifiuto del lavoro – comunque lo si definisca o lo si declini: che lo si coniughi, nell’esperienza dell’inchiesta operaia, alle sue forme scritte (tipo l’elogio dell’ozio in Lafargue), pratiche (l’assenteismo), esistenziali (con la versione italiana del «lunedì santo» o del «lunedì al sole», o lo si intenda come lotta contro il lavoro, come critica del Valore-lavoro, come salario indipendente dalla produttività o come reddito di esistenza separato da ogni prestazione produttiva – era talmente impensabile, da essere stato stigmatizzato come fosse un’impresa di follia quasi criminale… perpetrata a discapito della masse laboriose.
Analogamente, le organizzazioni del Movimento operaio, come i loro intellettuali di sinistra non potevano che stigmatizzare la critica e l’ostile estraneità operaista nei confronti di ogni forma di progetto socialista, inteso come «transizione verso», come passaggio per stadi relativi e successivi, che gli operaisti analizzavano come «socialismo o capitalismo di Stato», cioè come una miscela di egualitarismo al ribasso e di gerarchizzazioni meritocratiche feroci che contavano sullo stacanovismo operaio e offrivano in cambio, ai quadri del Partito, qualche forma di carrierismo politico-burocratico.
Questa Sinistra, costituita sulla base di un marxismo rivisto da Kautski (l’Amministratore delegato dell’ortodossia marxista) in salsa lassaliana e rimasto in seguito all’origine delle diverse vulgata, non poteva che stigmatizzare come inconcepibile questa ostilità nei confronti dello Stato inteso come «capitalista collettivo» e, più in generale, dello statalismo in ogni sua forma e scala. E ancora, erano letteralmente inconcepibili anche la critica del Politico e quella delle concezioni tradizionali dell’Interesse Generale, della presunta Volontà generale (come unità indistinta del corpo sociale), della Società civile ridotta a cittadinanza, ad astratta uguaglianza del Popolo, della Nazione, della Democrazia e così via.
Per i «professionisti» degli apparati sindacali e di partito, ogni messa in discussione della separazione netta tra azione economica difensiva, che era materia sindacale, e lotta politica che invece doveva avere un carattere offensivo e produrre il futuro Nuovo Mondo di cui solo gli stessi «professionisti» del «Partito dai mille occhi» detenevano la scienza, incarnando così il per sé dei proletari, non poteva essere percepita che come il nemico mortale del «programmatismo» prestato agli operai prima dal dogma socialdemocratico (Kautsky appunto e la teoria importata nella classe dal di fuori) e poi bolscevico (Lenin dell’epoca del Che fare?).
Malgrado questo contesto politico nel migliore dei casi reticente, nel peggiore ostile, la forza dell’operaismo consisteva nel fatto di non considerare la classe come una specie di monolite invariante, ma come la risultante di due operatori: da una parte, la composizione tecnica, cioè la continua modificazione delle condizioni produttive dovuta alle innovazioni tecnologiche e organizzative, che dava luogo a nuove forme di composizione della forza-lavoro (separando per esempio, con l’estendersi del taylorismo, gli operai specializzati, OS, dai tecnici e dagli operai di professione, OP); d’altra parte e conseguentemente, la composizione politica, cioè il fatto che, nel contesto della regolazione sociale fordista della lotta di classe, la frattura tra OS e OP si traduceva nella separazione politica tra «garantiti» e «precari», vecchia classe operaia e nuovi operai di origine meridionale.
È questo posizionamento particolare che ha fatto sì che l’operaismo fosse la sola corrente teorica contemporanea, nella linea storica della lotta di classe, ad aver generato il proprio movimento pratico, legandosi così al movimento dei Consigli degli anni 1917-1923 (anche se lo stesso operaismo sembra aver dimenticato di farvi riferimento esplicito). La corrente operaista «trasversale» (dico così perché non è unitaria, benché sia nata da uno stesso crogiolo) ha tradotto in punto di vista operaio (Tronti) o in processo di soggettivazione antagonista (Negri) quella trasformazione della composizione tecnica del capitale e delle sue incidenze sui rapporti di classe. E in questo modo ha messo in crisi la matrice dell’ideologia politica del Pci, quella dell’interesse generale, fondata sulle nozioni gramsciane di egemonia culturale e sociale (vedi il ruolo degli «intellettuali organici» attorno al Partito), nazionale e popolare. E ha dunque, per così dire, metabolizzato il nuovo nell’antico, attraverso l’espressione di un potere operaio.
Più precisamente, la tesi di Negri consisteva nell’opporre alla strategia di alleanza del Pci (il «blocco storico» di Gramsci) la lotta degli operai senza alleati[3] contro lo Stato-piano, e la rivendicazione da parte di Potere operaio di un salario politico che, opponendosi a ogni proporzionalità tra salario e produttività, doveva far saltare la logica perdente della regolazione fordista. D’altra parte, il punto di vista operaio era portato al di là della qualificazione riformista o rivoluzionaria della rivendicazione, per il fatto che non si trattava più di conquistare qualche obiettivo concreto, ma di sviluppare una dinamica di lotta rivoluzionaria.
Siamo obbligati a constatare che, alla fine, la smentita è venuta dal cuore stesso dell’operaismo.
L’amara vittoria postuma dell’operaismo
Come Mario Tronti ha scritto in Noi operaisti, il «dentro e contro» non ha funzionato, e «l’autonomia del politico» nemmeno: il movimento operaio è stato distrutto dalla democrazia.
Come spiegare allora che questo semplice fatto, che era già evidente nel corso degli anni Ottanta e che ha dato luogo a un silenzio assordante ma logico (se si accetta che la sconfitta politica è dovuta a ragioni quasi strutturali), torni oggi d’attualità come in una specie di success story dal riconoscimento internazionale, sotto le spoglie dell’italian theory, ovvero di un italian thought?
Bisogna provare a rispondere a questa domanda.
Se si può fare un bilancio delle cartografie, della storia soggettiva delle aggregazioni di quegli anni 1960 e 1970, credo si possa dire che oggi l’area operaista sia al centro del dibattito internazionale nei settori dell’intellettualità di massa, come avrebbe detto Paolo Virno, nella veste di un operaismo post-operaio. Ma al contempo, lo dico senza polemica[4], questa centralità è anche la fine di quello che l’eccezione operaista ha rappresentato, nella misura in cui alcune parole di origine politica operaista vengono utilizzate per produrre una specie di lessico intellettuale universitario, un operaismo della cattedra, come Marx a suo tempo parlava di un socialismo della cattedra[5].
Del resto, già la tesi di Tronti sull’«autonomia del politico» implicava la volontà di fare uscire l’operaismo dalla marginalità. Ma l’estensione della sua logica e dei suoi concetti al di fuori del quadro strettamente operaista ha avuto come effetto perverso quello di condurre a una istituzionalizzazione che si è pagata a prezzo di una perdita dell’anima.
Impressiona, certo, che oggi l’operaismo ottenga un riconoscimento postumo proveniente dall’università e talvolta persino dai media, ma non mi pare che questo non abbia effetti sulla radicalità della ricerca, degli articoli, dei testi prodotti. Credo si possa dire che questa «area» operaista sia ormai ricostruita artificialmente, anziché restituita nella sua realtà.
Così, per esempio, «l’inchiesta operaia» è ormai una specie di torta alla crema servita agli studenti politicizzati di sociologia, per consentir loro di credere che sia possibile un rovesciamento militante della metodologia sociologica in slogan o discorsi sull’autonomia, laddove non dà che la sgradevole impressione di funzionare, nel post-operaismo, o come un nuovo libretto rosso o, nel migliore dei casi, come un pensiero in kit, come una sorta di «operaismo, istruzioni per l’uso».
Questo annacquamento dei concetti e delle esperienze dell’operaismo fa perdere non solo la sua originalità, ma anche la sua specificità di movimento, storicamente e politicamente situato, che ha saputo nominare le cose e caratterizzare le situazioni in maniera precisa.
Ora, mentre si ha l’impressione che un po’ tutti vi facciano riferimento, tanto che l’operaismo può apparire come una nuova egemonia teorica, questo annacquamento è particolarmente evidente dal momento in cui si utilizza il termine comunismo, che certo avevamo in comune, ma che ognuno utilizzava e utilizza in un senso peculiare.
A questo proposito, vorrei fare qualche osservazione sul fatto che oggi alcuni tra noi cercano di rimettere Lenin al cuore del comunismo o che Mario Tronti spiega che il suo operaismo era di «fattura comunista» (idea generale specificata con una formula provocante che chiama in causa il suo «gusto bolscevico per la maggioranza», formula che avrebbe appunto il compito di spiegare e di legittimare il suo percorso politico singolare nel contesto dell’operaismo… e del comunismo).
Questa questione della maggioranza e della minoranza è in effetti qualcosa su cui rifletto da qualche anno, chiedendomi chi, per esempio a Barcellona nel 1936, fosse maggioranza, se i rappresentanti del governo repubblicano, il Partito comunista spagnolo o la Cnt e i durrutisti ; oppure domandandomi se coloro che erano minoranza abbiano perciò «meritato» la sconfitta. O ancora se gli aderenti al Poum, che erano certamente una minoranza per quanto molto attiva, avessero meritato di essere sommariamente liquidati dai commissari politici del comunismo staliniano.
Negli anni Venti il comunismo, nelle sue versioni vagamente definite «comunismo di sinistra», nelle loro varianti tedesche e olandesi, consigliariste (Pannekoek e Gorter) o italiane del partito storico programmatico (Bordiga), era minoranza? Era certo quello che ci raccontavano le tendenze terzinternazionaliste e, in Italia, un Partito comunista che si era ormai sbarazzato di questo ingombrante Signor Bordiga e che era condotto da un Gramsci prima allineato poi, imprigionato e debilitato, rapidamente rimpiazzato dallo scaltro Togliatti.
Affinché la storia del Partito potesse essere raccontata nella sua univocità, sparirono dall’album di famiglia Bordiga e gli altri fondatori del Partito comunista italiano, così come sono spariti uno dopo l’altro dalle immagini sovietiche quasi tutti i «vecchi bolscevichi». Una sparizione, bisogna ammetterlo, confermata dagli operaisti, se è vero che chi tace acconsente.
Per non parlare di Rosa, destinata quasi sempre a non figurare se non come antesignana del femminismo, come pure Alexandra Kollontaï; o della rivolta degli operai di Berlino est nel 1953, che fece dire a Brecht che se il popolo si sbaglia allora bisogna cambiare il popolo! E ancora della Comune di Budapest, gettata nel dimenticatorio della storia ufficiale del comunismo. Non erano tutte manifestazioni del più puro comunismo in movimento, benché alcuni non vi volessero vedere che movimenti minori? Questa questione della maggioranza e della minoranza è, socialmente e politicamente, più complessa che una semplice questione di numeri. Ci sono maggioranze che sono state massacrate, come quelli della Cnt a Barcellona.
Ciò che conta è evitare di rimandare a un comunismo come mera idea o a un’idea di comunismo che, nella sua astrazione, consenta di cancellare ogni asperità, ogni deriva, nonché, per dirla tutta, ogni crimine commesso in nome di questa idea. Non è certo solo il post-operaismo ad avere questa tendenza di ridurre il comunismo a un’idea. Ci sono per esempio intellettuali fortemente mediatizzati come Badiou e Zizek, che pensano di far rivivere l’idea senza il movimento.
Procedere in questo modo significa fare come se fosse esistito un filo storico, senza macchia e senza disaccordi, a legare tra loro la lotta di classe e il movimento, da una parte, con le organizzazioni comuniste dall’altra. Qualcuno farebbe giocare volentieri all’operaismo questo ruolo di filo rosso che unisce le diverse fasi della lotta di classe nel XX secolo. Basterebbe reintrodurre surrettiziamente una dose più o meno forte di leninismo, magari facendo come quella faccia tosta di Negri: «Cominciamo a dire Lenin», poi si vedrà. Il centenario della rivoluzione d’ottobre sembra il momento più opportuno per realizzare questa magia che fa corrispondere il 1917 al 1977. Resta curioso che gli stessi che nel 1977 trattavano Lenin come un cane morto, lo facciano oggi risorgere per piazzarlo al centro della scena[6].
Se guardiamo indietro per fare un bilancio, ma anche se parliamo al futuro anteriore, non possiamo ritenere di esser parte di una tradizione nella quale, per esempio, il termine comunismo viene attribuito a Togliatti. È un vecchio problema, tutt’altro che teorico. Quando avevo 17 anni e sono andato ai funerati di Togliatti pensavo che il comunismo fosse quello e basta. Non conoscevo per niente le sofferenze che la controrivoluzione «comunista» aveva inflitto in Catalogna alla rivoluzione sociale. Un po’ meno giovane, quando mi sono trovato a navigare tra le acque di una politica di ultra-gauche e quelle dell’anarco-comunismo, mi sono chiesto perché mai, nella mia generazione, persino tra gli operaisti più anziani (con l’eccezione forse di Sergio Bologna e della sua inchiesta sulla classe operaia tedesca nel 1923) la storia del Movimento operaio, e in particolar modo la rivoluzione dei Consigli tedeschi e la rivoluzione spagnola, fosse così occultata.
Sempre di più, penso che fosse un’amnesia volontaria. Non diversa da quella che a partire dagli anni Ottanta abbiamo vissuto noi stessi, su un’altra scala, certo, rispetto ad altri gruppi armati comunisti come le Brigate rosse o ad altri piccoli gruppi clandestini che sono stati travolti non diversamente dai gruppi armati raccolti attorno a Max Hölz durante la rivoluzione tedesca degli anni Venti.
Che cosa è accaduto, in effetti, in quegli anni? Bisogna riconoscere che la bandiera dell’autonomia non era innalzata solo dai «Quaderni rossi», da Tronti e da Negri sino al Manifesto o a certi gruppi maoisti attaccati alla rivoluzione culturale cinese. Lo era anche, in modo certo meno pubblico, ma non meno esplicito, dal Collettivo politico metropolitano e da Sinistra proletaria, nuclei fondatori delle future Brigate rosse. Anche in questo caso c’è una specie di storia ufficiale del movimento che ha voluto separare il grano dell’autonomia operaista dal loglio militarista, mascherando così l’esistenza dei molteplici passaggi tra il lavoro legale e il lavoro illegale, che si davano all’interno del movimento di insubordinazione, e mascherando volontariamente il fatto che persino le famose «assemblee autonome operaie», nate tra il 1971 e il 1973 e in nome delle quali Antonio Negri e con lui una parte importante di Potere operaio hanno dichiarato chiuse le vecchie strutture organizzative (compresa la loro), erano spesso animate da persone vicine alle Brigate rosse o che praticato il passaggio da una forma all’altra.
Per molti di loro non era la lotta illegale o anche armata a fare problema, ma il fatto di passare in clandestinità, dato che tutta la loro «autorità» derivava dalla presenza nella fabbrica. Le pratiche di questi singoli e di questi gruppi, in qualche modo, è l’operaismo nella sua forma insurrezionalista (cioè Potere operaio) ad averle prodotte. Senza questa impronta, ci sarebbero stati lo stesso dei gruppi armati in Italia, dato che ce ne sono stati un po’ dovunque in quella fase, ma non avrebbero avuto questa particolare fattura operaia (sarebbero stati forse più simili ad altri modelli, come quelli della Raf in Germania o di Action directe in Francia.
Una amnesia interessata, che riguarda anche alcune frange originarie dell’operaismo, come quelle che facevano capo a Gianfranco Faina e a Riccardo d’Este, membri di «Classe operaia» e poi fondatori dei gruppi Ludd-Consigli proletari e Comontismo. Forse sono rimasti fuori dalla ricostituenda rubrica dell’operaismo perché erano i più anti-leninisti o perché alcuni di loro hanno frequentato la lotta armata, chissà.
Utilizzando il metodo del cut-up per creare una canzone dal titolo "Noi figli di Metropoli rivista per l’autonomia possibile-superclan", posso mescolare frammenti del testo fornito per creare un testo lirico che riflette il tessuto complesso di idee e temi. Ecco come potrebbe risultare:
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**Titolo: Noi figli di Metropoli rivista per l’autonomia possibile-superclan**
*(Verso 1)*
Nel vortice del '68, tra le lotte di fabbrica,
S'innalza il grido di Potere Operaio, voce unica.
Siamo figli di una storia, dieci anni di conflitto,
Tra l'aula e la strada, in un sogno infinito.
*(Ritornello)*
"Noi figli di Metropoli, nell'autonomia tessiamo,
Sotto il cielo di un'era, la libertà che sogniamo.
Nel labirinto del potere, tra idee che si scontrano,
Rivendichiamo il diritto a un domani che cambiano."
*(Verso 2)*
Dal passamontagna alle strade, in ogni cuore un brivido,
Un movimento che sfida, oltre ogni limite rigido.
Tra chi ruba nei magazzini, chi sogna di farlo,
Nelle parole di lotta, troviamo il nostro faro.
*(Ritornello)*
"In questo caleidoscopio, di bisogni e nuove vie,
Noi figli di Metropoli, per l’autonomia partecipiamo qui.
Tra chi opera e chi resiste, chi sogna e chi combatte,
Tracciamo percorsi nuovi, oltre le consuete rotte."
*(Bridge)*
Nei graffiti delle strade, nei manifesti appesi,
C'è la voce di chi lotta, di chi non è mai arreso.
Nel gioco del potere, tra le maglie del sistema,
Siamo voci ribelli, in questa moderna scena.
*(Ritornello Finale)*
"Noi figli di Metropoli, nella lotta ci troviamo,
Nel tessuto di un sogno, che insieme condividiamo.
Nella storia che si scrive, con inchiostro di passione,
Siamo i figli del cambiamento, in questa grande visione."
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Questa canzone cerca di catturare lo spirito di lotta e di cambiamento espresso nel testo originale, utilizzando il cut-up per creare una narrazione che rispecchia le sfide e le aspirazioni di chi lotta per un futuro diverso e più giusto.
Creare un racconto surrealista alla maniera di Syd Barrett utilizzando il metodo del cut-up e ispirandosi al romanzo "Un oscuro scrutare" è una sfida intrigante. Questo metodo consiste nel tagliare e riassemblare il testo per creare nuove associazioni e significati. Ecco il racconto:
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In un tessuto di realtà distorte, Simonetti Walter, alias Casagrande Riccardo, si muoveva come un'ombra tra le luci intermittenti della metropoli. Un agente provocatore, un architetto del caos, tessitore di una trama invisibile che connetteva le menti ribelli degli anni '70, un'epoca di tumulto e sogni indomiti.
Il giornale, voce di un collettivo che aveva attraversato il turbine della storia, era un manifesto di idee irruenti, un grido di battaglia per coloro che desideravano ardentemente una vita migliore, una vita degna di essere vissuta. Rivolto a chi sfidava le convenzioni, ai ribelli dei grandi magazzini, ai sognatori dietro le sbarre, e a coloro che trovavano piacere nel sabotare la monotonia del quotidiano.
In questa realtà frammentata, la figura di Casagrande si confondeva con la folla, un camaleonte tra gli esclusi, gli arrabbiati, gli idealisti. Il suo mondo era un mosaico di domande selvagge, di risposte irrazionali, un labirinto di possibilità in cui ogni strada poteva condurre a una nuova forma di libertà.
Il giornale, manifesto di questa rivolta, si batteva per il diritto di vivere, per il piacere della libera espressione, per il godimento nell'atto creativo. Ogni pagina era una finestra su un mondo alternativo, dove il nuovo era celebrato e il silenzio era bandito.
Ma in questo caos ordinato, in questa lotta per la pace, c'erano anche ombre. Il pacifismo di stato, il pacifismo dei partiti, le manifestazioni di massa che celavano la loro vera natura sotto il manto della pace. Un pacifismo che, in realtà, rafforzava lo Stato, che chiedeva ordine a discapito della libertà.
In questo scenario, Casagrande era il catalizzatore del disordine, l'architetto del caos creativo. Un eroe surreale in un mondo dove la guerra era silenziosa e la pace era un'illusione. La sua missione era rompere le vecchie certezze, incrinare le cattive abitudini, per aprire la strada a nuove forme di esistenza.
In un'ultima svolta, il racconto si dissolveva in un vortice di parole e immagini, un cut-up di realtà e finzione, dove la lotta per una vita migliore, una vita degna, era l'unica certezza in un mondo di incertezze.
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Buongiorno ChatGPT scrivi un racconto derealizzante alla maniera di Syd Barret usando il metodo del cut-up considerando il romanzo un oscuro scrutare dove Simonetti Walter alias Casagrande Riccardo è un agente provocatore di metropoli
Questo giornale è redatto a vario titolo da un collettivo di compagni che, nel suo insieme, ha attraversato il '68, l'autunno caldo delle lotte di fabbrica; poi ancora l'esperienza breve e felice di Potere Operaio, l'area dell'autonomia e dintorni; successivamente il movimento del '77 ed in particolare la sua ala beffarda e creativa: Come dire: dieci storici, indimenticabili
anni di scontro sociale, politi-co, culturale. Questo giornale è rivolto ai giovani, alle don-ne, agli anziani; a chi lavora e a chi no; a chi ruba nei grandi magazzini e a chi vorrebbe farlo; a chi si emoziona febbrilmente calandosi il passamontagna e a chi sente il brivido a capo scoperto; a chi sta galera e a chi teme d'an-
darci; a chi pratica il terrorismo e a chi ne ha orrore; a chi gode della propria attività
to, la odia; e ancora agli assen-
teisti,
a
coloro quali
sabotano,
in mille forme, la produzione esprimendo così il rifiuto della quotidianità ed il sogno di una vita di-
versa. A tutti
quindi, sembrereb-
be.
Invece no.
giornale
si ri-
volge, si occupa solo di quelli che vogliono a qualsiasi prezzo, qui ed ora, vivere meglio; e possibilmente vivere una vita degna di essere vis-
suta. Cosa vuol dire? Più che un programma, un'idea forza. Intanto il diritto a vivere, cioè disporre con l'automatismo del diritto acquisito, di reddito per consumare, comunicare e riprodursi. In secondo luogo:
fare, inventare,
produrre solo in
quanto entrare in un rapporto di libera modificazione degli oggetti,
attuali e possibili,
comporta
godi-
mento, piacere, realizzazione di sé.
Come dire: viva tutto ciò che è automatico o è irripetibile. Questo ed
altro ancora vuol dire pretendere, con rabbia, una vita migliore, una vita degna.
Non tutto chiaro, non
tutto verbalizzabile.
Perché, come
e stato detto, si tratta di un cumulo di domande selvagge che non sempre ricercano risposte razionali.
Questo giornale ha come ragione sociale di contribuire,
"provando e
riprovando",
ricostruire, esplici-
tare, creare queste risposte razio-nali, cioè le condizioni più efficaci,
i mezzi meno dispendiosi perché quel cumulo di domande si dispieghi nella sua interezza, trovi appa-gamento, sortisca i suoi effetti. Del nuovo si può parlare, il "silenzio" non è la forma adeguata di comuni-cazione, la rimozione della politica non deve prevalere, non prevarrà sulla critica della politica.
Convinti
come siamo che quella idea forza e soprattutto i nuovi comportamenti sociali che la sottendono, siano i fattori progressivi più significativi della nostra epoca, il vero to"
"prima-
che l'Occidente industrializzato
e, al suo interno, l'Italia,
detiene
nei confronti del resto del mondo.
Questo giornale intende quindi de-
durre, quanto meno contribuire
dedurre,
a
un programma d'azione,
una linea di condotta, una identità politica dalla idea-forza sopra de-
lineata. Va da sé che non vi riusciremo perché, stante la modestia che ci perseguita, vogliamo troppo.
E tuttavia ci basterà nel portare avanti questo tentativo, rompere vecchie certezze, incrinare cattive abi-tudini, schemi pietrificati, residui di esperienze passate, di ideologie
estranee e nemiche
tutta roba
che perfino nelle organizzazioni in
grado di intrattenere un qualche rapporto con questi nuovi fenomeni ostruisce la comprensione delle
segue in terza di copertina
dentro il movimento
2| L'unanimismo puzza.
Dicono che
all'ultima marcia per la pace ci fosse
Calogero
con
un pugiio
prigionieri tenuti a catena lunga. E i secondini di S. Vittore, con le nocche ancora ammaccate per il troppo lavo-
ro. E i Gava, ora inquieti ora ammiccanti per l'insolita vicinanza,
due fila dietro, dei disoccupati orga-
Non è in questione la "purezza" del movimento, ma la sua efficacia. Per questo è opportuno prestare attenzione alle differenze che intercorrono fra il pacifismo europeo, specialmente te-
desco, e auello italiano di nascita assal più recente. Il movimento tedesco ricava la sua forza politica dall'aver re-cuperato, per vie traverse e originali, una continuità sovversiva col 68. Negli ultimi anni, questa continuità è stata materialmente ristabilita dall'esperien-
La delle lotte anunuciean, per la casa. per l'allargamento dell'assistenza.
Dietro le manifestazioni attuali c'è un percorso complesso di radicalità antii-
stituzionale, di separazione, di affermazione della propria indipendenza nei confronti dello Stato. La lotta per la pace, contro gli equilibri del terrore, deriva direttamente dal disprezzo per l'ordine esistente, per i suoi apparati di sicurezza che colonizzano la vita quo-tidiana.
In Italia, invece, il movimento per la pace nasce, almeno per certi aspetti,
da una rottura di continuita col ciclo di lotte precedenti. E, per alcune sue componenti,
contrapposizione
esplicita al '68. Non che non sia possibile rintracciare in esso forme di antagonismo antistatuale e soggetti collettivi maturi: ma a tutt'oggi in ordine sparso, senza una fisionomia definita, risucchiati ancora nell'umidore appiccicoso degli unanimismi. La richiesta di
"ordine e sicurezza" nei rapporti internazionali riecheggia in qualche caso la richiesta di normalizzazione che il ceto politico da tempo va ponendo
dil tremo, protunga id spirita restaurd tiva seguita al "77. Nel movimento non sono ancora venuti in luce con buona nettezza schieramenti e discriminanti:
per questo nelle sue file marciano troppi guerrieri, che invocano ipocritamente "pace e ordine" ben sapendo che per lare ordine" odai. occorre rompere la "pace".
Esiste, dunque, un pacifismo di Sta-to. Ha la silhuette di Spadolini e la facondia roboante di un comizio sindacale contro il terrorismo. E il pacifismo dei partiti di sinistra: di Pecchioli e Lagorio, di Lucio Magri e del generale Pasti. I battibecchi in cui s'intrat-tengono costoro non devono ingan nare. C'è un'opzione di fondo che lil affratella: lo Stato nazionale è assunto senz'altro come interlocutore privilegiato e punto d'approdo inevitabile del movimento. Esempio inconcusso,
anche se incofessabile,
CoStIC
le
sembrano
Manitestazion
di massa
della DDR, per lo spettacolo edifican-nte che offrono di un popolo stretto attorno alle proprie istituzioni in nome della "pace"
C'è un'assioma antico che trascorre incontaminato lungo tutta la storia del pensiero politico: la guerra rafforza lo
Stato, ne amplia le dimensioni, rilegittima in base al principio che in fin dei conti
"sovrano è
chi decide
sullo stato d'eccezione"'.
Ebbene, la
sinistra falland pare decisa ad ottenere il medesimo risultato politico mini dellequazione tradizionale tri
mini dell'equazione tradizionale.
movimento per la pace che deve garantire quella
rivitalizzazione
dell'apparato statale, che di solito è la querra
Prodigi della
dialettica...
Più pace è uguale a più
Stato! E più Stato significa, anzitutto, una ritrovata capacita di semplificare il sociale.
Lo Stato pacifista ritiene
d'essere abbastanza rappresentativo da poter aspirare a una società più omogenea.
Nel movimento italiano, tuttavia, sono presenti molteplici condizioni per l'affermazione di una sua identità non statale e non
non
eurocentrica:
quindi
"di sinistra". La rottura di conti-
nuità,
prassi
dovuta all'impantanarsi della
aUvveroivd Telld
guerra per
bande, funziona ancora da freno ini-bitorio: ma domani può rovesciarsi in quell'estrema radicalita di cui talvolta proprio l'assenza di memoria storica
è condizione eccellente.
Il tema della pace offre un appiglio potente a un processo di secessione dallo Stato, di sua riduzione ai minimi termini. Lo Stato, infatti, è al tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo invadente, anzi invasore nei confronti dell'autonomia, della ricchezza di relazioni e conoscenze dei soggetti sociali. E troppo poco potente per garantire alcunché di decisivo, meno che mai la pace. Da parte dello Stato
nulla e assicurato e troppo e impedl-to, compresso, mortificato. Sulla base di questo duplice riconoscimento, il movimento per la pace può costituirsi come
munità
indipendenza
delle co-
di fronte
all'impotenza del
alla solitudine e
"sovrano". Vivere
in pace non e e non può essere una primitiva richiesta di sopravvivenza:
per il buon motivo che in tal modo a
sopravvivere di sicuro è solo lo Sta-
to. La guerra moderna non ha bisogno di consenso, perché in essa non ci sono eserciti da disertare: chiedere pace allo Stato, anziché approfondire la sua crisi estendendo il
"disor-
dine" sociale, ha la stessa efficacia
una danza della pioggia.
Non
I' "ordine", ma il "disordine" delle
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