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giovedì, agosto 07, 2014

Herman Hesse IL RITORNO DI ZARATHUSTRA

IL RITORNO DI ZARATHUSTRA
Parole alla gioventù tedesca
Titolo originale:

ZARATHUSTRAS WIEDERKEHR. EIN WORT AN DIE DEUTSCHE


Traduzione di Italo Alighiero Chiusano
Prima edizione: Berlino 1919
Prima edizione italiana: Milano 1965

Quando, tra i giovani della capitale, si cominciò a sus-
surrare che Zarathustra era ricomparso e che lo si era
visto di qua e di là, per le vie e sulle piazze, alcuni si
misero alla sua ricerca. Erano giovani tornati dalla guerra
che, nella loro patria trasformata e sconvolta, vivevano
in un'ansia continua, poiché vedevano che stavano acca-
dendo grandi cose, ma il loro senso era oscuro e per molti
erano cose addirittura insensate. Tutti costoro, all'inizio
della giovinezza, avevano veduto in Zarathustra la loro
guida e il loro profeta, avevano letto col fervore della
gioventù ciò che è stato scritto su di lui, e ne avevano
discusso e meditato, nelle loro peregrinazioni sui monti e
per i campi, o nella loro camera, di notte, al lume della
lampada. E Zarathustra era stato sacro, per loro, come
per ciascuno di noi diventa sacra la voce che per prima
e più forte di ogni altra ci rivela il nostro io e il nostro
personale destino.

Quando questi giovani trovarono Zarathustra, egli era
in una larga strada, in mezzo unfolto viavai di gente,
appoggiato contro un muro e intento ad ascoltare un di-
scorso che un comiziante rivolgeva alla folla dall'alto di
una vettura. Zarathustra ascoltava, sorrideva e guardava
in faccia tutte quelle persone. Guardava quei volti come
un vecchio eremita guarda le onde del mare o le nuvole
del mattino. Vedeva la loro angoscia, vedeva la loro im-
pazienz e la loro smarrita e piagnucolosa trepidazione in-
fantile, vedeva anche il coraggio e l'odio negli occhi dei
risoluti e dei disperati, e non si stancava di guardare e,
al tempo stesso, di prestare ascolto al discorso dell'orato-
re. Ciò che lo fece riconoscere ai giovani fu il suo sorriso.
Egli non era né vecchio né giovane, non aveva l'aspetto
né di un maestro né di un soldato, sembrava solo un es-
sere umano: l'uomo, quasi fosse appena emerso dal buio
del divenire, il primo della sua specie

Ma è dal sorriso che lo riconobbero, dopo aver dubitato
alquanto se fosse o non fosse lui. Il suo sorriso era chiaro
ma non bonario; era ingenuo ma privo di benevolenza.
Era 11 sorriso di un guerriero, e più ancora il sorriso di
un vecchio che ha visto molte cose e che non crede più
al planto. Da questo lo riconobbero.

Quando il discorso fu terminato e la folla cominciò a
disperdersl vociando, i giovani si accostarono a Zarathu-
stra e lo salutarono con rispetto.

--Eccoti qui, maestro-- dissero balbettando -- final-
mente sel tornato, ora che il bisogno è maggiore. Benve-
nuto, Zarathustra! Tu ci dirai che cosa dobbiamo fare
sarai la nostra guida. Tu ci salverai da questo che è ii
plU grave di tutti I pericoli.

Sorridendo lui li invitò ad accompagnarlo e, mentre
camminavano, disse loro, che lo ascoltavano intenti: --
Sono di ottimo umore, amici miei. Sì, sono tornato, forse
per un giorno, forse per un'ora, e sto a guardarvi mentre
recltate la commedia. E sempre stato un divertimento per
me, assistere alla recita di una commedia. E l'attività in
CUI gli uomini sono più sinceri.

I glovani, a sentirlo, si guardarono l'un l'altro: secon-
do loro c'era troppa ironia, troppa allegreza, troppa di-
sinvoltura nelle parole di Zarathustra. Come poteva par-
lar di commedia, mentre il suo popolo si trovava in tanta
mlseria? Come poteva sorridere e divertirsi, quando la
sua patria era sconfitta e dissestata? Come poteva, tutto
questo, 11 popolo e il comiziante, la gravità dell'ora pre-
sente, la solennità e il rispetto di se stessi dimostrati da
quel giovani, come poteva tutto questo non essere altro
che un pascolo per i suoi occhi e i suoi orecchi, un mero
oggetto di sorridente osservazione? Non era il momento
questo, di plangere lacrime di sangue, di lanciar lamenti
e di strapparsi le vesti? E, soprattutto, non era tempo,
non era plU che tempo di agire? Di operare sul serio?
Dl dare un esempio? Di salvare il popolo e il paese dalla
slcura rovma?

-- Vedo -- disse Zarathustra, che sentiva i loro pen-
sieri prima ancora che uscissero dalle loro labbra -- che
non siete contenti di me, giovani amici. Me l'aspettavo,
eppure me ne stupisco. Quando ci si aspetta qualcosa del
genere, insieme all'attesa c'è sempre, in noi, anche 11 con-
trario: qualcosa, in noi, aspetta e qualcos'altro spera l'op-
posto. E quel che ora mi sta accadendo con voi, giovani
amici. Ma ditemi, non volevate parlare con Zarathustra?

-- Sì, lo volevamo--esclamarono tutti, bramosi.

Zarathustra, allora, sorrise e continuò: --E allora, miei
cari, parlate con Zarathustra, ascoltate Zarathustra! Colui
che vi sta dinanzi non è un oratore da comizio né un sol-
dato né un re né un generale: è Zarathustra, il vecchio
eremita e burlone, l'inventore dell'ultima risata, l'inven-
tore di tante ultime tristezze. Non è da me, amici, che
potrete imparare come si governino i popoli e si riparino
le sconfitte. Io non so insegnarvi come si comandmo I
greggi e come si plachino gli affamati. Non sono queste
le arti di Zarathustra. Non sono queste le cure di Zara-
thustra .

I giovani tacquero, e la delusione allungò le loro facce.
Continuarono a camminare accanto al profeta, costernati
e malcontenti, e per un bel po' non trovarono parole da
opporgli. Finalmente parlò uno di loro, il più giovane, e
mentre parlava i suoi occhi presero a scintillare e lo sguar-
do di Zarathustra si posava su di lui con compiacenza.

--Ebbene -- cominciò il più giovane dei giovani --
dicci allora quello che hai da dirci. Perché se sei solo ve-
nuto per ridere di noi e delle disgrazie di questo popolo,
noi abbiamo di meglio da fare che andarcene a spasso
con te e star a sentire le tue raffinatissime arguzie. Guar-
daci, Zarathustra: noi tutti, per quanto giovani, abbiamo
fatto la guerra e abbiamo visto in faccia la morte, e non
intendiamo più dedicarci ai giochi di parole e ai piace-
voli passatempi. Noi ti abbiamo venerato, maestro, e ti
abbiamo amato, ma più grande dell'amore per te è in noi
l'amore per noi stessi e il nostro popolo. E bene che tu
lo sappia.

Il viso di Zarathustra si rischiarò, sentendo parlare il
giovane a quel modo, ed egli lo guardò negli occhi adi-
rati con bontà, anzi con tenerezza.

-- Amico mio -- gli disse col suo miglior sorriso --
come fai bene a non accettare il vecchio Zarathustra sen-
za esame, a tastargli il polso e a stuzzcarlo nel punto
in cui lo credi vulnerabile! Quanto fai bene, mio caro, a
diffidar così ! Lo sai che hai detto una frase eccellente
una di quelle che Zarathustra sente così volentieri? Non
hai forse detto: « Noi amiamo noi stessi più di quantO
non amiamo Zarathustra"? Quanto mi piace questa sin-
cerità! Sei riuscito ad adescarlo, con codesta sincerità, que-
sto vecchio pesce inafferrabile, e tra poco penderò dalla
tua lenza!

Da una strada lontana, in quella, si udirono spari, gri-
da e il rumore di un combattimento: facevano uno stra-
no, assurdo effetto nel silenzio della sera. Nel vedere che
gll sguardi e i pensieri dei suoi giovani accompagnatori
correvano, come leprotti, in quella direzione, Zarathustra
cambiò tono di voce Parve, a un tratto, che la sua voce
vemsse di molto lontano, con lo stesso timbro che i gio-
vani avevano avvertito quando avevano avuto il loro pri-
mo incontro con lui: come una voce che non venga dagli
uomml, ma dagli astri o dagli dei, o, meglio ancora, come
la voce che ciascuno sente, in segreto, dentro di sé, nei
momenti in cui Dio è in lui.

Gli amici drizzrono gli orecchi e tornarono a Zara-
thustra con tutti i loro sensi e i loro pensieri, perché ora
rlconoscevano la voce che, un tempo, quasi scendesse dai
sacrl monti, aveva risuonato nella loro prima giovinezz
e che pareva la voce di un Dio ignoto.

--Ascoltatemi, figlioli -- disse Zarathustra, serio, e
sl rivolse in modo particolare al più giovane.--Se volete
udire uno squillo di campana, non percotete una latta. E
se volete suonare il flauto, non accostate le labbra a un
otre di vino. Mi capite, amici miei? Cercate di ricordare,
mlel carl, cercate di ricordare bene: Che cosa avete im-
parato, un tempo, in quelle ore di ebbrezza, dal vostro
Zarathustra? Che cosa? Forse una saggezza buona per la
bottega o per la strada o per il campo di battaglia? Vi
ho dato consigli per i re, vi ho mai parlato in chiave
regale o borghese o politica o mercantile? No, come ben
ricordate io parlavo da Zarathustra, parlavo il mio lin-
guaggio, mi spalancavo dinanzi a voi come uno specchio,
affinche VOI poteste vederci voi stessi. Avete mai « impa-
rato qualcosa » da me? Sono mai stato un maestro di
parole o di cose? Vedete, Zarathustra non è un maestro,
non lo si può interrogare, e imparare da lui, e farsi dar
da lui delle buone ricette, grandi e piccine, per i casi della
vita. Zarathustra è l'uomo, è l'io e il tu. Zarathustra è
l'uomo che andate cercando dentro voi stessi, quello sin-
cero e mai sedotto: come potrebbe farsi vostro seduttore~
Molte cose ha visto Zarathustra, molte ne ha patite, molti
ossi duri ha dovuto rodere, da molti serpenti è stato mor-
so. Ma una cosa sola ha imparato, una sola è la sua sag-
gezza, uno solo il suo orgoglio. Egli ha imparato ad essere
Zarathustra. Ed è questo che voi volete imparare da lul,
e per cui così spesso vi manca il coraggio. Dovete impa-
rare a essere voi stessi, così com'io ho imparato a essere
Zarathustra. Dovete disimparare ad essere altri, a non es-
sere nulla, a imitare le voci altrui e a credere che i VISI
altrui siano i vostri. E perciò, amici, quando Zarathustra
vi parla, non cercate, nelle sue parole, né saggezze né con-
sigli pratici né ricette né astuzie da cacciatore di ratti, ma
cercatevi lui stesso! Dalla pietra potete apprendere la du-
rezza e dall'uccello il canto. Da me potete imparare che
cosa sono l'uomo e il destino.

Così discorrendo, erano giunti ai margini della città,
dove passeggiarono insieme ancora a lungo, sotto gli al-
beri che stormivano nella sera. Molte cose gii chiesero i
giovani, spesso risero con lui, spesso si disperarono di
lui. Ma uno di loro ha trascritto e conservato per i suoi
amici ciò che Zarathustra disse loro quella sera, o almeno
una parte.

Ed ecco ciò ch'egli, ricordando Zarathustra e le sue pa-
role, ci ha tramandato:

Del destino

Così ci parlò Zarathustra:

C'è una cosa che dell'uomo fa un Dio, che gli ricorda
di essere Dio: il riconoscere il proprio destino.

Io sono Zarathustra in quanto ho riconosciuto il de-
Stino di Zarathustra, in quanto ho vissuto la sua vita.
Sono pochi a riconoscere il loro destino. Pochi a vivere
la propria vita. Imparate a vivere la vostra vita! Imparate
a riconoscere il vostro destino!

Voi gemete sul destino del vostro popolo. Ma un de-
stino di cui si geme non è ancora il nostro, è qualcosa di
estraneo e di ostile, è un dio alieno, un idolo malvagio
che ci bersaglia dal buio a colpi di destino, quasi con
frecce avvelenate.

Imparate che il destino non ci viene dagl'idoli, così
imparerete anche che non ci sono né idoli né dei! Come
il bimbo nel ventre della madre, così il destino cresce den-
tro il corpo di ogni essere umano, o, se volete, potete an-
che dire: nel suo spirito o nella sua anima. E lo stesso.

E come la donna è tutt'uno col suo bambino e lo ama
e non conosce nulla di meglio al mondo, così anche voi
dovete imparare ad amare il vostro destino e a non co-
noscere, ai mondo, nulla di meglio del vostro destino.
Dovrà essere il vostro Dio, poiché voi stessi dovreste es-
sere il vostro Dio.

Colui sul quale il destino giunge dall'esterno ne sarà
abbattuto, come la freccia abbatte la selvaggina. Colui
mvece, al quale il destino viene dall'interno, dal più in-
hmo di se stesso, ne resta rafforzato e trasmutato in Dio.
Il destino ha fatto di Zarathustra Zarathustra: che di te
faccla te stesso!

Chi ha riconosciuto il destino non tenterà mai di cam-
biarlo. Voler cambiare il destino è un vero sforzo da bam-
bim, che Cl porta ad accapigliarci e a massacrarci a vicen-
da. Voler cambiare il destino era lo sforzo e l'intento dei
vostrl Imperatori e generali, era ciò che perseguivate voi
stessl. Ma ora che il destino non siete riusciti a cambiarlo,
Vl sa di amaro e credete che sia veleno. Se non aveste cer-
cato di cambiarlo, se ne aveste fatto la vostra creatura e
fl vostro affetto, se l'aveste trasformato completamente in
voi stessi, quanto vi parrebbe mai dolce, adesso! Un de-
stmo passivamente subito, rimastoci estraneo, si converte
in ogni dolore, in ogni veleno, in ogni morte Ogni azione
invece, tutto ciò che la terra ha di buono, di lieto, di fe-
condo, è il destino quando è intimamente vissuto, quando
si è cambiato nel nostro io.

Prima della vostra lunga guerra eravate troppo ricchi
amici miei, troppo ricchi e grassi e ben pasciuti, voi e i
vostri padri, e quando avevate mal di pancia sarebbe sta-
to tempo, per voi, riconoscere in quel dolore il destino e
sentlrci la sua buona voce. Ma voi, figlioli, vi siete adi-
ratl, per quei dolori al ventre e siete andati a pensare che
a provocarli fossero la fame e l'indigenza. E allora avete
scatenato la guerra di conquista, per aver più spazio sul-
la terra e più cibo nel ventre. E ora che siete tornati in
patria e non avete conseguito ciò che volevate, ora vi la-
mentate di nuovo, sentite di nuovo una quantità di dolori
e di guai, e una volta ancora andate in cerca di quel cat-
tivone del nemico che vi ha mandato i vostri dolori e sie-
te pronti a sparargli, foss'anche vostro fratello.

Amici cari, non fareste bene a rientrare in voi stessi?
Non sarebbe bene che, almeno questa volta, trattaste i
vostri dolori con più rispetto, con animo più virile, smet-
tendola di temere e di frignare come tanti bambini? Non
potrebbero, quegli amari dolori, essere la voce del destino,
e convertirsi in dolcezza appena riconoscete quella voce?
Non potrebbe essere così?

Vi sento poi sempre lagnarvi ad alta voce, amici miei,
per gli odiosi dolori e il destino avverso che hanno col-
pito il vostro paese e il vostro popolo. Perdonate, giovani
amici, se anche su questi dolori sono un po' diffidente,
un poco lento e restio a prestarci fede! Tu e tu, e tu là
dietro, voi tutti, soffrite soltanto per il vostro popolo? Per
la vostra patria soltanto? Dov'è mai, questa patria, dov'è
la sua testa, il suo cuore, di dove volete incominciare a
curarla? Ma come! Ancora ieri era l'imperatore, era l'im-
pero universale ciò che vi faceva trepidare, di cui eravate
fieri, che consideravate sacro. Dov'è andato a finire, oggi,
tutto questo? Non dall'imperatore venivano quelle sof-
ferenze: le avreste ancora, se no? e sarebbero così ama-
re, adesso che l'imperatore non c'è più? Non era l'eser-
cito né la flotta, non era questa o quest'altra provincia,
questa o quella preda, ora ve ne rendete conto. Ma per-
ché, anche oggi, non appena soffrite, parlate subito della
patria e del popolo e di tante altre grandi e rispettabih
cose, di cui è così facile parlare e che spesso, all'improv-
viso, si dissolvono e non esistono più? Chi è il popolo? E
l'oratore o quelli che lo ascoltano, quelli che gli danno
ragiOne o quelli che gli sputano addosso e minacciano di
bastonarlo? Sentite quegli spari, laggiù? Dov'è il popolo,
fl vostro popolo? Da quale parte? E lul che spara o è
su lui che sparano? Sta attaccando o è attaccato?

Vedete, è difficile capirsi a vicenda e più ancora capir
se stessi, quando si usano parolone così grosse. Se voi,
tu e tu là dietro, state soffrendo, se non vi sentite bene
nel corpo o nell'anima, se provate angoscia, se presentite
un pericolo, perché non volete, foss'anche solo per diver-
timento e curiosita, per sana e buona curiosità, far la
prova di girar la domanda in altro modo? Perché non
volete cercare, una volta, se il dolore non fosse in voi
stessi? Ci fu un certo tempo in cui per un po' foste sicuri
e convinti che il vostro nemico e la fonte di ogni male
fossero i russi. Subito dopo furono i francesi, e poi gl'in-
glesi, e poi altri ancora, e ogni volta ne eravate convinti
e slcuri, e ogni volta era una trista commedia che andava
a finlr male. Ora che avete capito che i dolori dentro
di nol non ci guariscono dandone la colpa a un nemi-
co, perché, nemmeno adesso, vi decidete a ricercare i
vostn dolori dove sono veramente: cioè in voi stessi
Forse non è il popolo, che ti duole, e nemmeno la patria
o la potenza mondiale, e neppure la democrazia: forse
non sel che tu stesso, il tuo stomaco o il tuo fegato, un
tumore o un cancro dentro di te, e non è altro che paura
infantile di fronte alla verità e al medico, se fingi di es-
sere, personalmente, sano come un pesce, dicendo che pur-
troppo è il dolore del tuo popolo quello che tanto ti af-
fligge. Non potrebbe essere così? Non avete proprio nes-
suna curiosità, in questo senso? Non sarebbe, in fondo
un ottimo e allegro esercizio per ciascuno di voi, cercare
l'origine del proprio male e vedere dove è localizzato
e chi interessa?

Potrebbe risultare, allora, che un terzo e una metà, e
forse ben più della metà del tuo dolore è in effetti il tuo
personale, inalienabile dolore, e che faresti bene a far dei
bagni freddi o a bere meno vino, o a sottoporti a qualche
altra cura, invece di tastare e di curare continuamente la
tua patria. Potrebbe darsi, dico: e non sarebbe molto be-
ne se così fosse? Non ci sarebbe forse rimedio, in tal caso?
Non ci sarebbe speranza per l'avvenire? Non ci sarebbe
la possibilità di trasformare il dolore in beneficio e il ve-
leno in destino?

Ma a voi sembra egoistico e meschino piantar lì la
patria per curare se stessi. Ebbene, forse anche in questO
non avete poi tanta ragione come credete, amici miei!
Non vi pare che, in fondo, un paese al quale ogni amma-
lato non attribuisca i propri acciacchi, che ogni infermo
non si arroghi di voler curare, finisca per godere di mag-
gior salute e prosperità?

Ah~mè, giovani amici, quante mai cose avete imparate,
nella vostra breve esistenza! Siete stati in guerra, avete
visto cento volte in faccia la morte. Siete degli eroi. Siete
le colonne della patria. Vi chiedo una cosa sola: non ve
ne accontentate! Mirate più oltre! E ricordatevi, di tanto
in tanto, che bella cosa è l'onestà!

« Che dobbiamo fare? » mi chiedete e chiedete conti-
nuamente a voi stessi, e il « fare », per voi, vale molto,
vaie tutto. E questo è bene, amici miei, o almeno... sarebbe
bene, se voi sapeste sino in fondo che cos'è l'azione.

Ma vedete, già questa domanda: « Che cosa dobbiamo
fare? », già questa trepidante domanda infantile mi di-
mostra quanto poco ne sappiate!

Ciò che voi chiamate « fare », giovani amici, io, il vec-
chio eremita della montagna, lo chiamerei in tutt'altro
modo. Inventerei più di un nome grazioso, balzano, cari-
no, per codesto vostro « fare ». Non avrei bisogno di rl-
girarlo a lungo tra le dita, il vostro « fare », per trasfor-
marlo bellamente e spassosamente nel suo contrario. Poi-
ché, in effetti, è proprio il contrario! Il vostro « fare » è
l'opposto di ciò ch'io chiamo così.

L'azione, o amici: sentite questa sola parola, sentitela
bene, lavateci i vostri orecchi! L'azione non è mai stata
compiuta da chi prima chiedesse: « Che cosa debbo fa-
re? ». L'azione è la luce che s'irradia da un buon sole.
Se il sole non è un sole genuino, vero, dieci volte collau-
dato, se è un sole che si chiede, peritoso, che cosa debba
fare, non darà mai luce alcuna! L'azione non è agire,
l'azione non si escogita e non s'inventa. Ve lo dirò io
che cos'è l'azione. Ma prima, amici miei, permettetemi di
dirvi che cosa mi sembra che sia il vostro « fare ». Dopo
ci capiremo meglio.

Il vostro " fare », ciò che vorreste fare, che dovrebbe
nascere dalla ricerca e dal dubbio e dall'esitazione, questO
« fare », amici carissimi, è l'opposto e l'arcinemico dell'a-
zione. Il vostro « fare », se mi passate la brutta parola,
non è infatti che viltà! Vedo che vi adirate, scorgo nei
vostri occhi l'espressione che tanto mi piace, ma aspettate,
lasciatemi finire!

Voi, giovani amici, siete soldati, e prima di essere sol-
dati foste commercianti o fabbricanti o roba simile, o lo
furono i vostri padri, e loro e voi, come conseguenza di
una cattiva educazione, avete creduto a determinate anti-
tesi, di cui correva la leggenda che fossero eterne e create
dagli dei. Erano, anzi, i vostri dei, queste antitesi, come
del resto avevate anche accettato l'antitesi "uomo-Dio »,
deducendone che ciò che è uomo non può essere Dio e
viceversa. Ora, questa vecchia fede sbagliata nelle sacre
antitesi Zarathustra non ve la può smascherare in modo
più semplice nella sua profonda problematicità e nella as-
soluta inconsistenza che col porvi, a occhi aperti, di fronte
a un'antitesi in cui credete: quella tra fare e patire.

Aprite dunque gli occhi, amici, e guardatevi il fare e
il patire quali un vecchio eremita vuol mostrarveli!

Fare e patire che, uniti insieme, compongono la nostra
vita, formano un tutto, sono una cosa sola. Il bimbo pa-
tisce il suo concepimento, la sua venuta al mondo, il suo
svezamento, patisce questo e quest'altro, finché in ultimo
patisce la morte. Ma tutto il bene che c'è in lui e che lo
fa lodare e amare è solo il buon patire, la vera, piena,
viva sofferenza. Saper patir bene è più che metà della vita.
Saper patir bene è la vita intera! Nascere è patire, cre-
scere è patire, il seme patisce la terra, la radice patisce
la ploggia, il germoglio patisce lo sboccio.

E così, amici, che l'uomo patisce il destino. Il destino
è terra, è pioggia, è crescita. Il destino fa male.

Voi, invece, chiamate « fare » la fuga dal dolore, il non
voler nascere, la fuga dal patire! « Fare » per voi, o al-
meno per i vostri padri, era quando giorno e notte face-
vate chiasso nei negozi e nelle officine, quando sentivate
picchiare un'infinità di martelli, quando soffiavate in aria
nembi di fuliggine. Intendetemi bene, non ho proprio nien-
te contro i vostri martelli e la vostra fuliggine, o contrO
quelli dei vostri padri. Ma mi fa sorridere che quest'atti-
vità poteste chiamarla « fare »! Non era un fare, era solo
una fuga dal patire. Era sgradevole vivere da soli, e per-
ciò si fondavano delle società. Era sgradevole sentire den-
tro di sé tante voci che pretendevano da voi che viveste
la vostra vita, che cercaste il vostro destino, che moriste
la vostra morte: era sgradevole, sì, e perciò fuggivate via
e facevate chiasso con macchine e martelli, finché le voci
suonavano più lontane e poi ammutolivano. Così fecero i
vostri padri, così fecero i vostri maestri, così faceste voi
stessi. Vi si chiedeva di patire, e voi ne eravate indignati,
non volevate patire ma solo fare! E che cosa faceste? Pri-
ma vi sacrificaste al dio del frastuono e della confusione,
svolgendo le vostre strane attività, sovraccarichi di lavoro,
senza un attimo di tempo per patire, per ascoltare, per
succhiare il latte di vita, per bere la luce del cielo. Eh
no, dovevate fare, fare, fare. E quando tutto quell'armeg-
gio non servì a nulla e il destino, dentro di voi, invece
che dolce e maturo, divenne sempre più putrido e vele-
noso, allora allargaste il vostro raggio d'azione, vi creaste
dei nemici, prima nell'immaginazione, poi nella realtà, e
ve ne andaste in guerra, diventaste guerrieri ed eroi! Ave-
te conquistato, avete sopportato le cose più assurde, osate
le cose più immani. E adesso? Vi sentite bene, adesso?
C'è pace e letizia, adesso, nei vostri cuori? E dolce, ora,
il vostro destino? Oh no, è più amaro che mai, e perciò
correte a nuove azioni, scendete nelle vie, urlate e assalite,
eleggete consiglieri e ricaricate i fucili. E tutto ciò, per-
ché siete in continua fuga dal patire! In fuga dinanzi a
voi stessi, all'anima vostra!

So che cosa mi rispondete. Mi chiedete se ciò che avete
sopportato non è stato un patire. Se non è stato un patire,
quando i vostri fratelli vi sono morti tra le braccia, quan-
do le vostre membra si congelavano o palpitavano sotto i
ferri dei dottori. Sì, tutto questo è stato patire, un patire
scelto, voluto da voi stessi, un patire impaziente, che vo-
leva cambiare il destino. Un patire eroico, per quanto
possa considerarsi eroe chi fugge ancora il destino, chi
ancora vuol cambiarlo.

Imparare a patire è difficile. E un'arte che le donne co-
noscono più spesso e meglio degli uomini. Imparate da
loro! Imparate ad ascoltare, quando parla la voce della
vlta! Imparate a vedere, quando il sole del destino gioca
con la vostra ombra! Imparate a rispettare la vita! Impa-
rate a rispettare voi stessi!

Dalla sofferenza nasce la forza, nasce la salute. Sono
sempre gli uomini « sani » quelli che stramazzno all'im-
provviso e muoiono per una corrente d'aria. Sono coloro
che non hanno imparato a patire. La sofferenza indurisce,
la sofferenza tempra. Soltanto i bambini fuggono dinanzi
alla sofferenza. Io amo, sì, i bambini, ma come potrei
amare coloro che vogliono restar bambini per tutta la
vita? Eppure siete proprio così, voi tutti, che dal patire
fuggite nel fare, spinti dalla vecchia e triste paura infan-
tile del dolore e del buio.

Guardate un po' che cosa avete ottenuto con tutto il
vostro agitarvi e tutta la vostra diligenza e tutte le vostre
industrie fuligginose! Che cosa ne è rimasto? Il denaro è
sfumato, e col denaro tutto lo splendore della vostra vile
operosità. O dov'è l'azione generata da tutto il vostro fa-
re? Dov'è il grand'uomo, l'essere radioso e fecondo, l'e-
roe? Dov'è il vostro imperatore? Dov'è il suo successore?
Chi lo diverrà? E dov'è la vostra arte? Dove sono le opere
che giustificano il vostro tempo? Dove i grandi, gioiosi
pensieri? Ahimè, avete sofferto troppo poco e troppo male
per poter produrre cose fulgide e buone!

Poiché l'azione, l'azione fulgida e buona, amici miei,
non viene già dal fare, non viene dalla laboriosità, dal
martello zelante. Essa cresce solitaria sui monti, cresce
sulle vette, dov'è pericolo e silenzio. Nasce da patimenti
che voi dovete ancora imparare a patire.

Dello, iolitudine

Voi m'interrogate, o giovani, sulla scuola del dolore,
sulla fucina del destino. Non la conoscete? No, voi che
parlate sempre del popolo e avete sempre a che fare con
la massa e solo con la massa e che per la massa volete
soffrire, voi non la conoscete. Vi parlo della solitudine.

La solitudine è il sentiero sul quale il destino vuol ri-
condurre l'uomo a se stesso. La solitudine è il sentiero che
l'uomo teme di più. Vi stanno appiattati tutti gli orrori,
tutti i serpenti e tutti i rospi. E lì che il terribile sta in
agguato. Non si dice forse di tutti i solitari, di tutti i
pionieri del deserto della solitudine che hanno smarrito la
dritta via, che sono cattivi o malati? Le grandi azioni
eroiche non si raccontano forse come se le avessero com-
piute dei delinquenti, solo perché è bene trattenersi dal
seguirne l'esempio?

Non si racconta anche di Zarathustra che finì pazzoe
che in fondo tutto ciò che aveva detto e fatto era già
una follia? Quando sentivate parlar così, non provavate
in voi qualcosa di simile al rossore? Quasi fosse più no-
bile e più degno di voi far parte di quei pazz, e come se
vi vergognaste di non averne il coraggio?

Vorrei cantarvi degli inni sulla solitudine, o miei cari.
Senza solitudine non c'è dolore, senza solitudine non c'è
eroismo. Ma non intendo già la solitudine dei garbati poeti
e dei palcoscenici, dove la sorgente gorgoglia, idilliaca,
presso l'antro dell'eremita!

Dal bimbo all'uomo non c'è che un passo, un unico
passo. Restar soli, diventar se stessi, distaccarsi dal padre
e dalla madre: questo è il passo dal bimbo all'uomo, e
nessuno lo fa appieno. Ciascuno, anche il più austero
eremita e misantropo sulla roccia più nuda, porta con
sé un filo, si tira appresso un filo col quale è legato al
padre, alla madre e a tutto il suo diletto, caldo ambiente
familiare e originario. Quando voi, o amici, parlate con
tanto fervore del popolo e della patria, io vedo pendere
da voi quel filo, e sorrido. Quando i vostri grandi uo-
mini parlano della loro « missione » e delle loro respon-
sabilità, quel filo pende loro lungo lungo dalla bocca. Mai
che i vostri grandi uomini, i vostri capi e portavoce par-
lino di una missione verso se stessi, mai che parlino del-
la responsabilità che hanno verso il proprio destino! So-
no legati al filo che li riconduce alla madre e a tutto
quel mondo caldo e piacevole che rievocano i poeti quan-
do cantano con tanto sentimento l'infanzia e le sue puris-
sime gioie. Nessuno spezza del tutto questo filo, tranne
che con la morte, quando gli riesce di morire la propria
morte.

La maggioranza degli uomini, cioè tutti quelli del greg-
ge, non hanno mai gustato la solitudine. Si staccano,
sì, una volta da babbo e mamma, ma solo per strisciare
presso una donna e sprofondare al più presto in un calo-
re e in un legame nuovi. Mai che siano soli, mai che par-
lino con se stessi. Ma l'uomo solitario, se mai capita
loro d'incontrarlo, lo temono e lo odiano come la pe-
ste, gli lanciano sassi e non trovano pace finché non
ne sono ben lontani. Lo circonda un'aria, infatti, che
odora di stelle e di freddo astrale; gli manca, ahimè,
del tutto la dolce e calda fragran~a del focolare e del
mdo.

Zarathustra ha in sé qualcosa di questo odor di stelle
e di questo freddo ostile. Zarathustra ha percorso per
un buon tratto il sentiero della solitudine. Ha frequen-
tato la scuola del dolore. Ha visto la fucina del destino
e vi è stato fucinato.

Amici miei, non so se debbo dirvi altro sulla solitu-
dine. Vorrei tanto indurvi a battere quel sentiero, vor-
rei tanto cantarvi un inno sull'algida delizia dello spa-
zio cosmico. Ma so che ben pochi seguono questa via
senz danno. Si vive male senza madre, miei cari, si vi-
ve male senza focolare e senza patria e senza popolo e
senza gloria e senz tutte le dolcezze della società. Si vi-
ve male al freddo, e la maggior parte di coloro che han-
no iniziato questa via si sono perduti. Bisogna essere in-
differenti alla propria perdizione, se si vuol gustare la
solitudine e fare i conti col proprio destino. E più facile e
più dolce camminare con tutto un popolo, in tanti, anche
se bisogna attraversare le peggiori prove. più facile e
più consolante dedicarsi a una « missione» che il momen-
to o il tuo popolo ti affidano. Guardate come si sen-
tono a loro agio, gli uomini, nelle loro vie affollate! Si
spara e la vita è in pericolo, ma ciascuno preferisce di
gran lunga starsene con la massa e perirvi, che non va-
gare, là fuori, al freddo e al buio.

Ma come potrei sedurvi, o giovinetti! La solitudine non
si sceglie, come non si sceglie il destino. La solitudine
scende su di noi quando abbiamo la pietra magica che
attira il destino. Molti, troppi sono andati nel deserto, e
presso una bella sorgente e nel loro bell'eremo, hanno
vissuto la vita degli uomini-gregge. Altri, invece, vivono
in mezzo alla folla, ma sulla loro fronte aleggia un'aria
astrale.

Beato colui che ha trovato la sua solitudine, non una
solitudine da quadro e da poesia, ma la sua, quella ir-
ripetibile, destinata a lui solo. Beato colui che sa patire!
Beato chi porta in cuore la pietra magica! Su di lui scen-
de la solitudine, da lui s'irradia l'azione.

Spartaco

Voi volete sapere la mia opinione su coloro che si fan-
no chiamare col nome di Spartaco.

Tra tutti coloro che, nel vostro paese, vogliono ora il
bene con tanto zelo e si affannano a realiziare il futu-
ro, questi schiavi ribelli sono ancora coloro che mi di-
vertono di più. Com'è decisa, questa gente, com'è dirit-
ta e senza esitazioni la via che scelgono, come sanno ti-
rare innanzi! Davvero che se i vostri borghesi, oltre a tut-
te le loro doti, avessero anche una piccola, una piccolis-
sima parte di questa forza, la vostra patria sarebbe salva.

Comunque, non saranno questi spartachisti a distrug-
gerla. Non è strano, non è un segno del destino che co-
storo si fregino di questo nome? Loro, gl'incolti, gli uo-
mini dalle rudi mani lavoratrici, loro, che disprezzano
i latinisti e gli intellettuali, si son lasciati imporre da uno
dei loro corifei un nome che gronda addirittura di sto-
ria e di erudizione! E volete che il nome, che sono andati
a pescar così fuori mano e in tempi così antichi, non
implichi anche il loro destino ?

C'è questo, infatti, di buono, in questo nuovo nome co-
sì antico: che ricorda agli esperti una svolta storica e
un'epoca ormai matura per il declino. Come quell'antico
mondo scomparve, così deve scomparire il nostro attuale
vecchio mondo: questo vuol dire il nome, ed ha ragione.
Deve scomparire, con tutto ciò che di bello e di caro ci
legava ad esso. Sì ma: fu Spartaco, forse, colui che al-
lora distrusse quei vecchio mondo? Non fu invece Ge-
sù di Nazareth, non furono i barbari, non fu l'ondata dei
mercenari biondi? No, Spartaco fu un eccellente eroe
storico, ha scosso fieramente la catena, ha strenuamen-
te vibrato la spada. Ma non ha fatto, degli schiavi, al-
trettanti uomini, e alla caduta dei padroni del suo tempo
non ha partecipato che come manovale.

Ma non disprezztemi questa gente dalle mani rudi e
dal nome pedantesco! Si tengono pronti, presagiscono il
destino, non si ribellano alla fine. Rispettate lo spirito
che vive in questi risoluti! La disperazione non è eroismo:
non ne avete fatto prova voi stessi durante la guerra?
Ma la stessa disperazione è meglio della sorda paura del
borghese, che dà di piglio all'eroismo solo quando vede
m perlcolo la sua borsa!

Ciò ch'essi chiamano « comunismo », noi lo conoscia-
mo bene: è una vecchia, troppo vecchia ricetta, divenu-
ta un po' comica e proveniente da polverosi laboratori
alchimistici. Non badate a ciò che vi dicono! Badate in-
vece a ciò che fanno! Costoro sono capaci di azione per-
ché, seppure attraverso una sospetta via laterale, si sono
avvicinati alla maturità del destino. Voi avete maggiori
e più alte possibilità di loro, ma voi siete solo all'ini-
zio della via. Essi invece sono quasi al termine, e vi sono
superiori nella maniera incontrovertibile con cui tutti co-
loro che sono disposti alla rovina, o amici, sono superiori
ai titubanti e ai retrivi.

Troppo, amici miei, vi lamentate per la prima volta
della patria vostra! Foss'anche votata alla rovina sareb-
be più dignitoso e virile che ciò avvenisse in silenzio e
senza piagnistei! Ma dov'è questa rovina? O continuate
forse a chiamar « patria » la vostra borsa e le vostre na-
vi? O il vostro imperatore? O il vostro fasto da teatro
dell'opera, quello di ier l'altro?

Se chiamate patria ciò che i migliori di voi hanno ama-
to come il meglio del vostro popolo, ciò di cui il vostro
popolo ha arricchito e deliziato il mondo, allora non ca-
pisco come possiate parlare di rovina e di distruzione.
Avete perduto molto, in quanto a denaro e a province,
a navi e a potenza politica. Se non potete sopportarlo
andate a trafiggervi ai piedi di un monumento imperia-
le, ed io vi canterò un canto funebre. Ma non state lì
a implorare, gemendo, la pietà della storia, voi che an-
cora poco fa cantavate l'inno dell'anima tedesca che do-
vrebbe guarire il mondo; non state lì sul ciglio della via
come scolaretti in castigo, a invocar la compassione dei
passanti! Se non potete sopportare la miseria, morite! Se
non sapete governarvi senza imperatore e generali vitto-
riosi, lasciatevi governare dagli stranieri! Ma, vi prego,
non dimenticate del tutto il pudore!

Ma come, esclamate voi, non sono crudeli, i nostri ne-
mici? Non sono bassi e brutali nella loro vittoria, che è la
vittoria del numero? Non parlano di diritto e non usa-
no la forza? Non scrivono giustizia, mentre intendono
preda e rapina?

Avete ragione. Io non difendo i vostri nemici. Io non
li amo. Essi sono, come siete anche voi, brutali nel suc-
cesso, pieni di trucchi e di scappatoie. Ma, amici, non è
sempre stato così? E il nostro compito è forse quello
di constatare l'immutabile con sempre nuovi, alti lamenti?

Il nostro compito, mi sembra, è di perire da uomini o
di continuare a vivere da uomini. Non certo di frignare
come bambini. Il nostro compito è di riconoscere il no-
stro destino, di far nostra la nostra pena, di trasformare
l'amaro in dolcezza, di maturare attraverso il dolore. Il
nostro fine non è quello di ridiventar grandi e ricchi e
potenti il più presto possibile, e di avere eserciti e navi.
Il nostro fine non è un'illusione infantile: non abbiamo
sperimentato, forse, che belle sorprese ci riservano le na-
vi e gli eserciti, la potenza e il denaro? L'abbiamo già
di nuovo dimenticato?

Il nostro fine, giovani tedeschi, non si può definire con
nomi e cifre. Il nostro fine, come quello di ogni creatura
vivente, è di farci tutt'uno col nostro destino. Se ci riu-
sciamo, potremo essere grandi o piccoli, ricchi o poveri,
temuti o compatiti: non avrà alcuna importanza. Lascia-
te che ne concionino i consiglieri militari e i lavoratori
dell'intelletto! Se, attraverso la guerra e il dolore, non sie-
te entrati in voi stessi, non avete raggiunto l'essenziale,
se volete, come prima, cambiare il destino, sottrarvi alla
sofferenza, rifiutare la maturità, allora perite!

Ma voi m'intendete, lo leggo nei vostri occhi. Voi sen-
tite, nelle amare parole del vecchio della montagna, del
vecchio cattivo, una consolante promessa. Ricordate altre
parole ch'egli vi ha detto sul dolore, sul destino, sulla
solitudine. Non sentite, voi, nel dolore che vi ha colpito,
il soffio della solitudine? Non è divenuto più sensibile, il
vostro orecchio, alla voce sommessa del destino? Non
sentite come la vostra sofferenza diviene feconda? Che il
vostro dolore può significare una distinzione, uno sprone
alle più alte vette?

Ma non ponetevi un traguardo, quando avete dinanzi
l'infinito! Non prefiggetevi degli scopi, proprio adesso che
il destino ha sbriciolato tutti i vostri begli scopi di ier
l'altro! Vergognatevi, ve ne prego, ma non del fatto che
Dio vi abbia parlato! Consideratevi prescelti, considera-
tevi eletti, consideratevi predestinati! Ma non predestinati
a questo e a quest'altro, alla potenza mondiale o al com-
mercio, alla democrazia o al socialismo! Voi siete prede-
stinati a divenir voi stessi attraverso il dolore, a riacqui-
stare, mediante la sofferenza, il vostro vero respiro, il vero
battito del vostro cuore, che avete perduti. Siete predesti-
nati a respirar l'aria delle stelle e, da fanciulli, a farvi
uomini.

Cessate i lamenti, giovani amici! Cessate di piangere
come bambini perché dovete dire addio alla mamma e
al pane dolce! Imparate a mangiare il pane amaro, il pa-
ne degli uomini, il pane del destino!

Vedete, allora vi riapparirà dinanzi quella « patria »
che i migliori tra i vostri avi hanno amato e presagito.
Allora dalla solitudine farete ritorno in una comunità che
non sarà più un nido né una stalla, in una comunità di
uomini, in un regno senza confini, nel regno di Dio, co-
me lo chiamavano i vostri padri. Là c'è posto per ogni
virtù, anche se i confini del vostro paese saranno angu-
sti. Là c'è posto per ogni eroismo, anche se non avrete
più generali!

Davvero che Zarathustra ricomincia a ridere, quando
si vede costretto a consolarvi in tal modo, o fanciulli!

Migliorare il mondo.

C'è un'espressione, o giovani, che m'indispettisce un po-
co, quando la sento sulle vostre labbra: ma forse è me-
glio dire che mi fa ridere! E quella di « migliorare il mon-
do ». La cantavate volentieri, questa canzone, nelle vo-
stre associazioni e ai vostri focolari, il vostro imperatore
e tutti i vostri profeti la cantavano con amore tutto spe-
ciale, e il ritornello di questa canzone erano i versi sul-
l'anima tedesca che deve guarire il mondo.

Amici, dovremmo astenerci dal giudicare se il mondo
sia buono o cattivo, e dovremmo rinunciare alla strana
pretesa di migliorarlo.

Spesso il mondo è stato definito cattivo perché colui
che lo condannava aveva dormito male o manglato trop-
po. Spesso il mondo è stato portato alle stelle perché co-
lui che lo esaltava aveva appena baciato una ragazza.

Il mondo non è fatto per essere migliorato. Nemmeno
voi siete fatti per essere migliorati. Voi siete fatti, in-
vece, per essere voi stessi. Voi siete fatti perché il mon-
do si arricchisca di questo suono, di questo timbro, di que-
st'ombra. Sii te stesso, e il mondo sarà ricco e bello! Non
essere te stesso, sii bugiardo e codardo, e il mondo sarà
povero e ti parrà bisognoso di miglioramento.

Proprio adesso, in quest'età stravagante, la canzone del
migliorare il mondo viene cantata e berciata più forte che
mai. Non sentite come suona male, da avvinazzati? Co-
me suona poco delicata, poco felice, poco saggia e intel-
ligente! Questa canzone, poi, è come una cornice che si
può adattare a ogni quadro. Si adattava all'imperatore
e al poliziotto, si adattava ai vostri famosi professori te-
deschi, ai vecchi amici di Zarathustra! Questa brutta can-
zone si adatta alla democrazia e al socialismo, alla socie-
tà delle nazioni e alla pace universale, all'abolizione del
nazionalismo e all'instaurazione di un nazionalismo nuo-
vo. Ve la cantano i vostri nemici, in un coro nel quale
uno canta contro l'altro, e ciascuno vorrebbe cantare a
morte tutti gli altri. Non vi accorgerete che dovunque
si canti questa canzone ci son dei pugni stretti in tasca
ed è in gioco il più sfrenato egoismo: ahimè, non l'e-
goismo delle anime nobili, che pensano a innalzare e a
temprar se stesse, ma il denaro e la borsa, la vanità e l'al-
bagia. Dove l'uomo comincia a vergognarsi del proprio
egoismo, comincia a parlare di migliorare il mondo e a
nascondersi dietro tali parole.

Io non so, amici, se il mondo sia mai stato migliora-
to, se non sia stato sempre ugualmente buono e cattivo.
Non lo so, non sono un filosofo, ho troppo poca curiosità
in questa direzione. Ma so una cosa: se mai il mondo è
stato migliorato da qualcuno, se mai esseri umani l'han-
no reso più ricco, più vivo, più lieto, più pericoloso, più
allegro, non sono stati certo i riformatori, ma quei veri
egoisti di cui vorrei tanto che anche voi faceste parte.
Quei veri e decisi egoisti che non conoscono un fine, non
Sl propongono uno scopo, cui basta vivere ed essere se
stessi Soffrono molto, costoro, ma soffrono volentieri. So-
no volentieri malati, se è la loro malattia che debbono
soffrire, la loro personale, inconfondibile, inalienabile ma-
lattia. Muoiono volentieri, se è la loro morte che debbono
morire, la loro personale, inalienabile morte!

Forse, grazie a costoro, il mondo, di tanto in tanto, è
stato migliorato, così come un giorno d'autunno viene mi-
gliorato da una nuvoletta, da una piccola ombra bruna,
da un breve e rapido svolar d'uccello. Non crediate che
il mondo abbia bisogno di maggior miglioramento se non
che, di tanto in tanto, lo calchino esseri umani: non
animali, non greggi, ma esseri umani, alcuni di quei po-
chi che ci danno felicità, come ci danno felicità un volo
d'uccello o un albero presso il mare; per il solo fatto che
esistono, che il mondo li alberghi. Se volete essere am-
biziosi, o giovinetti, ambite quest'onore! Ma è un onore
perlcoloso, che passa attraverso la solitudine e facilmen-
te può costarvi la vita.

Dell'anima ted el ea

Non avete mai pensato da che cosa derivi che i tede-
schi fossero così poco amati, che fossero odiati così pro-
fondamente e sul serio, che fossero tanto temuti e così
appassionatamente evitati? Non fu strano, per voi, vedere
come in questa guerra, che pure avevate iniziato con tan-
ti soldati e con così buone prospettive, pian piano e inar-
restabilmente un popolo dopo l'altro passò ai vostri ne-
mici, vi abbandonò, vi diede torto ?

Sì, lo avete notato, con profondo sdegno, e foste anzi
fieri di essere così abbandonati, così soli, così fraintesi.

Ma sentite, non eravate fraintesi! Eravate voi a non
capire, a essere in errore.

Voi giovani tedeschi vi siete sempre vantati delle virtù
che vi mancavano, e nei vostri némici avete criticato so-
prattutto i vizi che avevano appreso da voi. Parlavate
sempre di virtù « tedesche »: la fedeltà e altre virtù vi
apparivano quasi come invenzioni del vostro imperatore
e del vostro popolo. Eppure non eravate fedeli. Eravate
infedeli, infedeli a voi stessi, ed è solo questo che vi ha
attirato l'odio del mondo. Voi dite: no, furono le nostre
ricchezze, i nostri successi! E forse la pensava così anche
il nemico, come voi stimate con la vostra logica bottegaia.
Ma le ragioni sono sempre un po' più profonde di quel
che sappia il nostro pensiero, e tanto più di quel che pos-
sa pensare codesta frettolosa e superficiale logica botte-
gaia. Ammettiamo pure che i nemlci ce l'avessero col
vostro denaro, che ve lo invidiassero. Ma ci sono anche
successi che non destano invidia e che il mondo acclama.
Perché non avete mai conseguito questi ultimi, perché
sempre soltanto i primi?

Perché voi stessi eravate infedeli. Recitavate una parte
che non era la vostra. Avevate fatto delle « virtù tede-
sche », con l'aiuto del vostro imperatore e di Riccardo
Wagner, una messinscena melodrammatica che nessuno,
al mondo, prendeva sul serio tranne voi. E dietro la bel-
la bugiarda facciata di questa pompa teatrale lasciavate
crescere e svilupparsi tutti i vostri oscuri istinti di schiavi
megalomani. Avevate sempre Dio in bocca e la mano
alla borsa. Parlavate sempre di ordine, di virtù, di orga-
nizzazione, e intendevate il far quattrini. E vi tradivate,
poi, credendo sempre di vedere la stessa impostura nei vo-
stri nemici! Udite, dicevate sempre, udite come parlano di
virtù e di diritto, e guardate come la intendono in realtà!
Vi guardavate l'un l'altro ammiccando, quando un ingle-
se o un americano faceva bei discorsi, e il vostro ammic-
care sapeva che cosa c'è, di solito, dietro tali discorsi. Co-
me facevate a saperlo così bene, se non guardando dentro
il vostro stesso cuore?

Inveite pure contro di me, dicendo che vi ferisco! Non
siete affatto abituati che vi feriscano, siete abituatissimi,
invece, a darvi scambievolmente ragione. Per aver torto,
per sparlare, per scaricare i vostri istinti aggressivi c'e-
ra il nemico, no? Ma io vi dico: bisogna dar ferite e
sopportarle, se si vuol stare dalla parte della vita e du-
rare in questo mondo. Il mondo è freddo, non è un nido
familiare, dove si stia al calduccio,, in una perpetua in-
fanzia. Il mondo è crudele, imprevedibile, non ama che
gli abili e i forti, ama coloro che restano fedeli a se stes-
si. Tutto il resto non vi procura che emmeri successi: suc-
cessi come quelli che conseguivate voi, dopo il declino spi-
rituale della Germania, con le vostre merci e le vostre or-
ganizzazioni! Dove sono andate a finire? Ma ora direi
che è tempo, per voi. Forse la miseria è grande abbastan-
za per tendere la vostra volontà: non verso nuove pose
e nuove fughe dinanzi al senso segreto della vita, ma ver-
so la virilità, verso la fede in voi stessi, verso la verità
e la fedeltà a voi stessi.

Penso che questo, infatti, o amici, l'abbiate percepito e
intravisto attraverso tutti i miei rimproveri e le mie criti-
che: cioè che vi amo, che ho in voi una certa fiducia che
sento in voi un'aura di avvenire; e, credetemi, ho un
odorato fine, a tutta prova, io, vecchio eremita e stregone.
Sì, io credo in voi, credo a qualcosa che c'è in voi, a
qualcosa che c'è nell'anima tedesca e a cui ho sempre
portato un antico e profondo amore. Credo a qualcosa,
dentro di voi, che ancora non si vede, a un avvenire, a
delle possibilità, a lm allettante « forse » che brilla dietro
a cento nubi. E ci credo proprio perché siete ancora bam-
bini e fate fanciullaggini, perché vi portate appresso que-
sta lunga, troppo lunga infanzia. Ah, divenisse mai viri-
lità, un giorno, quest'infanzia! Si trasformasse, questa cre-
dulità, in fiducia, questa tenerezza in bontà, questa strava-
ganza e ipersensibilità in carattere e in virile fermezza!

Voi siete il popolo più religioso della terra. Ma quali
dei si è foggiata la vostra religiosità! Imperatori e capo-
rali! E al loro posto, adesso, questi nuovi salvatori del
mondo! Possiate imparare a cercare il Dio che c'è in voi
stessi! Possiate sentire, un giorno, dinanzi al misterioso quid,
dinanzi all'avvenire che c'è in voi, non minor reverenza
di quella che vi ispiravano i sovrani e le bandiere! Pos-
sa la vostra religiosità, un giorno, non starsene più in gi-
nocchio, ma ritta in piedi: su piedi forti, saldi e virili!

Voi e il vostro popolo

Voi continuate, amici, a diffidare di me e mi guardate
spesso in tralice. Ma io so che cosa non vi piace, in me,
e vi rende così ombrosi: voi temete che l'acchiapparatti
Zarathustra vi adeschi lontano dal vostro popolo, che
voi amate e che vi è sacro. Non è così? Ho letto bene, in
voi?

Due dottrine insegnano i vostri maestri e i vostri libri:
la prima sostiene che il popolo è tutto e l'individuo nul
la; la seconda, il contrario.
Ma Zarathustra non è mai stato un maestro, e le vo-
stre dottrine, al massimo, lo muovono al riso. Amici ca-
ri, non potete affatto scegliere se volete essere popolo o
individui! La natura ha provveduto in modo che nessun
albero possa toccare il cielo! Il cielo della solitudine, il
cielo della virilità non l'ha ancor toccato nessuno, solo
perché ne ha trovato menzione in un libro e si è deciso
per quella scelta!

Se però vi chiedo, o giovinetti: « Che cos'è che il vostro
popolo desidera tanto? di che cosa ha bisogno? », voi mi
risponderete: « Il nostro popolo ha bisogno di uomini che
sappiano non soltanto parlare ma anche agire! ».

Ebbene, amici, sia che lo facciate per voi stessi, sia che
lo facciate per il vostro popolo, non dimenticate di dove
sgorgano le azioni e quella fredda, gioiosa e virile capar-
bietà, tutta profumata di mattino, da cui sprizzano le
azioni come i fulmini dalla nube. L'avete di nuovo di-
menticato? Ve ne ricordate, adesso?

Amici, quello di cui il vostro popolo, come ogni altro
popolo, ha bisogno, sono uomini che abbiano imparato
a essere se stessi, che abbiano riconosciuto il loro de-
stino. Essi soli saranno il destino del loro popolo. Essi so-
li non si accontentano dei discorsi e dei decreti e di tutto
il meticoloso e irresponsabile apparato burocratico. Essi
soli hanno il coraggio, la temerarietà, il sano, vegeto, gaio
umore da cui nascono le azioni.

Voi tedeschi, più di alcun altro popolo, siete abituati
a obbedire. Il vostro popolo ha obbedito con tanta faci-
lità, così volentieri, con così gioiosa prontezza! Non vo-
leva fare un passo senza provar la soddisfazione che, fa-
cendolo, obbediva a un comando, seguiva una prescrizio-
ne Il vostro buon paese era coperto di tavole della legge,
e soprattutto di cartelli di divieto, come d'una foresta.

Come obbedirebbe, questo popoloj se dopo una pausa
così interminabilmente lunga, dopo un'attesa così este-
nuante, sentisse di nuovo, una buona volta, delle voci vi-
rili? Se, invece di ordinanze e di precetti, udisse di nuovo
il tono della forz e della convinzione? Se tornasse a ve-
der delle azioni, non già grazosamente comandate e umil-
mente eseguite, ma sprizzanti, sane e liete, dal capo del
loro padre, armate e splendenti come la dea greca?

Pensateci sempre, amici miei, e non dimenticate di che
cosa il vostro popolo ha fame e sete! E non dimenticate mai in voi stessi. Eppure Egli è solo lì. Non esiste altro
che azione e virilità non crescono nei libri né nei di- Dlo se non auello che e
scorsi alle masse. Crescono sulle montagne, e la via che
Vl porta passa attraverso il dolore e la solitudine attra-
verso il dolore sopportato volentieri, attraverso ia soli-
tudine volontaria.
E, contrariamente a tutti i vostri oratori da comizio
io vi grido: non c'è fretta! Quelli vi gridano da tutti
gli angoli: « Affrettatevi! Correte! Decidetevi all'istante! Il
mondo è in fiamme! La patria è in pericolo! ». Ma crede-
temi, la patria non correrà pericolo se ve la prendete con
comodo, se lascerete che la vostra volontà, il vostro de-
stino, la vostra azione giungano, in voi, a maturità! La
precipitazione, come il gusto di obbedire, è stata conside-
rata una di quelle virtù tedesche che, in effetti, non so-
no tali.
Figlioli, non statevene così a testa bassa! Non fate ri-
dere il vecchio Zarathustra!
forse una disgrazia che siate venuti al mondo in
un'età fresca, tempestosa, rombante? Non è invece la vo-
stra fortuna ?

Il congedo

E ora, amici, vi dico addio. E voi lo sapcte bene che
quando Zarathustra prende congedo dai suoi ascoltato-
ri non è certo solito pregarli di restargli fedeli e di ri-
manere suoi devoti scolari.
Non dovete adorare Zarathustra. Non dovete imitare
Zarathustra. Non dovete voler diventare altrettanti Za-
rathustra! In ciascuno di voi c'è una forma nascosta che
e ancora immersa in un profondo sonno infantile. De-
statela alla vita! In ciascuno di voi c'è un richiamo, una
volontà e un lancio della natura, un lancio verso l'av-
venire, verso più nuove altezze. Lasciate che maturi, che
rlsuoni appleno, abbiatene cura! 11 vostro avvenire non
è questo o quest'altro, non è denaro o potenza, saggez-
za o successo industriale. Il vostro avvenire e la vostra
via difficile e pericolosa è il maturare, è il trovar Dio in
voi stessi. Non c'è nulla, o giovani tedeschi, che vi si
renda più difficile. Voi avete sempre cercato Dio, ma non

Se un glorno dovessi tornare; amici miei, si parlerà di
altre cose, più belle e più liete. Quel giorno - così spe-
ro - ce ne staremo a parlare insieme da veri uommi,
l'uno (forte e se stesso) accanto all'altro, ciascuno abitua-
to a non aver fiducia in altro, al mondo, che in se stesso
e nella fortuna, che ama i forti e gli audaci.

Ora andate, tornate alle vostre strade piene di orato-
ri. Dimenticate ciò che vi ha detto il vecchio straniero del-
la montagna. Zarathustra non è mai stato un saggio.
sempre stato un burlone e un balzano giramondo.

Non permettete che nessun oratore e nessun maestro
vi metta un uccello nell'orecchio, qualunque sia il suo no-
me In ognuno di voi c'è un solo ed unico uccello che è
necessario ascoltare: il proprio

Nel separarmi da voi vi dico soltanto: ascoltatelo!
Ascoltate la voce che viene da voi stessi! Se essa tace, sap-
piate che qualcosa è andato storto, che qualcosa non è
in ordine, che siete sulla via sbagliata.

Ma se il vostro uccello canta e parla, oh, allora segui-
telo, seguitelo dovunque vi attiri, anche nella più fredda
e lontana solitudine, anche nel più buio destino

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