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martedì, aprile 12, 2011

Daniel Defoe Il capitano Misson

Daniel Defoe Il capitano Misson prima parte







Possiamo descrivere in modo piuttosto dettagliato la vita di questo gentiluomo poiché, per puro caso, è giunto nelle nostre mani un manoscritto francese, in cui egli stesso racconta le sue azioni con dovizia di particolari. Era nato in Provenza, da un'antica famiglia; suo padre, del quale nasconde il vero nome, possedeva un grande patrimonio ma siccome aveva molti figli, il nostro avventuriero non poteva sperare in nessun'altra fortuna eccetto quella che avrebbe potuto conquistarsi con la spada. I suoi genitori ebbero cura di dargli un'educazione all'altezza della sua nascita. Dopo aver compiuto gli studi umanistici e quelli di logica, ed essendo diventato piuttosto abile in matematica, all'età di quindici anni fu mandato ad Angers, dove rimase un anno a studiare. Al suo ritorno a casa, suo padre avrebbe voluto farlo entrare nei moschettieri; ma poiché egli era di temperamento vagabondo ed era rimasto affascinato dalle storie lette nei libri di viaggio, scelse,
11 mare, che offriva una vita più varia e che gli avrebbe fornito l'occasione di soddisfare la sua curiosità, visitando paesi diversi. Presa questa' decisione, suo padre gli fornì le lettere di raccomandazione e tutto quanto gli poteva servire, e lo inviò ad arruolarsi volontario a bordo della Victoire, comandata da monsieur Fourbin, un suo conoscente. Fu ricevuto con tutti gli onori dal capitano, la cui nave si trovava a Marsiglia e a cui fu ordinato di far vela subito dopo l'arrivo di Misson. Viste le predisposizioni del nostro volontario, nulla avrebbe potuto essere piti gradevole di quel viaggio, che gli fece visitare i più importanti porti del Mediterraneo e gli fornì una grande conoscenza di tutti gli aspetti pratici della navigazione. Si affezionò a questa vita, e decise di diventare un marinaio provetto: era sempre il primo sui pennoni, per ammainare o terzarolare le vele, ed era molto curioso riguardo ai diversi modi di governare una nave. Non aveva altri soggetti di conversazione, e spesso si recava nella cabina del nostromo o del carpentiere perché gli spiegassero quali erano le parti che costituivano la chiglia e come attrezzarla, insegnamenti per cui li pagava generosamente; e sebbene passasse gran parte del suo tempo con questi due ufficiali, si comportava con tale riserbo che essi non si permisero mai un'eccessiva familiarità ed ebbero sempre per lui il rispetto dovuto alla sua famiglia. Mentre la nave si trovava a Napoli, egli ottenne dal capitano un congedo per recarsi a Roma, che desiderava ardentemente visitare. Possiamo dire che da questo momento in poi cominciarono le sue disgrazie. Infatti, osservando la vita licenziosa del clero (così diversa dalla disciplina osservata fra gli ecclesiastici francesi), lo sfarzo della corte papale, e vedendo che nella capitale della cristianità non si trovava altro che l'apparenza della religione, egli cominciò a pensare che tutte le religioni non fossero altro che un freno imposto agli spiriti più deboli, a cui i più intelligenti si sottomettevano solo in apparenza. Questi sentimenti, così dannosi alla religione e a lui stesso, furono molto rafforzati dall'incontro con un prete licenzioso, che al suo arrivo divenne per puro caso il suo confessore, e poi il suo ruffiano e compagno, poiché rimase con lui fino alla morte. Un giorno, costui colse l'occasione di dire a Misson che quella del religioso era un'ottima vita per un uomo che possedesse un ingegno sottile ed intraprendente ed alcuni amici, poiché un uomo del genere avrebbe potuto in breve tempo ottenere alte cariche nella Chiesa, e queste ambizioni erano la ragione ch^ spingeva i piìi intelligenti fra coloro che scegli&l vano volontariamente l'abito sacerdotale. Gli disse inoltre che lo Stato della Chiesa era governato con la stessa politica dei principati e dei regni secolari; che anche qui l'unica cosa che contava erano i benefici, e non i meriti e le virtù; che un uomo pio e dotto non aveva più opportunità nel patrimonio di San Pietro di quante ne avesse in qualunque altra monarchia, anzi meno, perché essendo noto che quel patrimonio era concreto, un uomo di quel genere sarebbe stato tacciato di essere un visionario, per nulla adatto al suo incarico, considerato come uno i cui scrupoli avrebbero potuto dimostrarsi nocivi; poiché è una massima riconosciuta che la religione e la politica non possono vivere sotto lo stesso tetto. «Quanto ai nostri uomini di stato - gli disse - non credere che la porpora li renda meno cortigiani di quelli delle altre nazioni; essi conoscono e perseguono la ragion di stato^° con altrettanta astuzia e mancanza di scrupoli di qualsiasi laico; e sanno ingannare altrettanto bene dove serve l'inganno, e quando il loro potere è grande abbastanza per sostenerli sono altrettanto sfacciati ed impudenti nell'opprimere il popolo e nell'arricchire le loro famiglie. Quale sia la loro morale lo puoi vedere dalla pratica della loro vita, e quali siano i loro sentimenti religiosi da questo detto di un famoso cardinale. Quantum lucrum ex ista fabula Christi!, che molti di loro potrebbero ripetere, anche se non sono così stupidi da farlo. Da parte mia, sono stufo di questa farsa, e alla prima occasione mi libererò di questo abito e abbandonerò la mascherata. Infatti, a causa della mia giovane età, dovrei accontentarmi di una parte secondaria ancora per molti anni; e prima di poter spartirmi con gli altri le spoglie del popolo sarò troppo vecchio, temo, per godermi i piaceri del lusso; e poiché sono nemico dei sacrifici, ho paura che non saprò mai recitare la mia parte e fare l'ipocrita in modo abbastanza convincente da procurarmi una qualche carica importante nella Chiesa. I miei genitori non hanno tenuto conto del mio carattere, altrimenti mi avrebbero messo in mano una spada invece del rosario».
Misson gli consigliò d'imbarcarsi volontario con lui, e gli diede del denaro per comprarsi dei vestiti; il prete colse al balzo la proposta. Nel frattempo Misson ricevette una lettera dal suo capitano, in cui gli diceva che si sarebbe recato a Livorno, e lasciava a lui la scelta se tornare a Napoli o raggiungerlo via terra; scelse la seconda possibilità e il domenicano, che egli aveva rifornito di denaro, gettò la tonaca, si rivestì da gran signore e lo precedette di due giorni, attendendolo a Pisa. Di qui essi andarono insieme a Livorno dove trovarono la Victoire, e il signor Caraccioli, raccomandato dal suo amico, fu accolto a bordo. Due giorni dopo salpavano da Livorno, e dopo un viaggio di una settimana s'imbattevano in due navi musulmane, l'una di venti e l'altra di ventiquattro cannoni; la Victoire ne aveva montati solo trenta, benché avesse portelli per quaranta. Lo scontro fu lungo e sanguinoso, perché i musulmani speravano di catturare la Victoire, mentre il capitano Fourbin,
lungi dall'immaginare di lasciarsi catturare, era deciso a catturare lui stesso i suoi nemici, o ad affondare la sua nave. Una delle navi musulmane era comandata da un rinnegato spagnolo (che però aveva solo il titolo di luogotenente), poiché il capitano era un giovane che non aveva molta esperienza delle faccende marinare. Questa nave si chiamava Lyon, e tentò più di una volta di abbordare la Victoire; ma un colpo di cannone sulla linea di galleggiamento la costrinse ad allontanarsi e a spostare i suoi cannoni tutti da un lato, facendole dar di banda per bloccare la falla; ma poiché questa manovra fu fatta con troppa precipitazione, la nave si rovesciò e perirono tutti. La nave compagna, vedendo questo disastro, issò tutte le vele piccole e tentò di fuggire, ma la Victoire la raggiunse e la obbligò a ricominciare la lotta, cosa che essa fece con grande ostinazione, tanto che Monsieur Fourbin disperava di riuscire a catturarla se non l'avesse abbordata, e diede quindi ordine di prepararsi. Quando l'ordine fu dato, il signor Caraccioli e Misson furono i primi a salire a bordo, ma loro e quelli che li seguivano furono respinti dalla forza della disperazione dei musulmani; Caraccioli ricevette una ferita alla coscia e fu trasportato sotto coperta dal chirurgo.
La Victoire abbordò per la seconda volta, ed i musulmani difesero i loro ponti con tanta decisione che si ritrovarono coperti dai cadaveri dei loro uomini e dei loro nemici. Misson, al vedere uno di loro saltare nel boccaporto con una miccia accesa, sospettò le sue intenzioni, lo inseguì senza indugio e, raggiuntolo, lo stese morto con la spada nel momento stesso in cui stava per dar fuoco alla polvere. Poiché la Victoire continuava l'abbordaggio con uomini sempre più numerosi, i maomettani, vedendo che ogni tentativo di resistenza era vano, abbandonarono i ponti e si rifugiarono nella cucina, nella cabina del pilota e nelle altre cabine, mentre alcuni scappavano fra i ponti. I francesi li risparmiarono ed imbarcarono i prigionieri a bordo della Victoire; la preda non fruttò nessun particolare bottino, se non la libertà per circa quindici schiavi cristiani; fu trasportata a Livorno e venduta insieme ai prigionieri. I turchi persero molti uomini, i francesi non meno di 35 durante l'abbordaggio, mentre pochissimi erano morti nello scontro a fuoco perché i musulmani miravano soprattutto all'alberatura e alle vele, sperando di smantellare la nave e di catturarla. Terminato il suo viaggio, la Victoire fece ritorno a Marsiglia, e da qui Misson, portando con sé il suo amico, andò a far visita ai suoi genitori, a cui il capitano inviò un resoconto molto lusinghiero del suo carattere e della sua condotta. Era a casa da quasi un mese, quando il capitano gli scrisse che la sua nave aveva ricevuto ordine di recarsi a La Rochelle, da dove avrebbe fatto vela per le Indie occidentali con alcuni mercantili. Questa notizia fece molto piacere a Misson e al signor Caraccioli, che partirono immediatamente per Marsiglia. Questa città è ben fortificata, possiede quattro chiese parrocchiali, e il numero dei suoi abitanti è calcolato intorno ai 120.000; il porto è considerato il più sicuro del Mediterraneo, ed è la base regolare delle galee francesi. Lasciata Marsiglia, fecero rotta per La Rochelle, dove la Victoire era in riparazione, visto che i mercantili non erano ancora pronti. Misson, che non voleva passare tanto tempo senza fare nulla, propose al suo compagno di imbarcarsi sulla Triumph, che era diretta sulla Manica; l'italiano accettò prontamente.
Tra l'isola di Guernsey e lo Start Point, incontrarono la Mayflower, un mercantile di 18 cannoni comandato dal capitano Balladine, proveniente dalla Giamaica con un ricco carico. Il capitano della nave inglese oppose una fiera resistenza, e combatté così a lungo che i francesi non riuscirono a condurre la sua nave nel loro porto; presero dunque dalla nave il denaro e le merci di valore e, visto che imbarcava troppa acqua per le pompe, la abbandonarono e la videro colare a picco in meno di quattro ore. Monsieur Le Blanc, il capitano francese, ricevette molto civilmente il capitano Bai-ladine, e non permise che lui e i suoi uomini venissero derubati, dicendo: «Solo i codardi meritano di essere trattati in questo modo; gli uomini coraggiosi devono trattare altri uomini coraggiosi, sebbene siano loro nemici, come fratelli; e maltrattare un uomo valoroso che fa il suo dovere, è una vendetta degna solo di un'anima vile». Ordinò che fossero restituiti ai prigionieri i loro bauli; e quando alcuni degli uomini dell'equipaggio sembrarono voler protestare, li invitò a ricordare la grandezza del monarca che servivano; a ricordare che essi non erano né pirati né corsari e che, da uomini coraggiosi, avrebbero dovuto mostrare ai nemici un esempio da seguire e trattare i prigionieri nello stesso modo in cui essi avrebbero voluto essere trattati al loro posto. Risalirono la Manica fino a Beachy Head, e al ritorno s'imbatterono in tre navi da cinquanta cannoni che inseguirono la Triumph. Essendo un'ottima
veliera, essa li seminò in tre ore e mezza, e si diresse il più velocemente possibile verso Lands-End; qui incrociarono per otto giorni dopodiché, doppiato il capo della Cornovaglia, risalirono il canale di Bristol fin quasi a Nash Point, dove avvistarono una piccola nave proveniente dalle Barbados; spingendosi più a nord, inseguirono una nave avvistata la sera, ma durante la notte la persero. La Triumph fece allora rotta verso Milford e, avvistata una vela, tentarono di bloccarle l'approdo, ma non ci riuscirono, poiché raggiunse il porto benché essi le venissero incontro a gran velocità, e sarebbe stata sicuramente catturata se l'inseguimento fosse durato un po' più a lungo. 11 capitano Balladine, preso il cannocchiale, disse che si trattava della Port Royal, una nave di Bristol che aveva lasciato la Giamaica insieme a lui e alla Charles. Essi tornarono allora sulle loro coste e vendettero il loro bottino a Brest, dove, a sua richiesta, lasciarono il capitano Balladine. Monsieur Le Blanc gli fece dono di una borsa con 40 luigi d'oro per il suo sostentamento e anche il suo equipaggio fu lasciato a Brest. Entrando in questo porto, la Triumph urtò contro uno scoglio, ma non subì alcun danno: l'imboccatura di quel porto, chiamata Gonlet, è assai pericolosa a causa della quantità di scogli che si trovano sott'acqua da entrambi i lati, sebbene il porto di per sé sia certamente il migliore di Francia. L'imboccatura del porto è difesa da un poderoso castello; la città è ben fortificata e possiede, come ulteriore difesa, una cittadella assai ben munita. Nel 1694 gli inglesi tentarono di conquistarla, ma trovarono pane per i loro denti, poiché furono sconfitti e persero il loro generale e molti uomini. Di qui la Triumph tornò a La Rochelle, e un mese dopo i nostri volontari, a bordo della Victoire, partivano per la Martinica e la Guadalupa . Durante questo viaggio non accadde nulla degno di nota. Mi limiterò ad osservare che il signor Caraccioli, che era tanto ambizioso quanto miscredente, aveva ormai trasformato Misson in un perfetto deista, e l'aveva quindi convinto che tutte le religioni si riducono ad una semplice politica umana, dimostrandogli che le leggi di Mose altro non sono che prescrizioni necessarie per la conservazione e il governo del popolo. «Per esempio disse - i negri dell'Africa non hanno mai sentito parlare dell'istituzione della circoncisione, che è considerata come il simbolo del patto stabilito fra Dio e il suo popolo, e tuttavia essi fanno circoncidere i loro bambini; senza dubbio per le stesse ragioni degli ebrei e dei popoli di altre nazioni che vivono in climi meridionali, perché il prepuzio raccoglie e trattiene il sudore, il che provoca conseguenze fatali». Per farla breve, passò in rassegna tutte le cerimonie della religione ebraica, cristiana e maomettana, e lo convinse che non si trattava affatto, come si può vedere dall'assurdità di molte di loro, dei precetti di uomini ispirati; e che Mose, nella sua descrizione della creazione, era colpevole di errori noti; e che i miracoli, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, sono inconciliabili con la ragione; che Dio ci ha dato questo dono della ragione perché lo usiamo ai fini della nostra presente e futura felicità, e che tutto quanto è contrario ad essa, nonostante le distinzioni scolastiche fra «contrario» e «superiore» alla ragione, dev'essere falso. Questa ragione ci insegna che esiste una causa prima di tutte le cose, un Ens entium che chiamiamo Dio, e la nostra ragione ci suggerisce inoltre che esso dev'essere eterno e che, essendo l'autore di ogni cosa perfetta, dev'essere infinitamente perfetto. Se ciò è vero, esso non può essere soggetto alle passioni, né all'amore né all'odio; dev'essere sempre uguale a sé stesso, e non può fare oggi avventatamente ciò di cui potrebbe pentirsi domani. Dev'essere perfettamente felice, e di conseguenza non c'è nulla che possa accrescere il suo eterno stato di tranquillità, e sebbene a noi si addica adorarlo, tuttavia la nostra adorazione non può aumentare la sua beatitudine, né i nostri peccati diminuire la sua felicità.
Ma le sue argomentazioni a questo proposito sono troppo lunghe e troppo pericolose per essere riportate qui; e siccome sono condotte con grande sottigliezza, esse potrebbero essere perniciose per i deboli di spirito che non sanno vederne l'errore, o per coloro che, trovandole adatte alle loro inclinazioni e desiderando scrollarsi di dosso il giogo della religione cristiana che disturba e frena le loro passioni, non si dessero la pena di esaminarle fino in fondo, ma vi aderissero contenti di aver trovato una scusa per le loro coscienze. Tuttavia, poiché la sua dottrina sul nostro stato futuro non ha in sé nulla che vada contro la religione cristiana, la esporrò in poche parole.
«Quella facoltà raziocinante - diceva - che percepiamo dentro di noi, è chiamata anima, ma che cosa sia l'anima lo ignoriamo. Essa può morire con il corpo, o può sopravvivere. Io sono dell'opinione che sia immortale; ma riconosco che non saprei dire se questa idea sia dettata dalla ragione o sia solo un pregiudizio dovuto all'educazione. Se è immortale, dev'essere un'emanazione dell'essere divino e di conseguenza, una volta separata dal corpo, essa farà ritorno al suo primo principio, se non è stata contaminata. Ora, la ragione mi dice che se è separata dal suo primo principio, che è la divinità, tutti gli inferni inventati dall'immaginazione umana non potranno mai offrire torture che eguaglino una tale proscrizione». Avendo tenuto segretamente questi discorsi fra l'equipaggio, egli aveva fatto molti proseliti, che lo consideravano un nuovo profeta, sorto per riformare gli abusi della religione; e siccome molti di loro venivano da La Rochelle ed erano già imbevuti di calvinismo, essi abbracciarono tanto più facilmente la sua dottrina. Una volta sperimentata l'efficacia delle sue argomentazioni religiose, Caraccioli passò a parlare di politica, e dimostrò che ogni uomo è nato libero e ha diritto alla sussistenza come all'aria che respira. Dire il contrario sarebbe come accusare la divinità di crudeltà ed ingiustizia, poiché essa non ha messo al mondo nessun uomo per vivere una vita di stenti e per esser miseramente privato dei mezzi di sussistenza necessari. L'enorme differenza che esiste fra gli uomini, gli uni che sguazzano nel lusso e gli altri nella penuria più estrema, è dovuta solo all'avarizia e all'ambizione da una parte, e ad una pusillanime sottomissione dall'altra. Alle origini non si conosceva altro governo che quello naturale, paterno, in cui ogni padre era il capo, il principe ed il monarca della propria famiglia, e l'obbedienza nei suoi confronti era allo stesso tempo giusta e facile poiché il padre prova una tenera compassione per i suoi figli; ma l'ambizione, essendosi progressivamente insinuata, fece sì che la famiglia più forte rendesse schiava la più debole e, così rafforzata, ne aggredisse una terza, aumentando ad ogni conquista la sua forza per ottenere altre vittorie, e questo fu il primo fondamento della monarchia. Col potere aumentò la superbia, e l'uomo usurpò la prerogativa di Dio sulle sue creature, cioè quella di privarle della vita, che è un privilegio che nessuno possiede sui suoi simili; poiché, siccome nessuno è venuto al mondo per sua scelta, tutti devono rimanerci per la durata di tempo decisa dal loro creatore. Allora, mentre la morte in guerra è conforme alla legge di natura, poiché si tratta della conservazione delle nostre proprie vite, nessun crimine dovrebbe essere punito con la morte, e nessuna guerra dovrebbe essere intrapresa se non per difendere il nostro diritto naturale, che consiste in quella parte di terra necessaria al nostro sostentamento. Spesso declamava su questi argomenti, e spessissimo discuteva del modo di rendersi indipendenti con Misson, che era altrettanto ambizioso e risoluto. Caraccioli e Misson erano ormai marinai esperti, e perfettamente in grado di governare una nave. Caraccioli aveva sondato molti uomini dell'equipaggio a questo proposito, e li aveva trovati molto propensi ad ascoltarlo. Accadde infine un incidente che fornì a Caraccioli una buona occasione di mettere in pratica i suoi progetti, ed egli la colse al volo. Partiti dalla Martinica, s'imbatterono nella Winchelsea, una nave da guerra inglese di 40 cannoni comandata dal capitano Jones; le due navi si diressero l'una contro l'altra, e seguì un vivacissimo scontro. La prima bordata uccise il capitano, il secondo e tre luogotenenti a bordo della Victoire, lasciando in vita soltanto il secondo ufficiale, che avrebbe voluto ammainar bandiera. Ma Misson prese la spada, ordinò a Caraccioli di far le veci del luogotenente, e incoraggiando gli uomini combatté per tre ore finché, a causa di qualche incidente, la Winchelsea saltò in aria e non si salvò nessuno, tranne il luogotenente Franklin che fu raccolto dalla nave francese e che morì due giorni dopo. (Prima che questo manoscritto cadesse nelle mie mani, nessuno aveva mai saputo come fosse andata perduta la Winchelsea; infatti la sua prora fu portata a riva dalle onde ad Antigua, e siccome c'era stata una violenta tempesta pochi giorni prima, si concluse che fosse affondata durante questa tempesta). Dopo questo scontro, Caraccioli andò da Misson e lo salutò capitano. Gli chiese se volesse scegliere un comando temporaneo o duraturo, dicendogli che doveva decidersi subito poiché una volta tornati dalla Martinica sarebbe stato troppo tardi: avrebbe potuto star certo che la nave per cui aveva combattuto e che aveva salvato sarebbe stata assegnata ad un altro, e l'avrebbero considerato degnamente ricompensato nominandolo luogotenente, atto di giustizia del quale peraltro dubitava. Gli disse che la fortuna era nelle sue mani e che poteva tenersela stretta o lasciarla andare, ma se avesse scelto la seconda strada non doveva mai più aspettarsi che essa lo pregasse di accettare i suoi favori; doveva aver ben chiara davanti agli occhi la sua situazione di figlio cadetto di una buona famiglia, ma privo dei mezzi per sostenere la sua posizione, e i lunghi anni in cui avrebbe dovuto prestare servizio a prezzo del suo sangue prima di poter ottenere una qualsiasi posizione nel mondo, e considerare l'enorme differenza che esiste fra comandare ed essere comandato. Con la nave che aveva sotto i piedi e gli uomini coraggiosi che aveva ai suoi ordini, egli avrebbe potuto sfidare le potenze europee, godersi tutto ciò che voleva, regnar sovrano sui mari del Sud e legittimamente far la guerra al mondo intero, poiché esso l'aveva privato di quella libertà a cui aveva diritto secondo le leggi di natura. Col tempo avrebbe potuto divenire grande come Alessandro lo era stato per i persiani; e aumentando le sue forze grazie alle navi catturate, avrebbe rafforzato giorno dopo giorno la giustizia della sua causa, poiché chi ha potere ha sempre ragione. Enrico IV ed Enrico VII tentarono di impadronirsi della corona d'Inghilterra, e vi riuscirono con forze inferiori alle sue. Maometto fondò l'impero ottomano con qualche cammelliere; e Dario s'impadronì di quello di Persia con non più di sei o sette compagni.
Insomma, parlò tanto che Misson decise di seguire i suoi consigli e, riunito tutto l'equipaggio, disse che molti di loro avevano scelto con lui una vita di libertà, e gli avevano fatto l'onore di eleggerlo loro capo. Disse che non avrebbe forzato nessuno, perché non voleva rendersi responsabile di un'ingiustizia che condannava negli altri e chiese quindi se ci fosse qualcuno contrario a seguire il suo destino che sarebbe stato, lo prometteva, uguale per tutti: che lo dichiarasse e sarebbe stato sbarcato in qualche luogo da cui avrebbe potuto tornare facilmente in patria. Terminato questo discorso, essi gridarono tutti insieme: «Vive le capitaine Misson et son lieutenant le savant Caraccioli», Dio benedica il capitano Misson ed il suo dotto luogotenente Caraccioli. Misson li ringraziò per l'onore che gli facevano, e promise di usare il potere che gli conferivano esclusivamente per il bene comune; sperava che, così come avevano avuto il coraggio di affermare la loro libertà, sarebbero stati altrettanto unanimi nel preservarla e sarebbero rimasti al suo fianco in tutto ciò che sarebbe stato ritenuto utile per il bene di tutti; disse che era loro amico e che non avrebbe mai fatto uso della sua autorità, né si sarebbe mai considerato altro che il loro compagno, se non quando vi fosse stato costretto dalla necessità degli eventi.
Urlarono una seconda volta: «Vive le Capitain»; dopodiché egli li incitò a scegliere i propri ufficiali subalterni, per dare loro il potere consultivo ed esecutivo sulle questioni di comune interesse, e a impegnarsi sotto giuramento ad accettare ciò che lui e quegli ufficiali avrebbero deciso, ed essi lo fecero prontamente. Scelsero come secondo luogotenente il maestro di scuola, come terzo Jean Besace, e nominarono loro rappresentanti nel Consiglio il nostromo, un quartiermastro chiamato Matthieu le Tondu e il capo cannoniere. L'elezione fu approvata, e perché ogni cosa si svolgesse regolarmente e con il consenso di tutti, essi furono chiamati a riunirsi nella cabina grande e si discusse su quale rotta seguire. Il capitano propose la costa dell'America Latina come quella che avrebbe probabilmente offerto le più ricche prede, e tutti acconsentirono. Il nostromo chiese allora sotto quale bandiera avrebbero combattuto, e consigliò quella nera come la pili terribile; ma Caraccioli obiettò che non erano pirati, bensì uomini decisi ad affermare la libertà che Dio e la natura avevano dato loro, e a non sottomettersi ad alcuno se non nella misura in cui lo richiedeva il bene comune. L'obbedienza ai governanti, disse, era in realtà necessaria quando costoro sapevano assolvere ai doveri della loro funzione, comportandosi come gli attenti difensori dei diritti e della libertà del popolo, vegliando che la giustizia fosse equamente distribuita, opponendosi ai ricchi e ai potenti se costoro tentavano di opprimere i più deboli, non permettendo a nessuno di diventare immensamente ricco grazie ai propri abusi o a quelli dei suoi antenati e, d'altra parte, non permettendo a nessuno di ridursi nella più disperata miseria, cadendo nelle mani di furfanti, di creditori spietati, o di altre sciagure; e fintanto che il governante manteneva uno sguardo imparziale, e proibiva che fra uomo e uomo vi fosse altra distinzione che il merito, e invece di pesare sul popolo con la sua vita sfarzosa, si comportava come un vero padre che si prendeva cura di loro e li proteggeva, e in ogni cosa agiva con l'equa ed imparziale giustizia di un genitore. Ma quando un governante, che è il ministro del popolo, si considera innalzato ad una tale dignità da poter passare i suoi giorni tra lussi e sfarzi, considerando i suoi sudditi come altrettanti schiavi creati per il proprio piacere e vantaggio, e lascia quindi loro ed i loro interessi all'incommensurabile avarizia
e tirannia di qualcuno che ha scelto come suo favorito; quando da una tale amministrazione non provengono che oppressione, povertà, e miseria; quando egli sperpera la vita e il patrimonio del popolo per soddisfare la sua ambizione o per sostenere la causa di un principe vicino in modo che, in cambio, egli lo aiuti nel caso in cui il suo popolo insorga in difesa dei propri diritti naturali; o se si lancia in inutili guerre, seguendo gli avventati ed imprudenti consigli del suo favorito,, e poi non è in grado di tener testa al nemico che si è tirato addosso per sconsideratezza o capriccio, e deve a quel punto comprare una pace (come è ora il caso della Francia che, come tutti sanno, ha sostenuto re Giacomo e in seguito ha proclamato suo figlio)" dissanguando i sudditi; se le attività commerciali del popolo vengono volontariamente trascurate per interessi privati, lasciando che le navi da guerra se ne stiano ad oziare nei porti mentre le navi del popolo vengono catturate, e il nemico non solo intercetta tutto il commercio, ma attacca la costa; allora, scrollarsi di dosso il giogo è segno di un'anima generosa; «e se non possiamo riparare ai torti che ci hanno fatto, rifiutiamo almeno di dividere le disgrazie a cui si sottomettono gli spiriti più deboli, e disdegniamo di cedere alla tirannide. E se il mondo ci farà guerra, come l'esperienza ci dice che farà, la legge di natura non solo ci autorizza a difenderci, ma anche ad attaccare. Poiché non partiamo dagli stessi presupposti dei pirati, che sono uomini dalla vita dissoluta e privi di principi, non degniamoci dunque di adottare la loro bandiera. La nostra causa è coraggiosa, giusta, innocente e nobile: è la causa della libertà. Consiglio quindi una bandiera bianca, con sopra dipinta la Libertà e, se volete, 0 motto A Deo a liberiate, per Dio e per la libertà, come emblema della nostra integrità e decisione». La porta della cabina era stata lasciata aperta e k paratia, che era di tela, era stata arrotolata, di modo che il corridoio era gremito di uomini che ascoltavano attentamente e che a quel punto gridarono: «Libertà, libertà; siamo uomini liberi. Viva il coraggioso capitano Misson ed il nobile luogotenente Caraccioli». Al termine di questa breve assemblea, tutto ciò che apparteneva al capitano deceduto e agli altri ufficiali ed uomini dell'equipaggio morti nello scontro fu portato in
coperta ed esaminato; fu ordinato che il denaro venisse messo in una cassa e che il carpentiere vi applicasse un lucchetto e ne desse una chiave a ciascun membro del Consiglio, poiché Misson aveva detto loro che tutto doveva essere di proprietà comune, e che l'avidità dei singoli non doveva defraudare la comunità. Quando l'argenteria di Monsieur Fourbin stava per essere messa nella cassa, tutti gli uomini dell'equipaggio gridarono all'unisono: «Fermi, tenetela perché la usi il capitano, come regalo da parte dei suoi ufficiali e della sua ciurma». Misson li ringraziò, l'argenteria fu riportata nella cabina grande, e la cassa venne sigillata secondo gli ordini. Misson ordinò poi ai suoi luogotenenti e agli altri ufficiali di vedere chi fra gli uomini dell'equipaggio avesse più bisogno di vestiti, e di distribuire in modo imparziale quelli dei morti, cosa che venne fatta fra il consenso generale e gli applausi di tutti. Quando tutti tranne i feriti furono in coperta, Misson dalla balaustra del cassero tenne il seguente discorso: poiché avevano unanimemente deciso di conquistare e difendere la loro libertà, usurpata da uomini ambiziosi, e poiché questa decisione non poteva essere considerata che giusta e coraggiosa da qualsiasi giudice imparziale, si sentiva obbligato a raccomandare un amore fraterno fra di loro; tutte le ripicche ed i rancori personali dovevano essere banditi, in un solido patto d'armonia reciproca. Scrollandosi di dosso il giogo della tirannide, che con la loro azione avevano dimostrato di aborrire, sperava che nessuno avrebbe seguito l'esempio dei tiranni, voltandole spalle alla giustizia, poiché quando l'equità viene calpestata, ne conseguono naturalmente miseria, confusione e sfiducia reciproca. Consigliò inoltre di ricordare che esisteva un essere supremo, che la ragione e la riconoscenza ci suggeriscono di adorare, e che i nostri stessi interessi ci spingerebbero a propiziarci (dato che è meglio essere sicuri, e che la vita futura è ammessa come possibile). Era sicuro che gli uomini nati e cresciuti nella schiavitù che ne aveva fiaccato gli spiriti, ed incapace di un così generoso modo di pensare, i quali, ignoranti del loro diritto naturale e dei piaceri della libertà, ballano al ritmo delle loro catene - essi costituiscono in realtà la maggior parte degli abitanti del globo -, avrebbero bollato quella generosa compagnia con l'invidioso appellativo di pirati, e avrebbero considerato meritevole il fatto di essere gli strumenti della loro distruzione. La legittima difesa, dunque, e non la crudeltà, lo costringeva a dichiarare guerra a tutti coloro che gli avrebbero rifiutato l'entrata nei loro porti, e a coloro che non si sarebbero immediatamente arresi, fornendogli ciò che la necessità richiedeva; ma in particolar modo a tutte le navi ed i vascelli europei, che andavano considerati come nemici giurati ed implacabili. «Ed ora - disse - dichiaro questa guerra, raccomandando allo stesso tempo a voi, miei compagni, un comportamento umano e generoso nei confronti dei vostri prigionieri, che apparirà tanto più dettato da un'anima nobile, quanto più siamo convinti che non riceveremmo un simile trattamento se la disgrazia, o meglio la nostra mancanza di unione o di coraggio, ci mettesse alla loro mercé».
Dopodiché, ordinò di contare gli effettivi, e ne risultarono duecento uomini abili e trentacinque fra malati e feriti; mentre venivano passati in rassegna, essi prestavano giuramento. Dopo aver sistemato queste cose, fecero rotta per le Indie occidentali spagnole, ma durante il viaggio decisero di incrociare per una settimana o dieci giorni nel canale sottovento della Giamaica, poiché la maggior parte dei mercantili più veloci che non attendevano una scorta prendevano questa strada come scorciatoia per l'Inghilterra.

giovedì, aprile 07, 2011

Toni Negri APOLOGIA DEL CATTIVO MAESTRO




Toni Negri

APOLOGIA DEL CATTIVO MAESTRO

1. Chi è un cattivo maestro? Riusciremo mai a dare una definizione, meglio, a risolvere il conflitto che costituisce il concetto stesso di «cattivo» «maestro»? Mi pongo questi problemi dal punto di vista della filosofia, che non è quello del diritto. Il conflitto tra la facoltà filosofica e quella giuridica può essere infatti estremo. Lo chiarisce bene Friedrich Nietzsche {Frammenti 1886-1887, in Colli-Montinari, Genealogia della morale, ed. it., p. 202): «La questione se l'umanità abbia una tendenza al bene è preparata dalla questione se esiste un avvenimento che non si possa spiegare m nessun altro modo che con quella disposizione morale. Tale è la Rivoluzione». Kant: «Un simile fenomeno della storia umana non si dimentica più, perché ha rivelato l'esistenza nella natura umana di una disposizione e di una facoltà verso il bene, quale nessun politico aveva finora escogitato in base al corso delle cose» [Conflitto della facoltà filosofica con quella giuridica, Sez. II, parr. 5/7)». L'esempio è chiaro: il filosofo è per la rivoluzione, il giurista lo condanna, il filosofo ritrova H bene nella storia, il giurista definisce cattivo il filosofo. Se è così, dal punto di vista del diritto, ovvero dell'ordine, il cattivo maestro è quello che deve essere escluso, sanzionato, bandito. Qui di seguito parleremo di quattro filosofi esclusi e banditi: Socrate dalla vita (più tardi fu massacrato dal platonismo). Machiavelli dalla patria (poi fu stravolto dal machiavellismo), Spinoza dalla chiesa (benedictus divenne maledictus), Nietzsche dalla ragione (e la sorella poi lo ascrisse al nazismo). Certo ci sarebbero tanti altri cattivi maestri di cui parlare, ma noi parleremo di questi, la cui condanna durò a lungo, soprattutto perché l'esclusione che subirono, dalla vita, dalla patria, dalla chiesa, dalla ragione, fu poi santificata nella storia della filosofia. La storia della filosofia è infatti una facoltà giuridica, ovvero di polizia, che serve a mettere ordine nel pensiero. Deleuze dichiara (da qualche parte) la sua speranza di aver appartenuto all'ultima generazione corrotta dalla storia della filosofia. John Dewey parla della storia della filosofia come di un colossale sistema di ruminazione che neutralizza il pensiero... E tuttavia i cattivi maestri risorgono, risorgono sempre, la verità e il loro stile di vita si impongono. Ma in qualche modo il cattivo maestro resta segnato, in modo solforoso... Ecco l'idea di un filosofo «intelligente e irresponsabile», così come l'artista è «genio e sregolatezza». Il cattivo maestro ti affascina e ti fa paura.

2. Può darsi una definizione buona del cattivo maestro? Un discorso in positivo che ne mostri la capacità di definire con verità e onestà il mondo che lo circonda? Si potrebbe certamente dal punto di vita politico: tutti i cattivi maestri si sono battuti per la libertà. Oppure si potrebbe dare loro una definizione positiva dal punto di vista storico: i cattivi maestri hanno anticipato nuove idee, un nuovo mondo. Essi costruiscono sempre un evento. Anche dal punto di vista estetico, proprio in questa costituzione dell'evento, il cattivo maestro trova il momento della verità. Essi si sono bruciati le mani con la fiamma che avevano acceso... Giordano Bruno, oppure Edith Stein, oppure Walter Benjamin si trovano in questa categoria: orrida quanto lo è l'immagine del rogo. In effetti non vale la pena di continuare a chiedersi se c'è idea positiva del cattivo maestro perché non c'è un'idea di cattivo maestro. Il cattivo maestro è determinato dalla reazione che un filosofo ha davanti al mondo nel quale vive, dall'intensità della sua volontà critica, dall'indignazione e dall'intenzione di trasformare il reale. Il cattivo maestro è determinato dalla malvagità del mondo. E mosso a filosofare dall'indignazione. Spinoza definisce così l'indignazione: «l'odio verso colui
che ha fatto male a un altro». L'indignazione dunque è una passione negativa innervata dall'amore. Ma se il cattivo maestro è colui che deve essere escluso perché si indigna, se è colui che insorge davanti all'evento malvagio, chi è il buon maestro? Diversamente da quanto avviene per il cattivo, esiste una grande tradizione che definisce unanime e soddisfatta il buon maestro. È la tradizione aristotelico-platonica. Se il cattivo maestro si muove sulla base dell'indignazione, il buon maestro si costruisce sulla base dell'ammirazione. Platonicamente egli ammira il principio, Varche... Ma che cos'è l'arche? E insieme il principio e il comando, la genesi e l'ordine, essi sono unificati nel concetto e nel reale. E chiaro dunque chi è il buon maestro: colui che trae dalla trascendenza del principio la finahtà del comando, colui che descrive il mondo come fatto e predisposto per chi comanda e per chi obbedisce, per chi ammira e non si indigna.

3. Da questo punto di vista potete stare sicuri che i cattivi non sono buoni. Ogni cattivo maestro è arrabbiato con qualcuno. Se la prende con qualcuno o con qualcosa. Il cattivo maestro irrompe in un rapporto di forza che si voleva predeterminato, rompe l'ordine egemonico e dunque corrompe l'essere. Socrate si indigna contro coloro che odiano la ragione e l'uomo, i misologi e i misantropi.. Nella parte centrale del Fedone è il demone della verità che irrompe. Questo demone è un evento, ovvero la verità che si fa singolarità. Socrate è davvero un corruttore, perché quando il demone irrompe, la verità rompe l'attesa della morte sulle trame della quale si costruisce il racconto del Fedone: Socrate costruisce l'immortalità sulla dimostrazione dell'universalità del concetto. «Ebbene, o Fedone, egli disse, non sarebbe dunque una condizione lamentevole questa, di uno che, pur essendoci qualche ragionamento vero e saldo e di cui sia pur possibile capire che è vero e saldo; per il fatto che poi egli venga a trovarsi dinnanzi a ragionamenti i quali, benché siano sempre gli stessi, cioè veri o falsi, ora gli appariscono veri ora no, non già incolpasse sé medesimo e la sua particolare imperizia, ma, per il piacere di liberarsi dal tormento di simile alternativa, finisse col respingere da sé quella ch'è unicamente sua colpa e la gittasse addosso ai ragionamenti stessi, e così oramai seguitasse tutto U resto di sua vita, odiando e maledicendo ogni ragionamento, e si privasse della conoscenza e della verità di ciò che realmente esiste?»
Machiavelli è indignato contro gli utopisti e contro i tiranni. Anch'egli risponde alla voce di un demone, del demone repubblicano e democratico. Mentre scrive i Discorsi sulle Deche di Tito Livio, commentando le regole del comando sovrano, raccontando l'autonomia del politico, egli avverte come dietro la sovranità ed il politico si annidi l'odio della moltitudine: ecco dunque, allora, la scoperta del soggetto politico, dell'evento demoniaco. Sono i Ciompi, il proletariato fiorentino, che insegnano come il potere si fa, senza ordine, contro l'ordine, inseguendo la volontà e la gioia dei singoli. Questa è la Repubblica.
Spinoza è indignato contro i teologi e la superstizione religiosa. I teologi danno del Dio che vive in noi un'immagine superstiziosa: le Chiese sono un asylum ignorantiae. «Resta, infine, da indicare quanto la conoscenza di questa dottrina giovi alla pratica della vita... In quanto insegna che noi agiamo per il solo potere di Dio, e che siamo partecipi della natura divina, e tanto più quanto più perfette sono le azioni che noi compiamo, e quanto più comprendiamo Dio. Questa dottrina, dunque, oltre a rendere l'animo del tutto tranquillo, ha anche il merito di insegnarci in che cosa consiste la nostra somma felicità o beatitudine, e cioè nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti a fare soltanto quelle cose che l'amore e la pietà suggeriscono. Donde intendiamo chiaramente quanto siano lontani dalla vera valutazione della virtù coloro i quali, in cambio della virtù e delle buone azioni, come se si trattasse di una somma schiavitù, si aspettano di essere ricompensati da Dio con sommi premi, quasi che la stessa virtù e il servire Dio non fossero la stessa felicità e la somma libertà».
Quanto a Nietzsche, egli è indignato contro la stanchezza dello spirito, contro la rassegnazione e il risentimento, contro l'istinto d'armento, contro il populismo, la plebe, la massa. Ed egli cerca la rivolta degli schiavi contro la morale della rassegnazione. L'aristocratico pathos della distanza del saggio dagli ignoranti diviene coscienza dell'insopportabile e quindi motore di rivolta. «E dunque passato tutto ciò? Quel contrasto di ideali, grandissimo per tutti, sarebbe così messo ad acta per sempre? Oppure soltanto aggiornato a un'epoca lontana?... Potrà mai darsi che in qualche tempo avvenire torni a divampare l'antico incendio ancor più terribile, dopo una assai più lunga preparazione? E più ancora: non sarebbe proprio questo da desiderare con tutte le forze? e anche da volere? anche da promuovere?... Chi a questo punto comincia, al pari dei miei lettori, a meditare, ad approfondire i suoi pensieri, difficilmente potrà venirne presto a capo - una ragione sufficiente, per me, per venire a capo lo stesso, essendo divenuto da un pezzo abbastanza chiaro quel che io voglio, quel che io voglio precisamente con quella pericolosa parola d'ordine che è espressamente scritta nel mio ultimo libro: ''Al di là del bene e male'"... Se non altro questo non significa: "Al di là di buono e cattivo"...»

4. Nella storia del pensiero, il cattivo maestro genera discepoli, ma li genera ambiguamente. Proprio perché egli è un evento di libertà, U cattivo maestro non disciplina la generazione: egli avrà discepoli fedeli e infedeli, l'ambiguità e l'alternativa vivranno nella sua discendenza. Questo vale per Socrate. Egli ha discepoli materialisti come Senofonte e i megarici, ma d'altra parte i filosofi platonici e accademici ne rivendicano un'eredità trascendentale. E su questa ambiguità che Socrate permane il punto di riferimento originario della filosofia morale. Machiavelli ha come allievi i rivoluzionari rinascimentali e quelli protestanti che portano l'idea di repubblica attraverso l'Europa e al di là dell'Atlantico. Ma a questa epopea corrispondono gli altri, allievi e falsificatori di Machiavelli, i teorici della ragion di Stato, gli uomini e i preti del Concilio tridentino, i maestri dell'ipocrisia e dell'inquisizione. A Spinoza fu concesso un destino più alto, l'ambiguità si svolse nella teoria, nel contrasto tra l'illuminismo materialista di Diderot e l'idealismo degli Schelling e degli Hegel. Il pensiero rivoluzionario dei Lumi e l'astuta vicenda del Geist vissero a lato l'una dell'altra, la prima come Abele e la seconda Caino. Quanto a Nietzsche, da lui derivò tutta la post-modernità, e il suo pensiero fu piegato dai nazisti e dai detrattori del genere umano a loro filosofia: ci volle un secolo perché la post-modernità forte della «morte dell'uomo» fosse recuperata e sviluppata interamente. Perché questo avviene? Perché, come si è detto, il cattivo maestro non dà certezza dogmatica. Egli è un vero partigiano che sa dove porsi nella lotta pratica, nella storia, laddove dunque gli uomini sono costretti alla scelta. L'ambiguità o i paradossi non possono essere sciolti se non da un punto di vista pratico. Non c'è una doppia verità come teorizzano da sempre i filosofi platonici e i politici disincantati e inquisitori: c'è sempre una soluzione pratica dei problemi reali. Solo nella pratica il concetto di cattivo maestro si scoglie, meglio autodissolve la propria ambiguità e il suo generare diviene reale. Dobbiamo fare nostro il dispositivo del cattivo maestro: che fosse cattivo ce l'hanno detto, ma che sia un maestro possiamo scoprirlo soltanto noi, praticamente, immergendoci nell'evento del suo apparire. Costruire un cattivo maestro è un corpo a corpo che dobbiamo imporci. Il cattivo maestro in un corpo nuovo, è un nuovo paradigma, è una trasvalutazione di valori. Così Nietzsche: «Ci avviciniamo alla conclusione. I due valori antitetici "buono e cattivo", "buono e malvagio" hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni; e per quanto possa essere certo che da un pezzo il secondo valore è prevalso sul primo, ancor oggi non mancano luoghi in cui si continua con esito incerto a combattere questa battaglia. Si potrebbe persino dire che nel frattempo essa si è portata sempre più in alto e che appunto è divenuta sempre più profonda, sempre più spirituale: sicché oggi non esiste forse alcun segno più determinante della ''natura superiore", della natura più spirituale, che essere scissi nel senso che si è detto ed essere ancora realmente un campo di battaglia per quelle antitesi».

5. Di quale cattivo maestro abbiamo bisogno oggi? Probabilmente di molti. Che si sia entrati in un mondo nuovo, infatti, nessuno dubita più. Non ci basteranno dunque tutti i cattivi maestri insieme ad orientarci, socratici, machiavellici, spinozisti, nietzscheani... No, non basta. Questa volta i cattivi maestri devono diventare moltitudine. Nessuno ha mai provato a confrontarsi con una moltitudine di uomini liberi, ed eguali, capaci di amore e forti! Noi dobbiamo provarci. Questa moltitudine di cattivi maestri è la carne del mondo che viene, è l'accesso a un età di mostri. L'indignazione, ovvero, come si disse di Socrate, la corruzione dei giovani, sono il nostro ideale morale.

6. Luciano Ferrari Bravo ha vissuto interamente quel mutamento di paradigma che caratterizza la storia presente e che ci ha introdotto dal moderno al post-moderno. E stato un cattivo maestro perché ha inventato, con estrema dolcezza, un nuovo modo di stare al mondo.

da Antonio Negri Luciano Ferrari Bravo Ritratto di un cattivo maestro
manifesto libri 2003