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giovedì, ottobre 27, 2011

La Terza Repubblica dei movimenti*** Considerazioni sull'alternativa e il conflitto costituente

La Terza Repubblica dei movimenti***
Considerazioni sull'alternativa e il conflitto costituente
21 / 10 / 2011


Dopo la giornata del 15 Ottobre il movimento in Italia ha come compito prioritario quello di non farsi comprimere nella morsa delle semplificazioni o nelle secche dicotomie e, allo stesso tempo, di preservare il suo carattere aperto e molteplice. Questo rischio ci sembra sia stato delineato, meglio che da chiunque altro, dall'editoriale di Piero Ostellino apparso sulle pagine del Corriere della Sera. Ostellino, infatti, utilizza gli scontri avvenuti nel corso della manifestazione per ammonire che non esistono possibilità di trasformazione dell'esistente che non siano chiuse nella scelta tra la guerra civile e il riformismo rispettoso della democrazia rappresentativa e delle regole del mercato capitalistico. Tertium non datur. Il conflitto anche radicale quando si presenta sulla scena, è presto o tardi destinato ad imboccare una delle due strade, lasciando dietro di sé qualsiasi velleità di modificazione dei rapporti sociali.

Muovendo da queste premesse riteniamo che sia decisivo oggi, ancor più di prima, approfondire la riflessione sulla categoria politica che va sotto il nome di 'alternativa' in quanto questa dovrebbe precisamente occupare quel posto che, la riflessione di Ostellino, tenta di escludere dal gioco. La necessità è facilmente comprensibile: siamo in una fase storica segnata da una crisi strutturale del capitalismo neoliberale che riguarda insieme i fondamenti del sistema economico-sociale e di quello istituzionale che si è andato costruendo negli ultimi trent’anni. Questa crisi porta con sé la diffusa consapevolezza che non è più possibile, per nessuno, tornare indietro. Per chi vuole cogliere sul serio la radicalità del tempo storico che stiamo vivendo, quella sull’alternativa è dunque una discussione obbligata. Obbligata ma, è bene precisarlo, anche assai ambigua: la categoria politica dell’alternativa infatti riassume in sé un insieme di significati ed opzioni differenti e potenzialmente divergenti. È bene dunque cominciare a districare i fili di questa densa matassa.

1. Lo statuto della rivolta

Negli interventi di Fausto Bertinotti su il manifesto, vi è un presupposto da cui ci sembra utile iniziare: la dimensione politico-istituzionale è attualmente imbrigliata all’interno di un recinto che non offre vie d’uscita. Dentro questo recinto, espressione diretta della governance finanziaria (platealmente mostrata dalle letterine della Bce al governo italiano), non è più possibile alcuna esperienza di governo realmente alternativa. Tanto meno possibile è il ricorso, fuori tempo massimo, a opzioni politiche che passino per una riabilitazione della democrazia rappresentativa, già da lungo tempo in crisi ed oggi costretta a confrontarsi con la fase terminale del suo declino. Solo la «rivolta», qualora fosse in grado di rompere il quadro delle compatibilità, sarebbe capace di produrre un ripensamento della politica stessa.

Questa riflessione, a grandi linee condivisibile, necessita tuttavia di un paio di specificazioni. La prima, a monte, è che la presa in ostaggio operata dalla governance finanziaria nei confronti dei governi non è affatto riducibile ad un’“invasione di campo” nei confronti della politica. Essa è casomai l’espressione e l’altra faccia di quello stato di compenetrazione fra economia finanziaria e reale che ha ridefinito la stessa forma dell’accumulazione capitalistica. La pervasività della finanza (tanto nel campo economico quanto in quello politico) è piuttosto l’esito di una crisi (che precede di molto quella attuale) che riguarda da un lato la capacità di sfruttare forze produttive radicalmente mutate, dall’altra di governare popolazioni che hanno reso inadeguata, nel tempo, l’organizzazione disciplinare del potere. Quello che frettolosamente viene chiamato «strapotere della finanza» è in realtà una nuova forma di prelievo (di ricchezza e di decisione) che opera su forme di vita inedite; questo appare tanto più autoritario quanto più i vecchi schemi di organizzazione sociale si mostrano incapaci di organizzare e di comandare la vita. Questo significa che la crisi, insieme economica e politica, non è affatto l’espressione di uno stato di eccezionalità, ma il cortocircuito avvenuto nel nuovo ordine che si è da tempo cementificato.

Questa prima specificazione è strettamente connessa a quella, per così dire a valle, relativa allo statuto della rivolta. Se è vero che l’attuale crisi ha radici profonde e lontane e riguarda ad un tempo la modificazione della forma dell’accumulazione capitalistica e quella del governo, il “ruolo” attribuito alla rivolta non può essere in alcun modo riducibile ad una mera funzione di destrutturazione, fosse anche quella della «rottura del recinto». Non intendiamo attribuire tali pensieri all’ex Presidente della Camera, ma ci interessa denunciare una possibile interpretazione delle sue riflessioni. Questa cattiva interpretazione potrebbe essere così schematicamente riassunta: solo la rivolta, rompendo le compatibilità che imbrigliano le funzioni di governo, può riattivare il dispositivo sovrano e con questo, la legittimità della rappresentanza politica e sociale. Questo ci pare un modo assai discutibile ed inadeguato di rendere conto della nuova natura dei movimenti sociali.

Così come inadeguate, quando non proprio pericolose, ci sembrano le retoriche insurrezionaliste che circolano in questi giorni in rete. La loro logica parte da una lettura semplificata della situazione attuale secondo la quale l’aumento di intensità della crisi produrrebbe un’estensione del campo della rabbia sociale, la quale a sua volta tende ad esprimersi in un “corpo a corpo” simmetrico con la macchina statale: la molteplicità delle forme di conflitto viene schiacciata nell’immagine angusta della guerra civile. La rivolta, intesa in senso del tutto generico e indifferenziato come “scarica”, si trova stranamente ad essere in entrambi i casi il passaggio fondamentale tanto per una “sospensione” cieca dell’ordine sovrano, quanto per una sua “riabilitazione”. Entrambe le letture, benché da punti di vista diametralmente opposti, sembrano essere subalterni allo stesso «mito dello Stato» che già Foucault aveva convenientemente dissolto puntando l’attenzione sulla realtà del governo. In altri termini, per quanto possa suonare paradossale, a ricongiungere letture così differenti è l’idea secondo la quale nelle rivolte attuali si debba leggere l’espressione di un potere essenzialmente destituente.

Un ragionamento sulla categoria politica dell’alternativa dovrebbe invece partire dal presupposto contrario, ovvero dal riconoscimento del carattere costituente della tumultuosità sociale. Questo carattere costruttivo, istituzionale e normativo, è ben visibile nelle esperienze di movimento che passano dalla Spagna all’Islanda (caso quest'ultimo nel quale la pretesa democratica di rifiutare-rinegoziare il default diviene vera e propria norma costituente), dalle lotte dei lavoratori dello spettacolo che riscrivono lo statuto proprietario di un teatro occupato, a quelle degli studenti universitari che lanciano il processo dell’autoriforma dell’università, e arrivano fino alla straordinaria esperienza del referendum italiano dello scorso giugno. Queste esperienze ed altre ancora descrivono una vera e propria istanza trasformativa che punta a spezzare precisamente la vecchia politica dei due tempi che attribuiva alla conflittualità una funzione essenzialmente negativa e difensiva e alla politica della rappresentanza il mandato di tradurre le istanze provenienti “dal basso”. Disporre il discorso politico di movimento sul piano dell’alternativa non ha altro senso che interrogare l’esaurimento di questo “doppio tempo” e ci permette di collocare la creazione di momenti di lotta e di costruzione di rapporti di forza efficaci, all’interno di una traiettoria di mutamento.

2. I movimenti e la transizione italiana

Ora, occorre collocare queste premesse all’interno della cosiddetta «anomalia italiana». In Italia, infatti, siamo posti di fronte ad una sfida assai complessa ma non meno avvincente: davanti ai nostri occhi si consumano già da tempo trattative e prove di alleanze che puntano a ricomporre un quadro politico capace di garantire la transizione alla Terza Repubblica, facendo fuori precisamente, questo potere costituente che deriva dai movimenti. Questo quadro, anche prescindendo per ora dalle forma che prenderà (Governo Tecnico, Grande Coalizione, Nuovo Ulivo, assumendo che tra queste forme ci sono delle differenze) sarà edificato sugli stessi presupposti: rispetto del pagamento del debito, costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, patto sociale sul modello di quello siglato da Confindustria e Sindacati lo scorso 28 giugno e esecuzione delle misure di austerity e di privatizzazione del pubblico impartite dalle grandi istituzioni finanziarie. In questo quadro, e se questo quadro non viene preventivamente messo in questione, qualsiasi “partecipazione” dei movimenti è destinata, bene che vada, ad uno scontato quanto misero fallimento.

Tuttavia, benché scivoloso, occorre non abbandonare questo piano: dobbiamo sforzarci di capire come i movimenti sociali si inseriscono all’interno di questa transizione. Due sono, a nostro parere, i versanti sui quali aprire la discussione.

Il primo riguarda le attuali trasformazioni del Welfare State. Non basta qui limitarsi a constatare quanto le politiche di austerità stiano contribuendo alla sua distruzione. Molto più interessante è partire dall’idea secondo la quale oggi il Welfare si colloca, rispetto al sistema produttivo, in una posizione completamente differente rispetto al periodo storico in cui esso è stato edificato. Alcuni economisti (tra gli altri Boyer, Marazzi e Vercellone) hanno denominato con l’espressione «modello antropogenetico», l’emergenza di un nuovo sistema economico sempre più basato sui servizi incentrati sulla produzione dell’uomo per l’uomo, quali sanità, istruzione, cultura, sicurezza ecc. Se si accetta questa ipotesi, del resto confermata dalle dimensioni dominanti che questi settori occupano nel determinare la crescita, appare da subito evidente quanto le attuali trasformazioni del Welfare riguardino non più settori posti “accanto” ai processi produttivi, ma ne definiscano una profonda centralità. La modificazione o privatizzazione del Welfare è, in altri termini, il terreno centrale per rilanciare l’accumulazione capitalistica. Non è affatto un caso che i mercati finanziari se ne stiano occupando con tanta premura. Questa trasformazione del Welfare passa da una parte per un’accelerazione del disfacimento della cosiddetta società salariale (il lavoro gratuito, l’indebitamento privato, la precarizzazione dei rapporti lavorativi ne sono da tempo un lampante esempio), dall’altra per una messa in crisi, attraverso il blocco dei finanziamenti statali, delle stesse istituzioni pubbliche (ospedali, università e scuole, luoghi deputati alla cultura, ecc.). I movimenti sembrano aver ben compreso fino in fondo questo stato di cose, tanto che la loro azione si concentra sempre di più non solo nella rivendicazione di un reddito garantito sganciato dal rapporto salariale, ma più profondamente nella riappropriazione democratica di quelle stesse istituzioni. Abbiamo già prima citato alcuni esempi: ci basta qui dire che queste lotte, mentre difendono ciò che l’austerity mette in ginocchio, riscrivono le pratiche di gestione dei luoghi che occupano, ridefiniscono i soggetti che partecipano alla produzione del servizio, estendono e socializzano i modi di fruizione del servizio stesso ed arrivano ad affermare un nuovo tipo di proprietà comune, alternativa tanto ai processi di privatizzazione quanto alla vecchia gestione statuale. A partire da queste esperienze locali, che scommettiamo continueranno a svilupparsi, è possibile pensare ad una Federazione di questi prototipi di nuova istituzionalità sociale.

Riteniamo sia di fondamentale importanza riaprire la riflessione e il confronto su un nuovo federalismo post-statale, da intendere non come modello o forma di governo ma, al contrario, come processo orizzontale, pattizio, aperto, in grado di coinvolgere una pluralità di poteri, soggetti e istituzioni dotati ab origine di capacità costituente. Un federalismo, per usare le parole di Luciano Ferrari Bravo, concepito come concentrazione di potere non centralizzata, capace di tagliare trasversalmente e ricombinare dimensione territoriale e sociale.Nel contesto italiano questo ci sembra un tema di grande urgenza e attualità per ogni discussione seria sull'alternativa, a meno che non si consideri come federalismo già realizzato la riforma del Titolo V della Costituzione o, ancor peggio, l'attuale dibattito sul federalismo fiscale. Il terreno degli Enti locali, oggi strozzati dalla morsa dei tagli governativi, si può candidare ad esserne un primo canale significativo.

3. Una Costituzione per i prossimi vent’anni

In secondo luogo occorre constatare con un certo realismo che il prossimo passaggio alla Terza Repubblica è già segnato da una vera e propria transizione costituzionale. L’inserimento nella Costituzione della regola aurea del pareggio di bilancio e la modifica degli articoli relativi alla libertà d’impresa, descrivono già un processo, benché regressivo, di riforma che ne intacca la sostanza. La costituzione economica italiana risulterà profondamente mutata da questo processo. Perché non inserirsi in questa transizione ribaltandone però il segno?

Proponiamo questo discorso nonostante siamo ampiamente consapevoli della crisi in cui versano le costituzioni democratiche, sia che le si intenda come mera interfaccia e mediazione tra Stato e società o, più materialisticamente, come grande compromesso tra forze politiche, sociali ed economiche (il Welfare State appunto). E questa crisi, come ogni crisi, non ha di certo prodotto un vuoto. Le correnti neoistituzionaliste della scienza giuridica hanno già da diverso tempo osservato come essa sia stata accompagnata dall'emergere di nuovi dispositivi costituzionali che frammentano e al contempo sconfinano i perimetri dello Stato nazione, rendendo sempre più indistinta la linea che separava il diritto pubblico dal diritto privato. Muovendo da questi assunti risulta del tutto evidente l’insufficienza di un piano di proposta che non riguardi direttamente il campo europeo e transnazionale.

Siamo consapevoli, infine, che in Italia il dibattito sulla transizione sia stato il più delle volte del tutto ingannevole: il leitmotiv delle c.d. riforme istituzionali, che da più di ventennio informa il dibattito politico nel nostro paese, è stato utilizzato per negare alla radice la possibilità di riaprire un vero processo costituente. Si è rimasti a metà del guado o, meglio, in una palude: la Prima Repubblica sembra non essersi mai del tutto chiusa, la Seconda non ha mai del tutto preso forma se non in maniera distorta e deviata. In buona sostanza la parola transizione è stata utilizzata per ostacolare la possibilità della trasformazione reale.

Tuttavia crediamo che proprio per queste ragioni la legittima e condivisibile difesa della costituzione del '48 è, in questo quadro, una prospettiva assai debole. Se è vero che i movimenti oggi presentano un carattere istituzionale e normativo e che questo carattere si gioca fuori dai binari conosciuti della rappresentanza, allora è anche vero che i conflitti devono ambire ad un processo politico che non recuperi, ma prenda atto e casomai approfondisca, il disfacimento delle forme partitiche lavorando ad una vera e propria riconversione istituzionale. Occorre partire dall’idea che la stessa costituzione materiale si è oramai radicalmente modificata con la comparsa di nuove figure sociali che insistono su un comune terreno che è già politico. Allo stesso modo quello di una nuova Costituzione, conservando gli aspetti più avanzati di quella precedente, può diventare il punto più alto di convergenza e di ricomposizione delle molteplici istanze che si danno nelle lotte attuali e future. Una nuova Costituzione intesa come leva per l'apertura di un processo e non certo come suo esito conclusivo o come suo assorbimento su un piano meramente formale e procedurale (tenendo presente e sempre aperto, dunque, lo spazio politico e giuridico che distingue il potere costituente dalla stessa costituzione).

L’egemonia del discorso programmatico contenuto nell’espressione Beni Comuni e sancita dalla vittoria referendaria, dovrebbe rappresentare l’infrastruttura di questa nuova Costituente. In Francia, durante la Rivoluzione, la Costituzione del 1793, mai attuata, all'art. 28 recitava: 'Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi generazioni future'. Negli Stati Uniti, pochi anni prima, Thomas Jefferson opponendosi alla proposta di rieleggibilità del Presidente dell'Unione, auspicava una revisione completa della costituzione 'ogni vent'anni'. Rinnovando questa 'tensione costituente' riteniamo vada affrontato il dibattito sull'alternativa, perché questo è quello che chiedono a gran voce le piazze indignate globali.

*** Francesco Brancaccio, Alberto De Nicola e Francesco Raparelli

mercoledì, ottobre 26, 2011

Distruggere la paura, affermare il comune di COLLETTIVO UNINOMADE



Distruggere la paura, affermare il comune



di COLLETTIVO UNINOMADE

0. Nella sera romana illuminata dai fuochi di Piazza San Giovanni, abbiamo cominciato a interrogarci sulla giornata del 15 ottobre, su ciò che ha rivelato nelle molteplici scale geografiche che si sono incrociate a produrne la dimensione globale, sulla forza e sulle potenzialità che ha fatto emergere, sui problemi che consegna alla nostra riflessione e alle nostre pratiche. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo da materialisti, convinti – per citare uno che la sapeva lunga – che le azioni umane non vadano derise, compiante o detestate, ma prima di tutto comprese. Proviamo a farlo con queste note, segnalando alcuni dei punti che ci sembrano più rilevanti.

1. Partita da un appello degli indignados spagnoli, la mobilitazione del 15 ottobre si è diffusa in centinaia di città ai quattro angoli del pianeta, a riprova dell’efficacia di uno stile di azione e di un linguaggio politico (quello degli indignados, appunto) che meglio di altri paiono adattarsi alle modalità asimmetriche con cui la crisi colpisce società e popolazioni in diversi contesti geografici. La profondità della rottura dello sviluppo capitalistico si è riflessa nello specchio globale del 15 ottobre, offrendo un quadro ancora parziale ma tuttavia rivelatore dell’intensità delle lotte e delle ipotesi costituenti che ovunque cominciano a presentarsi. Straordinarie sono state le mobilitazioni di Madrid e Barcellona, concluse con assedi ai palazzi del potere, con occupazioni di scuole, palazzi e ospedali. Ma molto importanti sono state anche le manifestazioni negli Stati Uniti, che hanno portato un osservatore attento come Immanuel Wallerstein a parlare del più rilevante movimento sociale in quel Paese dal ’68. Anche qui l’occupazione fisica di uno spazio centrale a New York e l’indignazione di fronte al potere della finanza sono stati i tratti fondamentali di una radicalità che si è diffusa, in particolare dopo l’occupazione del ponte di Brooklyn, in altre città statunitensi. Attorno a questi punti alti della dinamica di indignazione si sono disposte le altre iniziative, più o meno consistenti dal punto di vista della partecipazione ma comunque essenziali nel dare un respiro globale alla giornata.

2. La manifestazione di Roma si è collocata all’interno di questo quadro con evidenti elementi distonici, che erano apparsi chiaramente già nelle modalità della convocazione e nel percorso della sua preparazione. Politicismo e provincialismo hanno pesato in Italia come in nessun altro contesto, e troppi sono stati i tentativi di sovrapporre il classico format della “manifestazione nazionale” a una convocazione che, proprio in quanto proveniente “dall’esterno”, garantiva una mobilitazione che nessuna forza organizzata è oggi in grado di determinare. Le logiche della rappresentanza (politico-istituzionale e/o di movimento) hanno così fin da principio introdotto elementi di “corruzione” all’interno della costruzione italiana del 15 ottobre. E non è certo un caso che realtà di lotta forti e radicate ma estranee alla logica della rappresentanza, come il movimento NoTav e gli “stati generali della precarietà” siano stati immediatamente indicati dai media come “responsabili” degli incidenti. La ricerca del precario gentile e del militante ragionevole, meglio ancora se ravveduto da un passato di sregolatezza, è stata una costante nei giorni successivi al corteo romano, essenziale alla costruzione della favoletta di un movimento “buono” (cioè compatibile con le logiche della rappresentanza) e una minoranza di “cattivi” e guastatori. Repubblica è stata particolarmente zelante in questa ricerca, a cui ha fatto da contraltare una patetica attività “investigativa” per individuare le realtà politiche da colpire. Ma come spesso accade, il “partito dell’ordine” ha unito in un unanime coro forcaiolo improbabili alleati – da Di Pietro a Maroni, da Repubblica al TG1.

3. La manifestazione, in ogni caso, è stata prima di tutto gigantesca, percorsa al proprio interno da una profonda eterogeneità sociale e culturale, prima ancora che politica. L’antiberlusconismo è stato senz’altro ben presente nei toni e nei sentimenti di molti e molte partecipanti. E abbiamo visto nella delazione di massa cominciata già in piazza, e poi rilanciata dai media (in primo luogo ancora da Repubblica), la faccia più inquietante dell’apologia della legalità che ha attraversato negli ultimi anni gli stessi movimenti. Su tutt’altro versante, è emersa la presenza di un’area che ha caratterizzato la prima parte del corteo con azioni dirette, a volte contro obiettivi chiaramente individuati (ad esempio le banche) a volte con cieca furia distruttiva. Tra queste due aree, il corteo romano era fin troppo affollato di gruppi, gruppetti e gruppazzi, ciascuno con le sue ipotesi su come rappresentare l’unità del movimento che manifestava a Roma. Nessuno è stato in grado di farlo, tutte quelle ipotesi si sono dimostrate non all’altezza del problema che politicamente la giornata del 15 poneva, quando non velleitarie. Questa “densità” di strutture politiche che in forme diverse fanno riferimento al “movimento” è una peculiarità italiana che ha finito per agire da freno rispetto al dispiegarsi di dinamiche di unificazione della protesta che altrove, ad esempio nei due casi citati in precedenza (in Spagna e negli Stati Uniti), si sono dispiegate in modo originale e autonomo. Nel vuoto politico che si è aperto a Roma sabato (ma che già si era palesato nelle settimane precedenti) lo spaesamento si è unito alla rabbia, fino all’esplosione di rivolta sociale in Piazza San Giovanni, con ore di resistenza e attacco di fronte alla violenza della polizia, a cui hanno partecipato migliaia di giovani e meno giovani. Qui, con ogni evidenza, comportamenti, pratiche, modi di stare in piazza (tra cui vanno ricordati quelli delle migliaia di altri manifestanti che semplicemente hanno rifiutato di andarsene) hanno dato allo scontro un segno totalmente diverso rispetto a quanto si era visto nelle ore precedenti.

4. Là dove si è manifestata in forme politicamente significative, la dinamica dell’indignazione presenta caratteri di radicale rottura, indipendentemente dal fatto che si esprima in forme diverse dallo scontro di piazza. E’ evidente in Spagna la rottura con la rappresentanza politica, a partire dalla banale circostanza che il movimento si è formato contro un governo di “sinistra” in cui molti avevano visto l’astro nascente di un nuovo riformismo socialista e non può certo avere nel Partito popolare il suo interlocutore. Ma l’occupazione degli spazi urbani, il dilagare nei quartieri, le occupazioni e le esperienze di autogestione dei servizi alludono a una dimensione pienamente costituente. Negli Stati Uniti d’altro canto, in un contesto completamente diverso dal punto di vista delle tradizioni e delle dinamiche politiche, è stata in primo luogo l’occupazione degli spazi urbani, al prezzo di centinaia di arresti, a esprimere la radicalità e consolidare la forza del movimento. Diffusa ovunque è poi la parola d’ordine della lotta contro il debito, che allude a un essenziale terreno di campagna comune. Crediamo che questi aspetti di radicalità e rottura segnino un punto di non ritorno per lo sviluppo delle lotte e dei movimenti dentro la crisi. Si tratterà di “tradurli” nei diversi contesti, senza pensare che esistano modelli “universali” (o “globali”). Ma indietro non si torna! A fronte dei processi di precarizzazione lavorativa ed esistenziale, di pauperizzazione generalizzata, di esclusione e declassamento, di espropriazione finanziaria, di emarginazione sociale, che nella crisi mostrano la loro faccia più feroce, la radicalità delle pratiche deve impiantarsi su una composizione sociale che sempre più trova nella povertà la propria cifra d’insieme. Tutto questo è prodotto dal Capitale. E a noi sembra che le lotte dentro la crisi debbano essere e siano innanzitutto lotte contro il Capitale e contro la povertà che esso ci impone.

5. Se questo è lo scenario che si prefigura per i prossimi mesi, si tratta di comprendere che la povertà viene vissuta da posizioni soggettive assai diversificate, profondamente eterogenee. Questa eterogeneità è un elemento costitutivo della composizione del lavoro vivo contemporaneo. Non lasciamoci ingannare dalla retorica, certo utile per costruire mobilitazione ma non priva di insidie, del 99% della popolazione contrapposto alle oligarchie finanziarie: suggerisce un’immagine di compattezza e di omogeneità dei referenti “sociali” del movimento che ovviamente non trova riscontro nella realtà. Comportamenti distruttivi, se non auto-distruttivi, sono connaturati ad alcune di queste posizioni soggettive. Quando alcune periferie della povertà, come era accaduto a Roma il 14 dicembre ed è tornato ad accadere il 15 ottobre, scendono in piazza, non è il caso di attendersi da loro proposte di riforma costituzionale. Lo si era visto del resto con la rivolta delle banlieues francesi nel 2005 e lo si è visto di nuovo quest’estate in Inghilterra. Non si tratta di fare un’apologia “estetizzante” dei comportamenti che hanno caratterizzato queste insorgenze. Si tratta di scegliere prima di tutto da che parte stare. E c’è una bella differenza tra stare con i poveri, anche se spaccano tutto, e non starci – considerali intoccabili, lebbrosi. Media, polizia e sistema politico non hanno dubbi su quale sia la parte giusta da cui stare. Noi neppure.

6. Solo un programma positivo, maggioritario, materialmente definito può probabilmente vincere gli eventuali caratteri distruttivi di alcuni settori del movimento dei poveri. Per dirla nei termini più semplici possibili: il problema di come far stare insieme in un corteo romano l’artista del Teatro Valle condannato alla precarietà e l’adolescente di Tor Bella Monaca che tendenzialmente a teatro non andrà mai è il problema che poniamo quando parliamo di programma. Il fatto che anche la semplice allusione a questo programma sia mancata nella preparazione del corteo romano del 15 ottobre è ampiamente riconosciuto nel dibattito che attraversa il movimento in questi giorni. Al più si è avvertita la presenza da parte di alcune componenti di un “programma minimo” costruito interamente attorno a linee di alleanza sindacale e politico-istituzionale (e non può stupire che a molti quel programma minimo sia apparso come un “opportunismo massimo”). A ciò si aggiunge la mancanza di obiettivi caratterizzati a un tempo da radicalità, immediata leggibilità e potenziale condivisione da parte della grande maggioranza dei manifestanti. C’era qui, soprattutto considerando i numeri imponenti del corteo, un limite di fondo che ha avuto un ruolo di primo piano nel determinare la dinamica romana di sabato scorso. Davvero grottesco, in particolare, ci è sembrato il tentativo di riesumare per l’occasione del 15 ottobre il modello del “social forum”. Ci è sembrato grottesco perché non teneva in nessun conto i cambiamenti profondi che si sono prodotti rispetto a una stagione di lotte e mobilitazioni certo importantissima, ma che aveva tra l’altro conosciuto il proprio scacco in una dinamica di rappresentazione sul terreno dell’opinione pubblica e della società civile di cui proprio il modello del “social forum” era stato espressione. La sconfitta della straordinaria mobilitazione globale contro la guerra in Iraq il 15 febbraio del 2003, quando milioni di donne e uomini scesero in piazza in tutto il mondo inducendo il New York Times (e l’ineffabile Repubblica di rimbalzo) a parlare della “seconda potenza mondiale”, è ancora viva nella memoria dei movimenti. Immaginiamo che qualcuno, il 15 ottobre, abbia ricordato con nostalgia l’oceanica manifestazione romana di quel giorno di febbraio. Molti di noi hanno invece ripensato al senso di impotenza provato in quell’occasione di fronte a una guerra che stava per cominciare e che non eravamo riusciti a fermare. E hanno semmai avvertito una certa somiglianza tra quel senso di impotenza e lo spaesamento di molti manifestanti romani il 15 ottobre. Né nelle piazze spagnole né a Zuccotti Park a New York si respirano senso di impotenza e spaesamento.

7. Attorno al metodo – è bene sottolinearlo – i movimenti italiani conoscono un limite di fondo: mai sono stati capaci di cogliere nell’orizzontalità, nella massificazione del movimento, la singolarità della decisione, ovvero la decisione voluta da tutti, e che nasce solo quando se ne parla prima, quando se ne discute a lungo, quando se ne dibatte senza la paura di esser ascoltati, senza aver voglia di esser subito intervistati. Speriamo che quanto è avvenuto non rappresenti l’ultima avventura dei movimenti nati negli anni Novanta, che riconobbero nella forma-manifestazione l’evento decisivo. C’è un nuovo movimento oggi, che considera il comune costituente come il suo orizzonte e la discussione senza paura e senza autorità come il suo metodo. In Italia, questo movimento si è espresso attorno alle elezioni amministrative e nei referendum della scorsa primavera, nelle lotte contro la TAV in Val di Susa, vive nelle mille esperienze di auto-organizzazione e di lotta di precari e migranti. Si tratta di lasciargli spazio e voce, nella consapevolezza che solo un progetto costituente può unificare tutti nel movimento. In Spagna, l’elemento qualificante di questa unificazione è stato senz’altro l’acampada. Il vivere insieme nelle piazze. Poi si sono sviluppati comitati di quartiere su cui si sono assommate le funzioni dell’emancipazione concreta del proletariato moltitudinario. Si tratta di camere del lavoro metropolitano e di centri di occupazione e di autogestione delle istituzioni del Welfare ormai disertate dallo Stato. Ma c’è ben altro. La chiave del modello costituente nella vita condivisa sta nella distruzione della “paura” che troppi ancora sentono, non appena si tratta di stare insieme. Una distruzione praticata con esperienze pacifiche, collettive, di massa – quando questo è possibile –, ma senza mai cedere alla facilità di abbandonare i poverissimi della società, i senza tetto, gli ipotecados, gli indebitati, i nuovi poveri, e tutte le altre vittime del saccheggio capitalistico odierno. Non aver paura è resistere al potere ed esprimere potenza d’invenzione, di produzione sociale e politica. Attorno alle lotte contro il debito, le privatizzazioni, contro la speculazione sulle “grandi opere”, per l’organizzazione comune dei servizi di Welfare e per la riappropriazione della rendita finanziaria alcuni elementi di programma stanno cominciando materialmente a definirsi. Non è certo all’interno dei confini degli Stati nazionali che questi elementi possono comporsi e saldarsi efficacemente! La conquista dello spazio europeo, lacerato dalla crisi e trasformato nelle sue stesse geografie tanto dalla crisi stessa quanto dai movimenti di rivolta nel Maghreb, torna qui a proporsi come compito immediato e straordinariamente urgente per le lotte e per i movimenti.

Ps: mentre scriviamo molte ragazze e ragazzi sono ancora in galera. Chiederne l’immediata scarcerazione, senza se e senza ma, è il dovere comune di tutte e tutti. Pensiamo che nessuno possa avere dubbi su questo.

sabato, settembre 03, 2011

La Quinta Colonna: Simonetti Walter Il Messia del nulla

La Quinta Colonna: Simonetti Walter Il Messia del nulla: Simonetti Walter Il Messia del nulla unico sei venuto scritto nei libri l'anticristo per la Chiesa Gesù degli eoni come Zarathust...

domenica, maggio 29, 2011

La Quinta Colonna: L'Abolizione del lavoro Bob Black

La Quinta Colonna: L'Abolizione del lavoro Bob Black: " The abolition of work Bob Black  Albany, NY, 1985 Nessuno dovrebbe mai lavorare. II lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mo..."

sabato, maggio 28, 2011

L'Abolizione del lavoro Bob Black


The abolition of work Bob Black

Albany, NY, 1985


Nessuno dovrebbe mai lavorare.
II lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mondo.
Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine
dal lavoro o dal fatto che si vive in un mondo finalizzato al lavoro. Per eliminare questa tortura, dobbiamo abolire il lavoro. ' i Questo non significa che si debba porre fine ad ogni attività produttiva.
Ciò vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul
gioco; in altre parole, compiere una rivoluzione ludica. Nel
termine "gioco" includo anche i concetti di festa, creatività, socialità, convivialità, e forse anche arte. Per quanto i giochi a carattere infantile siano già di per sé apprezzabili, i giochi possibili sono molti di più. Propongo un'avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un'esuberanza libera ed interdipendente. Il gioco non è un'attività passiva. Indubbiamente noi tutti necessitiamo di dedicare tempo alla pigrizia e all'inattività assolute molto più di quanto facciamo ora, e ciò senza doversi preoccupare del reddito e dell'occupazione;
ma è anche vero che, una volta superato lo stato di prostrazione
determinato dal lavoro, pressoché ognuno desidererebbe svolgere una vita attiva. L'oblomovismo e lo stakanovismo sono due facce di una stessa moneta falsa.
La vita ludica è totalmente incompatibile con la realtà attuale.
E allora tanto peggio per la "realtà", questo buco nero che succhia
la residua vitalità da quel poco che ancora distingue la nostra vita nella semplice sopravvivenza. È strano — o forse non tanto — che tutte le vecchie ideologie appaiano conservatrici, e ciò proprio in quanto tutte danno credito al lavoro. Per alcune di esse, come il marxismo, e la maggior parte delle varianti dell'anarchismo, la loro fede nel lavoro appare tanto più salda in quanto non vi è molto d'altro cui esse prestino fede.
I progressisti dicono che dovremmo abolire le discriminazioni sul lavoro. Io dico che dovremmo abolire il lavoro. I conservatori appoggiano le leggi sul diritto al lavoro. Allo stesso modo dell'ostinato genero di Karl Marx, Paul Lafargue, io sostengo il diritto alla pigrizia. La sinistra è a favore della piena occupazione. Come i surrealisti — a parte il fatto che sto parlando seriamente — io sono a favore della piena ^iioccupazione. I trotskisti diffondono l'idea di una rivoluzione permanente. Io quella di una baldoria permanente. Ma se tutti gli ideologi, così come accade, sono a favore del lavoro — e non solo perché hanno in mente di far fare ad altri la parte di esso che loro compete — tuttavia sono stranamente riluttanti ad ammetterlo. Continuano a disquisire all'infinito su salari, orari, condizioni di lavoro, sfruttamento, produttività e profitto. Parleranno volentieri di qualunque argomento tranne che del lavoro stesso. Questi esperti, che sempre si offrono di pensare per noi, raramente ci renderanno partecipi delle loro conclusioni riguardo al lavoro, e ciò malgrado il rilievo che esso assume nella vita di noi tutti. Fra di loro arzigogolano sui dettagli. Sindacati ed imprenditori concordano sul fatto che sia necessario vendere tempo della nostra vita in cambio della sopravvivenza, benché poi contrattino sul prezzo. I marxisti pensano che dovremmo essere diretti dai burocrati. I "libertari" da uomini d'affari. Le femministe non si pongono il problema di quale forma debba assumere la subordinazione, purché i dirigenti siano donne. Chiaramente questi mercanti di ideologie mostrano un notevole disaccordo su
come dividersi le spoglie del potere. Ma è ancora più chiaro che nessuno di loro ha nulla da obiettare sul potere in quanto tale, e che tutti costoro vogliono che noi si continui a lavorare.
Forse vi state chiedendo se stia scherzando o parlando seriamente. L'uno e l'altro. Essere ludici non significa essere incongruenti. Il gioco non è necessariamente un'attività frivola, ancorché l'essere frivoli non significhi essere superficiali: molte volte è necessario prendere seriamente ciò che appare frivolo. Vorrei che la vita fosse un gioco, ma che la posta in gioco fosse alta. Vorrei continuare a giocare per sempre.
L'alternativa al lavoro non è solo l'ozio. Essere ludici non è essere QUAALUDIC. Sebbene ritenga molto apprezzabile il piacere del sonnecchiare, questo non è mai cosi appagante come quando fa da pausa rispetto ad altri piaceri e distrazioni. E non sto nemmeno esaltando quella valvola di sfogo comandata a tempo chiamata "tempo libero": lungi da me. Il tempo libero è un non-lavoro, che esiste in funzione del lavoro. Il tempo libero è tempo impiegato a ristabilirsi dagli effetti del lavoro, non è altro che il tentativo frenetico e frustrante di dimenticare il lavoro. Molta gente torna dalle vacanze talmente spossata, che non vede l'ora di tornare al lavoro per potersi finalmente riposare. La principale differenza tra il lavoro e il tempo libero è che al lavoro in fin dei conti sei pagato per la tua alienazione e per il logoramento dei tuoi nervi.
Non sto proponendo astratti giochi di parole. Quando affermo che voglio abolire il lavoro, intendo dire esattamente quello che sto dicendo, ma ora voglio chiarire la questione definendone i termini in modo non emotivo. La mia definizione minima di lavoro è quella di lavoro forzato, cioè, produzione obbligatoria. Entrambi gli elementi sono essenziali. Il lavoro è produzione imposta attraverso strumenti economici e politici, cioè col metodo del bastone e della carota. (La carota è la continuazione del bastone con altri mezzi). Ma non ogni produzione è lavoro. Il lavoro non è mai un'attività fine a se stessa, ma è sempre svolto in vista di una certa produzione o risultato che il lavoratore (o, più spesso, qualcun altro) trae da esso. Questo è ciò che il lavoro necessariamente rappresenta. Definirlo significa disprezzarlo. Ma il lavoro è di solito molto peggio di quanto esprima la sua definizione. La dinamica del dominio intrinseca al lavoro lo spinge nel corso del tempo lungo un percorso evolutivo. Nelle società avanzate basate sul lavoro, e quindi in tutte le società industriali, sia capitaliste che "comuniste", il lavoro invariabilmente acquisisce ulteriori connotati che ne accentuano il carattere ripugnante.
Di solito — e questo è ancor più vero nei paesi "comunisti" che in quelli capitalisti, in quanto in essi lo Stato è praticamente l'unico datore di lavoro e ognuno è lavoratore dipendente — il lavoro è lavoro subordinato, vale a dire lavoro salariato, ciò che significa vendersi a rate. Così il 95% degli americani che lavorano, lavora per qualcun altro (o qualcos'altro). In Russia, a Cuba, in Jugoslavia, o in qualsiasi altra situazione del genere a cui si voglia far riferimento, la percentuale corrispondente si avvicina al 100%. Solo le fortezze contadine sotto assedio costituite dai Paesi agricoli del Terzo Mondo — cioè Messico, India, Brasile, Turchia—difenderanno ancora per qualche tempo l'esistenza di forti concentrazioni di agricoltori che perpetuano la condizione tradizionale, comune alla maggior parte dei lavoratori negli ultimi millenni, cioè il pagamento di tasse (= riscatto) allo Stato o dell'affìtto a proprietari terrieri parassitari, in cambio delia semplice possibilità di vivere in pace. Ma ora anche un patto così brutale comincia ad apparire accettabile. Ora tutti i lavoratori dell'industria (e negli uffici) sono salariati e sottoposti ad un tipo di sprveglianza che ne assicura il servilismo.
Ma il lavoro moderno implica conseguenze ancora peggiori. La gente non lavora in senso proprio, ma svolge delle "mansioni". Ognuno svolge continuamente una sola mansione produttiva in forma coercitiva. Anche nel caso in cui il lavoro presenta un certo interesse intrinseco (carattere sempre meno presente in molte occupazioni) la monotonia derivante da tale coercizione all'esclusività elimina il suo potenziale ludico. Una "mansione" che, qualora venisse svolta per il piacere che ne deriva, impegnerebbe le energie di alcune persone per un lasso di tempo ragionevolmente limitato, si tramuta invece in un peso per coloro che la devono svolgere per 40 ore la settimana, senza poter dire nulla su come dovrebbe essere svolta, e questo per il profitto dei proprietari, i quali non contribuiscono affatto al progetto, e senza nessuna opportunità di dividere i compiti e di distribuire il lavoro fra quelli che effettivamente lo devono compiere. Questa è la realtà del mondo del lavoro: un mondo di confusione burocratica, di molestie e discriminazioni sessuali, di capi ottusi che sfruttano e tiranneggiano i loro subordinati i quali — secondo ogni criterio tecnico razionale — sarebbero in realtà nella posizione di decidere da soli. Ma nel mondo reale il capitalismo subordina l'aumento razionale della produttività e del surplus alla propria esigenza di tenere sotto controllo l'organizzazione della produzione.
Il senso di degradazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme assortito di prevaricazioni, le quali possono essere tutte riassunte nel termine "disciplina". Nell'analisi di Foucault tale fenomeno appare piuttosto complesso, mentre in realtà esso risulta essere abbastanza semplice. La disciplina consiste nell'insieme di quei sistemi di controllo totalitari che vengono applicati sul posto di lavoro — sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all'entrata e all'uscita —. La disciplina è ciò che la fabbrica, l'ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e il manicomio. Storicamente questo sistema risulta essere qualcosa di originale e terrificante. Un tale risultato va al di là delle possibilità di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan, o Ivan il Terribile. Nonostante le loro peggiori intenzioni, essi non disponevano di macchine atte a un controllo dei loro sudditi così capillare quanto quello attuato dai despoti moderni. La disciplina è un diabolico modo di controllo tipicamente moderno, è un corpo estraneo prima d'ora mai visto, e che deve essere espulso alla prima occasione.
Tale è la natura del "lavoro". Mentre il gioco è esattamente il suo opposto. Il gioco è sempre deliberato. Ciò che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando diviene un'attività coercitiva. Questo è lampante. Bernie de Koven ha definito il gioco come "la sospensione della consequenzialità". Tale definizione è inaccettabile se implica che il gioco non sia un'attività conseguente. La questione non è se il gioco sia privo di conseguenze. Affermare ciò significa svilire il gioco. Il fatto è che le conseguenze, quando ci sono, hanno il carattere della gratuità. Il giocare e il donare sono attività fortemente correlate, sono aspetti comportamentali e transazionali relativi ad uno stesso impulso, l'istinto del gioco. Condividono lo stesso aristocratico disprezzo per i risultati. Il giocatore vuole ottenere qualcosa dal gioco; questo è il motivo che lo spinge a giocare. Ma la ricompensa essenziale sta nell'esperire quella stessa attività, qualunque essa sia. Uno studioso del gioco altrimenti avvertito, quale è stato Johan Huizinga {Homo ludens), definisceW gioco come un'attività retta da regole. Per quanto io nutra rispetto per l'erudizione di Huizinga, respingo energicamente una tale limitazione. Esistono, è vero, numerosi e ottimi giochi (scacchi, baseball, monopoli, bridge) che seguono regole ben precise. Tuttavia l'attività ludica comprende molto di più che il gioco normato. La conversazione, il sesso, il ballo, i viaggi — queste attività non seguono regole ma sono sicuramente dei giochi, se mai ne esiste qualcuno —. E delle regole ci si può prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa.

Il lavoro si fa beffe della libertà. La linea ufficiale è che a tutti sono riconosciuti dei diritti, e che viviamo in una democrazia. Ma esistono individui meno fortunati che non sono così liberi come noi e vivono in Stati di polizia. Costoro sono delle vittime costrette ad eseguire continuamente ordini senza discussioni, per quanto essi possano essere arbitrari. Le autorità li sorvegliano strettamente. I burocrati controllano anche i più piccoli dettagli della loro vita quotidiana. I funzionari che li comandano a bacchetta, rispondono solo ai loro diretti superiori, siano essi pubblici o privati. Il dissenso e la disobbedienza vengono entrambi repressi. Gli informatori riferiscono regolarmente alle
autorità. Ovviamente tutto ciò rappresenta una situazione terrificante.
E così è, sebbene questa non sia altro che la descrizione di un moderno luogo di lavoro. I progressisti, i conservatori, e i libertari che si lamentano del totalitarismo sono falsi e ipocriti. C'è più libertà in una dittatura moderatamente destalinizzata di quanta ve n'è in America in un ordinario luogo di lavoro. In un ufficio o in una fabbrica trovi lo stesso genere di gerarchia o di disciplina proprio di una prigione o di un monastero. Infatti, come Foucault ed altri hanno dimostrato, prigioni e fabbriche nascono all'incirca nello stesso periodo, e i loro gestori consapevolmente si scambiano fra loro le tecniche di controllo. Il lavoratore è uno schiavo part-time. Il datore di lavoro decide quando bisogna comparire sul luogo di lavoro e quando bisogna andarsene, e cosa si deve fare in quel lasso di tempo. Ti dice quanto lavoro devi fare e a quale ritmo. Ha la facoltà di spingere il suo controllo fino ad estremi umilianti, stabilendo, se lo desidera, quali vestiti devi indossare e quanto spesso puoi recarti al gabinetto. Con poche eccezioni può licenziarti per una ragione qualsiasi, o anche per nessuna. Può spiarti facendo uso di informatori ed ispettori, compila un dossier per ogni impiegato. L'atto di ribattere viene chiamato "disobbedienza", proprio come se il lavoratore fosse un bambino impertinente. Egli non solo può licenziarti, ma può anche farti perdere il diritto al sussidio di disoccupazione. Senza necessariamente avallare un tale atteggiamento in rapporto ai bambini stessi, è degno di nota che a scuola e a casa essi ricevono lo stesso trattamento, giustificato nel loro caso da una supposta immaturità. E che cosa fa venire in mente tutto ciò riguardo i loro genitori o i loro insegnanti in quanto lavoratori?
Per decenni, e per la maggior parte delle loro vite, l'umiliante sistema di dominio che ho descritto regola più della metà del tempo che la maggior parte delle donne e la stragrande maggioranza degli uomini passano in stato di veglia. In rapporto a certi scopi non è troppo fuorviante chiamare il nostro sistema democrazia, oppure capitalismo, o meglio ancora industrialismo, ma i termini più appropriati sarebbero fascismo di fabbrica e oligarchia d'ufficio. Chiunque dica che certe persone sono "libere" mente o è uno sciocco. Tu sei quello che fai: se fai un lavoro stupido, noioso, monotono, hai buone probabilità di diventare stupido, noioso e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo servile da cui siamo circondati, ancor più dei pur potenti meccanismi di istupidimento rappresentati dalla televisione e dal sistema di istruzione. Gente irreggimentata per tutta la vita, sospinta al lavoro dalla scuola, rinchiusa nella famiglia all'inizio della loro vita e in una casa di cura alla fine, non può che essere assuefatta alla gerarchia e mentalmente schiava. Ogni attitudine all'autonomia risulta talmente atrofizzata che la paura della libertà è tra le poche fobie che in loro appaiono razionalmente fondate. L'addestramento alla dedizione verso il lavoro ha
luogo nelle loro famiglie di provenienza, ma anche nell'ambito della politica, della cultura, e in ogni altro campo di attività, riproducendo così il sistema in più di una maniera. Una volta che la vitalità della gente sia stata loro sottratta nell'ambito del lavoro, è molto probabile che costoro si sottometteranno alla gerarchia e agli specialisti in rapporto ad ogni altra attività. Ci sono abituati.
Siamo così immersi nel mondo del lavoro che non possiamo renderci completamente conto di quanto esso determini la nostra esistenza. Dobbiamo così affidarci ad osservatori esterni, prodotto di altre epoche e di altre culture, se vogliamo essere in grado di percepire i pericoli e il carattere patologico della nostra presente condizione. Nel nostro passato vi fu un'epoca in cui J' "etica del lavoro" sarebbe stata incomprensibile; e forse Weber /era sulla strada giusta quando collegò la sua comparsa all'avvento di una nuova religione, il calvinismo, poiché se tale etica fosse comparsa oggi invece di 4 secoli fa sarebbe stata appropriatamente e immediatamente riconosciuta come il prodotto di una scelta. Comunque stiano le cose, possiamo solo far ricorso alla saggezza degli antichi se vogliamo collocare il lavoro in una prospettiva storica. Gli antichi considerarono il lavoro per ciò che effettivamente è, ed il loro punto di vista prevalse, nonostante le eccentricità calviniste, fino a quando le loro idee non vennero cancellate dall'industrialismo, ma non prima di ricevere l'approvazione dei suoi stessi profeti.
Ammettiamo per un momento la falsità della tesi secondo la quale il lavoro riduce l'uomo ad una condizione di insensata sottomissione. Ammettiamo pure, a dispetto di ogni plausibile visione della psicologia umana e dell'ideologia degli imbonitori, che il lavoro non abbia alcun effetto sulla formazione del carattere. E conveniamo ancora che il lavoro non sia così noioso, faticoso e umiliante come tutti ben sappiamo esso sia nella realtà.
Anche se così fosse, la realtà del lavoro mostrerebbe ancora quanto siano derisorie tutte le prospettive a carattere umanistico e democraticistico ad esso connesse, e ciò proprio in quanto esso usurpa una parte così rilevante del nostro tempo. Socrate disse che i lavoratori manuali diventano dei cattivi amici e pessimi cittadini, e ciò in quanto non dispongono del tempo necessario all'adempimento dei doveri inerenti all'amicizia e alla cittadinanza. Aveva perfettamente ragione. A causa del lavoro, qualunque cosa facciamo la facciamo guardando l'orologio. Ciò che è "libero" nel cosiddetto tempo libero, è nient'altro che un insieme di attività paralavorative che oltre tutto non costano nulla al padrone. Infatti, il tempo libero è dedicato soprattutto a prepararsi al lavoro, a recarsi al lavoro, a tornare dal lavoro, a riposarsi dal lavoro. 11 tempo libero è un eufemismo che allude al particolare carattere del lavoro come fattore di produzione, costituito dal fatto che esso non solo provvede a sue spese al proprio trasporto al e dal posto di lavoro, ma si assume l'onere principale per quanto concerne la propria manutenzione e la relativa messa a punto. Il carbone e l'acciaio questo non lo fanno. Il tornio e la macchina da scrivere neppure. Mentre i lavoratori sì. Nessuna meraviglia se Edward G. Robinson in uno dei suoi film di gangster proclama: "Il lavoro è per gli imbecilli!".
Sia Platone che Senofonte attribuiscono a Socrate — ed ovviamente siamo d'accordo con lui — una profonda consapevolezza circa gli effetti distruttivi del lavoro sul lavoratore, sia in quanto cittadino che come essere umano. Erodoto considerava il disprezzo per il lavoro come un tratto caratteristico della Grecia classica al culmine della sua fioritura. Traendo dalla civiltà romana un solo esempio, osserviamo che Cicerone affermava: "Chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso, e pone sé medesimo nel novero degli schiavi". Oggigiorno una tale franchezza è molto rara, ma le attuali società primitive.
quelle che noi guardiamo dall'alto in basso, ci mandano messaggi che hanno influenzato gli antropologi occidentali. I Kapauku della Nuova Guinea occidentale, secondo Posposil, hanno una concezione equilibrata della vita, e coerentemente ad essa lavorano solo a giorni alterni, essendo il giorno del riposo destinato "a riguadagnare il potere perduto e la salute". I nostri antenati, ancora alla fine del XVIII secolo, quando già si erano inoltrati lungo il cammino che porta alla nostra triste situazione attuale,
* almeno erano consapevoli di ciò che noi abbiamo dimenticato,
cioè del lato oscuro dell'industrializzazione. La loro osservanza riguardo il "Santo Lunedì" — cioè la pratica de facto della
, settimana di cinque giorni 150-200 anni prima della sua
instaurazione per legge — era la disperazione dei primi proprietari di industria. Fu necessario molto tempo prima che essi accettassero la tirannia della sirena, strumento che precede l'orologio a sveglia. Infatti fu necessario per un paio di generazioni sostituire gli adulti maschi con donne abituate all'obbedienza,
e bambini che potevano essere plasmati secondo le necessità della produzione industriale. Perfino i contadini sfruttati neìVancien regime riuscivano a strappare una considerevole quantità di tempo ai proprietari terrieri. Secondo Lafargue, un quarto del calendario dei contadini francesi era dedicato alle domeniche e ad ahre festività, e le cifre, desunte da Chayanov relative a villaggi della Russia zarista, che è arduo qualificare come società progressista, mostrano analogamente che i contadini dedicavano al riposo un quarto o un quinto dei loro giorni. In rapporto al livello di produttività siamo ovviamente molto indietro rispetto a queste società arretrate. I mugtki sfruttati sarebbero molto stupiti del fatto che vi sia ancora qualcuno di noi che lavori. E noi dovremmo condividere tale stupore.
Comunque, al fine di comprendere pienamente la profondità del deterioramento della nostra condizione consideriamo ora la vita dell'umanità primitiva, senza stato e proprietà, quando conducevano un'esistenza errabonda come cacciatori e raccoglitori. Hobbes presume che la loro vita fosse pericolosa, brutale e breve. Anche altri sostengono che allora la vita fosse una lotta continua e disperata per la sopravvivenza, una guerra contro una Natura ostile, con la morte e ogni genere di sventure in agguato per i meno fortunati, o per chiunque si fosse rivelato inadatto alla sfida posta dalla lotta per l'esistenza. In realtà tale idea rappresenta nient'altro che una proiezione del timore difiìiso nell'Inghilterra di Hobbes ai tempi della Guerra Civile, e proprio di comunità non abituate a fare a meno dell'autorità, riguardo un possibile crollo della struttura dello Stato. I connazionali di Hobbes avevano già incontrato forme alternative di società che mostravano altri modi di vita — particolarmente in Nord America — ma queste erano già troppo lontane dalla loro esperienza per essere comprensibili. (I ceti inferiori, più vicini alle condizioni degli Indiani, potevano comprendere meglio questo modo di esistenza e spesso ne furono attratti: durante tutto il XVII secolo i coloni inglesi abbandonarono il loro mondo unendosi alle tribù indiane, oppure quando vennero catturati in guerra, rifiutarono di tornare. Mentre gli indiani non si rifugiavano presso gli insediamenti dei bianchi, non più di quanto i tedeschi saltassero il muro di Berlino da ovest verso est). Il darwinismo, nella versione "della sopravvivenza del più adatto" — cioè quella di Thomas Huxley — costituisce più una fedele immagine delle condizioni economiche dell'Inghilterra vittoriana di quanto fosse della selezione naturale, come l'anarchico Kropotkin dimostrò nel suo libro 11 Mutuo Appoggio, un fattore dell'evoluzione. (Kropotkin fu uno scienziato — un geografo — che ebbe modo, del tutto involontariamente, di sperimentare a, fondo il lavoro dei campi quando venne esiliato in Siberia: sapeva ' di cosa stava parlando). Come la maggior parte delle teorie sociali politiche, ciò che Hobbes e i suoi successori hanno raccontato appare null'altro che qualcosa di simile ad una autobiografia non autorizzata. L'antropologo Marshall Sahlins, studiando i dati disponibili sugli attuali cacciatori-raccoglitori, confutò il mito hobbesiano in un articolo intitolato "L'originaria società dell'abbondanza". Infatti, essi lavorano molto meno di noi, ed è difficile distinguere il loro lavoro da ciò che noi chiamiamo gioco. Sahlins conclude che "cacciatori e raccoglitori lavorano meno di noi; la ricerca del cibo, invece di essere un lavoro continuo, è un'attività saltuaria mentre dispongono di molto tempo da dedicare al riposo, e la quantità di tempo consacrata al sonno da ciascun individuo nel corso di un anno è molto maggiore che in qualsiasi altro tipo di società". Essi "lavorano" in media quattro ore al giorno, presumendo che si possa ancora chiamare lavoro tale attività.- Il loro "lavoro" così come esso ci appare, è un lavoro altamente-qualificato che coinvolge tutte le loro capacità fisiche ed intellettuali; un lavoro non qualificato su larga scala, dice Sahlins, è impossibile eccetto che nell'industrialismo. Pertanto, tale attività è adeguata alla definizione di gioco data da Friedrich Schiller, secondo la quale esso costituisce l'unico ambito in cui l'uomo può realizzare completamente la sua umanità, "mettendo in gioco" entrambi i lati della sua duplice natura, cioè intelletto e passione.
Così egli afferma: "l'animale lavora quando la privazione diventa l'impulso fondamentale della sua attività e ^io» quando l'impulso fondamentale proviene dalla pienezza delle sue forze, quando una vitalità sovrabbondante diviene il proprio stimolo , all'attività". (Una versione moderna di tale concezione — ma è dubbio che abbia carattere evolutivo — è data dalla contrapposizione che Abraham Maslov postula tra motivazione da "deprivazione" e motivazione da "crescita"). In rapporto alla produzione, gioco e libertà sono coestensivi. Anche Marx, che (nonostante tutte le sue buone intenzioni) appartiene al pantheon dei produttivisti, osserva che: "Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e finalità esterna". Infatti, non giunge mai del tutto a definire questa felice condizione per quella che è, cioè come abolizione del lavoro — sarebbe piuttosto anomalo, del resto essere a favore dei lavoratori ma contro il lavoro — mentre noi possiamo permettercelo.
L'aspirazione ad andare indietro, o avanti, verso una vita senza i lavoro è evidente in ogni seria storia sociale o culturale dell'Europa pre-industriale, tra cui Englandin transition di M. Dorothy George e Popular culture in early modem Europe di Peter Burke. Risulta pertinente anche il saggio di Daniel Bell "Il lavoro e le sue insoddisfazioni", che costituisce, a quanto ne so, il primo scritto che si diffonda con tale ampiezza sulla "rivolta contro il lavoro", saggio che, quando venga rettamente interpretato, incrina fortemente il generale compiacimento che circonda il volume in cui
esso compare, cioè, The End of ideology. Né i critici né gli elogiatori hanno notato che la tesi di Bell sulla fine delle ideologie segnalava non la fine dei movimenti sociali ma l'inizio di una nuova fase, per la quale non esistono mappe, libera e non conforme ad alcuna ideologia. Fu Seymour Lipset (in Politicai man), e non Bell di certo, ad annunciare nello stesso periodo che: "I problemi fondamentali della rivoluzione industriale sono stati risolti", e ciò solò pochi anni prima che l'insoddisfazione, fosse essa post- o meta-industriale, manifestata dagli studenti del suo college inducesse Lipset ad abbandonare l'UC di Berkeley per la situazione relativamente (e temporaneamente) più tranquilla che gli offriva Harvard.
Così come rileva Bell, in La ricchezza delle nazioni Adam Smith/nonostante tutto il suo entusiasmo per il mercato e la divisióne del lavoro, era più consapevole (ed anche più onesto) riguardo il lato sgradevole del lavoro di Ayn Rand, gli economisti di Chicago, o qualche altro moderno epigono di Smith. Smith osserva: "Le doti intellettuali della maggior parte degli uomini sono necessariamente determinate dalle loro occupazioni ordinarie. Un uomo la cui vita trascorre nello svolgimento di qualche semplice operazione (...) non ha occasione di esercitare la sua intelligenza (...). Generalmene diventa stupido e ignorante come solo un uomo può diventarlo". Qui, in queste poche aspre parole, è compiutamente espressa la rnia critica del lavoro. Bell, scrivendo nel! 956, cioè nell'Età dell'Oro dell'imbecillità eisenhoweriana e dell'autocompiacimento americano, già avvertiva il malessere disorganizzato, e non organizzabile, così come si sarebbe poi manifestato nel 1970; quel malessere che nessuna tendenza politica era in grado di sfruttare; quello che veniva riconosciuto nel rapporto redatto dalla HEW "Working America"; quello stesso malessere che non si prestava ad essere recuperato e così veniva ignorato. Tale problema è costituito dalla rivolta contro il lavoro. Esso non compare negli scritti di alcun economista del laissez faire — Milton Friedman, Murray Rothbard, Richard Posner — poiché, per esprimersi come gli eroi di Star Trek, "non quadra".
Se queste obiezioni, informate all'amore della libertà, non riescono a persuadere gli umanisti a compiere una svolta utilitaristica o anche paternalistica, ve ne sono altre delle quali non possono non tener conto. Possiamo affermare, prendendo a prestito il titolo di un libro, che il lavoro è un rischio per la tua salute. Infatti il lavoro è un assassinio di massa, cioè un genocidio. Direttamente o indirettamente, il lavoro ucciderà la maggior parte delle persone che legge queste righe. Tra i 14.000 e i 25.000 lavoratori vengono uccisi ogni anno in questo paese dal loro lavoro. Oltre 2 milioni rimangono invalidi. I feriti ammontano a 20-25 milioni ogni anno. E queste cifre si basano su di una stima molto cauta di quello che costituisce un danno causato da attività lavorative, cioè non viene incluso mezzo milione di casi di malattie professionali che insorgono ogni anno. Ho avuto tra le mani un testo di medicina del lavoro spesso 1200 pagine. Anche questo tocca a malapena la superficie del problema. Le statistiche disponibili comprendono i casi più evidenti, come i 100.000 minatori che contraggono la silicosi, dei quali 4.000 muoiono ogni anno, cioè una percentuale di decessi che risulta, ad esempio, più elevata di quella dell'AIDS, malattia cui i media prestano cosi tanta attenzione. Tutto ciò riflette l'assunto non dichiarato secondo il quale i pervertiti afflitti dall'AIDS dovrebbero controllare la loro depravazione, mentre coloro che estraggono il carbone svolgono un'attività sacrosanta e fuori discussione. Quello che le statistiche non lasciano trapelare è il fatto che il lavoro abbrevia il tempo di vita a 10 milioni di persone, ciò che, d'altra parte, è il significato proprio del termine omicidio. Ci riferiamo a quei dirigenti che si ammazzano di lavoro all'età di 50 anni, ci riferiamo a tutti i lavoro-dipendenti.
Anche se non si rimane uccisi o mutilati mentre si è effettivamente al lavoro, ciò può tranquillamente accaderci mentre ci rechiamo al lavoro, o stiamo tornando dal lavoro, oppure mentre lo stiamo cercando, o tentiamo di dimenticarlo. La maggior parte delle vittime di incidenti d'auto stavano svolgendo una di queste attività legate al lavoro, oppure vennero travolte da qualcuno impegnato in esse. A questo computo dei cadaveri, pur così ampliato, occorre aggiungere le vittime dell'inquinamento industriale, del traffico automobilistico, dell'alcolismo indotto dal lavoro e del consumo di droga. Anche il cancro e le malattie cardiocircolatorie sono mali moderni, e normalmente sono attribuibili, direttamente o indirettamente, al lavoro.
Il lavoro, dunque, istituzionalizza l'omicidio come modo di vita. La gente pensava che i cambogiani fossero pazzi dal momento che si sterminavano fra loro in quel modo, ma noi siamo poi molto diversi? In fondo il regime di Pol-Pot, per quanto in modo confuso, si poneva nella prospettiva di una società egualitaria. Noi sterminiamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di 6 cifre (come minimo) per vendere Big Mac e Cadillac ai superstiti. I nostri 40 o 50 mila morti, che registriamo annualmente sulle nostre autostrade sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla — o piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro è nulla, e non vale la pena di morire per esso.
Cattive notizie per i progressisti: in un contesto che si presenta come una questione di vita o di morte i palliativi di tipo normativo sono inutili. A livello federale, all' Occupational Safety and Health Administration venne affidata la vigilanza per quanto concerne il problema centrale, cioè la sicurezza sul posto di lavoro. Ma anche prima che Reagan e la Corte Suprema ne paralizzassero l'attività, la OSHA era già una farsa. Nonostante i precedenti (e confronto agli standard attuali) generosi livelli di finanziamento dell'era Carter, ci si poteva aspettare mediamente un'ispezione casuale ad un posto di lavoro, da parte di un funzionario dell'OSHA, una volta ogni 46 anni.
Affidare il controllo dell'economia allo stato non è una soluzione. Semmai, il lavoro è più pericoloso in uno stato socialista che altrove. Migliaia di lavoratori russi sono stati uccisi o feriti durante la costruzione della metropolitana a Mosca. Voci pervenute attorno ad incidenti verificatisi nell'Unione Sovietica e passati sotto silenzio, fanno sembrare Times Beach e Three Mile Island semplici esercitazioni di allarme aereo per scuole elementari. D'altro canto, la deregulation, ora di moda, non serve molto, anzi probabilmente peggiora la situazione. Fra le altre cose, anche dal punto di vista della salute e della sicurezza, il lavoro mostrava il suo lato peggiore proprio nel periodo in cui l'economia più si avvicinava al modello del laissez-faire. Storici come Eugene Genovese, analogamente a quanto affermavano gli apologeti della schiavitù prima della guerra di secessione, hanno sostenuto in maniera persuasiva la tesi secondo la quale i salariati degli stati del Nord America e dell'Europa stavano peggio degli schiavi nelle piantagioni del sud. E chiaro che nessun mutamento di rapporti tra burocrati e uomini d'affari può cambiare qualcosa per quanto concerne la produzione. L'imposizione di misure coercitive, o anche solo l'applicazione che in teoria l'OSHA potrebbe imporre della piuttosto vaga normativa vigente, comporterebbe probabilmente il blocco dell'economia. Chiaramente i funzionari competenti se ne rendono conto, poiché finora non hanno nemmeno tentato di diventare più severi con i trasgressori.
Quello che ho detto finora probabilmente non susciterà grandi opposizioni. Molti lavoratori sono stufi del lavoro. Si manifestano forti e crescenti tassi di assenteismo, dimissioni, furti e sabotaggi compiuti da dipendenti, scioperi spontanei e soprattutto frodi sul lavoro. Ciò può significare che vi è un movimento verso un rifiuto cosciente e non solo viscerale del lavoro. Eppure, l'idea prevalente universalmente diffusa sia tra i padroni e i loro agenti che tra i lavoratori stessi, è che il lavoro sia inevitabile e necessario.
Non sono d'accordo. È possibile fin d'ora abolire il lavoro e sostituirlo, nella misura in cui sia finalizzato a scopi utili, con una molteplicità di attività libere di nuovo genere. Al fine di abolire il lavoro è necessario procedere lungo due direzioni, una quantitativa e l'altra qualitativa. Per quanto riguarda il lato quantitativo, dobbiamo decurtare massicciamente la quantità complessiva di lavoro che è necessario effettuare. A tutt'oggi la maggior parte del lavoro è inutile, o peggio che inutile, e noi semplicemente dobbiamo liberarcene. D'altra parte — e penso che qui sia il punto cruciale di tutta la questione e il nuovo punto di partenza per il movimento rivoluzionario — dobbiamo analizzare il lavoro utile rimasto e trasformarlo in una piacevole varietà di passatempi simili, al tempo stesso, sia al gioco che ad un'attività produttiva, cioè indistinguibili da altri passatempi salvo che per essi si dà il caso che generino un prodotto finale utile. Di sicuro ciò non li renderebbe per questo meno allettanti di altri divertimenti. Da questo momento tutte le barriere artificiali derivanti da rapporti di potere e di proprietà potrebbero venir meno. La creazione potrebbe diventare ricreazione. E
potrebbe cessare ogni diffidenza gli uni verso gli altri.
La mia ipotesi non è che la maggior parte del lavoro sia recuperabile in questo modo. Ma che, in tal caso, per la maggior parte di esso non varrebbe nemmeno la pena di tentarne il recupero. Infatti, solo una piccola, e sempre decrescente, parte del lavoro sociale serve a fini che siano realmente utili, e non connessi alla difesa e riproduzione dell'attuale sistema di lavoro, e delle sue sovrastrutture giuridiche e politiche. Vent'anni fa, Paul e Percival Goodman stimavano che solo il 5% del lavoro svolto — e presumibilmente questa cifra, se esatta, sarebbe ora perfino inferiore — sarebbe sufficiente a soddisfare i nostri bisogni minimali per il cibo, il vestiario e l'abitazione. La loro era solo una timida congettura ma la questione principale è abbastanza chiara: direttamente o indirettamente, la maggior parte del lavoro viene svolto a fini produttivi attinenti la circolazione delle merci e il controllo sociale. In un batter d'occhio potremmo liberare dal lavoro 10 milioni di commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, proprietari, addetti alla sicurezza, pubblicitari, e tutti quelli che lavorano per loro. Si verificherebbe una reazione a catena per cui ogni volta che viene disattivato qualche pezzo grosso, vengono liberati anche i suoi scagnozzi e tirapiedi. In tal modo l'economia imploderebbe. Il 40% della forza lavoro è costituita da colletti bianchi, e la maggior parte di loro svolge un lavoro tra i più noiosi ed idioti che si possano immaginare. Industrie intere, assicurazioni, banche e agenzie immobiliari, ad esempio, sono costituite da nient'altro che da un inutile flusso di cartaccia. Non è un caso che il "settore terziario", cioè il settore dei servizi, si stia ampliando, mentre il "settore secondario" (l'industria) sia stagnante, mentre il "settore primario" (l'agricoltura) sia sul punto di scomparire. Poiché il lavoro non è necessario se non per coloro ai quali esso assicura il potere, i lavoratori vengono trasferiti da occupazioni relativamente utili ad altre relativamente meno utili, proprio in quanto ciò costituisce una misura finalizzata a garantire l'ordine pubblico. Qualsiasi cosa è meglio che il far niente. Questo è il motivo per cui tu non puoi semplicemente andare a casa quando il lavoro è finito prima del tempo. Vogliono il tuo tempo, e in misura sufficiente da farti loro, anche se della maggior parte di quel tempo non sanno che farsene. Altrimenti perché la settimana lavorativa media non è scesa che di qualche minuto negli ultimi 50 anni?
E ora passiamo ad applicare la nostra mannaia anche al lavoro produttivo stesso. Non più produzioni belliche, energia nucleare, prodotti alimentari scadenti, deodoranti per l'igiene intima femminile, e soprattutto, chiuso ogni discorso riguardo l'industria automobilistica. Una Stanley Steamer o una Model-T d'occasione possono andar bene, mentre l'autoerotismo da cui dipendono lazzaretti come Detroit e Los Angeles è fuori questione. E subito, senza neanche muovere un dito, abbiamo virtualmente risolto la crisi energetica, la crisi ambientale ed equilibrato altri insolubili problemi sociali.
Infine, dobbiamo abolire ciò che rappresenta di gran lunga la più diffusa occupazione, quella con l'oratorio più prolungato, il compenso più basso, e che comporta alcuni dei compiti più noiosi che sia dato vedere. Mi riferisco alle nostre casalinghe, quelle che svolgono i lavori domestici e allevano bambini. Con l'abolizione del lavoro salariato e con il raggiungimento del pieno dis-impegno, viene scardinata la divisione sessuale del lavoro. La famiglia nucleare così come la conosciamo costituisce un inevitabile adattamento alla divisione del lavoro imposta dal moderno lavoro salariato. Che ci piaccia o meno, così come stanno le cose, da uno o due secoli a questa parte, risulta più razionale, dal punto di vista economico, che l'uomo si guadagni lo stipendio, che la donna svolga quel lavoro di merda costituito dal costruire per lui un rifugio in questo mondo senza cuore, e che il bambino venga avviato verso quei campi di concentramento per giovani chiamati "scuole"; e questo in primo luogo per allontanarli dalle braccia materne pur mantenendo ancora un certo controllo familiare, ma incidentalmente anche per acquisire quella consuetudine all'obbedienza e alla puntualità così necessaria ai lavoratori. Se vuoi liberarti dal patriarcato, devi sbarazzarti della famiglia nucleare, il cui lavoro "sommerso" non pagato, secondo quanto afferma Ivan Illich, rende possibile il sistema di lavoro che ne rende necessaria l'esistenza. Parte integrale di questa strategia pacifica è l'abolizione dell'infanzia e la chiusura delle scuole. In questo paese ci sono più studenti a tempo pieno che lavoratori a tempo pieno. Abbiamo bisogno che i bambini diventino insegnanti, e non studenti. Essi possono dare un grosso contributo alla rivoluzione ludica perché meglio degli adulti sanno come si gioca. Adulti e bambini non sono identici ma potranno diventare uguali attraverso l'interdipendenza. Solo il gioco può colmare il gap generazionale.
Finora non ho nemmeno accennato alla possibilità di ridurre il poco lavoro rimanente tramite l'automazione e la cibernetica. Tutti gli scienziati, gli ingegneri, i tecnici liberati dal fastidioso impegno costituito dalla ricerca a fini bellici, o indirizzata a pianificare l'obsolescenza delle merci, potrebbero applicarsi al piacevole compito di progettare dispositivi atti ad eliminare la fatica, la noia, e il pericolo da lavori come l'attività estrattiva nelle miniere. Senza dubbio troverebbero altri progetti con cui dilettarsi. Forse istituiranno un sistema integrato di comunicazione multimediale esteso a tutto il mondo, oppure fonderanno colonie nello spazio cosmico. Forse. Per quanto mi riguarda non sono un maniaco della tecnologia. Non vorrei vivere in un paradiso fatto di pulsanti. Non desidero robot schiavi che fanno tutto; voglio farmi le mie cose da solo. Credo che esista spazio per una tecnologia che faccia risparmiare fatica, ma uno spazio modesto. Le testimonianze storiche e preistoriche non sono incoraggianti. Quando la tecnologia produttiva si evolse da quella propria dei cacciatori-produttori a quella agricola ed industriale, il lavoro aumentò mentre l'abilità individuale e la capacità di determinare la propria vita diminuirono. L'ulteriore evoluzione dell'industrializzazione accentuò quella che Harry Braverman chiama la degradazione del lavoro. Gli osservatori piìi avvertiti sono sempre stati consapevoli di tale fenomeno. John Stuart Mill scrisse che tutte le invenzioni che finora sono state escogitate per risparmiare fatica non hanno mai fatto risparmiare effettivamente un solo attimo di lavoro. Karl Marx scrisse che: "Sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni, a partire dal 1830, con il fine esclusivo di fornire al capitale armi contro le rivolte della classe lavoratrice". I tecnofili entusiasti — quali Saint Simon, Comte, Lenin, B. F. Skinner — hanno mostrato altresì di essere granitiche personalità autoritarie; vale a dire, dei tecnocrati. Siamo oltremodo scettici riguardo alle promesse dei mistici dei computer. Costoro lavorano come cani; è probabile che, se avranno via libera, lo stesso accada per tutti gli altri. Ma se possono offrire qualche particolare contributo più direttamente subordinabile a fini umani che la corsa all'alta tecnologia, diamo pure loro ascolto.
Ciò che essenzialmente vorrei vedere realizzato è la trasformazione del lavoro in gioco. Il primo passo sarà cancellare le nozioni di "mansione" e "occupazione". Anche per quelle attività che presentano già ora qualche contenuto ludico, accade che ne perdano la maggior parte dal momento che esse vengono ridotte ad attività imposte a certi individui, e solo a loro, mentre ne vengono esclusi tutti gli altri. Non è strano che i braccianti agricoli si affatichino penosamente nei campi mentre i loro padroni, che vivono in ambienti dotati di aria condizionata, ogni
week-end stiano in casa e qui si dilettino con lavori di giardinaggio? Sotto un sistema di festa permanente, saremo testimoni della nascita di una nuova Età dell'Oro del grande dilettantismo, evento che oscurerà l'età rinascimentale. Non esisteranno più lavori ma cose da fare e persone per farle.
Il segreto per volgere il lavoro in gioco, come già dimostrò Charles Fourier, sta nell'organizzare attività utili traendo profitto da qualsiasi cosa diversi individui in tempi diversi di fatto già amino fare. Al fine di rendere possibile per gli individui fare le cose che amerebbero fare, è sufficiente eliminare l'irrazionalità e le deformazioni che minano queste attività nel momento in cui vengono ridotte a lavoro. Ad esempio, mi piacerebbe impegnarmi un po' (non troppo) nell'insegnamento, ma non voglio avere un ruolo autoritario con gli studenti, e non desidero fare il leccapiedi di qualche patetico pedante per ottenere un incarico.
In secondo luogo, vi sono cose che gli uomini amano fare di tanto in tanto, ma non troppo a lungo, e di certo non per sempre. Può essere gradevole fare il lavoro di baby-sitter per qualche ora, in quanto così si può condividere la compagnia dei piccoli, ma non così a lungo come i loro genitori. I genitori, nondimeno, danno grande valore al tempo di libertà che in tal modo viene loro reso disponibile, mentre diventano ansiosi se rimangono lontani dalla loro prole troppo a lungo. Sono queste differenze tra gli individui quelle che rendono possibile una vita di libero gioco. Lo stesso principio può essere applicato in molti altri campi di attività, e soprattutto in quelle a carattere primario. Così molte persone si divertono a cucinare quando lo possono fare davvero a loro piacere, ma non quando, per lavoro, devono alimentare corpi umani.
Terzo — a parità di condizioni — alcune cose che sono sgradevoli se fatte da soli o in un ambiente spiacevole, oppure agli ordini di un padrone, diventano piacevoli, almeno per qualche tempo, se tali circostanze vengono modificate. Probabilmente questo è vero, in qualche misura, per tutti i lavori. La gente può dispiegare la propria ingegnosità altrimenti sprecata trasformando in una gara, nel miglior modo possibile, il meno allettante dei lavori di fatica. Attività che interessano alcune persone non sempre interessano tutti; ma tutti, almeno potenzialmente, posseggono una certa varietà di interessi ed un certo interesse per la varietà. Secondo la nota massima: "Ogni cosa almeno una volta". Fourier fu maestro nell'escogitare modi in cui le inclinazioni più aberranti e perverse potessero trasformarsi in attività utili in una società post-civilizzata, quella che egli denominò Armonia. Pensava che l'imperatore Nerone avrebbe lavorato molto bene se da bambino avesse potuto soddisfare la sua propensione verso gli spargimenti di sangue in un macello. I bambini più piccoli, che notoriamente amano rivoltarsi nel sudiciume, potrebbero essere organizzati in "Piccole Orde" che pulirebbero le latrine e svuoterebbero i contenitori della spazzatura, con l'assegnazione di medaglie ai migliori. Non voglio proporre in concreto proprio questi specifici esempi, ma il principio che li fonda penso dia il senso preciso di una delle dimensioni di ogni radicale trasformazione rivoluzionaria. Occorre tener presente che non dobbiamo prendere il lavoro tale quale come si presenta oggi e abbinarlo alle persone adatte, alcune delle quali potrebbero anche essere dei pervertiti. Se la tecnologia può avere un ruolo in tutto ciò, sarà più quello di aprire nuovi orizzonti alla ri/creazione, che di automatizzare il lavoro cancellandolo completamente. In una certa misura vogliamo tornare all'artigianato, attività che William Morris considerava il probabile ed auspicabile esito della rivoluzione comunista. L'arte verrà recuperata dalle mani degli snob e liberata dall'ambiente dei coUezionisri, abolita come categoria specialistica rivolta ad un pubblico elitario, e i suoi contenuti estetici e creativi
restituiti alla pienezza della vita cui furono sottratti dal lavoro. Vi è da riflettere sul fatto che i vasi attici di cui noi tessiamo le lodi, e che esponiamo nei musei, nella loro epoca vennero usati per conservare le olive. Dubito che i nostri manufatti comuni avranno una sorte così gloriosa in futuro, se mai ne avranno una. Il fatto è che non esiste qualcosa di simile al progresso nel mondo del lavoro. Semmai è proprio il contrario. Non dovremmo esitare a prendere dal passato quello che ci può offrire: gli uomini del passato sicuramente non ci perdono nulla, mentre noi ne veniamo arricchiti.
La reinvenzione della vita quotidiana significa andare al di là dei margini delle nostre mappe. Ed è vero che, in merito, esiste una corrente di pensiero molto più suggestiva di quanto la g^nte possa immaginare. Oltre a Fourier e a Morris — e anche a.qualche allusione, qua e là, in Marx — ci sono gli scritti di BCropotkin, degli anarcosindacalisti Pataud e Pouget, di vecchi anarcocomunisti (Berkman) e di nuovi (Bookchin). La Communitas dei fratelli Goodman è esemplare nell'illustrare quale forma consegue da una data funzione (scopo), e c'è qualcosa da recuperare dagli stessi confusi apologeti della tecnologia alternativa/appropriata/intermedia conviviale come Schumacher e specialmente Illich, una volta disattivate le loro macchine fumogene. I situazionisti — come Vaneigem nel Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, e l'antologia à.éX Internazionale Situazionista — sono tanto implacabilmente lucidi quanto esilaranti, anche se non superano mai completamente la contraddizione consistente nel sostenere da una parte il potere dei consigli operai e dall'altra l'abolizione del lavoro. Tuttavia, la loro incongruenza è preferibile a tutte le versioni del sinistrismo ancora in circolazione, i cui adepti appaiono come gli ultimi difensori del lavoro, ciò evidentemente in quanto se non esistesse il lavoro non vi sarebbero lavoratori, e in assenza di lavoratori, chi mai potrebbe organizzare la sinistra?
Pertanto gli abolizionisti si trovano in tale prospettiva ad essere nettamente soli. Nessuno può dire quello che potrebbe risultare dalla liberazione del potere creativo, ora frustrato, del lavoro. Può accadere di tutto. L'estenuante dibattito del problema dell'opposizione tra necessità e libertà, con i suoi risvolti teologici, si risolve praticamente da sé una volta che la produzione di valore d'uso sia coestensiva all'esplicarsi di una piacevole attività ludica.
La vita diventerà un gioco, o piuttosto una molteplicità di giochi, ma non — come accade ora — un gioco a somma zero. Un'intesa ottimale sul piano sessuale è il paradigma di un gioco produttivo. I partecipanti esaltano il piacere l'uno dell'altro, non viene assegnato alcun punteggio, e ognuno vince. Più dai, più ottieni. Nella vita ludica, il meglio del sesso verrà integrato nella parte migliore della vita quotidiana. Il gioco generalizzato porta all'erotizzazione della vita. Il sesso, a sua volta, può diventare meno urgente e disperato, più giocoso. Se giochiamo bene le nostre carte, possiamo prendere dalla vita molto di più di quanto ci mettiamo; ma solo se giochiamo per davvero.
Nessuno dovrebbe mai lavorare. Lavoratori del mondo... rilassatevi.

Traduzione di Chiara Maraghini Garrone e Valerio Bertello

martedì, aprile 12, 2011

Daniel Defoe Il capitano Misson

Daniel Defoe Il capitano Misson prima parte







Possiamo descrivere in modo piuttosto dettagliato la vita di questo gentiluomo poiché, per puro caso, è giunto nelle nostre mani un manoscritto francese, in cui egli stesso racconta le sue azioni con dovizia di particolari. Era nato in Provenza, da un'antica famiglia; suo padre, del quale nasconde il vero nome, possedeva un grande patrimonio ma siccome aveva molti figli, il nostro avventuriero non poteva sperare in nessun'altra fortuna eccetto quella che avrebbe potuto conquistarsi con la spada. I suoi genitori ebbero cura di dargli un'educazione all'altezza della sua nascita. Dopo aver compiuto gli studi umanistici e quelli di logica, ed essendo diventato piuttosto abile in matematica, all'età di quindici anni fu mandato ad Angers, dove rimase un anno a studiare. Al suo ritorno a casa, suo padre avrebbe voluto farlo entrare nei moschettieri; ma poiché egli era di temperamento vagabondo ed era rimasto affascinato dalle storie lette nei libri di viaggio, scelse,
11 mare, che offriva una vita più varia e che gli avrebbe fornito l'occasione di soddisfare la sua curiosità, visitando paesi diversi. Presa questa' decisione, suo padre gli fornì le lettere di raccomandazione e tutto quanto gli poteva servire, e lo inviò ad arruolarsi volontario a bordo della Victoire, comandata da monsieur Fourbin, un suo conoscente. Fu ricevuto con tutti gli onori dal capitano, la cui nave si trovava a Marsiglia e a cui fu ordinato di far vela subito dopo l'arrivo di Misson. Viste le predisposizioni del nostro volontario, nulla avrebbe potuto essere piti gradevole di quel viaggio, che gli fece visitare i più importanti porti del Mediterraneo e gli fornì una grande conoscenza di tutti gli aspetti pratici della navigazione. Si affezionò a questa vita, e decise di diventare un marinaio provetto: era sempre il primo sui pennoni, per ammainare o terzarolare le vele, ed era molto curioso riguardo ai diversi modi di governare una nave. Non aveva altri soggetti di conversazione, e spesso si recava nella cabina del nostromo o del carpentiere perché gli spiegassero quali erano le parti che costituivano la chiglia e come attrezzarla, insegnamenti per cui li pagava generosamente; e sebbene passasse gran parte del suo tempo con questi due ufficiali, si comportava con tale riserbo che essi non si permisero mai un'eccessiva familiarità ed ebbero sempre per lui il rispetto dovuto alla sua famiglia. Mentre la nave si trovava a Napoli, egli ottenne dal capitano un congedo per recarsi a Roma, che desiderava ardentemente visitare. Possiamo dire che da questo momento in poi cominciarono le sue disgrazie. Infatti, osservando la vita licenziosa del clero (così diversa dalla disciplina osservata fra gli ecclesiastici francesi), lo sfarzo della corte papale, e vedendo che nella capitale della cristianità non si trovava altro che l'apparenza della religione, egli cominciò a pensare che tutte le religioni non fossero altro che un freno imposto agli spiriti più deboli, a cui i più intelligenti si sottomettevano solo in apparenza. Questi sentimenti, così dannosi alla religione e a lui stesso, furono molto rafforzati dall'incontro con un prete licenzioso, che al suo arrivo divenne per puro caso il suo confessore, e poi il suo ruffiano e compagno, poiché rimase con lui fino alla morte. Un giorno, costui colse l'occasione di dire a Misson che quella del religioso era un'ottima vita per un uomo che possedesse un ingegno sottile ed intraprendente ed alcuni amici, poiché un uomo del genere avrebbe potuto in breve tempo ottenere alte cariche nella Chiesa, e queste ambizioni erano la ragione ch^ spingeva i piìi intelligenti fra coloro che scegli&l vano volontariamente l'abito sacerdotale. Gli disse inoltre che lo Stato della Chiesa era governato con la stessa politica dei principati e dei regni secolari; che anche qui l'unica cosa che contava erano i benefici, e non i meriti e le virtù; che un uomo pio e dotto non aveva più opportunità nel patrimonio di San Pietro di quante ne avesse in qualunque altra monarchia, anzi meno, perché essendo noto che quel patrimonio era concreto, un uomo di quel genere sarebbe stato tacciato di essere un visionario, per nulla adatto al suo incarico, considerato come uno i cui scrupoli avrebbero potuto dimostrarsi nocivi; poiché è una massima riconosciuta che la religione e la politica non possono vivere sotto lo stesso tetto. «Quanto ai nostri uomini di stato - gli disse - non credere che la porpora li renda meno cortigiani di quelli delle altre nazioni; essi conoscono e perseguono la ragion di stato^° con altrettanta astuzia e mancanza di scrupoli di qualsiasi laico; e sanno ingannare altrettanto bene dove serve l'inganno, e quando il loro potere è grande abbastanza per sostenerli sono altrettanto sfacciati ed impudenti nell'opprimere il popolo e nell'arricchire le loro famiglie. Quale sia la loro morale lo puoi vedere dalla pratica della loro vita, e quali siano i loro sentimenti religiosi da questo detto di un famoso cardinale. Quantum lucrum ex ista fabula Christi!, che molti di loro potrebbero ripetere, anche se non sono così stupidi da farlo. Da parte mia, sono stufo di questa farsa, e alla prima occasione mi libererò di questo abito e abbandonerò la mascherata. Infatti, a causa della mia giovane età, dovrei accontentarmi di una parte secondaria ancora per molti anni; e prima di poter spartirmi con gli altri le spoglie del popolo sarò troppo vecchio, temo, per godermi i piaceri del lusso; e poiché sono nemico dei sacrifici, ho paura che non saprò mai recitare la mia parte e fare l'ipocrita in modo abbastanza convincente da procurarmi una qualche carica importante nella Chiesa. I miei genitori non hanno tenuto conto del mio carattere, altrimenti mi avrebbero messo in mano una spada invece del rosario».
Misson gli consigliò d'imbarcarsi volontario con lui, e gli diede del denaro per comprarsi dei vestiti; il prete colse al balzo la proposta. Nel frattempo Misson ricevette una lettera dal suo capitano, in cui gli diceva che si sarebbe recato a Livorno, e lasciava a lui la scelta se tornare a Napoli o raggiungerlo via terra; scelse la seconda possibilità e il domenicano, che egli aveva rifornito di denaro, gettò la tonaca, si rivestì da gran signore e lo precedette di due giorni, attendendolo a Pisa. Di qui essi andarono insieme a Livorno dove trovarono la Victoire, e il signor Caraccioli, raccomandato dal suo amico, fu accolto a bordo. Due giorni dopo salpavano da Livorno, e dopo un viaggio di una settimana s'imbattevano in due navi musulmane, l'una di venti e l'altra di ventiquattro cannoni; la Victoire ne aveva montati solo trenta, benché avesse portelli per quaranta. Lo scontro fu lungo e sanguinoso, perché i musulmani speravano di catturare la Victoire, mentre il capitano Fourbin,
lungi dall'immaginare di lasciarsi catturare, era deciso a catturare lui stesso i suoi nemici, o ad affondare la sua nave. Una delle navi musulmane era comandata da un rinnegato spagnolo (che però aveva solo il titolo di luogotenente), poiché il capitano era un giovane che non aveva molta esperienza delle faccende marinare. Questa nave si chiamava Lyon, e tentò più di una volta di abbordare la Victoire; ma un colpo di cannone sulla linea di galleggiamento la costrinse ad allontanarsi e a spostare i suoi cannoni tutti da un lato, facendole dar di banda per bloccare la falla; ma poiché questa manovra fu fatta con troppa precipitazione, la nave si rovesciò e perirono tutti. La nave compagna, vedendo questo disastro, issò tutte le vele piccole e tentò di fuggire, ma la Victoire la raggiunse e la obbligò a ricominciare la lotta, cosa che essa fece con grande ostinazione, tanto che Monsieur Fourbin disperava di riuscire a catturarla se non l'avesse abbordata, e diede quindi ordine di prepararsi. Quando l'ordine fu dato, il signor Caraccioli e Misson furono i primi a salire a bordo, ma loro e quelli che li seguivano furono respinti dalla forza della disperazione dei musulmani; Caraccioli ricevette una ferita alla coscia e fu trasportato sotto coperta dal chirurgo.
La Victoire abbordò per la seconda volta, ed i musulmani difesero i loro ponti con tanta decisione che si ritrovarono coperti dai cadaveri dei loro uomini e dei loro nemici. Misson, al vedere uno di loro saltare nel boccaporto con una miccia accesa, sospettò le sue intenzioni, lo inseguì senza indugio e, raggiuntolo, lo stese morto con la spada nel momento stesso in cui stava per dar fuoco alla polvere. Poiché la Victoire continuava l'abbordaggio con uomini sempre più numerosi, i maomettani, vedendo che ogni tentativo di resistenza era vano, abbandonarono i ponti e si rifugiarono nella cucina, nella cabina del pilota e nelle altre cabine, mentre alcuni scappavano fra i ponti. I francesi li risparmiarono ed imbarcarono i prigionieri a bordo della Victoire; la preda non fruttò nessun particolare bottino, se non la libertà per circa quindici schiavi cristiani; fu trasportata a Livorno e venduta insieme ai prigionieri. I turchi persero molti uomini, i francesi non meno di 35 durante l'abbordaggio, mentre pochissimi erano morti nello scontro a fuoco perché i musulmani miravano soprattutto all'alberatura e alle vele, sperando di smantellare la nave e di catturarla. Terminato il suo viaggio, la Victoire fece ritorno a Marsiglia, e da qui Misson, portando con sé il suo amico, andò a far visita ai suoi genitori, a cui il capitano inviò un resoconto molto lusinghiero del suo carattere e della sua condotta. Era a casa da quasi un mese, quando il capitano gli scrisse che la sua nave aveva ricevuto ordine di recarsi a La Rochelle, da dove avrebbe fatto vela per le Indie occidentali con alcuni mercantili. Questa notizia fece molto piacere a Misson e al signor Caraccioli, che partirono immediatamente per Marsiglia. Questa città è ben fortificata, possiede quattro chiese parrocchiali, e il numero dei suoi abitanti è calcolato intorno ai 120.000; il porto è considerato il più sicuro del Mediterraneo, ed è la base regolare delle galee francesi. Lasciata Marsiglia, fecero rotta per La Rochelle, dove la Victoire era in riparazione, visto che i mercantili non erano ancora pronti. Misson, che non voleva passare tanto tempo senza fare nulla, propose al suo compagno di imbarcarsi sulla Triumph, che era diretta sulla Manica; l'italiano accettò prontamente.
Tra l'isola di Guernsey e lo Start Point, incontrarono la Mayflower, un mercantile di 18 cannoni comandato dal capitano Balladine, proveniente dalla Giamaica con un ricco carico. Il capitano della nave inglese oppose una fiera resistenza, e combatté così a lungo che i francesi non riuscirono a condurre la sua nave nel loro porto; presero dunque dalla nave il denaro e le merci di valore e, visto che imbarcava troppa acqua per le pompe, la abbandonarono e la videro colare a picco in meno di quattro ore. Monsieur Le Blanc, il capitano francese, ricevette molto civilmente il capitano Bai-ladine, e non permise che lui e i suoi uomini venissero derubati, dicendo: «Solo i codardi meritano di essere trattati in questo modo; gli uomini coraggiosi devono trattare altri uomini coraggiosi, sebbene siano loro nemici, come fratelli; e maltrattare un uomo valoroso che fa il suo dovere, è una vendetta degna solo di un'anima vile». Ordinò che fossero restituiti ai prigionieri i loro bauli; e quando alcuni degli uomini dell'equipaggio sembrarono voler protestare, li invitò a ricordare la grandezza del monarca che servivano; a ricordare che essi non erano né pirati né corsari e che, da uomini coraggiosi, avrebbero dovuto mostrare ai nemici un esempio da seguire e trattare i prigionieri nello stesso modo in cui essi avrebbero voluto essere trattati al loro posto. Risalirono la Manica fino a Beachy Head, e al ritorno s'imbatterono in tre navi da cinquanta cannoni che inseguirono la Triumph. Essendo un'ottima
veliera, essa li seminò in tre ore e mezza, e si diresse il più velocemente possibile verso Lands-End; qui incrociarono per otto giorni dopodiché, doppiato il capo della Cornovaglia, risalirono il canale di Bristol fin quasi a Nash Point, dove avvistarono una piccola nave proveniente dalle Barbados; spingendosi più a nord, inseguirono una nave avvistata la sera, ma durante la notte la persero. La Triumph fece allora rotta verso Milford e, avvistata una vela, tentarono di bloccarle l'approdo, ma non ci riuscirono, poiché raggiunse il porto benché essi le venissero incontro a gran velocità, e sarebbe stata sicuramente catturata se l'inseguimento fosse durato un po' più a lungo. 11 capitano Balladine, preso il cannocchiale, disse che si trattava della Port Royal, una nave di Bristol che aveva lasciato la Giamaica insieme a lui e alla Charles. Essi tornarono allora sulle loro coste e vendettero il loro bottino a Brest, dove, a sua richiesta, lasciarono il capitano Balladine. Monsieur Le Blanc gli fece dono di una borsa con 40 luigi d'oro per il suo sostentamento e anche il suo equipaggio fu lasciato a Brest. Entrando in questo porto, la Triumph urtò contro uno scoglio, ma non subì alcun danno: l'imboccatura di quel porto, chiamata Gonlet, è assai pericolosa a causa della quantità di scogli che si trovano sott'acqua da entrambi i lati, sebbene il porto di per sé sia certamente il migliore di Francia. L'imboccatura del porto è difesa da un poderoso castello; la città è ben fortificata e possiede, come ulteriore difesa, una cittadella assai ben munita. Nel 1694 gli inglesi tentarono di conquistarla, ma trovarono pane per i loro denti, poiché furono sconfitti e persero il loro generale e molti uomini. Di qui la Triumph tornò a La Rochelle, e un mese dopo i nostri volontari, a bordo della Victoire, partivano per la Martinica e la Guadalupa . Durante questo viaggio non accadde nulla degno di nota. Mi limiterò ad osservare che il signor Caraccioli, che era tanto ambizioso quanto miscredente, aveva ormai trasformato Misson in un perfetto deista, e l'aveva quindi convinto che tutte le religioni si riducono ad una semplice politica umana, dimostrandogli che le leggi di Mose altro non sono che prescrizioni necessarie per la conservazione e il governo del popolo. «Per esempio disse - i negri dell'Africa non hanno mai sentito parlare dell'istituzione della circoncisione, che è considerata come il simbolo del patto stabilito fra Dio e il suo popolo, e tuttavia essi fanno circoncidere i loro bambini; senza dubbio per le stesse ragioni degli ebrei e dei popoli di altre nazioni che vivono in climi meridionali, perché il prepuzio raccoglie e trattiene il sudore, il che provoca conseguenze fatali». Per farla breve, passò in rassegna tutte le cerimonie della religione ebraica, cristiana e maomettana, e lo convinse che non si trattava affatto, come si può vedere dall'assurdità di molte di loro, dei precetti di uomini ispirati; e che Mose, nella sua descrizione della creazione, era colpevole di errori noti; e che i miracoli, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, sono inconciliabili con la ragione; che Dio ci ha dato questo dono della ragione perché lo usiamo ai fini della nostra presente e futura felicità, e che tutto quanto è contrario ad essa, nonostante le distinzioni scolastiche fra «contrario» e «superiore» alla ragione, dev'essere falso. Questa ragione ci insegna che esiste una causa prima di tutte le cose, un Ens entium che chiamiamo Dio, e la nostra ragione ci suggerisce inoltre che esso dev'essere eterno e che, essendo l'autore di ogni cosa perfetta, dev'essere infinitamente perfetto. Se ciò è vero, esso non può essere soggetto alle passioni, né all'amore né all'odio; dev'essere sempre uguale a sé stesso, e non può fare oggi avventatamente ciò di cui potrebbe pentirsi domani. Dev'essere perfettamente felice, e di conseguenza non c'è nulla che possa accrescere il suo eterno stato di tranquillità, e sebbene a noi si addica adorarlo, tuttavia la nostra adorazione non può aumentare la sua beatitudine, né i nostri peccati diminuire la sua felicità.
Ma le sue argomentazioni a questo proposito sono troppo lunghe e troppo pericolose per essere riportate qui; e siccome sono condotte con grande sottigliezza, esse potrebbero essere perniciose per i deboli di spirito che non sanno vederne l'errore, o per coloro che, trovandole adatte alle loro inclinazioni e desiderando scrollarsi di dosso il giogo della religione cristiana che disturba e frena le loro passioni, non si dessero la pena di esaminarle fino in fondo, ma vi aderissero contenti di aver trovato una scusa per le loro coscienze. Tuttavia, poiché la sua dottrina sul nostro stato futuro non ha in sé nulla che vada contro la religione cristiana, la esporrò in poche parole.
«Quella facoltà raziocinante - diceva - che percepiamo dentro di noi, è chiamata anima, ma che cosa sia l'anima lo ignoriamo. Essa può morire con il corpo, o può sopravvivere. Io sono dell'opinione che sia immortale; ma riconosco che non saprei dire se questa idea sia dettata dalla ragione o sia solo un pregiudizio dovuto all'educazione. Se è immortale, dev'essere un'emanazione dell'essere divino e di conseguenza, una volta separata dal corpo, essa farà ritorno al suo primo principio, se non è stata contaminata. Ora, la ragione mi dice che se è separata dal suo primo principio, che è la divinità, tutti gli inferni inventati dall'immaginazione umana non potranno mai offrire torture che eguaglino una tale proscrizione». Avendo tenuto segretamente questi discorsi fra l'equipaggio, egli aveva fatto molti proseliti, che lo consideravano un nuovo profeta, sorto per riformare gli abusi della religione; e siccome molti di loro venivano da La Rochelle ed erano già imbevuti di calvinismo, essi abbracciarono tanto più facilmente la sua dottrina. Una volta sperimentata l'efficacia delle sue argomentazioni religiose, Caraccioli passò a parlare di politica, e dimostrò che ogni uomo è nato libero e ha diritto alla sussistenza come all'aria che respira. Dire il contrario sarebbe come accusare la divinità di crudeltà ed ingiustizia, poiché essa non ha messo al mondo nessun uomo per vivere una vita di stenti e per esser miseramente privato dei mezzi di sussistenza necessari. L'enorme differenza che esiste fra gli uomini, gli uni che sguazzano nel lusso e gli altri nella penuria più estrema, è dovuta solo all'avarizia e all'ambizione da una parte, e ad una pusillanime sottomissione dall'altra. Alle origini non si conosceva altro governo che quello naturale, paterno, in cui ogni padre era il capo, il principe ed il monarca della propria famiglia, e l'obbedienza nei suoi confronti era allo stesso tempo giusta e facile poiché il padre prova una tenera compassione per i suoi figli; ma l'ambizione, essendosi progressivamente insinuata, fece sì che la famiglia più forte rendesse schiava la più debole e, così rafforzata, ne aggredisse una terza, aumentando ad ogni conquista la sua forza per ottenere altre vittorie, e questo fu il primo fondamento della monarchia. Col potere aumentò la superbia, e l'uomo usurpò la prerogativa di Dio sulle sue creature, cioè quella di privarle della vita, che è un privilegio che nessuno possiede sui suoi simili; poiché, siccome nessuno è venuto al mondo per sua scelta, tutti devono rimanerci per la durata di tempo decisa dal loro creatore. Allora, mentre la morte in guerra è conforme alla legge di natura, poiché si tratta della conservazione delle nostre proprie vite, nessun crimine dovrebbe essere punito con la morte, e nessuna guerra dovrebbe essere intrapresa se non per difendere il nostro diritto naturale, che consiste in quella parte di terra necessaria al nostro sostentamento. Spesso declamava su questi argomenti, e spessissimo discuteva del modo di rendersi indipendenti con Misson, che era altrettanto ambizioso e risoluto. Caraccioli e Misson erano ormai marinai esperti, e perfettamente in grado di governare una nave. Caraccioli aveva sondato molti uomini dell'equipaggio a questo proposito, e li aveva trovati molto propensi ad ascoltarlo. Accadde infine un incidente che fornì a Caraccioli una buona occasione di mettere in pratica i suoi progetti, ed egli la colse al volo. Partiti dalla Martinica, s'imbatterono nella Winchelsea, una nave da guerra inglese di 40 cannoni comandata dal capitano Jones; le due navi si diressero l'una contro l'altra, e seguì un vivacissimo scontro. La prima bordata uccise il capitano, il secondo e tre luogotenenti a bordo della Victoire, lasciando in vita soltanto il secondo ufficiale, che avrebbe voluto ammainar bandiera. Ma Misson prese la spada, ordinò a Caraccioli di far le veci del luogotenente, e incoraggiando gli uomini combatté per tre ore finché, a causa di qualche incidente, la Winchelsea saltò in aria e non si salvò nessuno, tranne il luogotenente Franklin che fu raccolto dalla nave francese e che morì due giorni dopo. (Prima che questo manoscritto cadesse nelle mie mani, nessuno aveva mai saputo come fosse andata perduta la Winchelsea; infatti la sua prora fu portata a riva dalle onde ad Antigua, e siccome c'era stata una violenta tempesta pochi giorni prima, si concluse che fosse affondata durante questa tempesta). Dopo questo scontro, Caraccioli andò da Misson e lo salutò capitano. Gli chiese se volesse scegliere un comando temporaneo o duraturo, dicendogli che doveva decidersi subito poiché una volta tornati dalla Martinica sarebbe stato troppo tardi: avrebbe potuto star certo che la nave per cui aveva combattuto e che aveva salvato sarebbe stata assegnata ad un altro, e l'avrebbero considerato degnamente ricompensato nominandolo luogotenente, atto di giustizia del quale peraltro dubitava. Gli disse che la fortuna era nelle sue mani e che poteva tenersela stretta o lasciarla andare, ma se avesse scelto la seconda strada non doveva mai più aspettarsi che essa lo pregasse di accettare i suoi favori; doveva aver ben chiara davanti agli occhi la sua situazione di figlio cadetto di una buona famiglia, ma privo dei mezzi per sostenere la sua posizione, e i lunghi anni in cui avrebbe dovuto prestare servizio a prezzo del suo sangue prima di poter ottenere una qualsiasi posizione nel mondo, e considerare l'enorme differenza che esiste fra comandare ed essere comandato. Con la nave che aveva sotto i piedi e gli uomini coraggiosi che aveva ai suoi ordini, egli avrebbe potuto sfidare le potenze europee, godersi tutto ciò che voleva, regnar sovrano sui mari del Sud e legittimamente far la guerra al mondo intero, poiché esso l'aveva privato di quella libertà a cui aveva diritto secondo le leggi di natura. Col tempo avrebbe potuto divenire grande come Alessandro lo era stato per i persiani; e aumentando le sue forze grazie alle navi catturate, avrebbe rafforzato giorno dopo giorno la giustizia della sua causa, poiché chi ha potere ha sempre ragione. Enrico IV ed Enrico VII tentarono di impadronirsi della corona d'Inghilterra, e vi riuscirono con forze inferiori alle sue. Maometto fondò l'impero ottomano con qualche cammelliere; e Dario s'impadronì di quello di Persia con non più di sei o sette compagni.
Insomma, parlò tanto che Misson decise di seguire i suoi consigli e, riunito tutto l'equipaggio, disse che molti di loro avevano scelto con lui una vita di libertà, e gli avevano fatto l'onore di eleggerlo loro capo. Disse che non avrebbe forzato nessuno, perché non voleva rendersi responsabile di un'ingiustizia che condannava negli altri e chiese quindi se ci fosse qualcuno contrario a seguire il suo destino che sarebbe stato, lo prometteva, uguale per tutti: che lo dichiarasse e sarebbe stato sbarcato in qualche luogo da cui avrebbe potuto tornare facilmente in patria. Terminato questo discorso, essi gridarono tutti insieme: «Vive le capitaine Misson et son lieutenant le savant Caraccioli», Dio benedica il capitano Misson ed il suo dotto luogotenente Caraccioli. Misson li ringraziò per l'onore che gli facevano, e promise di usare il potere che gli conferivano esclusivamente per il bene comune; sperava che, così come avevano avuto il coraggio di affermare la loro libertà, sarebbero stati altrettanto unanimi nel preservarla e sarebbero rimasti al suo fianco in tutto ciò che sarebbe stato ritenuto utile per il bene di tutti; disse che era loro amico e che non avrebbe mai fatto uso della sua autorità, né si sarebbe mai considerato altro che il loro compagno, se non quando vi fosse stato costretto dalla necessità degli eventi.
Urlarono una seconda volta: «Vive le Capitain»; dopodiché egli li incitò a scegliere i propri ufficiali subalterni, per dare loro il potere consultivo ed esecutivo sulle questioni di comune interesse, e a impegnarsi sotto giuramento ad accettare ciò che lui e quegli ufficiali avrebbero deciso, ed essi lo fecero prontamente. Scelsero come secondo luogotenente il maestro di scuola, come terzo Jean Besace, e nominarono loro rappresentanti nel Consiglio il nostromo, un quartiermastro chiamato Matthieu le Tondu e il capo cannoniere. L'elezione fu approvata, e perché ogni cosa si svolgesse regolarmente e con il consenso di tutti, essi furono chiamati a riunirsi nella cabina grande e si discusse su quale rotta seguire. Il capitano propose la costa dell'America Latina come quella che avrebbe probabilmente offerto le più ricche prede, e tutti acconsentirono. Il nostromo chiese allora sotto quale bandiera avrebbero combattuto, e consigliò quella nera come la pili terribile; ma Caraccioli obiettò che non erano pirati, bensì uomini decisi ad affermare la libertà che Dio e la natura avevano dato loro, e a non sottomettersi ad alcuno se non nella misura in cui lo richiedeva il bene comune. L'obbedienza ai governanti, disse, era in realtà necessaria quando costoro sapevano assolvere ai doveri della loro funzione, comportandosi come gli attenti difensori dei diritti e della libertà del popolo, vegliando che la giustizia fosse equamente distribuita, opponendosi ai ricchi e ai potenti se costoro tentavano di opprimere i più deboli, non permettendo a nessuno di diventare immensamente ricco grazie ai propri abusi o a quelli dei suoi antenati e, d'altra parte, non permettendo a nessuno di ridursi nella più disperata miseria, cadendo nelle mani di furfanti, di creditori spietati, o di altre sciagure; e fintanto che il governante manteneva uno sguardo imparziale, e proibiva che fra uomo e uomo vi fosse altra distinzione che il merito, e invece di pesare sul popolo con la sua vita sfarzosa, si comportava come un vero padre che si prendeva cura di loro e li proteggeva, e in ogni cosa agiva con l'equa ed imparziale giustizia di un genitore. Ma quando un governante, che è il ministro del popolo, si considera innalzato ad una tale dignità da poter passare i suoi giorni tra lussi e sfarzi, considerando i suoi sudditi come altrettanti schiavi creati per il proprio piacere e vantaggio, e lascia quindi loro ed i loro interessi all'incommensurabile avarizia
e tirannia di qualcuno che ha scelto come suo favorito; quando da una tale amministrazione non provengono che oppressione, povertà, e miseria; quando egli sperpera la vita e il patrimonio del popolo per soddisfare la sua ambizione o per sostenere la causa di un principe vicino in modo che, in cambio, egli lo aiuti nel caso in cui il suo popolo insorga in difesa dei propri diritti naturali; o se si lancia in inutili guerre, seguendo gli avventati ed imprudenti consigli del suo favorito,, e poi non è in grado di tener testa al nemico che si è tirato addosso per sconsideratezza o capriccio, e deve a quel punto comprare una pace (come è ora il caso della Francia che, come tutti sanno, ha sostenuto re Giacomo e in seguito ha proclamato suo figlio)" dissanguando i sudditi; se le attività commerciali del popolo vengono volontariamente trascurate per interessi privati, lasciando che le navi da guerra se ne stiano ad oziare nei porti mentre le navi del popolo vengono catturate, e il nemico non solo intercetta tutto il commercio, ma attacca la costa; allora, scrollarsi di dosso il giogo è segno di un'anima generosa; «e se non possiamo riparare ai torti che ci hanno fatto, rifiutiamo almeno di dividere le disgrazie a cui si sottomettono gli spiriti più deboli, e disdegniamo di cedere alla tirannide. E se il mondo ci farà guerra, come l'esperienza ci dice che farà, la legge di natura non solo ci autorizza a difenderci, ma anche ad attaccare. Poiché non partiamo dagli stessi presupposti dei pirati, che sono uomini dalla vita dissoluta e privi di principi, non degniamoci dunque di adottare la loro bandiera. La nostra causa è coraggiosa, giusta, innocente e nobile: è la causa della libertà. Consiglio quindi una bandiera bianca, con sopra dipinta la Libertà e, se volete, 0 motto A Deo a liberiate, per Dio e per la libertà, come emblema della nostra integrità e decisione». La porta della cabina era stata lasciata aperta e k paratia, che era di tela, era stata arrotolata, di modo che il corridoio era gremito di uomini che ascoltavano attentamente e che a quel punto gridarono: «Libertà, libertà; siamo uomini liberi. Viva il coraggioso capitano Misson ed il nobile luogotenente Caraccioli». Al termine di questa breve assemblea, tutto ciò che apparteneva al capitano deceduto e agli altri ufficiali ed uomini dell'equipaggio morti nello scontro fu portato in
coperta ed esaminato; fu ordinato che il denaro venisse messo in una cassa e che il carpentiere vi applicasse un lucchetto e ne desse una chiave a ciascun membro del Consiglio, poiché Misson aveva detto loro che tutto doveva essere di proprietà comune, e che l'avidità dei singoli non doveva defraudare la comunità. Quando l'argenteria di Monsieur Fourbin stava per essere messa nella cassa, tutti gli uomini dell'equipaggio gridarono all'unisono: «Fermi, tenetela perché la usi il capitano, come regalo da parte dei suoi ufficiali e della sua ciurma». Misson li ringraziò, l'argenteria fu riportata nella cabina grande, e la cassa venne sigillata secondo gli ordini. Misson ordinò poi ai suoi luogotenenti e agli altri ufficiali di vedere chi fra gli uomini dell'equipaggio avesse più bisogno di vestiti, e di distribuire in modo imparziale quelli dei morti, cosa che venne fatta fra il consenso generale e gli applausi di tutti. Quando tutti tranne i feriti furono in coperta, Misson dalla balaustra del cassero tenne il seguente discorso: poiché avevano unanimemente deciso di conquistare e difendere la loro libertà, usurpata da uomini ambiziosi, e poiché questa decisione non poteva essere considerata che giusta e coraggiosa da qualsiasi giudice imparziale, si sentiva obbligato a raccomandare un amore fraterno fra di loro; tutte le ripicche ed i rancori personali dovevano essere banditi, in un solido patto d'armonia reciproca. Scrollandosi di dosso il giogo della tirannide, che con la loro azione avevano dimostrato di aborrire, sperava che nessuno avrebbe seguito l'esempio dei tiranni, voltandole spalle alla giustizia, poiché quando l'equità viene calpestata, ne conseguono naturalmente miseria, confusione e sfiducia reciproca. Consigliò inoltre di ricordare che esisteva un essere supremo, che la ragione e la riconoscenza ci suggeriscono di adorare, e che i nostri stessi interessi ci spingerebbero a propiziarci (dato che è meglio essere sicuri, e che la vita futura è ammessa come possibile). Era sicuro che gli uomini nati e cresciuti nella schiavitù che ne aveva fiaccato gli spiriti, ed incapace di un così generoso modo di pensare, i quali, ignoranti del loro diritto naturale e dei piaceri della libertà, ballano al ritmo delle loro catene - essi costituiscono in realtà la maggior parte degli abitanti del globo -, avrebbero bollato quella generosa compagnia con l'invidioso appellativo di pirati, e avrebbero considerato meritevole il fatto di essere gli strumenti della loro distruzione. La legittima difesa, dunque, e non la crudeltà, lo costringeva a dichiarare guerra a tutti coloro che gli avrebbero rifiutato l'entrata nei loro porti, e a coloro che non si sarebbero immediatamente arresi, fornendogli ciò che la necessità richiedeva; ma in particolar modo a tutte le navi ed i vascelli europei, che andavano considerati come nemici giurati ed implacabili. «Ed ora - disse - dichiaro questa guerra, raccomandando allo stesso tempo a voi, miei compagni, un comportamento umano e generoso nei confronti dei vostri prigionieri, che apparirà tanto più dettato da un'anima nobile, quanto più siamo convinti che non riceveremmo un simile trattamento se la disgrazia, o meglio la nostra mancanza di unione o di coraggio, ci mettesse alla loro mercé».
Dopodiché, ordinò di contare gli effettivi, e ne risultarono duecento uomini abili e trentacinque fra malati e feriti; mentre venivano passati in rassegna, essi prestavano giuramento. Dopo aver sistemato queste cose, fecero rotta per le Indie occidentali spagnole, ma durante il viaggio decisero di incrociare per una settimana o dieci giorni nel canale sottovento della Giamaica, poiché la maggior parte dei mercantili più veloci che non attendevano una scorta prendevano questa strada come scorciatoia per l'Inghilterra.