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domenica, ottobre 26, 2014

Toni Negri Arte e multitudo



Pubblichiamo qui un estratto dal libro di Toni Negri, Arte e multitudo (a cura di Nicolas Martino, DeriveApprodi 2014) in libreria nei prossimi giorni. Che cos’è l’arte nella postmodernità? Cosa ne è del bello nel passaggio dal moderno al postmoderno? Cos’è il sublime quando la sussunzione reale del lavoro al capitale e l’astrazione completa del mondo si sono compiute? Sono le domande a cui risponde Toni Negri con dieci lettere ad altrettanti amici (tra i quali Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Nanni Balestrini). Quello che presentiamo qui è un estratto dalla Lettera ad Agamben.

Caro Giorgio,
Postmoderno è dunque il mercato. Noi prendiamo il moderno per quello che è – un destino di deiezione – e il postmoderno come il suo limite astratto e forte, l’unico dei mondi oggi possibile. Non ti sarò mai abbastanza grato per quello che mi hai ricordato: la solida realtà di questo mondo vuoto, questo rincorrersi di forme che, per essere fantasmi, non sono meno reali. Mondo di fantasmi, ma vero.
La differenza fra reazionari e rivoluzionari consiste in questo: che i primi negano, i secondi affermano la massiccia ontologica vuotezza del mondo. I primi dunque sono votati alla retorica, i secondi all’ontologia. I primi tacciono, i secondi soffrono del vuoto. I primi riducono la scena del mondo a un orpello estetico, i secondi l’apprendono praticamente. Solo i rivoluzionari possono dunque praticare la critica del mondo, perché hanno un rapporto vero con l’essere. Perché riconoscono che questo mondo inumano pure l’abbiamo fatto noi. Che la sua mancanza di senso è nostra mancanza di senso e la sua vuotezza nostro vuoto. Solo questo? Il limite non è mai solo un limite, è anche un ostacolo. Il limite determina un’angoscia terribile, una feroce paura, ma è in questo, nella radicalita dell’angoscia, che il limite si sente come possibilità di superamento. Come ostacolo da sormontare, come deriva da bloccare. Superamento dialettico, esaltazione eroica della ragione? No davvero, come possiamo pensare che la ragione astratta ci permetta di lasciare alle spalle il turbamento, la paura, l’incubo e di ricominciare a provare sentimenti gioiosi e sensi aperti? No, non è la ragione che toglie il disagio ma l’immaginazione: una specie di ragione concreta e sottile che attraversa il vuoto e la paura, l’infinita serie matematica del funzionamento del mercato, per determinare un evento di rottura. Quella modernità che abbiamo costruito ci annichilisce per la sua enorme quantità di vuoto, per la spaventosa sequenza di eventi insensati, eppure quotidiani e continui, nella quale si presenta. Ma questa dura consapevolezza nello stesso tempo libera in noi la potenza dell’immaginazione. Per andare dove? Nessuno lo sa.
Eccoci ancora a riguardare quest’essere. Fin qui lo abbiamo considerato come una grande liquida massa. Dobbiamo considerarlo anche come una massa solida, enorme e solida, un grande marmo sul quale cerchiamo di leggere, attraverso le venature, come una figura scolpita possa nascerne – o come un arido deserto, le cui sole differenze sono lunghe siepi di pietrose dune. Ci muoviamo su queste pianure cercando impossibili rotture. Potrebbe essere linguaggio questa montagna di marmo, questa pianura di sabbia: linguaggio che solo di tanto in tanto mostra una scintilla di senso. Variazioni impreviste, irraggiungibili. Quest’orizzonte della più straordinaria aridità ontologica lo chiamiamo Wittgenstein, così come quel mare dell’essere il cui squallore non impediva il sublime, bene, quel mare voglio chiamarlo Heidegger. Ma perché cerchiamo, o fingiamo di cercare, qua e là, bricolage dispersivo, – quando conosciamo benissimo tutto questo? Quando la nostra vita intera ne è stata prima un’attesa, poi una testimonianza? Wittgenstein e Heidegger sono il postmoderno, la base non del nostro pensiero ma della nostra sensibilità, non della filosofia ma dell’esistere – e del nostro poetare.
Una nuova esperienza della potenza è dunque quella che noi qui veniamo facendo, una potenza tanto solida e forte quanto quella dell’essere che ci schiacciava. No, la liberazione non sarà piu un Blitz-Zeit, un’insurrezione del senso – non perciò essa sarà tolta – essa avrà bensì quella potenza che l’ontologia dal profondo produce. Un evento. Eccoci dunque di nuovo su questo bordo potente. La potenza che è azione discrimina il mondo. Essa dunque non nomina solamente ma divide l’essere. In questa differenza fra il dar nome e il discriminare l’essere sta il passaggio dalla teoria all’etica, ed è anche il superamento del postmoderno. […] Il passaggio all’etico, e cioe alla potenza di costruire un mondo sensato, questa è la fuoruscita dal postmoderno. Oltrepassare il sublime sarà dunque uscire dalla macchina del mercato, romperne la circolarità insignificante, rimettere i piedi sulla materialità del vero. Una nuova verità, certo, così come un nuovo mondo, quello che sta nell’astrazione liberata.
Eccoci dunque dove anche tu, Giorgio carissimo, cerchi sempre di arrivare. Ma senza riuscirvi, perché anche tu, come Heidegger, vedi il senso dell’essere volto verso il vuoto. Non è in verità quello che possiamo concludere dalla nostra analisi, non è vero che vuoto sia il concetto dell’essere. E bensì la potenza del suo concetto. La sua immaginazione – perché l’essere immagina, crea. Vi è un limite, ma su di esso l’essere si tende in potenza. Non soffre la vertigine del vuoto ma quella dell’avanti, del futuro, di quello che ancora non è. Se inseguiamo l’esperienza della grande pittura astratta, lo vediamo bene, corteggiando quegli infiniti fili che legano forme essenziali e progetti innovativi dell’immaginazione, eccoci davanti a una macchina che – tra tensioni, cadute, superamenti, come se un disegno potesse prendere corpo in uno spazio metafisico – costruisce un nuovo mondo potente. La pittura astratta e parabola del sempre nuovo rincorrersi dell’essere, del vuoto e della potenza. Non possiamo fermarci a mezza strada. Il vuoto non è limite, è un passaggio. Heidegger non e l’ontologia, e ancora fenomenologia. Il mercato è superato dalla potenza, il postmoderno e superato dall’etico: l’arte è insieme potenza ed etica. Eccoci finalmente a un punto positivo.
L’arte è creazione e riproduzione del singolare assoluto. Esattamente come l’atto etico. E in seguito vedremo perciò come l’atto artistico, esattamente come l’atto etico, sia definibile quale moltitudine. La singolarità dell’opera d’arte non è medietà né intercambiabilità, e bensì riproducibilità dell’assoluto. La pittura come la musica come la poesia mostrano la loro universalità in quanto fruibilità da parte di una moltitudine di individui e di esperienze singolari. Il mercato e la proprietà privata stravolgono quest’essenza dell’arte. Riappropriarsi privatamente dell’arte, rendere l’opera d’arte un prezzo, è distruggere l’arte. Queste chiusure non sono accettabili: l’arte è formalmente tanto aperta quanto lo è una democrazia vera e radicale. La riproducibilità dell’opera d’arte non è volgare, ma costituisce un’esperienza etica – rottura del compatto insieme della nullità esistenziale del mercato. L’arte è l’antimercato in quanto pone la moltitudine delle singolarità contro l’unicità ridotta a prezzo. La critica rivoluzionaria dell’economia politica del mercato costruisce un terreno di fruibilità dell’arte per la moltitudine delle singolarità.
Non so, caro Giorgio, se tu sia d’accordo con la mia concretissima utopia. Sono convinto che l’umiliazione quotidiana della riduzione dell’atto artistico (di creazione o di fruizione) al mercato possa essere evitata. E per questo che non accetto che la forma dell’essere possa correre verso il vuoto. In linguaggio più esplicito, questo potrebbe voler dire eternità del mercato. No, si deve andare al di là del vuoto, attraversarlo, riassumerlo nel meccanismo di costruzione della potenza. Dunamis che viene dal nulla.
dicembre 1988

mercoledì, agosto 01, 2012

Toni Negri Michel Hardt Calibano si ermancipa dalla dialettica

Calibano si emancipa dalla dialettica


Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I resoconti sui sacrifici umani consumati dagli amerindi servirono come prova per legittimare le follie e le crudeltà degli spagnoli allo stesso modo in cui, più tardi, furono utilizzate le descrizioni delle atrocità dei cannibali in Africa. La caccia, i processi e i roghi delle streghe che si verificarono in gran parte dell’Europa e in America nel XVI e nel XVII secolo costituiscono altri esempi di forze dell’antimodernità cacciate nell’inferno dell’irrazionalità e della superstizione da cui minacciano la religione e la ragione. La caccia alle streghe si era diffusa nelle aree dove la lotta dei contadini era stata particolarmente violenta e colpiva le donne che avevano contrastato con più determinazione il colonialismo, il comando capitalistico e il dominio patriarcale. 
Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I molte difficoltà con i propri mostri che cerca di scacciare in ogni modo come delle mere illusioni, degli autoinganni di un’immaginazione sovreccitata: «Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri» scrive Marx. «Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie per poter negare l’esistenza dei mostri.»531 mostri sono reali. Faremmo bene ad aprire gli occhi e a sturarci le orecchie per capire quello che hanno da dirci sulla modernità.

Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno cercato di affrontare i mostri dell’antimodemità - l’irrazionalismo, il mito, il dominio e la barbarie - e di riportarli all’interno di una relazione dialettica con l’illuminismo. «Non abbiamo il minimo dubbio» così scrivevano «ed è la nostra petizione di principio, che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque.»54 Essi videro nella modernità un intreccio inestricabile con il suo contrario che avrebbe condotto ineluttabilmente all’autodistruzione della ragione. Horkheimer e Adorno, scrivendo dal loro esilio negli Stati Uniti agli inizi degli anni Quaranta, stavano cercando di capire le ragioni del trionfo del nazismo in Germania e le origini della miscela di barbarie e di razionalità che lo caratterizzava. Si resero così conto che i nazisti non rappresentavano un’anomalia, ma un sintomo della natura stessa deila modernità. Anche i proletari erano soggetti alla medesima dialettica, i progetti di emancipazione e razionalizzazione sociale risultavano ugualmente funzionali alla creazione di un mondo totalmente amministrato. Per Horkheimer e Adorno non c’era all’orizzonte alcuna
prospettiva di risoluzione di questa dialettica, ma solo un’interminabile frustrazione degli ideali della modernità sino all’ineluttabile degradazione nel loro opposto. Alla fine, invece di veder realizzata una nuova condizione dell’umanità, ci ritroviamo ricacciati in un nuovo baratro di barbarie.

Gli argomenti di Horkheimer e di Adorno sono straordinariamente importanti per la loro capacità di abbandonare una volta per tutte la linea del ideologismo modernista che aveva caratterizzato la storia del marxismo. A nostro parere, tuttavia, nel loro tentativo di dare una forma dialettica al rapporto tra modernità e antimodernità hanno commesso due errori. In primo luogo, nelle loro analisi essi tendono a omogeneizzare le forze dell’antimodernità. Alcune espressioni dell’antimodernità, come il nazismo, erano delle forze demoniache che si proponevano di schiavizzare intere popolazioni, altre sfidarono le strutture della gerarchia e della sovranità esprimendo delle figure di incontenibile libertà. Il secondo errore consiste nell’aver chiuso questa relazione nella dialettica. In questo modo, Horkheimer e Adorno hanno messo in scena l’antimodemità come una forza che fronteggia la modernità opponendosi a essa o agendo come una contraddizione. In tal senso, la dialettica, da principio di movimento, costringe la relazione tra modernità e antimodernità in uno stallo. In tal senso, Horkheimer e Adorno non vedono alcuna via d’uscita all’eterna oscillazione tra gli opposti in cui è costretta la sorte dell’umanità. A nostro avviso, il problema dipende sostanzialmente dall’incapacità di discernere le differenze all’interno delle figure dell’antimodernità. Le più potenti tra queste forze, quelle che ci interessano maggiormente, non sono in una relazione specularmente negativa con la modernità, bensì si muovono su traiettorie trasversali. Da ciò non si deve concludere che esse si oppongono a tutto ciò che è moderno o razionale, ma che sono impegnate a creare nuove forme di razionalità e nuove forme di liberazione. Occorre svincolarsi dal circolo vizioso creato dalla dialettica di Horkheimer e Adorno Per poter vedere in che misura i mostri creativi e felici dell’antimodernità, i mostri della liberazione, eccedono il dominio della moderata e per rendersi conto in che misura il loro stesso essere è indicati-Vo di una prospettiva alternativa.

Un modo per emanciparsi dalla dialettica è osservare la relazione

essa sottende dal punto di vista dei mostri della modernità. Caligano, il mostro deforme della Tempesta, è un potente esempio del nativo colonizzato nelle sembianze di un mostro terribile e minac-
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.

L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.

L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
espressiva della potenza selvaggia ed eccessiva dell’immaginazione. Se riduciamo la pluralità delle figure dell’antimodemità a una piatta dialettica di opposte identità perdiamo completamente le potenzialità liberatorie della loro mostruosa immaginazione.60

E vero, e continua a esserlo, che sono esistite e continuano a esistere delle forze dell’antimodernità che non hanno nulla di liberatorio. Horkheimer e Adorno hanno perciò ragione quando vedono nel progetto nazista un’antimodernità reazionaria. La stessa aberrazione la vediamo in opera nei tanti fenomeni di pulizia etnica, nei deliri supre-matisti del Ku Klux Klan, e nelle allucinazioni di dominio dei neoconservatori americani. Il fattore antimoderno di questi fenomeni è costituito dal tentativo di rompere la relazione che è a fondamento della modernità per liberare il dominatore dalla necessità di dover avere a che fare con il dominato. Le teorie della sovranità, da Donoso Cortés a Cari Schmitt, sono antimoderne nella misura in cui si ripropongono di rompere la relazione della modernità e di porre fine ai conflitti che la caratterizzano per liberare il sovrano. La cosiddetta autonomia della politica proposta da queste teorie è l’autonomia dei dominatori dai dominati, finalmente liberi dalle sfide e dalle resistenze degli assoggettati. Questo sogno è ovviamente un’illusione dato che i dominatori non potrebbero sopravvivere senza i soggiogati, come ebbe modo di riconoscere Prospero, così come il capitale non potrebbe sopravvivere senza quei noiosi operai! Il fatto che sia un’illusione non toglie che essa continui ancora oggi a provocare terribili tragedie. I mostri sono la stoffa di cui sono fatti gli incubi.

Quanto detto assegna ancora due compiti alla nostra analisi delle forze dell’antimodernità. Il primo è quello di stare bene attenti a distinguere, da un lato, le declinazioni reazionarie dell’antimodernità con cui si cerca di rompere la relazione che sta alla base della modernità per liberare la sovranità, dall’altro, le declinazioni libertarie dell’antimodernità che sfidano e sovvertono le gerarchie con la resistenza per espandere la libertà dei subordinati. Il secondo compito è quello di riconoscere che la resistenza e la libertà eccedono sistematicamente i rapporti di dominio e non possono essere recuperate da una dialettica con i poteri della modernità. I mostri possiedono la chiave di nuovi poteri creativi che oltrepassano l’opposizione tra modernità e antimodernità.

giovedì, luglio 26, 2012

Toni Negri Inventare il comune degli uomini


Toni Negri
(2008)'
Partiamo da una constatazione molto semplice poiché talvolta è più facile ragionare cominciando dalla fine: noi viviamo oggi in un mondo dove produrre è divenuto un atto comune. Alcuni di noi hanno ancora in testa dei blocchi interi di analisi foucaultiane sulla duplice tenaglia che l’industrializzazione impose ai corpi e alle teste degli uomini - a partire dalla fine del XVIII secolo. Da una parte l’individuazione, la separazione, la desoggettivazione, l’ammaestramento di ogni individuo - ridotto a essere un’unità produttiva in forma di monade, senza porte né finestre, intera­mente disarticolato e riarticolato in funzione delle esigenze di ren­dimento e di massimizzazione dei profitti; dall’altro la costruzio­ne in serie di queste monadi produttive, la loro massificazione, la loro costituzione in popolazione indifferenziata, il loro carattere intercambiabile, poiché il grigio sempre equivale al grigio e un corpo ammaestrato ne vale un altro. Individuazione, serializzazio­ne - ecco la tenaglia benedetta del capitalismo industriale, la me­raviglia di una razionalità politica che non esita a raddoppiare le sue procedure di controllo e di gestione, a mordere le carni di quel­l’individuo che essa sta formando a sua immagine e a inquadrare quelle popolazioni che essa si inventa, per assicurare definitiva­mente il suo potere sulla vita e sfruttarne la potenza. Udendo que­sto, certuni rileggeranno Sorvegliare e punire.
Altri, più semplicemente, hanno in testa il ritmo della catena produttiva, le braccia spezzate, l’impressione di non esistere più, ilcorpo che si trasforma in carne da cannone per la produzione in serie, la ripetizione senza fine, l’isolamento, la fatica. L’impressione di essere stati a un tempo ingoiati da una balena, soli, nel nero, nel buio, ed esser stati masticati con tanti altri.

Tutto questo è stato vero. Tutto questo esiste ancora. E tuttavia: tutto questo esiste in sempre minor misura. Da quando è nata, la rivista «multitudes» si è provata a dire questa mutazione, a descriverne la realtà - questa «tendenza» che attraversava l’esistente e ne scavava dall’interno l’intima consistenza - di analizzarne le conseguenze. Questa mutazione ha toccato, a un tempo, le condizioni dello sfruttamento, i rapporti di potere, il paradigma del lavoro, la produzione di valore. Questo cambiamento ha anche investito le possibilità di resistenza. Perché questo cambiamento, paradossalmente, ha anche riaperto e moltiplicato le possibilità di resistenza.

Uno dei punti più diffìcili e dei più polemici per quelli che ancora oggi sono affezionati al vecchio modello di produzione in serie, alla figura della fabbrica e alla storia della resistenza operaia, è di pensare che a un nuovo modo di sfruttamento degli uomini - più spinto, più efficace, più esteso - possa corrispondere un’accresciu-ta possibilità di conflittualità e di sabotaggio, di ribellione e di libertà. Per noi, dire che il modello di produzione (e dunque di sfruttamento) è cambiato, dire che bisogna smetterla di pensare alla fabbrica come all’unica matrice di produzione e di conflittualità proletaria, è anche dire maggiore resistenza. Quando parliamo di «nuovo capitalismo», di capitalismo cognitivo, di lavoro immateriale, di cooperazione sociale, di circolazione del sapere, di intelligenza collettiva, proviamo a descrivere, a un tempo, la nuova esistenza del saccheggio capitalista della vita, il suo investimento non più solamente della fabbrica ma delfiniera società, ma anche la generalizzazione dello spazio della lotta, la trasformazione del luogo di resistenza e la figura della metropoli, in quanto luogo di produzione, divenuta oggi lo spazio delle resistenze possibili. Noi diciamo che oggi il capitalismo non può più permettersi di desoggettivare - individualizzare, serializzare - gli uomini, di triturarne la carne per farne dei golem a due teste (l’«individuo» come unità produttiva, la «popolazione» come oggetto di gestione massificata). Il capitalismo non può più permetterselo perché quello che produce il valore è ormai la produzione comune delle soggettività.
intendiamo negare che esistano ancora delle fabbriche, dei corpi massacrati e delle catene di lavoro. Affermiamo solo che lo stesso principio della produzione, il suo baricentro, s’è spiazzato; che creare del valore, oggi, è mettere in rete le soggettività e captare, sviare, appropriarsi quel che esse fanno di quel comune che mettono in vita. Il capitalismo ha oggi bisogno delle soggettività, ne è dipendente. Esso si ritrova dunque incatenato a quello che paradossalmente lo mette in pericolo: perché la resistenza, l’affermazione di una libertà intransitiva degli uomini, è precisamente far valere la potenza dell’invenzione soggettiva, la sua molteplicità singolare, la sua capacità di produrre il comune a partire dalle differenze. Da carne di cannone della produzione, quali erano, i corpi e i cervelli si sono trasformati in armi contro il capitalismo. Senza il comune, il capitalismo non può più esistere. Con il comune le possibilità di conflitto, di resistenza e di riappropriazione si sono infinitamente accresciute. Formidabile paradosso di un’epoca che è finalmente riuscita a sbarazzarsi degli ornamenti della modernità.

Dal punto di vista di quello che si può chiamare la «composizione tecnica» del lavoro, la produzione è dunque divenuta comune. Dal punto di vista della sua «composizione politica», bisognerebbe allora che a questa produzione comune corrispondessero delle nuove categorie giuridico-politiche, capaci di organizzare quésto «comune», di dirne la centralità, di descriverne le nuove istituzioni e il funzionamento interno. Ora, queste nuove categorie non ci sono, esse mancano. Il fatto che si mascherino le nuove esigenze del comune, che si continui paradossalmente a ragionare in termini obsoleti - come se il luogo di produzione fosse ancora la fabbrica, come se i corpi fossero ancora incatenati, come se non si avesse scelta tra essere soli (individuo, cittadino, monade produttiva, numero di cella di una prigione o operaio sulla linea, Pinocchio solitario nel ventre della balena) ed essere indistintamente massificati (popolazione, popolo, nazione, forza lavoro, razza, carne da cannone per la patria, boi digestivo nel ventre della balena) - il fatto, dunque, che si continui ad agire come se niente fosse avvenuto, come su niente fosse cambiato: ecco che cosa costituisce la più perversa capacità di mistificazione del potere. Dobbiamo aprire il ventre della balena, dobbiamo battere Moby Dick.
ne quasi permanente di due termini, che funzionano come altrettanti inganni ma corrispondono allo stesso tempo a due maniere di appropriarsi il comune degli uomini. La prima di queste maniere è il ricorso alla categoria del «privato»; la seconda, è il ricorso alla categoria del «pubblico». Nel primo caso, la proprietà - Rousseau dixit: e il primo uomo che ha detto «questo è mio»... - è un’appropriazione del comune da parte di uno solo, vale a dire anche un’espropriazione di tutti gli altri. Oggi, la proprietà privata consiste propriamente nel negare agli uomini il loro diritto comune su quello che solo la loro cooperazione è capace di produrre. La seconda categoria, di contro, è quella del «pubblico». Il buon Rousseau, che era così duro con la proprietà privata quando, a giusto titolo, la considerava la sorgente di tutte le corruzioni e sofferenze umane, cade allora immediatamente nel tranello. Problema del contratto sociale - problema della democrazia moderna; poiché la proprietà privata genera l’ineguaglianza, come si potrà inventare un sistema politico dove tutto, appartenendo a tutti, non appartenga a nessuno? La trappola si chiude su Jean-Jacques - e su tutti noi allo stesso tempo. Ecco dunque cos’è il pubblico: quello che appartiene a tutti ma a nessuno, vale a dire quello che appartiene allo Stato. E poiché lo Stato dovremmo essere noi, allora bisognava inventare qualcosa per rendere gentile la sua manomissione del comune: farci credere ad esempio che esso ci rappresenti, e se lo Stato si arroga dei diritti su quello che noi produciamo, è perché quel «noi» che noi siamo, non è quello che noi produciamo in comune, inventiamo e organizziamo come comune, ma quello che ci permette di esistere. Il comune, ci dice lo Stato, non ci appartiene, perché noi non lo creiamo veramente: il comune è il nostro suolo, il nostro fondamento, quello che noi abbiamo sotto i piedi: la nostra natura, la nostra identità. E se questo comune non ci appartiene veramente - essere non è avere - la manomissione dello Stato sul comune non si chiama appropriazione ma gestione (economica), delegazione e rappresentanza (politiche). CVD:implacabile bellezza dal pragmatismo pubblico.

La natura e l’identità sono delle mistificazioni del paradigma moderno del potere. Per riappropriarci il nostro comune bisogna prima di tutto produrne una drastica critica. Noi non siamo niente e noi non vogliamo essere niente. «Noi»: non è una posizione è un essenza una cosa della quale è facile dichiarare che è pubblica. Il nostro comune non è il nostro fondamento, è la nostra produzione, la nostra invenzione continuamente ricominciata. «Noi»: è il nome di un orizzonte, il nome di un divenire. Il comune ci è davanti, sempre, è un progredire. Noi siamo questo comune: fare, produrre, partecipare, muoversi, dividere, circolare, arricchire, inventare, rilanciare.

Tuttavia noi abbiamo pensato, lungo quasi tre secoli, la democrazia come l’amministrazione della cosa pubblica, vale a dire come l’istituto dell’appropriazione statale del comune. Oggi, la democrazia non può più esser pensata che in termini radicalmente differenti: come gestione comune del comune. Questa gestione implica a sua volta una ridefìnizione dello spazio - cosmopolitico; e una ridefìnizione della temporalità - costituente. Non si tratta più di definire una forma di contratto che faccia sì che tutto, essendo di tutti, non appartenga tuttavia a nessuno. No: tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti.

Nel dossier che alcuni di noi hanno proposto nella «Maggiore» di questo numero di «Multitudes»2 (a partire da esperienze che conducono da alcuni anni e a partire anche dalla constatazione che queste esperienze, altre volte «di nicchia», stanno oggi generalizzandosi), tentiamo di rendere visibile questo comune, di raccontare delle strategie di riappropriazione del comune. La metropoli, oggi, è divenuta un tessuto produttivo generalizzato: è là che la produzione comune si dà e si organizza, è là che l’accumulazione del comune si realizza. L’appropriazione violenta di quest’accumulazione si fa ancora a titolo privato o a titolo pubblico - e quello che si chiama «la rendita» dello spazio metropolitano è ormai un enjeu economico maggiore, ed è su questo punto che le strategie del controllo si cristallizzano - ma noi non vogliamo entrare qui nelle analisi del rapporto di questa rendita al profitto e neppure in quella delle «esternalità produttive»... ci è sufficiente, per il momento, fissare il fatto che l’appropriazione privata è sovente garantita e legittimata dall’appropriazione pubblica e viceversa.
Riprendere il comune, riconquistare non più una cosa ma un processo costituente, vale a dire anche lo spazio nel quale esso si svolge: lo spazio della metropoli. Tracciare delle diagonali dentro lo spazio rettilineo del controllo: opporre delle diagonali ai diagrammi, degli interstizi ai quadrìllages, dei movimenti alle posizioni, dei divenire alle identità, delle molteplicità culturali senza fine alle nature semplici, degli artefatti alle pretese di un’origine. In un bel libro, di qualche anno fa, Jean Starobinski ha parlato dell’età dei Lumi come d’un tempo che aveva visto «l’invenzione della libertà». Se la democrazia moderna è stata l’invenzione della libertà, la democrazia radicale, oggi, vuol essere invenzione del comune.