Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk
Visualizzazione post con etichetta NIETZSCHE. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta NIETZSCHE. Mostra tutti i post

giovedì, settembre 18, 2014

F. Nietzsche Il viandante e la sua ombra



Parte seconda
Il viandante e la sua ombra


L 'ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene
un'occasione.
Il viandante: Parla — dove? e chi? E quasi come se sentissi parlare me stesso, solo
con voce più debole della mia.
L'ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un'occasione di parlare?
Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la
sento, ma non ci credo.
L'ombra: Accettiamolo e non pensiamoci oltre, tra un'ora sarà tutto finito.
II viandante: Pensai proprio così, quando in un bosco vicino a Pisa vidi prima due e
poi cinque cammelli.
L'ombra: E bene che ambedue siamo ugualmente indulgenti verso di noi, se per una
volta la nostra ragione tace: così anche nel nostro colloquio non ci adireremo e non
metteremo subito le manette all'altro se la sua parola ci suonerà incomprensibile.
Se proprio non si sa rispondere, basta già dire qualcosa: questa è l'equa condizione
alla quale io mi intrattengo con qualcuno. In un dialogo un po' lungo, anche il più
savio diventa una volta pazzo e tre volte babbeo.
Il viandante: Le tue modeste pretese non sono lusinghiere per colui al quale le
confessi.
L'ombra: Debbo dunque lusingare?
II viandante: Pensavo che l'ombra dell'uomo fosse la sua vanità: ma questa non
chiederebbe mai: «debbo dunque lusingare?».
L'ombra: La vanità umana, se ben la conosco, non domanda neppure, come io ho
già fatto due volte, se può parlare: parla sempre.
Il viandante: Solo adesso mi accorgo quanto sono scortese nei tuoi confronti, mia
cara ombra: non ho ancor neppure fatto parola su quanto mi rallegra di ascoltarti, e
non solo di vederti. Lo sai, io amo l'ombra come amo la luce. Perché esistano la
bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere,
l'ombra è necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: anzi si tengono
amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l'ombra le scivola dietro.
L'ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci
della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e
scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell'ombra che tutte le cose
mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza — io sono anche
quell'ombra.
Il viandante: Credo di capirti, anche se ti sei espressa in modo un po' umbratile. Ma
avevi ragione: i buoni amici si dicono talvolta una parola oscura, come segno
d'intesa, che dev'essere un enigma per ogni altra persona. E noi siamo buoni amici.
Perciò basta con i preamboli! Centinaia di domande premono il mio animo, e il
tempo in cui tu potrai rispondervi è forse troppo breve. Vediamo su che cosa
incontrarci in fretta e pacificamente.
L'ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non dirai a nessuno come
abbiamo parlato insieme!
Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? II cielo mi guardi da lunghi ed
elaborati dialoghi scritti! Se Platone avesse avuto meno gusto a elaborare, i suoi
lettori avrebbero più gusto a lui. Un dialogo che nella realtà delizia è, se
trasformato in scrittura e letto, un quadro con prospettive del tutto false: tutto è
troppo lungo o troppo corto. — Tuttavia potrò forse comunicarti su che cosa ci
siamo accordati?
L'ombra: Questo mi basta; perché tutti vi riconosceranno solo le tue opinioni;
nessuno si ricorderà dell'ombra.
Il viandante: Forse ti sbagli, amica! Sinora nelle mie opinioni si è vista più l'ombra
che me.
L'ombra: Più ombra che luce? È possibile?
Il viandante: Sii seria, cara matta! La mia prima domanda esige subito serietà!
8.
Nella notte. — Non appena scende la notte, cambia la nostra percezione delle cose
più vicine. C'è il vento che si insinua per vie proibite, bisbigliando, come se
cercasse qualcosa, turbato perché non la trova. C'è la luce della lampada, dal cupo,
rossastro bagliore, che guarda stanca e resiste malvolentieri alla notte, schiava
impaziente dell'uomo che veglia. Ci sono i respiri del dormiente, il loro ritmo
raccapricciante al quale un sempre ritornante affanno sembra scandire la melodia;
noi non la udiamo, ma come il petto del dormiente si solleva, sentiamo una stretta
al cuore e quando il respiro si abbassa, quasi estinguendosi in una quiete mortale, ci
diciamo: «riposa un poco, povero spirito travagliato!» — a ogni vivente
auguriamo, poiché vive così oppresso, una pace eterna: la notte induce alla morte.
Se gli uomini rinunciassero al sole e conducessero la lotta contro la notte al chiaro
di luna o al lume dell'olio, quale filosofia li avvolgerebbe nel suo velo! Già fin
troppo si nota dalla natura intellettuale e spirituale dell'uomo, come essa venga
complessivamente offuscata da quella metà di oscurità e assenza di sole che ricopre
la vita.
9.
Da dove ha origine la dottrina della libertà del volere. — Su uno la necessità grava
sotto forma delle sue passioni, su un altro come abitudine ad ascoltare e obbedire,
su un terzo come coscienza logica, sul quarto come capriccio e malizioso piacere
dell'avventura. Da questi quattro, comunque, la libertà del volere viene cercata
appunto là dove ognuno di loro è più strettamente legato: è come se il baco da seta
cercasse la libertà del suo volere proprio nel tessere. Da dove viene ciò?
Evidentemente dal fatto che ciascuno si ritiene più libero là dove è più grande la
sua sensazione di vita, quindi, come abbiamo detto, ora nella passione, ora nel
dovere, ora nella conoscenza, ora nel capriccio. il singolo individuo ritiene
istintivamente che ciò che lo rende forte e lo stimola debba anche essere sempre
l'elemento della sua libertà: egli considera dipendenza e ottusità, indipendenza e
sensazione vitale come abbinamenti necessari. — Viene così erroneamente traslata
all'estremo campo metafisico un'esperienza che l'individuo ha fatto nel campo
sociopolitico, dove l'uomo forte è anche l'uomo libero, dove il senso vitale di gioia
e di dolore, l'intensità della speranza, l'audacia del desiderio, la potenza dell'odio
sono pertinenza dei dominanti e degli indipendenti, mentre l'assoggettato, lo
schiavo vive oppresso e ottuso. — La teoria della libertà è una invenzione delle
classi dominanti.
10.
Non sentire nuove catene. — Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci
riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia
presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e
riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto
che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse,
sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento. — E se invece fosse vero
il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero
quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per
le nuove catene egli soffre ancora: — «libertà del volere» non significa altro che
non sentire nuove catene.
11.
La libertà del volere e l'isolamento dei fatti. — La nostra abituale, imprecisa
osservazione prende un gruppo di fenomeni come una unità e lo chiama un fatto:
fra questo e un altro fatto essa si figura uno spazio vuoto, essa isola ogni fatto. Ma
in verità tutto il nostro fare e conoscere non è una sequenza di fatti e di spazi vuoti,
intermedi, ma un flusso continuo. Ora, proprio la fede nella libertà della volontà è
incompatibile con l'idea di un fluire continuo, omogeneo, indiviso e indivisibile;
essa presume che ciascuna singola azione sia isolata e indivisibile; è un atomismo
nell'ambito del volere e del conoscere. — Proprio come comprendiamo
inesattamente i caratteri, così facciamo con i fatti: parliamo di caratteri uguali, di
fatti uguali: né gli uni né gli altri esistono. Ora, noi lodiamo o biasimiamo, ma solo
in base a questa falsa premessa che vi siano fatti uguali, che esista un ordinamento
graduato di generi di fatti al quale corrisponda un ordinamento graduato di valori:
quindi noi non isoliamo soltanto il singolo fatto, ma anche i gruppi di fatti ritenuti
uguali (azioni buone, cattive, pietose, invidiose eccetera) — in entrambi i casi
erroneamente. — La parola e il concetto sono il motivo più evidente per cui
crediamo a questo isolamento di gruppi di azioni: con essi noi non designiamo
soltanto le cose, noi intendiamo originariamente afferrare con essi l'essenza delle
cose stesse. Con parole e concetti veniamo ancor oggi continuamente tentati di
immaginare le cose più semplici di quello che sono, separate l'una dall'altra,
indivisibili, ognuna esistente di per sé. Nel linguaggio si nasconde una mitologia
filosofica che, per quanto si possa essere prudenti, sbuca fuori a ogni istante. La
fede nella libertà del volere, e cioè nei fatti uguali e nei fatti isolati, trova nel
linguaggio il suo fedele evangelista e avvocato.
13.
Dire due volte. — E bene esprimere subito una cosa due volte e darle un piede
destro e uno sinistro. La verità può si stare in piedi su una gamba, ma con due
camminerà e andrà in giro.
14.
L'uomo, il commediante del mondo. — Ci dovrebbero essere creature più di spirito
di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel
fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si
ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio
ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di
divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla
terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo.
Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per
trovare, nei gesti tragico-orgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma
soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa creatura, la sua gioia —
quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più
spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito. — Persino qui, dove la nostra
umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno
scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione,
qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel
mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca
talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la
goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del
mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni
simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi — ma francamente
neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il
germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di
questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una
vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé — quindi, in nessun
caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza. Forse la formica del bosco è
altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco,
come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente
la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo
a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un
crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato
non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante
sepolcro dell'umanità.
16.
Dove è necessaria l'indifferenza. — Nulla sarebbe più assurdo del voler attendere,
come tanto spesso viene consigliato, ciò che la scienza stabilirà definitivamente
circa le cose prime e ultime, e del pensare (e soprattutto credere!) fino a quel
momento nel modo tradizionale. L'impulso a voler assolutamente avere in questo
ambito solo certezze è una inclinazione religiosa, nulla di meglio, — una forma
nascosta e solo apparentemente scettica di «esigenza metafisica», abbinata al
pensiero recondito che ancora per molto, molto tempo non vi sarà alcuna
prospettiva di ottenere queste certezze ultime e che fino ad allora il «credente» avrà
diritto di non preoccuparsi dell'intero settore. Queste certezze sugli estremi
orizzonti non ci sono affatto necessarie per vivere un'umanità piena e valida: non
più di quanto siano necessarie alla formica per essere una buona formica. Assai più
dobbiamo invece chiarire a noi stessi da dove effettivamente provenga quella fatale
importanza che per tanto tempo abbiamo attribuito a quelle cose: e a tale scopo ci
serve la storia dei sentimenti etici e religiosi. Infatti solo sotto l'influsso di questi
sentimenti sono diventate così rilevanti e terribili per noi le più spinose questioni
della conoscenza: si sono trascinati negli estremi settori, dove l'occhio spirituale
ancora giunge ma senza penetrarvi, concetti come colpa e punizione (e
precisamente punizione eterna!): e questo tanto più incautamente quanto più oscuri
erano questi settori. Dai tempi più remoti si è fantasticato con temerarietà laddove
non si poteva stabilire nulla, e si sono indotti i posteri a prendere queste fantasie
come cose serie e vere, da ultimo con l'esecrabile espediente che il credere valga
più del sapere. Ora, a proposito di quelle ultime cose non è necessario opporre il
sapere al credere, ma piuttosto l'indifferenza circa il credere e il preteso sapere in
questi campi! Tutto il resto ci dev'essere più vicino di ciò che finora ci è stato
predicato come più importante — intendo quegli interrogativi: perché l'uomo?
quale sorte avrà dopo la morte? come si riconcilia con Dio? o comunque possano
essere formulate queste curiosità. Non più di questi interrogativi dei religiosi ci
interessano le questioni dei dogmatici filosofici, siano essi idealisti, materialisti o
realisti. Tutti quanti ci spingono a prendere una decisione in campi nei quali non è
necessario né il credere né il sapere; persino ai più grandi appassionati della
conoscenza è più utile che intorno a tutto ciò che è ricercabile e accessibile alla
ragione si stenda una fascia acquitrinosa, nebulosa e illusoria; la fascia
dell'impenetrabile, dell'eternamente fluido e indefinibile. Proprio dal confronto con
il regno dell'oscurità ai margini della terra del sapere aumenta continuamente di
valore il chiaro e vicino, vicinissimo mondo del sapere. — Dobbiamo ridiventare
buoni vicini delle cose prossime e non distogliere così sprezzantemente lo sguardo
da esse, come abbiamo fatto sinora, verso le nuvole e i mostri notturni. In selve e
caverne, in zone acquitrinose e sotto cieli coperti — qui l'uomo è vissuto troppo a
lungo come su gradini di civiltà di interi millenni, e vissuto miseramente. Qui ha
appreso a disprezzare il presente e i vicini e la vita e se stesso — e noi, abitanti dei
più luminosi campi della natura e dello spirito, riceviamo ancora, per eredità, nel
nostro sangue qualcosa di questo veleno del disprezzo per cose che è prossimo.
19.
Immoralisti. — oggi i moralisti debbono accettare di venir additati quali
immoralisti, perché sezionano la morale. Ma chi vuol sezionare deve uccidere:
tuttavia solo perché si possa meglio conoscere, meglio giudicare, meglio vivere;
non affinché tutto il mondo sezioni. Ma purtroppo gli uomini continuano a credere
che ogni moralista debba essere anche in tutto il suo agire un esempio che gli altri
debbono imitare: essi lo scambiano per il predicatore della morale. I primi moralisti
non sezionavano abbastanza e predicavano troppo spesso; da questo derivano
quella confusione e quelle spiacevoli conseguenze per i moralisti attuali.
35.
Casistica del vantaggio. — Non esisterebbe una casistica della morale se non
esistesse una casistica del vantaggio. L'intelligenza più libera e sottile spesso non
basta a scegliere tra due cose in modo che la sua scelta implichi necessariamente il
vantaggio maggiore. In tali casi si sceglie perché bisogna scegliere, e dopo si soffre
una specie di mal di mare del sentimento.
37.
Una specie di culto delle passioni. — Voi, uomini tetri e bisce filosofiche, per
accusare il carattere di tutto il mondo parlate del carattere terribile delle passioni
umane. Come se ovunque ci sono state passioni, ci sia anche stata questa terribilità!
Come se nel mondo dovesse sempre esserci questa terribilità! — Per aver
trascurato le cose piccole, per non aver osservato voi stessi e coloro che debbono
essere educati, avete fatto assurgere le passioni a mostri tali che oggi già alla parola
«passione» siete presi da paura! Stava a voi e sta a noi togliere alle passioni il loro
carattere terribile e prevenirle in modo che non diventino torrenti devastatori. —
Non bisogna gonfiare i propri errori a fatalità eterne; lavoriamo piuttosto
onestamente a trasformare tutte le passioni dell'umanità in gioia.
39.
Origine dei diritti. — I diritti risalgono in massima parte a una tradizione, e la
tradizione a un accordo accaduto una sola volta. Un tempo si fu dapprima
soddisfatti da entrambe le parti per le conseguenze dell'accordo raggiunto, e poi si
fu troppo pigri per rinnovarlo formalmente; così si continuò a vivere come se
l'accordo venisse sempre rinnovato, e gradualmente, quando la dimenticanza ne
coprì con le sue brume le origini, si credette di possedere una situazione sacra e
immutabile, sulla quale ogni generazione doveva continuare a costruire. La
tradizione divenne allora costrizione, anche se non recò più quell'utile in base al
quale si era originariamente stipulato l'accordo. — I deboli vi hanno trovato in ogni
tempo la loro solida rocca: e tendono a eternare quell'accordo di una volta, quella
concessione di grazia.
40.
Importanza del dimenticare nel sentimento morale. — Le stesse azioni che
all'interno della società primitiva furono dapprima dettate dall'utilità comune, sono
poi state compiute dalle generazioni successive in base ad altri motivi: per timore o
rispetto verso coloro che le esigevano e consigliavano, o per abitudine, perché sin
da bambini le si era vedute compiere intorno a sé, o per benevolenza, perché il farle
causava ovunque gioia e visi consenzienti, o per vanità, perché venivano lodate.
Tali azioni di cui è stato dimenticato il motivo fondamentale, quello dell'utilità,
vengono dette poi morali: non perché vengano compiute in base a quegli altri
motivi, ma perché non sono compiute per consapevole utilità. — Da dove proviene
quest'odio per l'utilità, che qui diviene visibile, dove ogni agire degno di lode si
separa formalmente da ogni agire in base a un'utilità? — Evidentemente la società,
focolare di ogni morale e di ogni lode per l'agire morale, ha dovuto combattere
troppo a lungo e troppo duramente contro l'utile personale e l'egoismo del singolo,
per non stimare moralmente più alto ogni altro motivo che non sia l'utilità.
S'ingenera così l'apparenza che la morale non sia nata dall'utilità; mentre in origine
essa è l'utilità della società, che a gran fatica si è affermata contro tutte le utilità
private e si è fatta considerare superiore ad esse.
44.
Livelli della morale. — La morale è innanzitutto un mezzo per conservare in
genere la comunità e scongiurarne la decadenza; poi è un mezzo per mantenere la
comunità a un certo livello e in una certa bontà. I suoi motivi sono la paura e la
speranza: e tanto più rudi, potenti e grossolani, quanto più forte è la tendenza
all'errore, all'unilateralità, all'individualismo. Debbono qui operare i mezzi di
intimidazione più terribili, sinché non vorranno agire mezzi più miti e non si possa
raggiungere in altro modo quella duplice specie di conservazione (tra i suoi mezzi
più forti è l'invenzione di un aldilà con un inferno eterno). Allora dovranno esserci
torture dell'anima e aiutanti del boia. Altri gradi della morale e quindi mezzi per lo
scopo indicato sono i dettami di un dio (come la legge mosaica); gradi ulteriori e
più elevati, i dettami di un'idea assoluta di dovere con il «tu devi» — gradini, tutti,
ancora rozzamente sbozzati ma larghi, perché gli uomini non sanno ancora posare
il piede su quelli più sottili e stretti. Viene poi una morale dell'inclinazione, del
gusto, e infine quella della conoscenza — la quale sta al di sopra di tutti gli
illusionistici motivi della morale, ma ha compreso come per lungo tempo l'umanità
non abbia potuto averne altri.
47.
Cloache dell'anima. — Anche l'anima deve avere le sue determinate cloache nelle
quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la
patria oppure il mondo oppure infine — per quelli molto boriosi (voglio dire i
nostri cari «pessimisti» moderni) — il buon dio.Contenuto della coscienza. — Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che
negli anni dell'infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da
persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel
senso del dovere («questo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché
debbo? In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un «perché», l'uomo agisce
senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. La fede nelle autorità è la fonte
della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell'uomo, ma la
voce di alcuni uomini nell'uomo.
74.
La preghiera. — Solo con due premesse il pregare — quest'usanza dei tempi
antichi non ancora completamente estinta — avrebbe un senso: dovrebbe esser
possibile persuadere o dissuadere la divinità, e chi prega dovrebbe saper meglio di
ogni altro di che cosa abbia bisogno, che cosa per lui sia veramente da desiderare.
Ma queste due premesse, accolte e tramandate in tutte le altre religioni, furono
negate proprio dal cristianesimo; se esso tuttavia conservò la preghiera, nonostante
la sua fede in una ragione divina onnisciente e onniprevidente, la quale appunto
rende in fondo la preghiera priva di senso, anzi sacrilega, — anche in questo
mostrò ancora una volta la sua ammirevole astuzia di serpente; perché un
comandamento chiaro, «non pregare», avrebbe portato i cristiani per noia a un noncristianesimo.
Nell'ora et labora cristiano, l'ora tiene il posto del piacere: e che
cosa avrebbero fatto senza l'ora quegli infelici che si negarono al labora, i santi! —
ma intrattenersi con Dio, chiedergli ogni sorta di cose piacevoli, e divertirsi persino
un po' sul fatto di esser tanto folli da avere ancora desideri, nonostante un padre
così eccellente, — questa fu per i santi un'ottima invenzione.
78.
Credere nella malattia in quanto malattia. — Solo il cristianesimo ha dipinto il
diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel
mondo. La fede nei rimedi che esso ha offerto contro di esso è stata a poco a poco
scossa sin nelle sue più profonde radici: ma tuttora esiste la fede nella malattia che
esso ha insegnato e diffuso.
81.
La giustizia del mondo. — E possibile sconvolgere la giustizia del mondo — con la
teoria della totale irresponsabilità e innocenza di ognuno: ed è già stato fatto un
tentativo nella stessa direzione proprio in base alla teoria opposta, della totale
responsabilità e colpevolezza di ciascuno. Fu il fondatore del cristianesimo a voler
abolire la giustizia terrena e cancellare dal mondo il giudizio e la punizione. Egli
infatti intendeva ogni colpa come «peccato», ossia come offesa nei confronti di Dio
e non come offesa nei confronti del mondo; d'altra parte riteneva tutti in
larghissima misura e quasi sotto ogni rispetto come peccatori. Ma i colpevoli non
debbono essere giudici dei loro pari: così sentenziò la sua equità. Tutti i giudici
della giustizia terrena erano dunque ai suoi occhi colpevoli quanto i condannati, e
la loro aria di innocenza gli appariva ipocrita e farisaica. Inoltre egli guardava ai
motivi delle azioni e non agli esiti, e riteneva che solo uno avesse l'acutezza
necessaria per giudicare sui motivi: lui stesso (o, come si esprimeva: Dio).
82.
Affettazione nel congedo. — Chi vuol separarsi da un partito o da una religione
pensa che ora gli sia necessario confutarli. Ma questo è un pensiero assai superbo.
Necessario è solo che egli comprenda chiaramente quali appigli lo tennero legato a
quel partito o a quella religione, e che essi non lo fanno più, quali propositi lo
hanno spinto verso di quelli e ora lo portano altrove. Noi non abbiamo aderito a
quel partito o a quella religione per rigorosi motivi di conoscenza: separandocene,
non dobbiamo nemmeno fingerlo.
84.
I prigionieri. — Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile dove lavoravano: il
sorvegliante mancava. Alcuni di loro si misero subito al lavoro com'erano soliti,
altri rimasero inoperosi guardandosi intorno con caparbietà. Allora si fece avanti
uno e disse: «Lavorate quanto vi pare, oppure non fate nulla: è la stessa cosa. Le
vostre macchinazioni segrete sono state scoperte, di recente il sorvegliante vi ha
spiato e nei prossimi giorni vuol pronunciare su di voi un terribile giudizio. Voi lo
conoscete, è duro e vendicativo. Ora però fate attenzione: sinora non mi avete
conosciuto bene: io non sono quel che sembro, ma molto di più: sono il figlio del
sorvegliante e posso tutto presso di lui. Posso salvarvi, voglio salvarvi; ma, beninteso,
solo quelli di voi che credono che io sono il figlio del sorvegliante; gli altri
raccolgano il frutto della loro incredulità». — «Ora», disse dopo un silenzio un
anziano prigioniero, «che cosa può importarti che ti crediamo o no? Se sei
veramente il figlio e puoi fare quel che dici, metti una buona parola per noi tutti:
sarebbe veramente molto buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso sul credere
e sul non credere!» — «E», gridò intanto un giovane, «io non gli credo: si è solo
messo in testa qualcosa. Scommetto che tra otto giorni noi ci troveremo
esattamente come ora, e che il sorvegliante non sa nulla.» — «E se anche sapeva
qualcosa, non lo sa più», disse l'ultimo dei prigionieri che solo allora era giunto nel
cortile, «il sorvegliante è morto ora, all'improvviso.» — «Olà», gridarono tutti
confusamente, «olà! Signor figlio, signor figlio, come la mettiamo con l'eredità?
Siamo forse ora tuoi prigionieri?» — «Ve l'ho detto», rispose quello dolcemente,
«lascerò libero chiunque creda in me, così com'è certo che mio padre vive ancora.»
I prigionieri non risero, alzarono le spalle e lo lasciarono.
85.
Il persecutore di Dio. — Paolo ha concepito il pensiero, e Calvino lo ha elaborato,
che per innumerevoli uomini la dannazione è stabilita dall'eternità, e che questo bel
piano del mondo è stato concepito in modo che vi si manifesti la maestà di Dio;
dunque cielo e inferno e umanità esistono — per soddisfare la vanità di Dio! Quale
crudele e insaziabile vanità deve aver divampato nell'animo di colui che per primo
o per secondo pensò una cosa del genere! — Paolo è dunque pur rimasto Saulo —
il persecutore di Dio.
193.
Le epoche della vita. — Le vere epoche della vita sono quei brevi periodi di sosta
tra il sorgere e il tramontare di un pensiero o di un sentimento dominante. Qui c'è
ancora una volta sazietà: tutto il resto è sete e fame — oppure noia.
194.
Il sogno. — I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e giungono a
completarsi — il sogno di solito è una abborracciatura — , sono concatenazioni
simboliche di scene e immagini al posto di un linguaggio poetico narrante; essi
parafrasano le nostre esperienze o aspettative o relazioni con audacia ed esattezza
poetiche, sicché la mattina nel ricordare i nostri sogni ci meravigliamo sempre di
noi. Nel sogno consumiamo troppa arte — ed è per questo che di giorno spesso ne
siamo così poveri.
218.
La macchina come maestra. — La macchina insegna, attraverso se stessa,
l'interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa
fornisce il modello dell'organizzazione partitica e della condotta bellica. Non
insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni
individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare
il vantaggio della centralizzazione.
220.
Reazione contro la civiltà delle macchine. — La macchina, essa stessa prodotto del
più alto raziocinio, mette in moto nelle persone che le sono addette quasi
esclusivamente le energie più basse e prive di pensiero. Essa scatena così una
quantità di forze in genere, che altrimenti dormirebbe, questo è vero; ma non dà la
spinta a salire più in alto, a far meglio, a diventare artisti. Rende attivi e uniformi
— ma ciò produce alla lunga un effetto contrario, una disperata noia dell'anima che
per mezzo suo impara ad aver sete di un ozio ricco di mutamenti.
266.
Gli impazienti. — Proprio colui che diviene non vuole ciò che diviene: è troppo
impaziente per questo. Il giovane non vuole attendere sino a che dopo lunghi studi,
sofferenze e privazioni, il suo quadro degli uomini e delle cose sia completo: così
in buona fede ne accetta un altro, che è pronto e gli viene offerto, come se questo
dovesse anticipargli linee e colori del suo quadro: si getta tra le braccia di un
filosofo, di un poeta, e allora deve stare per lungo tempo a servizio e rinnegare se
stesso. In tal modo impara molto: ma spesso un giovane dimentica così ciò che è
più degno di essere appreso e conosciuto — se stesso, e rimane per tutta la vita un
partigiano. Bisogna ahimè superare molta noia, versare molto sudore prima di
trovare i propri colori, il proprio pennello, la propria tela! — E neanche allora si è
maestri nella propria arte di vivere — ma almeno si è padroni nella propria
officina.
267.
Non esistono educatori. — Come pensatori si dovrebbe parlare solo di
autoeducazione. L'educazione dei giovani ad opera d'altri o è un esperimento
condotto su un essere ancora sconosciuto e non conoscibile, oppure è un
livellamento di principio, volto a rendere il nuovo essere, quale esso sia, conforme
alle abitudini e ai costumi dominanti: dunque in ambedue i casi è cosa indegna del
pensatore; è opera dei genitori e dei maestri, che un coraggioso sincero ha definito
nos ennemis naturels. Un giorno, quando secondo l'opinione del mondo si è già
educati da tempo, si scopre se stessi: allora comincia il compito del pensatore;
allora è tempo di rivolgersi a lui, non come a un educatore, ma come a uno che ha
educato se stesso, che ha esperienza.
269.
Le età della vita. — Il paragone tra le quattro età della vita e le quattro stagioni è
una venerabile sciocchezza. Né i primi vent'anni della vita né gli ultimi venti
corrispondono a una stagione: posto che, in tale paragone, non ci si accontenti del
bianco dei capelli e di quello della neve e simili giochi cromatici. Quei primi
vent'anni sono una preparazione alla vita in genere, a tutto l'anno della vita, come
una specie di lungo capodanno; e gli ultimi venti sono uno sguardo d'insieme, una
interiorizzazione, una riconnessione e armonizzazione di tutto quel che si è vissuto
prima: così come si fa, in piccolo, nel giorno di San Silvestro con tutto l'anno che è
passato. In mezzo sta però effettivamente un periodo che suggerisce il paragone
con le stagioni: il periodo dai venti ai cinquant'anni (per calcolare qui in blocco a
decenni, mentre è ovvio che ciascuno dovrà affinare secondo la propria esperienza
questa rudimentale impostazione). Quei tre decenni corrispondono a tre stagioni:
all'estate, alla primavera e all'autunno — un inverno nella vita umana non c'è, a
meno che non si vogliano definire periodi invernali dell'uomo quei lunghi periodi
di malattia che purtroppo non di rado intessono la sua vita, duri, freddi, solitari,
poveri di speranze, infruttuosi. Gli anni dai venti ai trenta: caldi, fastidiosi,
burrascosi, pieni di esuberanza, stancanti, anni in cui alla sera, quando il giorno è
finito, si esalta questo asciugandosi la fronte: anni in cui il lavoro ci appare duro
ma necessario — questi anni sono l'estate della vita. Gli anni sulla trentina sono
invece la sua primavera; l'aria ora è troppo calda, ora troppo fredda, sempre
inquieta e stimolante: sgorgare di linfa, piena fioritura, profumo di fiori,
dappertutto: molti mattini e notti incantevoli, il lavoro, al quale ci risveglia il canto
degli uccelli, un vero e proprio fervore, una specie di godimento del proprio vigore,
potenziato da speranze anticipatrici di gioia. Infine gli anni dai quaranta ai
cinquanta: misteriosi, come tutto ciò che si arresta; simili a un elevato, vasto
altopiano sul quale spiri un vento fresco; sovrastato da un cielo chiaro e senza nubi,
che notte e giorno guarda con la stessa soavità: il tempo del raccolto e della più
grande serenità del cuore — è l'autunno della vita.
L'ombra: Di quel che hai detto, più di tutto mi è piaciuta una promessa: che volete
ridiventare buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di
noi, povere ombre. Perché, ammettetelo, sinora ci avete calunniato anche troppo
volentieri.
Il viandante: Calunniato? Ma perché non vi siete difese? Avevate pur vicine le
nostre orecchie.
L'ombra: Ci sembrava appunto di esservi troppo vicine per poter parlare di noi
stesse.
Il viandante: Delicato! Assai delicato! Ah, voi ombre siete «uomini migliori» di
noi, me ne accorgo.
L'ombra: Eppure ci avete chiamato «importune» — noi, che almeno una cosa
sappiamo fare — tacere e attendere — nessun inglese lo sa far meglio. È vero, ci si
trova molto, molto spesso al seguito dell'uomo, ma mai come sue schiave. Quando
l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà.
Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l'uomo e allora anche voi lo
abbandonate.
L'ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose
dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre intorno a lui. Pur di
possedere una totale conoscenza dell'uomo, sarei volentieri la tua schiava.
Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente
padrona? Oppure se tu rimarresti schiava ma, disprezzando il tuo padrone,
condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della
libertà, così come è rimasta a te — a te e a me! Giacché la vista di un essere non
libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero,
se qualcuno dovesse dividerle con me, — non voglio sapere di schiavi intorno a
me. Per questo non amo il cane, il pigro e scodinzolante parassita, che è diventato
«cane» solo come servo degli uomini, e di cui essi sogliono addirittura decantare la
fedeltà al padrone e il fatto di seguirlo come la sua …
L'ombra: Come la sua ombra, essi dicono. Forse anch'io oggi ti ho seguito per
troppo tempo? È stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un
attimo di pazienza! Il prato è umido, ho i brividi.
II viandante: Oh, è già tempo di separarsi? E ho dovuto alla fine farti ancora male,
l'ho visto: sei diventata più scura.
L'ombra: Arrossivo, nel colore in cui posso farlo. Mi è venuto in mente che spesso
sono stata ai tuoi piedi come un cane, e che tu allora …
Il viandante: E, in tutta fretta, non potrei farti ancora un piacere? Hai qualche
desiderio?
L'ombra: Nessuno, tranne quello che ebbe il «cane» filosofico davanti al grande
Alessandro: togliti un poco dal sole, ho troppo freddo.
Il viandante: Che debbo fare?
L'ombra: Cammina sotto quei pini e guarda i monti: il sole tramonta.
Il viandante: Dove sei? Dove sei?

FONTE:F. Nietzsche, Umano,, toppo umano, I e II, Arnoldo Mondadori, 2008

giovedì, agosto 07, 2014

Herman Hesse IL RITORNO DI ZARATHUSTRA

IL RITORNO DI ZARATHUSTRA
Parole alla gioventù tedesca
Titolo originale:

ZARATHUSTRAS WIEDERKEHR. EIN WORT AN DIE DEUTSCHE


Traduzione di Italo Alighiero Chiusano
Prima edizione: Berlino 1919
Prima edizione italiana: Milano 1965

Quando, tra i giovani della capitale, si cominciò a sus-
surrare che Zarathustra era ricomparso e che lo si era
visto di qua e di là, per le vie e sulle piazze, alcuni si
misero alla sua ricerca. Erano giovani tornati dalla guerra
che, nella loro patria trasformata e sconvolta, vivevano
in un'ansia continua, poiché vedevano che stavano acca-
dendo grandi cose, ma il loro senso era oscuro e per molti
erano cose addirittura insensate. Tutti costoro, all'inizio
della giovinezza, avevano veduto in Zarathustra la loro
guida e il loro profeta, avevano letto col fervore della
gioventù ciò che è stato scritto su di lui, e ne avevano
discusso e meditato, nelle loro peregrinazioni sui monti e
per i campi, o nella loro camera, di notte, al lume della
lampada. E Zarathustra era stato sacro, per loro, come
per ciascuno di noi diventa sacra la voce che per prima
e più forte di ogni altra ci rivela il nostro io e il nostro
personale destino.

Quando questi giovani trovarono Zarathustra, egli era
in una larga strada, in mezzo unfolto viavai di gente,
appoggiato contro un muro e intento ad ascoltare un di-
scorso che un comiziante rivolgeva alla folla dall'alto di
una vettura. Zarathustra ascoltava, sorrideva e guardava
in faccia tutte quelle persone. Guardava quei volti come
un vecchio eremita guarda le onde del mare o le nuvole
del mattino. Vedeva la loro angoscia, vedeva la loro im-
pazienz e la loro smarrita e piagnucolosa trepidazione in-
fantile, vedeva anche il coraggio e l'odio negli occhi dei
risoluti e dei disperati, e non si stancava di guardare e,
al tempo stesso, di prestare ascolto al discorso dell'orato-
re. Ciò che lo fece riconoscere ai giovani fu il suo sorriso.
Egli non era né vecchio né giovane, non aveva l'aspetto
né di un maestro né di un soldato, sembrava solo un es-
sere umano: l'uomo, quasi fosse appena emerso dal buio
del divenire, il primo della sua specie

Ma è dal sorriso che lo riconobbero, dopo aver dubitato
alquanto se fosse o non fosse lui. Il suo sorriso era chiaro
ma non bonario; era ingenuo ma privo di benevolenza.
Era 11 sorriso di un guerriero, e più ancora il sorriso di
un vecchio che ha visto molte cose e che non crede più
al planto. Da questo lo riconobbero.

Quando il discorso fu terminato e la folla cominciò a
disperdersl vociando, i giovani si accostarono a Zarathu-
stra e lo salutarono con rispetto.

--Eccoti qui, maestro-- dissero balbettando -- final-
mente sel tornato, ora che il bisogno è maggiore. Benve-
nuto, Zarathustra! Tu ci dirai che cosa dobbiamo fare
sarai la nostra guida. Tu ci salverai da questo che è ii
plU grave di tutti I pericoli.

Sorridendo lui li invitò ad accompagnarlo e, mentre
camminavano, disse loro, che lo ascoltavano intenti: --
Sono di ottimo umore, amici miei. Sì, sono tornato, forse
per un giorno, forse per un'ora, e sto a guardarvi mentre
recltate la commedia. E sempre stato un divertimento per
me, assistere alla recita di una commedia. E l'attività in
CUI gli uomini sono più sinceri.

I glovani, a sentirlo, si guardarono l'un l'altro: secon-
do loro c'era troppa ironia, troppa allegreza, troppa di-
sinvoltura nelle parole di Zarathustra. Come poteva par-
lar di commedia, mentre il suo popolo si trovava in tanta
mlseria? Come poteva sorridere e divertirsi, quando la
sua patria era sconfitta e dissestata? Come poteva, tutto
questo, 11 popolo e il comiziante, la gravità dell'ora pre-
sente, la solennità e il rispetto di se stessi dimostrati da
quel giovani, come poteva tutto questo non essere altro
che un pascolo per i suoi occhi e i suoi orecchi, un mero
oggetto di sorridente osservazione? Non era il momento
questo, di plangere lacrime di sangue, di lanciar lamenti
e di strapparsi le vesti? E, soprattutto, non era tempo,
non era plU che tempo di agire? Di operare sul serio?
Dl dare un esempio? Di salvare il popolo e il paese dalla
slcura rovma?

-- Vedo -- disse Zarathustra, che sentiva i loro pen-
sieri prima ancora che uscissero dalle loro labbra -- che
non siete contenti di me, giovani amici. Me l'aspettavo,
eppure me ne stupisco. Quando ci si aspetta qualcosa del
genere, insieme all'attesa c'è sempre, in noi, anche 11 con-
trario: qualcosa, in noi, aspetta e qualcos'altro spera l'op-
posto. E quel che ora mi sta accadendo con voi, giovani
amici. Ma ditemi, non volevate parlare con Zarathustra?

-- Sì, lo volevamo--esclamarono tutti, bramosi.

Zarathustra, allora, sorrise e continuò: --E allora, miei
cari, parlate con Zarathustra, ascoltate Zarathustra! Colui
che vi sta dinanzi non è un oratore da comizio né un sol-
dato né un re né un generale: è Zarathustra, il vecchio
eremita e burlone, l'inventore dell'ultima risata, l'inven-
tore di tante ultime tristezze. Non è da me, amici, che
potrete imparare come si governino i popoli e si riparino
le sconfitte. Io non so insegnarvi come si comandmo I
greggi e come si plachino gli affamati. Non sono queste
le arti di Zarathustra. Non sono queste le cure di Zara-
thustra .

I giovani tacquero, e la delusione allungò le loro facce.
Continuarono a camminare accanto al profeta, costernati
e malcontenti, e per un bel po' non trovarono parole da
opporgli. Finalmente parlò uno di loro, il più giovane, e
mentre parlava i suoi occhi presero a scintillare e lo sguar-
do di Zarathustra si posava su di lui con compiacenza.

--Ebbene -- cominciò il più giovane dei giovani --
dicci allora quello che hai da dirci. Perché se sei solo ve-
nuto per ridere di noi e delle disgrazie di questo popolo,
noi abbiamo di meglio da fare che andarcene a spasso
con te e star a sentire le tue raffinatissime arguzie. Guar-
daci, Zarathustra: noi tutti, per quanto giovani, abbiamo
fatto la guerra e abbiamo visto in faccia la morte, e non
intendiamo più dedicarci ai giochi di parole e ai piace-
voli passatempi. Noi ti abbiamo venerato, maestro, e ti
abbiamo amato, ma più grande dell'amore per te è in noi
l'amore per noi stessi e il nostro popolo. E bene che tu
lo sappia.

Il viso di Zarathustra si rischiarò, sentendo parlare il
giovane a quel modo, ed egli lo guardò negli occhi adi-
rati con bontà, anzi con tenerezza.

-- Amico mio -- gli disse col suo miglior sorriso --
come fai bene a non accettare il vecchio Zarathustra sen-
za esame, a tastargli il polso e a stuzzcarlo nel punto
in cui lo credi vulnerabile! Quanto fai bene, mio caro, a
diffidar così ! Lo sai che hai detto una frase eccellente
una di quelle che Zarathustra sente così volentieri? Non
hai forse detto: « Noi amiamo noi stessi più di quantO
non amiamo Zarathustra"? Quanto mi piace questa sin-
cerità! Sei riuscito ad adescarlo, con codesta sincerità, que-
sto vecchio pesce inafferrabile, e tra poco penderò dalla
tua lenza!

Da una strada lontana, in quella, si udirono spari, gri-
da e il rumore di un combattimento: facevano uno stra-
no, assurdo effetto nel silenzio della sera. Nel vedere che
gll sguardi e i pensieri dei suoi giovani accompagnatori
correvano, come leprotti, in quella direzione, Zarathustra
cambiò tono di voce Parve, a un tratto, che la sua voce
vemsse di molto lontano, con lo stesso timbro che i gio-
vani avevano avvertito quando avevano avuto il loro pri-
mo incontro con lui: come una voce che non venga dagli
uomml, ma dagli astri o dagli dei, o, meglio ancora, come
la voce che ciascuno sente, in segreto, dentro di sé, nei
momenti in cui Dio è in lui.

Gli amici drizzrono gli orecchi e tornarono a Zara-
thustra con tutti i loro sensi e i loro pensieri, perché ora
rlconoscevano la voce che, un tempo, quasi scendesse dai
sacrl monti, aveva risuonato nella loro prima giovinezz
e che pareva la voce di un Dio ignoto.

--Ascoltatemi, figlioli -- disse Zarathustra, serio, e
sl rivolse in modo particolare al più giovane.--Se volete
udire uno squillo di campana, non percotete una latta. E
se volete suonare il flauto, non accostate le labbra a un
otre di vino. Mi capite, amici miei? Cercate di ricordare,
mlel carl, cercate di ricordare bene: Che cosa avete im-
parato, un tempo, in quelle ore di ebbrezza, dal vostro
Zarathustra? Che cosa? Forse una saggezza buona per la
bottega o per la strada o per il campo di battaglia? Vi
ho dato consigli per i re, vi ho mai parlato in chiave
regale o borghese o politica o mercantile? No, come ben
ricordate io parlavo da Zarathustra, parlavo il mio lin-
guaggio, mi spalancavo dinanzi a voi come uno specchio,
affinche VOI poteste vederci voi stessi. Avete mai « impa-
rato qualcosa » da me? Sono mai stato un maestro di
parole o di cose? Vedete, Zarathustra non è un maestro,
non lo si può interrogare, e imparare da lui, e farsi dar
da lui delle buone ricette, grandi e piccine, per i casi della
vita. Zarathustra è l'uomo, è l'io e il tu. Zarathustra è
l'uomo che andate cercando dentro voi stessi, quello sin-
cero e mai sedotto: come potrebbe farsi vostro seduttore~
Molte cose ha visto Zarathustra, molte ne ha patite, molti
ossi duri ha dovuto rodere, da molti serpenti è stato mor-
so. Ma una cosa sola ha imparato, una sola è la sua sag-
gezza, uno solo il suo orgoglio. Egli ha imparato ad essere
Zarathustra. Ed è questo che voi volete imparare da lul,
e per cui così spesso vi manca il coraggio. Dovete impa-
rare a essere voi stessi, così com'io ho imparato a essere
Zarathustra. Dovete disimparare ad essere altri, a non es-
sere nulla, a imitare le voci altrui e a credere che i VISI
altrui siano i vostri. E perciò, amici, quando Zarathustra
vi parla, non cercate, nelle sue parole, né saggezze né con-
sigli pratici né ricette né astuzie da cacciatore di ratti, ma
cercatevi lui stesso! Dalla pietra potete apprendere la du-
rezza e dall'uccello il canto. Da me potete imparare che
cosa sono l'uomo e il destino.

Così discorrendo, erano giunti ai margini della città,
dove passeggiarono insieme ancora a lungo, sotto gli al-
beri che stormivano nella sera. Molte cose gii chiesero i
giovani, spesso risero con lui, spesso si disperarono di
lui. Ma uno di loro ha trascritto e conservato per i suoi
amici ciò che Zarathustra disse loro quella sera, o almeno
una parte.

Ed ecco ciò ch'egli, ricordando Zarathustra e le sue pa-
role, ci ha tramandato:

Del destino

Così ci parlò Zarathustra:

C'è una cosa che dell'uomo fa un Dio, che gli ricorda
di essere Dio: il riconoscere il proprio destino.

Io sono Zarathustra in quanto ho riconosciuto il de-
Stino di Zarathustra, in quanto ho vissuto la sua vita.
Sono pochi a riconoscere il loro destino. Pochi a vivere
la propria vita. Imparate a vivere la vostra vita! Imparate
a riconoscere il vostro destino!

Voi gemete sul destino del vostro popolo. Ma un de-
stino di cui si geme non è ancora il nostro, è qualcosa di
estraneo e di ostile, è un dio alieno, un idolo malvagio
che ci bersaglia dal buio a colpi di destino, quasi con
frecce avvelenate.

Imparate che il destino non ci viene dagl'idoli, così
imparerete anche che non ci sono né idoli né dei! Come
il bimbo nel ventre della madre, così il destino cresce den-
tro il corpo di ogni essere umano, o, se volete, potete an-
che dire: nel suo spirito o nella sua anima. E lo stesso.

E come la donna è tutt'uno col suo bambino e lo ama
e non conosce nulla di meglio al mondo, così anche voi
dovete imparare ad amare il vostro destino e a non co-
noscere, ai mondo, nulla di meglio del vostro destino.
Dovrà essere il vostro Dio, poiché voi stessi dovreste es-
sere il vostro Dio.

Colui sul quale il destino giunge dall'esterno ne sarà
abbattuto, come la freccia abbatte la selvaggina. Colui
mvece, al quale il destino viene dall'interno, dal più in-
hmo di se stesso, ne resta rafforzato e trasmutato in Dio.
Il destino ha fatto di Zarathustra Zarathustra: che di te
faccla te stesso!

Chi ha riconosciuto il destino non tenterà mai di cam-
biarlo. Voler cambiare il destino è un vero sforzo da bam-
bim, che Cl porta ad accapigliarci e a massacrarci a vicen-
da. Voler cambiare il destino era lo sforzo e l'intento dei
vostrl Imperatori e generali, era ciò che perseguivate voi
stessl. Ma ora che il destino non siete riusciti a cambiarlo,
Vl sa di amaro e credete che sia veleno. Se non aveste cer-
cato di cambiarlo, se ne aveste fatto la vostra creatura e
fl vostro affetto, se l'aveste trasformato completamente in
voi stessi, quanto vi parrebbe mai dolce, adesso! Un de-
stmo passivamente subito, rimastoci estraneo, si converte
in ogni dolore, in ogni veleno, in ogni morte Ogni azione
invece, tutto ciò che la terra ha di buono, di lieto, di fe-
condo, è il destino quando è intimamente vissuto, quando
si è cambiato nel nostro io.

Prima della vostra lunga guerra eravate troppo ricchi
amici miei, troppo ricchi e grassi e ben pasciuti, voi e i
vostri padri, e quando avevate mal di pancia sarebbe sta-
to tempo, per voi, riconoscere in quel dolore il destino e
sentlrci la sua buona voce. Ma voi, figlioli, vi siete adi-
ratl, per quei dolori al ventre e siete andati a pensare che
a provocarli fossero la fame e l'indigenza. E allora avete
scatenato la guerra di conquista, per aver più spazio sul-
la terra e più cibo nel ventre. E ora che siete tornati in
patria e non avete conseguito ciò che volevate, ora vi la-
mentate di nuovo, sentite di nuovo una quantità di dolori
e di guai, e una volta ancora andate in cerca di quel cat-
tivone del nemico che vi ha mandato i vostri dolori e sie-
te pronti a sparargli, foss'anche vostro fratello.

Amici cari, non fareste bene a rientrare in voi stessi?
Non sarebbe bene che, almeno questa volta, trattaste i
vostri dolori con più rispetto, con animo più virile, smet-
tendola di temere e di frignare come tanti bambini? Non
potrebbero, quegli amari dolori, essere la voce del destino,
e convertirsi in dolcezza appena riconoscete quella voce?
Non potrebbe essere così?

Vi sento poi sempre lagnarvi ad alta voce, amici miei,
per gli odiosi dolori e il destino avverso che hanno col-
pito il vostro paese e il vostro popolo. Perdonate, giovani
amici, se anche su questi dolori sono un po' diffidente,
un poco lento e restio a prestarci fede! Tu e tu, e tu là
dietro, voi tutti, soffrite soltanto per il vostro popolo? Per
la vostra patria soltanto? Dov'è mai, questa patria, dov'è
la sua testa, il suo cuore, di dove volete incominciare a
curarla? Ma come! Ancora ieri era l'imperatore, era l'im-
pero universale ciò che vi faceva trepidare, di cui eravate
fieri, che consideravate sacro. Dov'è andato a finire, oggi,
tutto questo? Non dall'imperatore venivano quelle sof-
ferenze: le avreste ancora, se no? e sarebbero così ama-
re, adesso che l'imperatore non c'è più? Non era l'eser-
cito né la flotta, non era questa o quest'altra provincia,
questa o quella preda, ora ve ne rendete conto. Ma per-
ché, anche oggi, non appena soffrite, parlate subito della
patria e del popolo e di tante altre grandi e rispettabih
cose, di cui è così facile parlare e che spesso, all'improv-
viso, si dissolvono e non esistono più? Chi è il popolo? E
l'oratore o quelli che lo ascoltano, quelli che gli danno
ragiOne o quelli che gli sputano addosso e minacciano di
bastonarlo? Sentite quegli spari, laggiù? Dov'è il popolo,
fl vostro popolo? Da quale parte? E lul che spara o è
su lui che sparano? Sta attaccando o è attaccato?

Vedete, è difficile capirsi a vicenda e più ancora capir
se stessi, quando si usano parolone così grosse. Se voi,
tu e tu là dietro, state soffrendo, se non vi sentite bene
nel corpo o nell'anima, se provate angoscia, se presentite
un pericolo, perché non volete, foss'anche solo per diver-
timento e curiosita, per sana e buona curiosità, far la
prova di girar la domanda in altro modo? Perché non
volete cercare, una volta, se il dolore non fosse in voi
stessi? Ci fu un certo tempo in cui per un po' foste sicuri
e convinti che il vostro nemico e la fonte di ogni male
fossero i russi. Subito dopo furono i francesi, e poi gl'in-
glesi, e poi altri ancora, e ogni volta ne eravate convinti
e slcuri, e ogni volta era una trista commedia che andava
a finlr male. Ora che avete capito che i dolori dentro
di nol non ci guariscono dandone la colpa a un nemi-
co, perché, nemmeno adesso, vi decidete a ricercare i
vostn dolori dove sono veramente: cioè in voi stessi
Forse non è il popolo, che ti duole, e nemmeno la patria
o la potenza mondiale, e neppure la democrazia: forse
non sel che tu stesso, il tuo stomaco o il tuo fegato, un
tumore o un cancro dentro di te, e non è altro che paura
infantile di fronte alla verità e al medico, se fingi di es-
sere, personalmente, sano come un pesce, dicendo che pur-
troppo è il dolore del tuo popolo quello che tanto ti af-
fligge. Non potrebbe essere così? Non avete proprio nes-
suna curiosità, in questo senso? Non sarebbe, in fondo
un ottimo e allegro esercizio per ciascuno di voi, cercare
l'origine del proprio male e vedere dove è localizzato
e chi interessa?

Potrebbe risultare, allora, che un terzo e una metà, e
forse ben più della metà del tuo dolore è in effetti il tuo
personale, inalienabile dolore, e che faresti bene a far dei
bagni freddi o a bere meno vino, o a sottoporti a qualche
altra cura, invece di tastare e di curare continuamente la
tua patria. Potrebbe darsi, dico: e non sarebbe molto be-
ne se così fosse? Non ci sarebbe forse rimedio, in tal caso?
Non ci sarebbe speranza per l'avvenire? Non ci sarebbe
la possibilità di trasformare il dolore in beneficio e il ve-
leno in destino?

Ma a voi sembra egoistico e meschino piantar lì la
patria per curare se stessi. Ebbene, forse anche in questO
non avete poi tanta ragione come credete, amici miei!
Non vi pare che, in fondo, un paese al quale ogni amma-
lato non attribuisca i propri acciacchi, che ogni infermo
non si arroghi di voler curare, finisca per godere di mag-
gior salute e prosperità?

Ah~mè, giovani amici, quante mai cose avete imparate,
nella vostra breve esistenza! Siete stati in guerra, avete
visto cento volte in faccia la morte. Siete degli eroi. Siete
le colonne della patria. Vi chiedo una cosa sola: non ve
ne accontentate! Mirate più oltre! E ricordatevi, di tanto
in tanto, che bella cosa è l'onestà!

« Che dobbiamo fare? » mi chiedete e chiedete conti-
nuamente a voi stessi, e il « fare », per voi, vale molto,
vaie tutto. E questo è bene, amici miei, o almeno... sarebbe
bene, se voi sapeste sino in fondo che cos'è l'azione.

Ma vedete, già questa domanda: « Che cosa dobbiamo
fare? », già questa trepidante domanda infantile mi di-
mostra quanto poco ne sappiate!

Ciò che voi chiamate « fare », giovani amici, io, il vec-
chio eremita della montagna, lo chiamerei in tutt'altro
modo. Inventerei più di un nome grazioso, balzano, cari-
no, per codesto vostro « fare ». Non avrei bisogno di rl-
girarlo a lungo tra le dita, il vostro « fare », per trasfor-
marlo bellamente e spassosamente nel suo contrario. Poi-
ché, in effetti, è proprio il contrario! Il vostro « fare » è
l'opposto di ciò ch'io chiamo così.

L'azione, o amici: sentite questa sola parola, sentitela
bene, lavateci i vostri orecchi! L'azione non è mai stata
compiuta da chi prima chiedesse: « Che cosa debbo fa-
re? ». L'azione è la luce che s'irradia da un buon sole.
Se il sole non è un sole genuino, vero, dieci volte collau-
dato, se è un sole che si chiede, peritoso, che cosa debba
fare, non darà mai luce alcuna! L'azione non è agire,
l'azione non si escogita e non s'inventa. Ve lo dirò io
che cos'è l'azione. Ma prima, amici miei, permettetemi di
dirvi che cosa mi sembra che sia il vostro « fare ». Dopo
ci capiremo meglio.

Il vostro " fare », ciò che vorreste fare, che dovrebbe
nascere dalla ricerca e dal dubbio e dall'esitazione, questO
« fare », amici carissimi, è l'opposto e l'arcinemico dell'a-
zione. Il vostro « fare », se mi passate la brutta parola,
non è infatti che viltà! Vedo che vi adirate, scorgo nei
vostri occhi l'espressione che tanto mi piace, ma aspettate,
lasciatemi finire!

Voi, giovani amici, siete soldati, e prima di essere sol-
dati foste commercianti o fabbricanti o roba simile, o lo
furono i vostri padri, e loro e voi, come conseguenza di
una cattiva educazione, avete creduto a determinate anti-
tesi, di cui correva la leggenda che fossero eterne e create
dagli dei. Erano, anzi, i vostri dei, queste antitesi, come
del resto avevate anche accettato l'antitesi "uomo-Dio »,
deducendone che ciò che è uomo non può essere Dio e
viceversa. Ora, questa vecchia fede sbagliata nelle sacre
antitesi Zarathustra non ve la può smascherare in modo
più semplice nella sua profonda problematicità e nella as-
soluta inconsistenza che col porvi, a occhi aperti, di fronte
a un'antitesi in cui credete: quella tra fare e patire.

Aprite dunque gli occhi, amici, e guardatevi il fare e
il patire quali un vecchio eremita vuol mostrarveli!

Fare e patire che, uniti insieme, compongono la nostra
vita, formano un tutto, sono una cosa sola. Il bimbo pa-
tisce il suo concepimento, la sua venuta al mondo, il suo
svezamento, patisce questo e quest'altro, finché in ultimo
patisce la morte. Ma tutto il bene che c'è in lui e che lo
fa lodare e amare è solo il buon patire, la vera, piena,
viva sofferenza. Saper patir bene è più che metà della vita.
Saper patir bene è la vita intera! Nascere è patire, cre-
scere è patire, il seme patisce la terra, la radice patisce
la ploggia, il germoglio patisce lo sboccio.

E così, amici, che l'uomo patisce il destino. Il destino
è terra, è pioggia, è crescita. Il destino fa male.

Voi, invece, chiamate « fare » la fuga dal dolore, il non
voler nascere, la fuga dal patire! « Fare » per voi, o al-
meno per i vostri padri, era quando giorno e notte face-
vate chiasso nei negozi e nelle officine, quando sentivate
picchiare un'infinità di martelli, quando soffiavate in aria
nembi di fuliggine. Intendetemi bene, non ho proprio nien-
te contro i vostri martelli e la vostra fuliggine, o contrO
quelli dei vostri padri. Ma mi fa sorridere che quest'atti-
vità poteste chiamarla « fare »! Non era un fare, era solo
una fuga dal patire. Era sgradevole vivere da soli, e per-
ciò si fondavano delle società. Era sgradevole sentire den-
tro di sé tante voci che pretendevano da voi che viveste
la vostra vita, che cercaste il vostro destino, che moriste
la vostra morte: era sgradevole, sì, e perciò fuggivate via
e facevate chiasso con macchine e martelli, finché le voci
suonavano più lontane e poi ammutolivano. Così fecero i
vostri padri, così fecero i vostri maestri, così faceste voi
stessi. Vi si chiedeva di patire, e voi ne eravate indignati,
non volevate patire ma solo fare! E che cosa faceste? Pri-
ma vi sacrificaste al dio del frastuono e della confusione,
svolgendo le vostre strane attività, sovraccarichi di lavoro,
senza un attimo di tempo per patire, per ascoltare, per
succhiare il latte di vita, per bere la luce del cielo. Eh
no, dovevate fare, fare, fare. E quando tutto quell'armeg-
gio non servì a nulla e il destino, dentro di voi, invece
che dolce e maturo, divenne sempre più putrido e vele-
noso, allora allargaste il vostro raggio d'azione, vi creaste
dei nemici, prima nell'immaginazione, poi nella realtà, e
ve ne andaste in guerra, diventaste guerrieri ed eroi! Ave-
te conquistato, avete sopportato le cose più assurde, osate
le cose più immani. E adesso? Vi sentite bene, adesso?
C'è pace e letizia, adesso, nei vostri cuori? E dolce, ora,
il vostro destino? Oh no, è più amaro che mai, e perciò
correte a nuove azioni, scendete nelle vie, urlate e assalite,
eleggete consiglieri e ricaricate i fucili. E tutto ciò, per-
ché siete in continua fuga dal patire! In fuga dinanzi a
voi stessi, all'anima vostra!

So che cosa mi rispondete. Mi chiedete se ciò che avete
sopportato non è stato un patire. Se non è stato un patire,
quando i vostri fratelli vi sono morti tra le braccia, quan-
do le vostre membra si congelavano o palpitavano sotto i
ferri dei dottori. Sì, tutto questo è stato patire, un patire
scelto, voluto da voi stessi, un patire impaziente, che vo-
leva cambiare il destino. Un patire eroico, per quanto
possa considerarsi eroe chi fugge ancora il destino, chi
ancora vuol cambiarlo.

Imparare a patire è difficile. E un'arte che le donne co-
noscono più spesso e meglio degli uomini. Imparate da
loro! Imparate ad ascoltare, quando parla la voce della
vlta! Imparate a vedere, quando il sole del destino gioca
con la vostra ombra! Imparate a rispettare la vita! Impa-
rate a rispettare voi stessi!

Dalla sofferenza nasce la forza, nasce la salute. Sono
sempre gli uomini « sani » quelli che stramazzno all'im-
provviso e muoiono per una corrente d'aria. Sono coloro
che non hanno imparato a patire. La sofferenza indurisce,
la sofferenza tempra. Soltanto i bambini fuggono dinanzi
alla sofferenza. Io amo, sì, i bambini, ma come potrei
amare coloro che vogliono restar bambini per tutta la
vita? Eppure siete proprio così, voi tutti, che dal patire
fuggite nel fare, spinti dalla vecchia e triste paura infan-
tile del dolore e del buio.

Guardate un po' che cosa avete ottenuto con tutto il
vostro agitarvi e tutta la vostra diligenza e tutte le vostre
industrie fuligginose! Che cosa ne è rimasto? Il denaro è
sfumato, e col denaro tutto lo splendore della vostra vile
operosità. O dov'è l'azione generata da tutto il vostro fa-
re? Dov'è il grand'uomo, l'essere radioso e fecondo, l'e-
roe? Dov'è il vostro imperatore? Dov'è il suo successore?
Chi lo diverrà? E dov'è la vostra arte? Dove sono le opere
che giustificano il vostro tempo? Dove i grandi, gioiosi
pensieri? Ahimè, avete sofferto troppo poco e troppo male
per poter produrre cose fulgide e buone!

Poiché l'azione, l'azione fulgida e buona, amici miei,
non viene già dal fare, non viene dalla laboriosità, dal
martello zelante. Essa cresce solitaria sui monti, cresce
sulle vette, dov'è pericolo e silenzio. Nasce da patimenti
che voi dovete ancora imparare a patire.

Dello, iolitudine

Voi m'interrogate, o giovani, sulla scuola del dolore,
sulla fucina del destino. Non la conoscete? No, voi che
parlate sempre del popolo e avete sempre a che fare con
la massa e solo con la massa e che per la massa volete
soffrire, voi non la conoscete. Vi parlo della solitudine.

La solitudine è il sentiero sul quale il destino vuol ri-
condurre l'uomo a se stesso. La solitudine è il sentiero che
l'uomo teme di più. Vi stanno appiattati tutti gli orrori,
tutti i serpenti e tutti i rospi. E lì che il terribile sta in
agguato. Non si dice forse di tutti i solitari, di tutti i
pionieri del deserto della solitudine che hanno smarrito la
dritta via, che sono cattivi o malati? Le grandi azioni
eroiche non si raccontano forse come se le avessero com-
piute dei delinquenti, solo perché è bene trattenersi dal
seguirne l'esempio?

Non si racconta anche di Zarathustra che finì pazzoe
che in fondo tutto ciò che aveva detto e fatto era già
una follia? Quando sentivate parlar così, non provavate
in voi qualcosa di simile al rossore? Quasi fosse più no-
bile e più degno di voi far parte di quei pazz, e come se
vi vergognaste di non averne il coraggio?

Vorrei cantarvi degli inni sulla solitudine, o miei cari.
Senza solitudine non c'è dolore, senza solitudine non c'è
eroismo. Ma non intendo già la solitudine dei garbati poeti
e dei palcoscenici, dove la sorgente gorgoglia, idilliaca,
presso l'antro dell'eremita!

Dal bimbo all'uomo non c'è che un passo, un unico
passo. Restar soli, diventar se stessi, distaccarsi dal padre
e dalla madre: questo è il passo dal bimbo all'uomo, e
nessuno lo fa appieno. Ciascuno, anche il più austero
eremita e misantropo sulla roccia più nuda, porta con
sé un filo, si tira appresso un filo col quale è legato al
padre, alla madre e a tutto il suo diletto, caldo ambiente
familiare e originario. Quando voi, o amici, parlate con
tanto fervore del popolo e della patria, io vedo pendere
da voi quel filo, e sorrido. Quando i vostri grandi uo-
mini parlano della loro « missione » e delle loro respon-
sabilità, quel filo pende loro lungo lungo dalla bocca. Mai
che i vostri grandi uomini, i vostri capi e portavoce par-
lino di una missione verso se stessi, mai che parlino del-
la responsabilità che hanno verso il proprio destino! So-
no legati al filo che li riconduce alla madre e a tutto
quel mondo caldo e piacevole che rievocano i poeti quan-
do cantano con tanto sentimento l'infanzia e le sue puris-
sime gioie. Nessuno spezza del tutto questo filo, tranne
che con la morte, quando gli riesce di morire la propria
morte.

La maggioranza degli uomini, cioè tutti quelli del greg-
ge, non hanno mai gustato la solitudine. Si staccano,
sì, una volta da babbo e mamma, ma solo per strisciare
presso una donna e sprofondare al più presto in un calo-
re e in un legame nuovi. Mai che siano soli, mai che par-
lino con se stessi. Ma l'uomo solitario, se mai capita
loro d'incontrarlo, lo temono e lo odiano come la pe-
ste, gli lanciano sassi e non trovano pace finché non
ne sono ben lontani. Lo circonda un'aria, infatti, che
odora di stelle e di freddo astrale; gli manca, ahimè,
del tutto la dolce e calda fragran~a del focolare e del
mdo.

Zarathustra ha in sé qualcosa di questo odor di stelle
e di questo freddo ostile. Zarathustra ha percorso per
un buon tratto il sentiero della solitudine. Ha frequen-
tato la scuola del dolore. Ha visto la fucina del destino
e vi è stato fucinato.

Amici miei, non so se debbo dirvi altro sulla solitu-
dine. Vorrei tanto indurvi a battere quel sentiero, vor-
rei tanto cantarvi un inno sull'algida delizia dello spa-
zio cosmico. Ma so che ben pochi seguono questa via
senz danno. Si vive male senza madre, miei cari, si vi-
ve male senza focolare e senza patria e senza popolo e
senza gloria e senz tutte le dolcezze della società. Si vi-
ve male al freddo, e la maggior parte di coloro che han-
no iniziato questa via si sono perduti. Bisogna essere in-
differenti alla propria perdizione, se si vuol gustare la
solitudine e fare i conti col proprio destino. E più facile e
più dolce camminare con tutto un popolo, in tanti, anche
se bisogna attraversare le peggiori prove. più facile e
più consolante dedicarsi a una « missione» che il momen-
to o il tuo popolo ti affidano. Guardate come si sen-
tono a loro agio, gli uomini, nelle loro vie affollate! Si
spara e la vita è in pericolo, ma ciascuno preferisce di
gran lunga starsene con la massa e perirvi, che non va-
gare, là fuori, al freddo e al buio.

Ma come potrei sedurvi, o giovinetti! La solitudine non
si sceglie, come non si sceglie il destino. La solitudine
scende su di noi quando abbiamo la pietra magica che
attira il destino. Molti, troppi sono andati nel deserto, e
presso una bella sorgente e nel loro bell'eremo, hanno
vissuto la vita degli uomini-gregge. Altri, invece, vivono
in mezzo alla folla, ma sulla loro fronte aleggia un'aria
astrale.

Beato colui che ha trovato la sua solitudine, non una
solitudine da quadro e da poesia, ma la sua, quella ir-
ripetibile, destinata a lui solo. Beato colui che sa patire!
Beato chi porta in cuore la pietra magica! Su di lui scen-
de la solitudine, da lui s'irradia l'azione.

Spartaco

Voi volete sapere la mia opinione su coloro che si fan-
no chiamare col nome di Spartaco.

Tra tutti coloro che, nel vostro paese, vogliono ora il
bene con tanto zelo e si affannano a realiziare il futu-
ro, questi schiavi ribelli sono ancora coloro che mi di-
vertono di più. Com'è decisa, questa gente, com'è dirit-
ta e senza esitazioni la via che scelgono, come sanno ti-
rare innanzi! Davvero che se i vostri borghesi, oltre a tut-
te le loro doti, avessero anche una piccola, una piccolis-
sima parte di questa forza, la vostra patria sarebbe salva.

Comunque, non saranno questi spartachisti a distrug-
gerla. Non è strano, non è un segno del destino che co-
storo si fregino di questo nome? Loro, gl'incolti, gli uo-
mini dalle rudi mani lavoratrici, loro, che disprezzano
i latinisti e gli intellettuali, si son lasciati imporre da uno
dei loro corifei un nome che gronda addirittura di sto-
ria e di erudizione! E volete che il nome, che sono andati
a pescar così fuori mano e in tempi così antichi, non
implichi anche il loro destino ?

C'è questo, infatti, di buono, in questo nuovo nome co-
sì antico: che ricorda agli esperti una svolta storica e
un'epoca ormai matura per il declino. Come quell'antico
mondo scomparve, così deve scomparire il nostro attuale
vecchio mondo: questo vuol dire il nome, ed ha ragione.
Deve scomparire, con tutto ciò che di bello e di caro ci
legava ad esso. Sì ma: fu Spartaco, forse, colui che al-
lora distrusse quei vecchio mondo? Non fu invece Ge-
sù di Nazareth, non furono i barbari, non fu l'ondata dei
mercenari biondi? No, Spartaco fu un eccellente eroe
storico, ha scosso fieramente la catena, ha strenuamen-
te vibrato la spada. Ma non ha fatto, degli schiavi, al-
trettanti uomini, e alla caduta dei padroni del suo tempo
non ha partecipato che come manovale.

Ma non disprezztemi questa gente dalle mani rudi e
dal nome pedantesco! Si tengono pronti, presagiscono il
destino, non si ribellano alla fine. Rispettate lo spirito
che vive in questi risoluti! La disperazione non è eroismo:
non ne avete fatto prova voi stessi durante la guerra?
Ma la stessa disperazione è meglio della sorda paura del
borghese, che dà di piglio all'eroismo solo quando vede
m perlcolo la sua borsa!

Ciò ch'essi chiamano « comunismo », noi lo conoscia-
mo bene: è una vecchia, troppo vecchia ricetta, divenu-
ta un po' comica e proveniente da polverosi laboratori
alchimistici. Non badate a ciò che vi dicono! Badate in-
vece a ciò che fanno! Costoro sono capaci di azione per-
ché, seppure attraverso una sospetta via laterale, si sono
avvicinati alla maturità del destino. Voi avete maggiori
e più alte possibilità di loro, ma voi siete solo all'ini-
zio della via. Essi invece sono quasi al termine, e vi sono
superiori nella maniera incontrovertibile con cui tutti co-
loro che sono disposti alla rovina, o amici, sono superiori
ai titubanti e ai retrivi.

Troppo, amici miei, vi lamentate per la prima volta
della patria vostra! Foss'anche votata alla rovina sareb-
be più dignitoso e virile che ciò avvenisse in silenzio e
senza piagnistei! Ma dov'è questa rovina? O continuate
forse a chiamar « patria » la vostra borsa e le vostre na-
vi? O il vostro imperatore? O il vostro fasto da teatro
dell'opera, quello di ier l'altro?

Se chiamate patria ciò che i migliori di voi hanno ama-
to come il meglio del vostro popolo, ciò di cui il vostro
popolo ha arricchito e deliziato il mondo, allora non ca-
pisco come possiate parlare di rovina e di distruzione.
Avete perduto molto, in quanto a denaro e a province,
a navi e a potenza politica. Se non potete sopportarlo
andate a trafiggervi ai piedi di un monumento imperia-
le, ed io vi canterò un canto funebre. Ma non state lì
a implorare, gemendo, la pietà della storia, voi che an-
cora poco fa cantavate l'inno dell'anima tedesca che do-
vrebbe guarire il mondo; non state lì sul ciglio della via
come scolaretti in castigo, a invocar la compassione dei
passanti! Se non potete sopportare la miseria, morite! Se
non sapete governarvi senza imperatore e generali vitto-
riosi, lasciatevi governare dagli stranieri! Ma, vi prego,
non dimenticate del tutto il pudore!

Ma come, esclamate voi, non sono crudeli, i nostri ne-
mici? Non sono bassi e brutali nella loro vittoria, che è la
vittoria del numero? Non parlano di diritto e non usa-
no la forza? Non scrivono giustizia, mentre intendono
preda e rapina?

Avete ragione. Io non difendo i vostri nemici. Io non
li amo. Essi sono, come siete anche voi, brutali nel suc-
cesso, pieni di trucchi e di scappatoie. Ma, amici, non è
sempre stato così? E il nostro compito è forse quello
di constatare l'immutabile con sempre nuovi, alti lamenti?

Il nostro compito, mi sembra, è di perire da uomini o
di continuare a vivere da uomini. Non certo di frignare
come bambini. Il nostro compito è di riconoscere il no-
stro destino, di far nostra la nostra pena, di trasformare
l'amaro in dolcezza, di maturare attraverso il dolore. Il
nostro fine non è quello di ridiventar grandi e ricchi e
potenti il più presto possibile, e di avere eserciti e navi.
Il nostro fine non è un'illusione infantile: non abbiamo
sperimentato, forse, che belle sorprese ci riservano le na-
vi e gli eserciti, la potenza e il denaro? L'abbiamo già
di nuovo dimenticato?

Il nostro fine, giovani tedeschi, non si può definire con
nomi e cifre. Il nostro fine, come quello di ogni creatura
vivente, è di farci tutt'uno col nostro destino. Se ci riu-
sciamo, potremo essere grandi o piccoli, ricchi o poveri,
temuti o compatiti: non avrà alcuna importanza. Lascia-
te che ne concionino i consiglieri militari e i lavoratori
dell'intelletto! Se, attraverso la guerra e il dolore, non sie-
te entrati in voi stessi, non avete raggiunto l'essenziale,
se volete, come prima, cambiare il destino, sottrarvi alla
sofferenza, rifiutare la maturità, allora perite!

Ma voi m'intendete, lo leggo nei vostri occhi. Voi sen-
tite, nelle amare parole del vecchio della montagna, del
vecchio cattivo, una consolante promessa. Ricordate altre
parole ch'egli vi ha detto sul dolore, sul destino, sulla
solitudine. Non sentite, voi, nel dolore che vi ha colpito,
il soffio della solitudine? Non è divenuto più sensibile, il
vostro orecchio, alla voce sommessa del destino? Non
sentite come la vostra sofferenza diviene feconda? Che il
vostro dolore può significare una distinzione, uno sprone
alle più alte vette?

Ma non ponetevi un traguardo, quando avete dinanzi
l'infinito! Non prefiggetevi degli scopi, proprio adesso che
il destino ha sbriciolato tutti i vostri begli scopi di ier
l'altro! Vergognatevi, ve ne prego, ma non del fatto che
Dio vi abbia parlato! Consideratevi prescelti, considera-
tevi eletti, consideratevi predestinati! Ma non predestinati
a questo e a quest'altro, alla potenza mondiale o al com-
mercio, alla democrazia o al socialismo! Voi siete prede-
stinati a divenir voi stessi attraverso il dolore, a riacqui-
stare, mediante la sofferenza, il vostro vero respiro, il vero
battito del vostro cuore, che avete perduti. Siete predesti-
nati a respirar l'aria delle stelle e, da fanciulli, a farvi
uomini.

Cessate i lamenti, giovani amici! Cessate di piangere
come bambini perché dovete dire addio alla mamma e
al pane dolce! Imparate a mangiare il pane amaro, il pa-
ne degli uomini, il pane del destino!

Vedete, allora vi riapparirà dinanzi quella « patria »
che i migliori tra i vostri avi hanno amato e presagito.
Allora dalla solitudine farete ritorno in una comunità che
non sarà più un nido né una stalla, in una comunità di
uomini, in un regno senza confini, nel regno di Dio, co-
me lo chiamavano i vostri padri. Là c'è posto per ogni
virtù, anche se i confini del vostro paese saranno angu-
sti. Là c'è posto per ogni eroismo, anche se non avrete
più generali!

Davvero che Zarathustra ricomincia a ridere, quando
si vede costretto a consolarvi in tal modo, o fanciulli!

Migliorare il mondo.

C'è un'espressione, o giovani, che m'indispettisce un po-
co, quando la sento sulle vostre labbra: ma forse è me-
glio dire che mi fa ridere! E quella di « migliorare il mon-
do ». La cantavate volentieri, questa canzone, nelle vo-
stre associazioni e ai vostri focolari, il vostro imperatore
e tutti i vostri profeti la cantavano con amore tutto spe-
ciale, e il ritornello di questa canzone erano i versi sul-
l'anima tedesca che deve guarire il mondo.

Amici, dovremmo astenerci dal giudicare se il mondo
sia buono o cattivo, e dovremmo rinunciare alla strana
pretesa di migliorarlo.

Spesso il mondo è stato definito cattivo perché colui
che lo condannava aveva dormito male o manglato trop-
po. Spesso il mondo è stato portato alle stelle perché co-
lui che lo esaltava aveva appena baciato una ragazza.

Il mondo non è fatto per essere migliorato. Nemmeno
voi siete fatti per essere migliorati. Voi siete fatti, in-
vece, per essere voi stessi. Voi siete fatti perché il mon-
do si arricchisca di questo suono, di questo timbro, di que-
st'ombra. Sii te stesso, e il mondo sarà ricco e bello! Non
essere te stesso, sii bugiardo e codardo, e il mondo sarà
povero e ti parrà bisognoso di miglioramento.

Proprio adesso, in quest'età stravagante, la canzone del
migliorare il mondo viene cantata e berciata più forte che
mai. Non sentite come suona male, da avvinazzati? Co-
me suona poco delicata, poco felice, poco saggia e intel-
ligente! Questa canzone, poi, è come una cornice che si
può adattare a ogni quadro. Si adattava all'imperatore
e al poliziotto, si adattava ai vostri famosi professori te-
deschi, ai vecchi amici di Zarathustra! Questa brutta can-
zone si adatta alla democrazia e al socialismo, alla socie-
tà delle nazioni e alla pace universale, all'abolizione del
nazionalismo e all'instaurazione di un nazionalismo nuo-
vo. Ve la cantano i vostri nemici, in un coro nel quale
uno canta contro l'altro, e ciascuno vorrebbe cantare a
morte tutti gli altri. Non vi accorgerete che dovunque
si canti questa canzone ci son dei pugni stretti in tasca
ed è in gioco il più sfrenato egoismo: ahimè, non l'e-
goismo delle anime nobili, che pensano a innalzare e a
temprar se stesse, ma il denaro e la borsa, la vanità e l'al-
bagia. Dove l'uomo comincia a vergognarsi del proprio
egoismo, comincia a parlare di migliorare il mondo e a
nascondersi dietro tali parole.

Io non so, amici, se il mondo sia mai stato migliora-
to, se non sia stato sempre ugualmente buono e cattivo.
Non lo so, non sono un filosofo, ho troppo poca curiosità
in questa direzione. Ma so una cosa: se mai il mondo è
stato migliorato da qualcuno, se mai esseri umani l'han-
no reso più ricco, più vivo, più lieto, più pericoloso, più
allegro, non sono stati certo i riformatori, ma quei veri
egoisti di cui vorrei tanto che anche voi faceste parte.
Quei veri e decisi egoisti che non conoscono un fine, non
Sl propongono uno scopo, cui basta vivere ed essere se
stessi Soffrono molto, costoro, ma soffrono volentieri. So-
no volentieri malati, se è la loro malattia che debbono
soffrire, la loro personale, inconfondibile, inalienabile ma-
lattia. Muoiono volentieri, se è la loro morte che debbono
morire, la loro personale, inalienabile morte!

Forse, grazie a costoro, il mondo, di tanto in tanto, è
stato migliorato, così come un giorno d'autunno viene mi-
gliorato da una nuvoletta, da una piccola ombra bruna,
da un breve e rapido svolar d'uccello. Non crediate che
il mondo abbia bisogno di maggior miglioramento se non
che, di tanto in tanto, lo calchino esseri umani: non
animali, non greggi, ma esseri umani, alcuni di quei po-
chi che ci danno felicità, come ci danno felicità un volo
d'uccello o un albero presso il mare; per il solo fatto che
esistono, che il mondo li alberghi. Se volete essere am-
biziosi, o giovinetti, ambite quest'onore! Ma è un onore
perlcoloso, che passa attraverso la solitudine e facilmen-
te può costarvi la vita.

Dell'anima ted el ea

Non avete mai pensato da che cosa derivi che i tede-
schi fossero così poco amati, che fossero odiati così pro-
fondamente e sul serio, che fossero tanto temuti e così
appassionatamente evitati? Non fu strano, per voi, vedere
come in questa guerra, che pure avevate iniziato con tan-
ti soldati e con così buone prospettive, pian piano e inar-
restabilmente un popolo dopo l'altro passò ai vostri ne-
mici, vi abbandonò, vi diede torto ?

Sì, lo avete notato, con profondo sdegno, e foste anzi
fieri di essere così abbandonati, così soli, così fraintesi.

Ma sentite, non eravate fraintesi! Eravate voi a non
capire, a essere in errore.

Voi giovani tedeschi vi siete sempre vantati delle virtù
che vi mancavano, e nei vostri némici avete criticato so-
prattutto i vizi che avevano appreso da voi. Parlavate
sempre di virtù « tedesche »: la fedeltà e altre virtù vi
apparivano quasi come invenzioni del vostro imperatore
e del vostro popolo. Eppure non eravate fedeli. Eravate
infedeli, infedeli a voi stessi, ed è solo questo che vi ha
attirato l'odio del mondo. Voi dite: no, furono le nostre
ricchezze, i nostri successi! E forse la pensava così anche
il nemico, come voi stimate con la vostra logica bottegaia.
Ma le ragioni sono sempre un po' più profonde di quel
che sappia il nostro pensiero, e tanto più di quel che pos-
sa pensare codesta frettolosa e superficiale logica botte-
gaia. Ammettiamo pure che i nemlci ce l'avessero col
vostro denaro, che ve lo invidiassero. Ma ci sono anche
successi che non destano invidia e che il mondo acclama.
Perché non avete mai conseguito questi ultimi, perché
sempre soltanto i primi?

Perché voi stessi eravate infedeli. Recitavate una parte
che non era la vostra. Avevate fatto delle « virtù tede-
sche », con l'aiuto del vostro imperatore e di Riccardo
Wagner, una messinscena melodrammatica che nessuno,
al mondo, prendeva sul serio tranne voi. E dietro la bel-
la bugiarda facciata di questa pompa teatrale lasciavate
crescere e svilupparsi tutti i vostri oscuri istinti di schiavi
megalomani. Avevate sempre Dio in bocca e la mano
alla borsa. Parlavate sempre di ordine, di virtù, di orga-
nizzazione, e intendevate il far quattrini. E vi tradivate,
poi, credendo sempre di vedere la stessa impostura nei vo-
stri nemici! Udite, dicevate sempre, udite come parlano di
virtù e di diritto, e guardate come la intendono in realtà!
Vi guardavate l'un l'altro ammiccando, quando un ingle-
se o un americano faceva bei discorsi, e il vostro ammic-
care sapeva che cosa c'è, di solito, dietro tali discorsi. Co-
me facevate a saperlo così bene, se non guardando dentro
il vostro stesso cuore?

Inveite pure contro di me, dicendo che vi ferisco! Non
siete affatto abituati che vi feriscano, siete abituatissimi,
invece, a darvi scambievolmente ragione. Per aver torto,
per sparlare, per scaricare i vostri istinti aggressivi c'e-
ra il nemico, no? Ma io vi dico: bisogna dar ferite e
sopportarle, se si vuol stare dalla parte della vita e du-
rare in questo mondo. Il mondo è freddo, non è un nido
familiare, dove si stia al calduccio,, in una perpetua in-
fanzia. Il mondo è crudele, imprevedibile, non ama che
gli abili e i forti, ama coloro che restano fedeli a se stes-
si. Tutto il resto non vi procura che emmeri successi: suc-
cessi come quelli che conseguivate voi, dopo il declino spi-
rituale della Germania, con le vostre merci e le vostre or-
ganizzazioni! Dove sono andate a finire? Ma ora direi
che è tempo, per voi. Forse la miseria è grande abbastan-
za per tendere la vostra volontà: non verso nuove pose
e nuove fughe dinanzi al senso segreto della vita, ma ver-
so la virilità, verso la fede in voi stessi, verso la verità
e la fedeltà a voi stessi.

Penso che questo, infatti, o amici, l'abbiate percepito e
intravisto attraverso tutti i miei rimproveri e le mie criti-
che: cioè che vi amo, che ho in voi una certa fiducia che
sento in voi un'aura di avvenire; e, credetemi, ho un
odorato fine, a tutta prova, io, vecchio eremita e stregone.
Sì, io credo in voi, credo a qualcosa che c'è in voi, a
qualcosa che c'è nell'anima tedesca e a cui ho sempre
portato un antico e profondo amore. Credo a qualcosa,
dentro di voi, che ancora non si vede, a un avvenire, a
delle possibilità, a lm allettante « forse » che brilla dietro
a cento nubi. E ci credo proprio perché siete ancora bam-
bini e fate fanciullaggini, perché vi portate appresso que-
sta lunga, troppo lunga infanzia. Ah, divenisse mai viri-
lità, un giorno, quest'infanzia! Si trasformasse, questa cre-
dulità, in fiducia, questa tenerezza in bontà, questa strava-
ganza e ipersensibilità in carattere e in virile fermezza!

Voi siete il popolo più religioso della terra. Ma quali
dei si è foggiata la vostra religiosità! Imperatori e capo-
rali! E al loro posto, adesso, questi nuovi salvatori del
mondo! Possiate imparare a cercare il Dio che c'è in voi
stessi! Possiate sentire, un giorno, dinanzi al misterioso quid,
dinanzi all'avvenire che c'è in voi, non minor reverenza
di quella che vi ispiravano i sovrani e le bandiere! Pos-
sa la vostra religiosità, un giorno, non starsene più in gi-
nocchio, ma ritta in piedi: su piedi forti, saldi e virili!

Voi e il vostro popolo

Voi continuate, amici, a diffidare di me e mi guardate
spesso in tralice. Ma io so che cosa non vi piace, in me,
e vi rende così ombrosi: voi temete che l'acchiapparatti
Zarathustra vi adeschi lontano dal vostro popolo, che
voi amate e che vi è sacro. Non è così? Ho letto bene, in
voi?

Due dottrine insegnano i vostri maestri e i vostri libri:
la prima sostiene che il popolo è tutto e l'individuo nul
la; la seconda, il contrario.
Ma Zarathustra non è mai stato un maestro, e le vo-
stre dottrine, al massimo, lo muovono al riso. Amici ca-
ri, non potete affatto scegliere se volete essere popolo o
individui! La natura ha provveduto in modo che nessun
albero possa toccare il cielo! Il cielo della solitudine, il
cielo della virilità non l'ha ancor toccato nessuno, solo
perché ne ha trovato menzione in un libro e si è deciso
per quella scelta!

Se però vi chiedo, o giovinetti: « Che cos'è che il vostro
popolo desidera tanto? di che cosa ha bisogno? », voi mi
risponderete: « Il nostro popolo ha bisogno di uomini che
sappiano non soltanto parlare ma anche agire! ».

Ebbene, amici, sia che lo facciate per voi stessi, sia che
lo facciate per il vostro popolo, non dimenticate di dove
sgorgano le azioni e quella fredda, gioiosa e virile capar-
bietà, tutta profumata di mattino, da cui sprizzano le
azioni come i fulmini dalla nube. L'avete di nuovo di-
menticato? Ve ne ricordate, adesso?

Amici, quello di cui il vostro popolo, come ogni altro
popolo, ha bisogno, sono uomini che abbiano imparato
a essere se stessi, che abbiano riconosciuto il loro de-
stino. Essi soli saranno il destino del loro popolo. Essi so-
li non si accontentano dei discorsi e dei decreti e di tutto
il meticoloso e irresponsabile apparato burocratico. Essi
soli hanno il coraggio, la temerarietà, il sano, vegeto, gaio
umore da cui nascono le azioni.

Voi tedeschi, più di alcun altro popolo, siete abituati
a obbedire. Il vostro popolo ha obbedito con tanta faci-
lità, così volentieri, con così gioiosa prontezza! Non vo-
leva fare un passo senza provar la soddisfazione che, fa-
cendolo, obbediva a un comando, seguiva una prescrizio-
ne Il vostro buon paese era coperto di tavole della legge,
e soprattutto di cartelli di divieto, come d'una foresta.

Come obbedirebbe, questo popoloj se dopo una pausa
così interminabilmente lunga, dopo un'attesa così este-
nuante, sentisse di nuovo, una buona volta, delle voci vi-
rili? Se, invece di ordinanze e di precetti, udisse di nuovo
il tono della forz e della convinzione? Se tornasse a ve-
der delle azioni, non già grazosamente comandate e umil-
mente eseguite, ma sprizzanti, sane e liete, dal capo del
loro padre, armate e splendenti come la dea greca?

Pensateci sempre, amici miei, e non dimenticate di che
cosa il vostro popolo ha fame e sete! E non dimenticate mai in voi stessi. Eppure Egli è solo lì. Non esiste altro
che azione e virilità non crescono nei libri né nei di- Dlo se non auello che e
scorsi alle masse. Crescono sulle montagne, e la via che
Vl porta passa attraverso il dolore e la solitudine attra-
verso il dolore sopportato volentieri, attraverso ia soli-
tudine volontaria.
E, contrariamente a tutti i vostri oratori da comizio
io vi grido: non c'è fretta! Quelli vi gridano da tutti
gli angoli: « Affrettatevi! Correte! Decidetevi all'istante! Il
mondo è in fiamme! La patria è in pericolo! ». Ma crede-
temi, la patria non correrà pericolo se ve la prendete con
comodo, se lascerete che la vostra volontà, il vostro de-
stino, la vostra azione giungano, in voi, a maturità! La
precipitazione, come il gusto di obbedire, è stata conside-
rata una di quelle virtù tedesche che, in effetti, non so-
no tali.
Figlioli, non statevene così a testa bassa! Non fate ri-
dere il vecchio Zarathustra!
forse una disgrazia che siate venuti al mondo in
un'età fresca, tempestosa, rombante? Non è invece la vo-
stra fortuna ?

Il congedo

E ora, amici, vi dico addio. E voi lo sapcte bene che
quando Zarathustra prende congedo dai suoi ascoltato-
ri non è certo solito pregarli di restargli fedeli e di ri-
manere suoi devoti scolari.
Non dovete adorare Zarathustra. Non dovete imitare
Zarathustra. Non dovete voler diventare altrettanti Za-
rathustra! In ciascuno di voi c'è una forma nascosta che
e ancora immersa in un profondo sonno infantile. De-
statela alla vita! In ciascuno di voi c'è un richiamo, una
volontà e un lancio della natura, un lancio verso l'av-
venire, verso più nuove altezze. Lasciate che maturi, che
rlsuoni appleno, abbiatene cura! 11 vostro avvenire non
è questo o quest'altro, non è denaro o potenza, saggez-
za o successo industriale. Il vostro avvenire e la vostra
via difficile e pericolosa è il maturare, è il trovar Dio in
voi stessi. Non c'è nulla, o giovani tedeschi, che vi si
renda più difficile. Voi avete sempre cercato Dio, ma non

Se un glorno dovessi tornare; amici miei, si parlerà di
altre cose, più belle e più liete. Quel giorno - così spe-
ro - ce ne staremo a parlare insieme da veri uommi,
l'uno (forte e se stesso) accanto all'altro, ciascuno abitua-
to a non aver fiducia in altro, al mondo, che in se stesso
e nella fortuna, che ama i forti e gli audaci.

Ora andate, tornate alle vostre strade piene di orato-
ri. Dimenticate ciò che vi ha detto il vecchio straniero del-
la montagna. Zarathustra non è mai stato un saggio.
sempre stato un burlone e un balzano giramondo.

Non permettete che nessun oratore e nessun maestro
vi metta un uccello nell'orecchio, qualunque sia il suo no-
me In ognuno di voi c'è un solo ed unico uccello che è
necessario ascoltare: il proprio

Nel separarmi da voi vi dico soltanto: ascoltatelo!
Ascoltate la voce che viene da voi stessi! Se essa tace, sap-
piate che qualcosa è andato storto, che qualcosa non è
in ordine, che siete sulla via sbagliata.

Ma se il vostro uccello canta e parla, oh, allora segui-
telo, seguitelo dovunque vi attiri, anche nella più fredda
e lontana solitudine, anche nel più buio destino

venerdì, giugno 20, 2014

Simonetti Walter Manie di persecuzione


sabato, giugno 26, 2010

GILLES DELEUZE PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE INGLESE DI NIETZSCHE E LA FILOSOFIA

PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE INGLESE DI
NIETZSCHE E LA FILOSOFIA

GILLES DELEUZE

Risulta sempre emozionante per un libro francese essere tradotto in inglese. È un'opportunità che si presenta all'autore per considerare, dopo diversi anni, l'impressione che gli piacerebbe provocare in un insperato lettore al quale si sente al contempo molto vicino e molto svincolato.
Il destino postumo di Nietzsche ha dovuto confrontarsi con due ambiguità: il suo pensiero è stato precursore del fascismo? E il suo pensiero era realmente filosofia o si trattava piuttosto di una poesia estremamente violenta, composta di aforismi capricciosi e di frammenti patologici? Chissà se è in Inghilterra che Nietzsche è stato pili incompreso? Tomlinson suggerisce che i temi principali che Nietzsche affronta e contro i quali combatte - il razionalismo francese e la dialettica tedesca - non hanno mai avuto un'importanza centrale per il pensiero inglese. Gli inglesi avevano a loro disposizione teorica un empirismo e un pragmatismo che impedirono che la svolta tramite Nietzsche potesse risultar loro di gran valore. Per lui non furono necessarie queste deviazioni attraverso il particolare empirismo e pragmatismo nietzscheano, che si opponevano benissimo al suo "buon sentire". Per questo, in Inghilterra, Nietzsche poté influire solo su romanzieri, poeti, drammaturghi: si trattava di un'influenza pratica ed emozionale più che filosofica, molto più lirica che teorica.
Al di là di tutto, Nietzsche è uno dei più grandi filosofi del XIX secolo. Trasforma tanto la teoria quanto la pratica della filosofia. Lo si compari al pensatore con una freccia lanciata con naturalezza, che un altro pensatore dovrà raccogliere dove è caduta per lanciarla di nuovo verso un altro luogo. Secondo Nietzsche, il filosofo non è né eterno né storico, quanto "intempestivo", sempre intempestivo. Nietzsche ha difficilmente dei precursori. A parte i primi presocratici, egli stesso ne riconobbe uno solo: Spinoza.
La filosofia di Nietzsche si organizza su due grandi assi. Il primo ha a che vedere con la forza, con le forze e le forme di una semiologia generale. I fenomeni, le
cose, gli organismi, le società, le coscienze e le anime sono segni, o meglio sintomi che riflettono attraverso se stessi gli stati delle forze. Da qui deriva la concezione del filosofo come "fisiologo o medico". Possiamo chiedere, per una determinata cosa, quale stato di forze interiori e esteriori presuppone. Nietzsche è il responsabile della creazione di una tipologia generale atta a distinguere le forze attive, attività e reattività, e analizzare le diverse combinazioni. In modo particolare, uno dei punti pili originali del pensiero di Nietzsche sta nell'aver delineato un tipo di forze genuinamente reattive. Questo tipo di semiologia generale include la linguistica, o più concretamente la filologia, come una delle sue parti, posto che ogni proposizione è in se stessa un insieme di sintomi che esprimono una forma di essere o un modo di esistenza di chi parla, sarebbe a dire, lo stato di forze che mantiene o tenta di mantenere con se stesso e con gli altri (si consideri, per esempio, il ruolo della congiunzione in questa connessione). In questo senso, una proposizione riflette sempre un modo di esistere, un "tipo". Qual è il modo di esistere di una persona che pronuncia una proposizione data, quale modo di esistere è richiesto per poter giungere a pronunciarla? Il modo di esistere è lo stato delle forze nella misura in cui danno forma a un tipo che può essere espresso attraverso segni o sintomi.
I due grandi concetti reattivi dell'uomo, diagnosticati da Nietzsche, sono il risentimento e la cattiva coscienza. Risentimento e cattiva coscienza sono l'espressione del trionfo delle forze reattive dell'uomo, ivi inclusa la costituzione dell'uomo attraverso le forze reattive: l'uomo schiavo. Tutto questo evidenzia in che modo il concetto nietzscheano di schiavo non rappresenti un qualcuno dominato dal destino o dalla condizione sociale, piuttosto caratterizza tanto i dominati quanto i dominatori una volta che il regime di dominio è caduto sotto il potere di forze che non sono attive, quanto reattive. I regimi totalitari sono, in questo' senso, regimi di schiavi, non solo a causa della gente che soggiogano quanto e soprattutto per il tipo di "padroni" che producono. Una storia universale del risentimento e della cattiva coscienza - a partire dai sacerdoti giudaico-cristiani fino al sacerdote secolare del presente - è una componente fondamentale della prospettiva storica nietzscheana (i supposti testi antisemiti di Nietzsche sono di fatto testi sul tipo sacerdotale originario).
II secondo asse riguarda la potenza e dà luogo ad un'etica e a una ontologia. Nietzsche è stato male interpretato soprattutto in relazione alla questione del potere. Ogni volta che si interpreta la volontà di potenza come "desiderio o ambizione di potere", incontriamo delle semplificazioni che non hanno nulla a che vedere con il pensiero nietzscheano. Se è vero che tutte le cose riflettono uno stato
delle forze, la potenza designa allora l'elemento, o meglio la relazione differenziale delle forze che si affrontano direttamente tra loro. Questa relazione si esprime nelle qualità dinamiche del tipo come la "affermazione" e la "negazione". La potenza non è dunque ciò che la volontà desidera, piuttosto, al contrario, ciò che desidera nella volontà. E "desiderare o ambire la potenza" è solo il grado più basso della volontà di potenza, la sua forma negativa, la piega che prende quando le-*' forze reattive prevalgono nello stato delle cose. Una delle caratteristiche più originali nella filosofia di Nietzsche è la trasformazione della domanda: Che cos'è... ? in Chi è...? Ad esempio, per ogni proposizione una data domanda: Chi è capace di pronunciarla? Su questo punto dobbiamo disfarci di ogni riferimento "personalista". "Chi..." non si riferisce a un individuo o a una persona quanto a un evento, ossia, alle forze che diversamente relazionate incontriamo in una proposizione o in un fenomeno, e alla relazione genetica che determina queste forze (potenza). "Chi..." è sempre Dioniso, una maschera o maschera di Dioniso, un lampo.
L'eterno ritorno è stato mal interpretato come la volontà di potenza. Ogni volta che sentiamo l'eterno ritorno come il ritorno ad un determinato stato delle cose dopo che tutte le altre cose si sono già realizzate, ogni volta che interpretiamo l'eterno ritorno come il ritorno dell'identico o dello stesso, stiamo sostituendo il pensiero di Nietzsche con ipotesi puerili. Nessuno ha esteso la critica ad ogni forma di identità tanto lontano come Nietzsche. In due occasioni nello Zarathustra Nietzsche nega esplicitamente che l'eterno ritorno sia il circolo che compie sempre lo stesso giro. Si tratta esattamente dell'idea diametralmente opposta, perché l'eterno ritorno non può essere separato da una selezione, da una doppia selezione. In primo luogo, vi è la selezione della volontà o del pensiero che costituisce l'etica di Nietzsche, ciò che vuoi, voglio in modo tale da volere anche il suo eterno ritorno (si eliminano così tutti i volere a metà, tutto quello che solo può essere voluto a condizione di volerlo "una volta, solo una volta"). In secondo luogo, vi è la selezione dell'essere che costituisce l'ontologia di Nietzsche: solo ciò che diviene nel più completo senso della parola può tornare, è atto a tornare. Solo l'azione e l'affermazione ritornano: il divenire, e solo il divenire, è. Ciò che si oppone, lo stesso o l'identico, strettamente parlando, non è. La negazione come grado più basso della potenza e il reattivo come grado più basso della forza non ritornano perché sono l'opposto del divenire e solo il divenire può essere. Possiamo vedere allora come l'eterno ritorno si collega, non ad una ripetizione dello stesso, ma al contrario, ad una transvalutazione. È l'istante, o l'eremità del divenire, ciò che elimina tutto quello che gli resiste. Libero, crea di colpo, il puramente attivo e la pura affermazione. Da questo deriva l'unico contenuto del superuomo. È il prodotto congiunto della volontà di potenza e dell'eterno ritorno, Dioniso e Arianna. Questa è la ragione per la quale Nietzsche afferma che la volontà di potenza non è volere, ambire o desiderare il potere, quanto solo "dare" o "creare". Questo libro vuole analizzare, prima di tutto, quello che Nietzsche chiama divenire.
La difficoltà che pone Nietzsche, senza dubbio, dipende meno dall'analisi concettuale che dalle valutazioni pratiche che evocano nel lettore un'atmosfera complessiva e tutto un tipo di disposizione emozionale. Come Spinoza, Nietzsche sostenne che vi è una relazione molto profonda tra il concetto e l'affetto. Le analisi concettuali sono indispensabili, e Nietzsche le porta più lontano di tutti, però risulteranno sempre inefficaci se il lettore le trasporta in un'atmosfera che non è quella di Nietzsche. Mentre il lettore continua: 1) a vedere lo schiavo come colui che si trova ad essere dominato da un padrone e merita di restarlo 2) a intendere la volontà di potenza come volontà di volere e ambire al potere 3) a concepire l'eterno ritorno come il tedioso ritorno dello stesso 4) a immaginare il superuomo come una razza superiore, non sarà possibile alcuna relazione positiva tra Nietzsche e il suo lettore. Nietzsche apparirà come un nichilista, o, ancor peggio, come un fascista e, nel migliore de casi, come un oscuro e terrificante profeta. Nietzsche lo sapeva, conosceva il destino che lo riguardava, lui che diede a Zarathustra una "scimmia" o un "buffone" come doppio, predicendo che Zarathustra sarebbe stato confuso con la sua scimmia (un profeta, un fascista, un pazzo...). Questa è la ragione per la quale un libro su Nietzsche deve sforzarsi di correggere i malintesi pratici 0 emozionali, così come stabilirne l'analisi concettuale. È, in effetti, vero che Nietzsche diagnosticò il nichilismo come il movimento che spinge la storia in avanti. Nessuno ha analizzato il concetto di nichilismo meglio di lui, fu lui che ne inventò il concetto. Però è importante tener presente che lo definì come il trionfo delle forze reattive o del negativo nella volontà di potenza. Al nichilismo oppose la transvalutazione, ossia, il divenire che è simultaneamente l'unica azione della forza e l'unica affermazione della potenza, e l'elemento transtorico dell'uomo, il superuomo (non il superman). Il superuomo è il punto focale in cui il reattivo (il risentimento e la cattiva coscienza) è conquistato e in cui la negazione dà luogo all'affermazione. Nietzsche si mantiene inseparabilmente legato, in ogni momento, alle forze del futuro, alle forze a venire che le sue suppliche invocano, che il suo pensiero abbozza, che la sua arte prefigura. Non solo diagnostica, come disse Kafka, le forze diaboliche che sta chiamando alla porta, ma le esorcizza erigendo l'ultima potenza capace di lottare contro di loro, espellendole entrambe da noi, fuori di noi. Un aforisma nietzscheano non è un mero frammento, un pezzo di pensiero: è una proposizione che ha senso solo in relazione con lo stato delle forze che esprime, e che cambia senso, che deve cambiare senso, in rapporto alle forze che è "capace" (ha la potenza) di attrarre.
Senza alcun dubbio, questo è il punto più importante della filosofia di Nietzsche: la trasformazione radicale dell'immagine del pensiero che creiamo per noi stessi. Nietzsche si spinge al pensiero dell'elemento della verità e della falsità. Lo converte in valutazione, interpretazione di forze, valutazione della potenza. - E un movimento del pensiero, non solo nel senso che Nietzsche desidera riconciliare il pensiero e il movimento concreto, quanto nel senso che il pensiero stesso deve produrre movimenti, piccoli stati di velocità e lentezze straordinarie (possiamo osservare di nuovo la carta dell'aforisma, con le sue diverse velocità e il suo movimento "tipo proiettile"). Di conseguenza, la filosofia ha una nuova relazione con le arti del movimento: teatro, danza e musica. Nietzsche non fu mai soddisfatto dal discorso o dalla dissertazione (logos) come espressione del pensiero filosofico, nonostante l'aver scritto le più belle dissertazioni - specialmente ne La genealogia della morale, verso la quale tutta l'etnologia moderna ha oggi un debito impagabile. Ma un libro come lo Zarathustra, può solo essere letto come un'opera moderna, e visto e ascoltato come tale. Non è che Nietzsche abbia prodotto un'opera filosofica o un testo di teatro allegorico, o un'opera che esprime direttamente il pensiero come esperienza o movimento. Quando Nietzsche dice che il superuomo assomiglia più a Borgia che a Parsifal, o che è un membro tanto dell'ordine dei gesuiti quanto del corpo degli ufficiali prussiani, sarebbe molto erroneo considerare queste tesi come delle dichiarazioni protofasciste, perché sono le osservazioni di un direttore che indica come dovrebbe essere "interpretato" il superuomo (come Kierkegaard quando dice che il cavaliere della fede è come un borghese domenicano). - Pensare è creare: questa è la più grande lezione di Nietzsche. Pensare, lanciare i dadi...: questo era già il senso dell'eterno ritorno.

Questo testo redatto originariamente in francese è stato tradotto da Hugh Tolinson e pubblicalo in Nietzsche and Philosophy, Columbia University Press, New York, 1983, pp. IX-XIV

Traduzione italiana a cura di Tiziana Villani.