Nel
2008, a seguito della crisi economica mondiale scatenata
dall'implosione dei cosiddetti mutui “subprime” negli Stati Uniti, esce,
a cura di Norbert Trenkle del gruppo Krisis, il testo “Weltmartkbeben”
(Terremoto nel mercato mondiale), qui tradotto.
Il testo assume un'importanza particolare, nella misura in cui
riassume le posizioni che questo gruppo porta avanti da anni e che in
qualche modo hanno largamente anticipato la crisi e le sue ragioni. Esso
prova a dare una lettura “inattuale” e fuori dal coro della crisi
economica in corso, lettura che può aiutare ad impostare correttamente
il problema e a cercare soluzioni più radicali e capaci di intaccarne i
meccanismi di fondo.
Per un aiuto alla lettura, sinteticamente ecco i punti “forti” del testo:
- la crisi economica mondiale era in corso da lungo tempo e la sua
esplosione entro un periodo più o meno breve era ampiamente prevedibile
- le cause di questa esplosione non sono da ricercarsi nella
malvagità di un numero comunque limitato di avidi speculatori dediti
alla finanza più cinica e spietata, ma nel meccanismo di fondo della
riproduzione capitalistica stessa. La “rivoluzione microelettronica”,
ovvero il passaggio da una produzione seriale meccanica fondata sul
lavoro vivo ad una fondata sulla tecnologia microelettronica, ha
destrutturato gli apparati produttivi, aumentando in modo esponenziale
la produttività del lavoro e al tempo stesso espellendo lavoro vivo. Questo
ha determinato un afflusso enorme di merci sul mercato che restano per
lo più invendute, interrompendo quindi la loro necessaria
valorizzazione, ovvero l'indispensabile trasformazione in valore
monetario, e insieme minato la base stessa della creazione di valore,
cioè il lavoro vivo ora espulso dai cicli produttivi, quindi neanche più
in grado, come lo voleva per esempio il sistema di regolazione
fordista, di concretizzare il ciclo della valorizzazione acquistando la
merce prodotta. Almeno dagli anni '70, da quando cioè la crisi di
valorizzazione ha cominciato a farsi pressante, il capitale si è
rifugiato nell'ambito finanziario, unico grazie al quale era possibile
realizzare i profitti necessari a mantenere in vita il ciclo
capitalistico. Questi profitti tuttavia erano fittizi, perché non
realizzati grazie all'estrazione di valore derivato dal lavoro vivo,
quindi dall'economia reale, ma dalla mera speculazione su valore già
esistente, speculazione che da quel momento ha generato una bolla di
valore senza base reale (capitale fittizio) la cui inevitabile
deflagrazione sta portando conseguenze che cominciano ad avvertirsi, con
estrema durezza, solo adesso.
- la politica mostra anch'essa, entro questo schema, i suoi limiti
storici, nella misura in cui è un elemento indispensabile, insieme allo
Stato, della regolazione e distribuzione capitalistica, e dalle sue
regole e dalle sue esigenze determinata.
- false risposte alle cause della crisi determinano fallaci
illusioni, come quella che la politica possa in qualche modo trovare
soluzioni efficaci, e pericolosi sviamenti, quali quelli che vedono
negli “ebrei” (parola usata da quelli di Krisis, oltre che nel suo senso
letterale, anche per indicare l'immagine stereotipata di “speculatore”
tipo) la causa di tutti i mali. Tra le nefaste conseguenze che questo
tipo di risposte possono comportare, non ultima è quella di credere che
la soluzione passi per l'“eliminazione” di alcune soggettività e la loro
sostituzione con altre più “virtuose”, capaci di “valorizzare” il
lavoro onesto e produttivo, lasciando però di fatto intatto il sistema, e
non accorgersi invece come siano il capitalismo (il “soggetto
automatico” come lo chiamava Marx) ed i suoi meccanismi di riproduzione
il problema e l'unica soluzione la loro estinzione.
La produzione del gruppo Krisis, molto ampia e per lo più non tradotta in italiano, è rintracciabile nel loro sito web ==> http://www.krisis.org (Cybergodz).]
È almeno a partire dalla cosiddetta “critica del capitalismo” di
Franz Müntefering nel 2005 che si è imposta un po’ ovunque l’immagine
della “locusta” per esprimere ciò che gran parte dell’opinione pubblica
già dava per scontato: e cioè che la responsabilità principale
dell’attuale crisi economica e sociale debba essere imputata ad “avidi
investitori finanziari”. Non deve quindi sorprendere l’eccessivo
utilizzo di questa metafora e l’equivalenza, espressa nella broschure
del “sindacato unificato dei servizi” (in tedesco:
Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft – Ver.di), per la quale “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro”
1.
Per fortuna è stata articolata, per esempio nei sindacati, una forte
critica a questo opuscolo, critica che sembra destinata a dar vita a un
dibattito a lungo rimandato. Per difendersi contro le critiche gli
autori dell’opuscolo hanno messo in campo un argomento molto
illuminante. Avrebbero – scrivono in un contibuto pubblicato sul
giornale on-line
LabourNet2 – preventivamente discusso sulla metafora “locuste”, arrivando però
“alla
conclusione che … parlando di queste tematiche, questo concetto andava
necessariamente espresso, altrimenti avremmo avuto bisogno di
circonlocuzioni complicate, e alla fine sarebbe diventato chiaro ai
lettori che comunque stavamo parlando delle ‘locuste’.
Questo argomento è illuminante in quanto sottolinea come la metafora
della locusta non sia solo una superficiale attribuzione ideologica, che
possa essere sostituita da un’altra più “innocua” (cioè senza
connotazione anti-semitica), bensì sia strettamente legata alle
argomentazioni della brochure e ad altre simili. Proprio qui insomma
casca l’asino. Problematica è però soprattutto l’analisi economica o,
più precisamente, il modo in cui viene effettuata la critica del
capitale finanziario, con la quale l’immagine utilizzata va a braccetto.
Naturalmente la critica del capitalismo deve analizzare la connessione
tra l’enorme bolla dei mercati finanziari e la dinamica della crisi
globalizzata del capitalismo, e chiedersi quali conseguenze pratiche per
i movimenti sociali e sindacali ne conseguano. La questione
fondamentale, tuttavia, è in che cosa consista tale connessione. Il
seguente testo cercherà di contribuire a trovare una risposta a questa
domanda, rispondere alla quale sta diventando, a fronte della sempre più
minacciosa crisi dei mercati finanziari internazionali, estremamente
urgente.
L’attuale crisi dei mercati finanziari internazionali, che rischia di
trasformarsi in una crisi vera e propria a livello mondiale, è
attribuita da quasi tutti i commentatori ed esperti economici allo
scatenamento senza freni della speculazione, soprattutto negli Stati
Uniti. Nel mirino sono finiti quindi banche e fondi di investimento,
considerati i principali attori di questa speculazione, ma anche governi
e le stesse banche centrali (in primo luogo il governo degli Stati
Uniti e la
Federal Reserve), che avrebbero consentito e
incoraggiato questa evoluzione. Si sentono così rassicurati nelle loro
convinzioni tutti coloro che per anni hanno indicato nella speculazione
sfrenata la causa principale degli attuali sconvolgimenti economici e
sociali – quali la disoccupazione di massa, il taglio dei salari o
l’incentivazione della concorrenza e la demolizione dello Stato sociale –
e vedono come chiave di volta per risolvere questi problemi la
regolamentazione e il controllo dei mercati finanziari.
Ora, potrebbe sembrare, ad una prima superficiale considerazione, che
la crescente pressione economica sulla società origini effettivamente,
nel suo complesso, dai mercati finanziari. Chi potrebbe negare che essi
abbiano storicamente vinto, in modo determinante, e abbiano avuto una
forte influenza sullo sviluppo economico? Da lì ad identificarli come i
principali responsabili dei mali sociali, è un passo. Tuttavia non è
solo per il fatto che rimane in superficie che la polemica contro gli
hedge fund, i
private equity fund e
altri fondi operanti sul mercato finanziario (usando immagini
ideologicamente estremamente pericolose come “locuste” e “sanguisughe”)
3
trovi un’eco così forte nell’opinione pubblica. Essa si basa anche su
un diffuso preconcetto, per il quale il capitale finanziario, le banche e
gli “speculatori” sono i maggiori responsabili dei mali del
capitalismo, a scapito – si suppone – del “lavoro onesto” e delle
“imprese produttive”, da cui traggono i loro guadagni senza dover alzare
un dito. Di conseguenza, è l’“avidità insaziabile” dei mercati
finanziari, che aspirano a guadagni eccessivi, ad essere denunciata
(come se il modo di produzione capitalistico non si basasse
essenzialmente sul principio della massimizzazione dei profitti e la sua
strada non fosse da sempre cosparsa di cadaveri).
Questa però non è una critica del capitalismo, quanto nella migliore
delle ipotesi una glorificazione nostalgica dello stato sociale, cioè
del capitalismo regolamentato, del dopoguerra, quando il mondo si
suppone era ancora in “ordine”. Peggio ancora essa apre così, al tempo
stesso, la porta all’anti-semitica delirante proiezione il cui nucleo
centrale è ben noto: la divisione del capitale fra concreto capitalismo
che lavora e un capitalismo astratto e “rapace”, dove “gli speculatori”
vengono
tout court idenficati con gli ebrei, che si pensa
tirino le fila dietro le quinte del mondo dell’economia e della
politica. Questa pericolosa connessione ideologica è stata, negli ultimi
anni, più volte additata e criticata, per cui non vale la pena qui
insistere
4. Meglio invece puntare l’attenzione sul fatto che
concentrare l’attacco sul capitale finanziario significa di fatto
rovesciare la connessione di causa-effetto dei rapporti della logica
capitalistica, e con ciò quindi sul fatto che non solo viene a mancare
una corretta analisi dei processi in corso nella crisi attuale, ma anche
la possibilità di una resistenza adeguata alle condizioni sociali e
politiche che essa impone.
Le conseguenze di lungo periodo della crisi del fordismo
Basta uno sguardo alla storia per dimostrare che l’emergere di grandi
bolle speculative e creditizie nei mercati finanziari non è mai stata
la causa delle crisi del capitalismo, bensì solo risultato e forma di
processi di crisi in corso, le cui ragioni vanno sempre ricercate nella
congestione dei capitali da valorizzare nell’economia reale. Ciò vale
anche e soprattutto per le attuali turbolenze finanziarie e il lungo
periodo di speculazioni che le ha precedute, anche se questa crisi può
vantare, rispetto alle crisi precedenti, alcune specificità storiche.
È noto che il decollo e l’ampia autonomizzazione dei mercati
finanziari sono cominciati nella metà degli anni ’70. Le ragioni,
tuttavia, non sono da ricercare in arbitrarie decisioni politiche o
nell’influenza dei
Think Tanks neo-liberali o di potenti gruppi di interesse economico, come spesso si sostiene oggi a posteriori, ma nel fatto che il lungo
boom
del dopoguerra cadde allora in una profonda crisi strutturale e il
fordismo sbatté nei propri limiti. I margini di profitto calarono perché
la produttività delle aziende, basate sulla produzione standardizzata
di massa, veniva esaurendo mentre, al contempo, avevano successo le
lotte dei lavoratori per garantire un aumento dei salari e dei benefici,
e il finanziamento delle infrastrutture pubbliche diventava sempre più
costoso. Quando i paesi OPEC aumentarono sensibilmente i prezzi del
petrolio, e quindi i costi per lo sfruttamento delle riserve di energia
fossile salirono velocemente, la forte crescita del dopoguerra giunse
alla fine. Gli investimenti in impianti di produzione, fabbriche,
edifici, ecc. vennero accantonati, poiché non permettavano più un
guadagno sufficiente e, di conseguenza, una parte significativa del
capitale venne “liberato “, senza che trovasse più alcuna opzione di
investimento praticabile e redditizia.
Poiché però il capitale è per sua essenza valore che si valorizza, e
quindi l’unico scopo della produzione capitalistica consiste nel fare
più soldi dai soldi (da qui anche il fine capitalistico della crescita
quantitativa permanente, senza riguardo per i bisogni umani e i limiti
naturali), un tale ristagno del processo di valorizzazione equivale a
una crisi. Più precisamente, a una crisi di sovra-accumulazione o – per
dirla con il vocabolario economico attuale – a una crisi di
sovra-investimenti. Una parte del capitale è in eccesso (sempre
relativamente al suo fine astratto) e quindi a rischio svalorizzazione.
Questa svalorizzazione non si limita ai singoli fallimenti di società o
banche (come sempre avviene in regime di capitalismo normale) ma
colpisce – mediata e rafforzata da negativi effetti moltiplicatori –
tutta l’economia e la società intera.
Proprio questo è il pericolo che minaccia il capitalismo dalla metà
degli anni ’70, pericolo che molti economisti (non solo di sinistra) a
suo tempo previdero
5. Perché tuttavia ancora non si è
realizzato appieno? Perché l’economia mondiale non è crollata? Una delle
principali ragioni è stata che una quota significativa del capitale in
eccesso, che non poteva più essere investito nell’economia, ha ripiegato
nei mercati finanziari internazionali, dove è stata investita dapprima
soprattutto sotto forma di prestiti statali, successivamente sempre più
anche in titoli azionari e obbligazionari. Questo scivolamento nella
sfera finanziaria è di per sé una forma del tutto normale della
valorizzazione del capitale durante una crisi. Marx ha già analizzato
tutto ciò alla luce della crisi del 1857, ed ha coniato per questo il
concetto di “capitale fittizio”. “Fittizio” è il capitale creditizio e
speculativo, perché agisce solo in apparenza come capitale. Ma per
quanto investa per il suo proprio interesse e profitto, la
valorizzazione reale resta insufficiente, poiché essa presuppone sempre
che vi sia lavoro astratto impiegato nella produzione di beni e servizi e
che una parte di esso sia “estratto” in quanto plusvalore. Il
“reddito”, che il capitale fittizio “produce” proviene, invece, da altre
fonti, siano esse tasse e nuovi crediti (come nel caso della crescita
esponenziale del debito pubblico), siano esse “scommesse sul futuro”
(come nel caso dei guadagni che provengono da speculazioni in borsa) o
la svendita dello stato (come nel caso dei proventi derivanti dalle
privatizzazioni).
Questo si vede molto bene nel caso del debito pubblico: lo Stato
prende in prestito denaro per poi reimmetterlo immediatamente nel ciclo
del consumo. Dal punto di vista del creditore questo denaro appare come
capitale, perché frutta interessi. In realtà è stato speso già da lungo
tempo, per cui esiste come “valore” solo in forma di richiesta di
versamento (titoli di Stato). Ma anche il credito per il consumo privato
o per i mutui ipotecari funziona allo stesso modo: i mutuatari prendono
in prestito soldi per comprare case, automobili e altri prodotti di
consumo. Per i creditori questi stessi soldi appaiono come capitale che è
stato investito con profitto, anche se questo capitale in realtà è già
stato bruciato nel consumo da molto tempo. Ma questo fatto viene
tranquillamente rimosso. Il sistema finanziario o speculativo appare
come una opzione di investimento “reale”, come qualsiasi altra, fintanto
almeno che il denaro continua a sgorgare.
La bolla del capitale fittizio non solo dà agli investitori una
possibilità alternativa, ma significa anche, dal punto vista
macroeconomico, un rinvio dello scoppio della crisi. Questo perché il
ripiegamento nei mercati finanziari non solo nasconde provvisoriamente
la svalutazione del capitale in surplus, ma crea anche potere d’acquisto
addizionale mediato da diversi meccanismi, potere che si esprime nella
domanda di beni e servizi. Grazie a questo l’economia reale continua a
reggere, su questa base può nuovamente ravvivarsi. Nel caso del debito
pubblico, questo meccanismo agisce in modo immediato ed è, in quanto
tale, già diventato uno strumento chiave della politica economica. Non
importa se lo stato prende in prestito soldi per costruire strade, per
l’acquisto di aerei militari o per la spesa sociale, questo meccanismo
torna sempre indietro nel ciclo del consumo e rianima la congiuntura di
crisi. Esattamente la stessa funzione economica compie il credito al
consumatore e i prestiti ipotecari, come il recente
boom
immobiliare negli Stati Uniti ha mostrato, salvo che i mutuatari sono
solo individui. Ma anche i guadagni finanziari rifluiscono parzialmente
nell’economia reale, sia attraverso la spesa per ristrutturazione di
banche, fondi comuni e altri operatori istituzionali del mercato
finanziario (dalla flotta dei computer fino agli edifici più
prestigiosi), sia che dipendenti o semplici privati finanzino i propri
consumi con la finanza speculativa o con redditi da interessi. In questo
senso il capitale fittizio è tutt’altro che un peso morto che grava
sull’economia reale e la ostacola nel suo funzionamento. Al contrario,
esso consente il mantenimento provvisorio delle normali attività
capitalistiche.
In tutte le grandi crisi capitalistiche fino ad oggi questo modo di
differimento della crisi non è durato molto a lungo. Dopo una breve
fase, al surriscaldamento speculativo seguiva inevitabilmente una caduta
di grandi dimensioni del mercato finanziario, in cui il potenziale
represso di crisi scoppiava con una forza tremenda e distruggeva in un
colpo solo gran parte delle strutture economiche e sociali. La
specificità storica della crisi del fordismo consiste nel fatto che una
tale massiccia svalutazione con un tale accumulo di speculazione e massa
di credito non c’è mai stata. Ma questo non significa che le leggi
dello sfruttamento capitalistico e della sua logica funzionale siano
sospese, come è stato spesso sostenuto. Dal punto di vista storico unico
è solo il periodo lunghissimo di differimento della crisi, che tuttavia
strutturalmente non è diversa dalle precedenti crisi del meccanismo di
capitale fittizio e quindi, prima o poi, deve sfociare in una enorme
violenta svalorizzazione. Logicamente, questo lungo periodo di
differimento corrisponde al rigonfiamento di una gigantesca bolla di
speculazione e di credito. Se oggi, dunque – come possiamo possiamo
leggere in quasi tutti i giornali – circa il 97 per cento di tutti i
flussi finanziari transnazionali ha finalità meramente speculative,
questo non dipende in alcun modo da una “carenza di controllo”
sull’economia o dall’“avidità” di voraci speculatori, ma mostra
piuttosto quali proporzioni abbia raggiunto il rinvio della crisi, e
quindi anche l’enorme potenziale di crisi che è stato accumulato.
Le peculiarità del lungo differimento della crisi
Politicamente, è stata la progressiva liberalizzazione dei mercati
finanziari trans-nazionali e il definitivo sganciamento del denaro
dall’oro (con il superamento della conversione del dollaro in oro nel
1971 e quindi la fine del sistema regolato dei tassi di cambio), a
rendere possibile questo rinvio incredibilmente lungo della crisi. È
stato infatti solo grazie a ciò che l’offerta globale di denaro è potuta
crescere in modo impensabile rispetto alle crisi precedenti, visto che
prima il
gold standard e i mercati finanziari regolati
nazionalmente ponevano rigide limitazioni. Ma la decisione di abbattere
questi confini non è stato un atto accidentale di una politica che
avrebbe seguito le indicazioni di alcuni potenti gruppi di interesse
6.
Piuttosto seguiva le dinamiche di sviluppo economico degli anni 1950 e
1960, che a poco a poco hanno minato le basi del sistema di
Bretton Woods.
Nella misura in cui l’indiscussa egemonia economica degli Stati Uniti
andava perduta e i costi per il mantenimento della sua posizione
politica e militare mondiale potevano essere finanziati solo da un
crescente debito nazionale (i costi della guerra in Vietnam hanno
giocato qui un ruolo determinante), tassi di cambio fissi e la
dipendenza delle valute dell’occidente alle riserve auree degli Stati
Uniti non erano più sostenibili. Ma con ciò si ponevano anche le
condizioni per una enorme bolla di offerta di moneta con la
partecipazione attiva dei governi, delle banche centrali e degli
organismi finanziari internazionali. Sono stati così pompate dal 1970 e
soprattutto dopo il 1980 grandissime quantità di liquidità non garantite
nei mercati, da una parte attraverso il percorso diretto del debito
pubblico, dall’altra grazie a una politica di “denaro a buon mercato”,
che è una ricetta classica per risolvere le crisi dei mercati
finanziari. Un ruolo centrale hanno svolto qui gli Stati Uniti, i quali
hanno potuto ricorrere all’indebitamento per un lungo periodo senza
timore di dover incorrere in grosse perdite di cambio grazie alla loro
posizione di potenza mondiale, poiché il dollaro ha fattivamente servito
da valuta mondiale (un ruolo che viene ora messo in discussione). Ma
anche gli altri stati occidentali hanno, con il loro indebitamento e le
politiche di creazione di moneta, contribuito in modo significativo a
gonfiare in modo permanente la bolla globale di capitale fittizio, in
questo modo rendendo possibile un ulteriore differimento del crollo.
C’è da considerare, tuttavia, un’altra caratteristica storicamente
importante del lungo ciclo di finanziamento capitalistico che ha preso
inizio negli anni ’70. Essa consiste nel fatto che esso non ha
rappresentato solo un rinvio della crisi del fordismo, ma anche di
quella prodotta dall’enorme spinta produttiva dalla terza rivoluzione
industriale. Secondo i termini di una “normale” crisi da
sovra-accumulazione la violenta trasformazione della produzione sulla
base delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione
avrebbe dovuto causare, se possibile, una ancora più profonda
depressione in tutto il mondo, nel corso della quale tutto l’impianto
economico del dopo guerra sarebbe stato ridotto in macerie. Il lungo
rinvio della crisi utilizzando il capitale fittizio, invece, ha permesso
di limitare questa opera di distruzione e di confinarla in un primo
momento in gran parte nei paesi del Sud del mondo e dell’ex blocco
orientale. Se le strutture fordiste si sono poi sgretolate anche nelle
metropoli occidentali, questo è accaduto entro un processo più lungo,
nel corso del quale la pressione sulle condizioni di lavoro e sui
sistemi sociali è cresciuta costantemente e le strutture produttive sono
state sconvolte a fondo. A seconda della posizione nel mercato mondiale
e della competitività dei diversi paesi, questo processo ha proceduto
in modo diverso, ma la tendenza è stata la stessa ovunque: il settore
industriale è stato razionalizzato in modo drastico con l’aiuto di
applicazioni microelettroniche, e ridotto gradualmente al suo nocciolo
iperproduttivo, mentre le parti della produzione, la cui
automatizzazione non era (ancora) “conveniente”, sono state relegate nei
paesi a basso salario o nell’
outsourcing.
Poiché però al tempo stesso il cosiddetto “terzo settore” (o settore
dei servizi) è diventato sempre più importante ed ha assorbito una
notevole quantità di forza lavoro non più necessaria nel mondo del
lavoro industriale, potrebbe superficialmente sembrare che il
capitalismo abbia solo attraversato l’ennesimo cambiamento strutturale,
che essenzialmente si sarebbe caratterizzato attraverso la sostituzione
del vecchio settore-guida dell’industria con il settore dei servizi e
della “produzione di sapere” e la contemporanea globalizzazione delle
relazioni economiche. Di conseguenza, la stragrande maggioranza degli
osservatori e esperti del settore hanno concordato sul fatto che il
capitalismo abbia ottenuto notevole successo nel superare la crisi degli
anni ’70 e ’80, almeno nelle metropoli occidentali (parola chiave
“crisi della società del lavoro”), anche se al prezzo di un aumento
della precarietà della vita e delle condizioni di lavoro per ampie fasce
della popolazione – fatto che è stato letto, in base alle posizioni
politiche, come inevitabile, oppure denunciato come risultato,
suscettibile di revisione, delle politiche neoliberiste. Da tutte le
parti, tuttavia, la diagnosi che vedeva in tutto ciò un processo
irreversibile di crisi è stata giudicata assurda e irragionevole. “Basta
guardare come il capitalismo è vivo e vegeto”, si leggeva – di volta in
volta con posizioni di giubilo, critiche o rassegnate – con riferimento
alle plusvalenze spumanti, soprattutto negli ultimi anni.
L’attuale crisi finanziaria, tuttavia, sottolinea chiaramente come
tale valutazione fosse fondamentalmente sbagliata. E questo non a causa
di speculazioni che avrebbero distrutto una struttura economica di per
sé valida (come nella campagna contro le “locuste” viene sempre
sostenuto), ma perché la struttura che si è evoluta nel corso degli
ultimi venticinque-trenta anni non può rappresentare una base per un
nuovo
boom di accumulazione del capitale. Al contrario, essa è
rimasta in vita proprio perché si è nutrita in modo permanente dei
flussi del capitale fittizio (e ancora adesso ne è alimentata). Una
nuovo
boom richiederebbe, sulla via di una crescita continua,
che venisse utilizzata sempre più forza-lavoro nella produzione di merci
al necessario livello di produttività, perché solo attraverso ciò può
aumentare la massa del valore e il circolo “Denaro-Merce-più Denaro”
essere costantemente mantenuto. Visto dal lato della domanda, ciò
significa che in ogni periodo si creano guadagni sufficienti solo se
viene venduta la merce prodotta nel periodo precedente. Proprio questi
presupposti però non si danno più sotto le condizioni della Terza
Rivoluzione Industriale. La razionalizzazione sulla base delle nuove
tecnologie dell’informazione e della comunicazione solca con un ritmo
infernale tutti i settori dell’economia in tutte le sue branche, tale da
rendere nel suo insieme superfluo un numero sempre maggiore di
forza-lavoro, in quanto non necessario per la crescita del momento. Con
ciò però non solo il processo di valorizzazione recide in modo
permanente la domanda, a cui ha delegato di realizzare nel mercato il
valore prodotto. Ancora più radicalmente ne compromette definitivamente
il fondamento più proprio
7. In quanto la rivoluzione
microelettronica produce una sorta di crisi da sovraccumulazione
permanente, questo significa che crea incessantemente un surplus di
capitale produttivo non più valorizzabile, che deve rifugiarsi nella
sfera del capitale fittizio, contribuendo quindi in modo molto
significativo alla crescita esponenziale della bolla finanziaria.
Crisi? Quale crisi?
Contro questa diagnosi viene spesso sostenuto che sono stati tuttavia
creati, negli ultimi decenni, milioni di nuovi posti di lavoro nei
paesi ex-periferici, soprattutto nei paesi dell’Est e Sud-Est asiatico, e
quindi la base della produzione di valore è cresciuta, non diminuita.
Ma questo argomento non tiene conto di due cose fondamentali. In primo
luogo, la grande massa del lavoro industriale in questi paesi viene
eseguita ad un livello molto basso di produttività e, quindi, in
rapporto al livello mondiale standard di automazione e razionalizzazione
industriale richiesto sul mercato, rappresenta solo una percentuale
molto piccola di valore. Questo perché dal punto di vista della
produzione di valore non conta il mero numero di ore fatte, quanto
piuttosto la quota di valore di una merce, quota definita dal livello di
produttività socialmente già raggiunto
8. Poiché esso nei
segmenti chiave del mercato mondiale della produzione aumenta in modo
permanente, le fasi della produzione di lavoro sotto-produttivo
esternalizzato restano anch’esse permanentemente sotto-valorizzate.
Pertanto, l’
outsourcing in termini di
business è sostenibile solo fino a quando si mantengono salari sempre più bassi e condizioni di lavoro peggiorative
9.
E questa è a sua volta la ragione per la quale l’attuale spinta alla
razionalizzazione non porta ad una riduzione generale dell’orario di
lavoro e ad una buona vita per tutti (ancora una volta non si apre
spazio per un relativo miglioramento delle condizioni di vita
all’interno della società capitalista), ma ad un impoverimento sociale e
umano di massa.
In secondo luogo, inoltre, il
boom in Cina, India e altri
“mercati emergenti” è di per sé ben lungi dall’essere autosufficiente:
esso dipende totalmente dalla creazione di fondi speculativi e creditizi
sui mercati finanziari transnazionali. È ben noto come l’intera
struttura economica di questi paesi sia stata progettata per
l’esportazione di massa in primo luogo negli Stati Uniti e nell’Unione
europea, i quali a loro volta finanziano le loro importazioni in larga
misura con gli afflussi di capitali speculativi e di credito.
Paradigmatico in questo senso è il
deficit circolatorio del
Pacifico, cioè tra Stati Uniti e Asia orientale, che fin dai tempi
dell’amministrazione Reagan è diventato il motore centrale
dell’economica mondiale. Il suo meccanismo di funzionamento è
fondamentalmente molto semplice: il crescente disavanzo commerciale
viene coperto da una altrettanto crescente importazione di capitali
finanziari, che vengono in parte coperti attraverso la via diretta della
spesa pubblica finanziata con il credito (“
deficit gemelli”),
in parte attraverso il giro del sistema privato della finanza che viene
reintrodotto nel circolo del consumo. I flussi di denaro provengono però
in gran parte dai paesi asiatici (soprattutto inizialmente Giappone,
ora sempre più Cina) i quali investono le loro vendite nel settore
finanziario degli Stati Uniti o creano riserve in valuta estera in
dollari, finanziando così il loro stesso export. Nell’era Reagan,
inizialmente, era il gigantesco debito statale a funzionare da motore
per il consumo, poi lo divenne sempre più la speculazione sulla carta – a
quel tempo, nella cosiddetta
“new economy”, non pochi
investitori privati finanziarono una parte del loro consumo grazie a
enormi aumenti dei prezzi sul “nuovo mercato”. E negli ultimi anni, il
centro focale si è infine spostato verso la speculazione immobiliare.
Tuttavia, questo circuito funziona solo fino a quando il dollaro
statunitense gode della fiducia necessaria, in modo che sempre nuovo
capitale finanziario affluisca per finanziare il
deficit permanente.
Questa crisi finanziaria si distingue però per il fatto che la fiducia
viene a mancare in misura crescente (come mostra la caduta del corso del
dollaro). Se il governo americano e la
Fed non dovessero riuscire ad invertire questa tendenza, la circolazione del
deficit del
Pacifico arriverebbe a un punto morto, e questo avrebbe per l’economia
mondiale all’incirca lo stesso significato che il prosciugamento della
Corrente del Golfo per il clima mondiale. È comunque anti-americanismo
spicciolo, a fronte di questo scenario di pericolo, che in Europa si
innalzino ora sempre più voci per denunciare con indignazione gli Stati
Uniti che avrebbero “vissuto a spese del resto del mondo”, con il loro
“consumo improduttivo” finanziato dal credito
10, e che
vorrebbero ora anche precipitare l’economia mondiale nella crisi. Si
riproducono qui una volta di più le divisioni ideologiche fra capitale
creditizio “parassitario” e onesto capitale produttivo – e, almeno in
Europa, questi schemi dell’ideologia anti-americana sono sempre stati
pericolosamente vicini all’antisemitismo – ma soprattutto viene qui
completamente capovolto il contesto reale. Perché, da un lato, i paesi
europei hanno beneficiato in forte misura della domanda finanziata con
il credito proveniente dagli Stati Uniti, in particolare l’industria
tedesca che sarebbe già da lungo tempo a terra senza le ingenti
esportazioni oltre Atlantico, dall’altro il debito pubblico in Europa
rivaleggia con quello statunitense. E anche per la speculazione non
siamo rimasti indietro: negli ultimi anni c’è stato, principalmente in
Europa meridionale, un massiccio boom speculativo sui mercati dei beni
immobili, che ora sta implodendo. Vista nel suo complesso, l’intera
economia mondiale capitalistica è appesa al filo del capitale fittizio,
poiché l’economia reale non sta più in piedi.
È pertanto completamente assurdo che i commentatori di tutti i
giornali, da sinistra a destra, accusino oggi la banca centrale Usa di
aver alimentato la speculazione immobiliare attraverso la sua politica
dei tassi a basso interesse, per cui sarebbe quindi responsabile
dell’attuale crisi finanziaria. Ciò che ha fatto la
Fed, dopo il crollo della
New Economy, è
semplicemete evitare che già in quel momento crollasse la gigantesca
valanga dei mercati finanziari. Ha così ancora una volta ritardato la
crisi di sette-otto anni e con ciò reso possibile, fra altro, la famosa
“ripresa” di cui oggi tutti i politici si vantano. Se quindi proprio si
volessero utilizzare categorie morali in questo contesto, si dovrebbe
esser grati alla
Fed e al governo degli Stati Uniti per aver
dato all’economia mondiale, attraverso la loro politica monetaria
espansiva, ancora una volta un po’ di fiato. Ma la gratitudine è qui
ovviamente inappropriata, come lo è un atto d’accusa morale. Piuttosto, è
necessario in primo luogo rendersi conto che la crisi dei mercati
finanziari non ha le proprie cause nella speculazione, ma in una crisi
strutturale fondamentale della riproduzione capitalistica. Questa
consapevolezza ha implicazioni di vasta portata per i conflitti sociali
del prossimo futuro.
Un altro rinvio della crisi …
Non è possibile prevedere con sicurezza quale ulteriore corso la
crisi potrà prendere. Attualmente non è chiaro se le banche centrali e i
governi unendo le forze potranno nuovamente rimandare, grazie ai
mercati finanziari, il
mega-crash, con i suoi effetti
devastanti per il mondo intero. Se dovessero avere successo, questo
comporterebbe, tuttavia, solo il rigonfiamento di una ennesima bolla
finanziaria. Ciò sarebbe una beffa per tutti coloro che vedono nel
controllo dei mercati finanziari la soluzione del problema, richiesta
questa che, fra l’altro, proviene un po’ da tutte le parti, anche da
coloro che fino ad oggi erano inflessibili neo-liberali – secondo il
motto: “Che me ne importa di quello che dicevo ieri”. Ma, in pratica,
questo intervento dello Stato equivarrebbe all’esatto contrario: in
sostanza, a limitare i danni diretti derivanti dallo scoppio della bolla
immobiliare. È significativo che persino il socialdemocratico populista
Lafontaine si prodighi per un aiuto statale per le banche in
difficoltà: perché sa che un collasso del sistema bancario avrebbe
conseguenze devastanti per la società nel suo complesso
11.
Naturalmente ha poi doverosamente richiesto che le banche e gli attori
del mercato finanziario siano controllati meglio. Ma questa è pura
retorica, perché i crediti inesigibili del presente potranno – se mai lo
saranno – esser compensati solo attraverso futuri utili finanziari. Non
fa alcuna differenza in linea di principio quindi, che l’attore dei
mercati finanziari sia pubblico o privato, perché entrambi sono
ugualmente soggetti all’obbligo di gestire il “loro” capitale con
profitto, e questo, sotto le permanenti condizioni di
sovra-accumulazione, può accadere solo nel settore del credito e della
speculazione
12, visto che i margini per una reale
valorizzazione del capitale restano chiusi. Che questo sia riconosciuto o
meno è uguale, nei fatti le cose stanno così. I governi e le banche
centrali continueranno pertanto ad essere niente di più che casse ancora
una volta da spalancare. Governo Usa e
Fed sono già su questa strada
13.
La politica poi è sempre limitata nelle sue azioni dal vincolo di non
poter toccare la logica funzionale del capitalismo in quanto tale. Per
sua natura essa politica, in quanto gestione degli affari pubblici,
resta chiusa all’interno di questa logica. I margini della politica si
sono sì modificati nel corso della storia. Sono stati però sempre
strutturati e vincolati da uno specifico quanto storico spazio di
possibilità, che a sua volta dipende dalle cieche dinamiche di sviluppo
capitalistico. All’interno di questo spazio le decisioni e le scelte
politiche derivano dalla combinazione di vari fattori quali i rapporti
sociali di forza, le costellazioni di potere internazionali o il divario
di competitività nel mercato globale. L’insieme del telaio di questo
spazio si trova perciò al di là della portata della politica. Ciò vale
anche per l’oggi tanto glorificato fordismo. Nonostante il potenziale di
regolazione relativamente grande la politica del
boom fordista
ha, in quel periodo, potuto fare veramente poco per impedire la sua
fine. Essa poteva infatti influenzare solo fino a un certo punto il suo
corso interno e utilizzare i margini di distribuzione esistenti per la
costruzione di una vasta infrastruttura sociale. Nell’epoca della crisi
gobale capitalistica essa ne rappresenta uno specchio efficace. La
politica non può realmente combattere il capitale fittizio, poiché il
rigonfiamento costante della bolla del credito e della speculazione è il
prerequisito per la precaria tregua della crisi e determina perciò
anche lo spazio e i confini del suo agire. Per questo essa deve fare di
tutto per mantenere questi prerequisiti il più a lungo possibile, e ciò
determina, oltre a misure di politica monetaria, anche il progressivo
impoverimento dei beni “pubblici”, che vengono gettati nelle fiamme
dello sfruttamento privato al fine di poter mantenere la macchina
capitalista in corsa ancora per un po’
14.
È quindi completamente al di fuori delle possibilità della politica
fermare la dinamica della crisi del capitalismo in quanto tale.
Piuttosto, essa contribuisce, attraverso le sue azioni, a portare la
riproduzione costante delle contraddizioni di fondo del processo di
crisi a livelli sempre più alti. Mentre la massa di capitale fittizio,
che deve essere protetta contro la svalorizzazione, cresce in modo
esponenziale (come mostra uno sguardo alla crescita dei mercati
finanziari), aumenta, con ogni fase di rinvio della crisi, la pressione
sulla società e sulla gran massa della popolazione, che si trova
costretta a vendersi in condizioni sempre più precarie. Di conseguenza, i
costi sociali di un nuovo rinvio della grande crisi finanziaria sono di
grande rilievo. In primo luogo è da prevedere un conseguente crollo
congiunturale, che, contrariamente al presunto “sviluppo”, arriverà con
certezza. In secondo luogo, il rigonfiamento della massa monetaria
dovrebbe portare ad un ulteriore accelerazione dell’inflazione, e quindi
un ulteriore deterioramento del potere generale d’acquisto, già in
costante diminuzione. E, infine, la prossima ondata di speculazione,
presumibilmente, si rivolgerà alle materie prime, i prodotti alimentari e
i carburanti agricoli ed avrà quindi dirette conseguenze, del tutto
catastrofiche, per gran parte della popolazione mondiale. Anche i
tremendi rialzi dei prezzi per i prodotti alimentari negli ultimi due
anni sono stati causati in larga misura dal fatto che sempre più
speculatori hanno investito i loro capitali in quei settori. Se questa
tendenza si rafforzasse, darebbe luogo a una vera e propria esplosione
dei prezzi, che moltiplicherebbe come conseguenza inevitabile la fame
nel mondo.
Anche in questo caso tuttavia non sarebbe la bolla del capitale
fittizio la causa della catastrofe, ma fungerebbe (come nel caso delle
privatizzazioni) come mediatore e cinghia di trasmissione del processo
di crisi e della sua immanente tendenza a escludere e precarizzare.
Esiste quindi il forte rischio che il nuovo risentimento generato si
diriga ancora una volta contro l’immagine di un “avido” capitale
finanziario, che viene incolpato della miseria dilagante. Diventa allora
importante contrapporsi a questa “critica del capitalismo” rovesciata,
che con le sue posizioni dà il fianco all’antisemitismo. Ciò richiede
tuttavia, accanto alla necessaria critica dell’ideologia, un’analisi
approfondita e fondata della crisi, che sottragga terreno alla
percezione sbagliata delle relazioni capitalistiche. Naturalmente questo
non significa escludere i mercati finanziari e la speculazione dalla
critica. Ma essi devono sempre essere compresi come parte di una più
radicale crisi del capitalismo, che si dà come processo complessivo di
distruzione su vasta scala dei fondamenti sociali e naturali della vita.
Questa critica è da rivolgere anche contro la concezione, in parte
nostalgica e in parte populista, che ripropone le politiche keynesiane
di crescita e regolazione. In fondo anche gli stessi propagandisti di
queste politiche sanno che, alle circostanze attuali, non hanno più
alcun spazio reale. Questo viene dimostrato regolarmente là ogni qual
volta sono i partiti di “sinistra”, con programmi simili a tutti gli
altri, a governare e di fatto realizzano l’esatto contrario di quanto
promesso, sia che si tratti del governo della città di Berlino non meno
che della passata “coalizione di centro-sinistra” in Italia o del
governo Lula in Brasile. In modo assurdo, anche gli “elettori” non sono
in gran parte solo creduloni e facilmente “ingannati”, ma vista
l’assenza di prospettive spesso vogliono essi stessi credere che sia
possibile un ritorno allo stato di benessere keynesiano del dopoguerra,
anche se ognuno in realtà intuisce che questo non è più possibile. Tutto
ciò rende lo stato d’animo generale schizofrenico, tanto che per
esempio è possibile in Germania un ampio sostegno sociale alle classiche
rivendicazioni democratiche (salario minimo generale, no alle
privatizzazioni etc) e al tempo stesso elevati livelli di simpatia per
il governo Merkel. Il problema è che questo stato d’animo, nei suoi
tentennamenti fra immanenti quanto irrealizzabili desideri e una
accettazione acritica della struttura logica capitalista, diviene
altamente vulnerabile alla individuazione di capri espiatori, siano essi
i fondi speculativi (
Hedge Funds), il governo degli Stati Uniti o le grandi imprese o – in ultima delirante conseguenza – “gli ebrei”.
Può sembrare paradossale, ma se non ci si vuole sottomettere alla
“Realpolitik”
ed a i suoi “credo” è indispensabile identificare chiaramente i limiti
delle possibilità della politica nel periodo attuale di crisi
capitalistica. Non per darle un riconoscimento, ma come base necessaria
per l’orientamento dei movimenti sociali e di quelle parti dei sindacati
che si contrappongono al depauperamento sociale sistematico, alla
progressiva dequalificazione di tutte le aree della vita, alla
precarietà e al controllo che l’accompagnano, e alla repressione.
Lasciare che i movimenti si impegnino in illusorie prospettive politiche
e nelle politiche di partito, significa solo neutralizzarli
15.
Coalizzarsi invece per collegare le lotte oltre i confini degli
interessi particolari, le relazioni di vita frammentate e le identità
separate, potrebbe riuscire a superare la perdita di solidarietà causata
dalla pressione della crisi e formare un contrappeso sociale che si
opponga con successo alla demolizione neoliberista e alla sua politica
di esclusione, e insieme ponga di nuovo il superamento della logica
capitalistica nel regno del possibile.
… O la crisi dell’economia mondiale?
Dovesse tuttavia fallire il rinvio della recente crisi, saremmo
minacciati da una crisi economica globale di proporzioni enormi, in cui
si scaricherebbero i potenziali di crisi accumulati in trent’anni. Il
risultato immediato sarebbe un crollo massiccio di aziende e banche,
presumibilmente accompagnato da un violento aumento dell’inflazione. Non
ci vuole grande fantasia per immaginare l’impatto devastante di questa
mega-stagflazione sulle finanze dello Stato, sui sistemi sociali e sulle
condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione. È
molto probabile che in queste condizioni guadagnerebbe consenso
un’ideologia nazional-populista di gestione delle crisi, come in effetti
già da tempo viene propagata, e non solo dalla parte di destra dello
spettro politico. Ad esempio, quando il giornalista di “sinistra” Jürgen
Elsässer (che scrive sul
Neues Deutschland) chiama ad un
“Fronte Popolare Nazionale” contro il capitale globalizzato e,
soprattutto, contro il capitale finanziario (che egli – che sorpresa –
individua principalmente negli Stati Uniti), questo può lì per lì solo
sembrare un’esternazione dettata dalla sovraeccitazione. Essa
rappresenta, invece, una tendenza che spinge verso una preclusione
aggressiva e nazionalistica nel contronti dell’esterno e verso un
disciplinamento autoritario all’interno, al tempo stesso promuovendo
sentimenti anti-semitici. È vero che, anche sotto l’aspetto della mera
gestione delle crisi, dati i forti legami economici transnazionali, un
ritorno a un ben delimitato stato-nazione è quasi impensabile. Più
probabile è una disgregazione dell’economia mondiale in blocchi
continentali, uno scenario che negli apparati del potere politico e nei
Think Tanks
viene considerato già da lungo tempo. Una forte spinta in questa
direzione potrebbe essere il prevedibile crollo del dollaro e la
conseguente perdita della sua funzione di moneta mondiale
16.
Un tale scenario non rappresenta certo una soluzione alla crisi nel
vero senso della parola, ma solo una forma di gestione delle emergenze.
In nessun caso questo tentativo potrebbe avrebbe il carattere di un
“ripulimento” della crisi, con il quale venisse creata, spazzando via
sovracapacità e titoli tossici, la base per una nuova accumulazione
sostenibile. Perché la vera causa della crisi, cioè l’espulsione di
forza-lavoro viva dalla produzione diretta attraverso dallo spostamento
delle forze produttive sul terreno del sapere generale sociale, e con
ciò l’erosione della produzione di valore, non sarebbe stata rimossa.
Anche successivamente ogni produzione dovrebbe ripartire dal livello
tecnologico di produttività raggiunto, o comunque misurarsi in base ad
esso, mentre la gara della produttività continuerebbe. Ad un livello
inferiore di produzione di valore si riproporrebbe immediatamente la
situazione di costante sovraccumulo, inclusa necessariamente una nuova
bolla di capitale fittizio. Con ciò si arriverebbe solo ad una
riproduzione delle contraddizioni della recente crisi,
significativamente aggravata dalle condizioni economiche e sociali. La
domanda cruciale allora è se si può sviluppare, dalla resistenza contro
la gravità del processo di crisi, un movimento globale di emancipazione,
che faccia emergenere un programma pratico di appropriazione dei legami
sociali al di là della logica dello sfruttamento capitalistico.
Trad. a cura di Cybergodz
____________________________________________
Note
1 http://wipo.verdi.de/broschueren/finanzkapitalismus
2 www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten_wipo.pdf
3 Sulla citata broschure dei Ver.di “capitalismo finanziario =
cupidigia allo stato puro” cfr.. Lothar Galow-Bergemann: “Gegen
Börsenungeziefer” [contro i parassiti delle borse] apparso su Streifzüge
42/ 2008
(http://www.streifzuege.org/2008/gegen-boersenungeziefer#more-492)
oppure la critica del capitale finanziario presente in
www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten.html a cura dei
Ver.di di Stuttgart
4 Cfr. per esempio il mio articolo apparso sul numero 32/ 2004 di
Streifzüge “Entsorgung nach der Art des Hauses” [smaltimento fatto in
casa] –
http://www.streifzuege.org/2004/entsorgung-nach-art-des-hauses#more-351
5 Cfr. per esempo l’ottima analisi proposta in Elmar Altvater,
Volkhard Brandes, Jochen Reiche (Hrsg.): “Handbuch 4. Inflation –
Akkumulation – Krise II” [manuale vol.4. Inflazione – Accumulazione -
Crisi], Frankfurt/M. 1976
6 Per una rappresentazione grottesca ed esasperata della tesi secondo
la quale il superamento del gold-standard sia da attribuire ad una
scelta volontaria, cfr Jürgen Elsässer: „1971 verkündigte US-Präsident
Richard Nixon in einer Nacht- und Nebelaktion das Ende der
Goldumtauschpflicht für den Dollar. Seither zersetzt sich die
ökonomische Grundlage des Kapitalismus sukzessive“ [nel 1971, il
presidente Nixon annunciò in un colpo la fine del cambio obbligatorio in
oro per il dollaro: da allora, si sono distrutti i fondamenti economici
del successivo capitalismo] in: Solidarität – Sozialistische Zeitung,
Nr. 57, 4.5.2007.
7 Le statistiche economiche mostrano come oggi sia necessaria una
crescita del PIL molto più alta rispetto agli anni ’70 per creare dei
posti di lavoro. L’analisi statistica tuttavia si muove ancora entro un
quadro molto ottimistico, considerando semplicemente una contabilità dei
posti di lavoro senza domandarsi se essi contribuiscano alla produzione
di valore o meno (questione che le statistiche economiche escludono a
priori). Per la maggior parte dei servizi, così come per la “produzione
di sapere”, non vi è produzione di valore [su ciò cfr. Samol: Arbeit
ohne Wert [lavoro senza valore], Lohoff: Der Wert des Wissens (il valore
del sapere), und Meretz: Der Kampf um die Warenform [la lotta per la
forma-merce], in Krisis 31/2007]. In tal senso, la crescita del
terziario non può compensare la secolare tendenza a liquefarsi della
sostanza del lavoro e del valor1
http://wipo.verdi.de/broschueren/finanzkapitalismus
2 www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten_wipo.pdf
3 Sulla citata broschure dei Ver.di “capitalismo finanziario =
cupidigia allo stato puro” cfr.. Lothar Galow-Bergemann: “Gegen
Börsenungeziefer” [contro i parassiti delle borse] apparso su Streifzüge
42/ 2008
(http://www.streifzuege.org/2008/gegen-boersenungeziefer#more-492)
oppure la critica del capitale finanziario presente in
www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten.html a cura dei
Ver.di di Stuttgart
4 Cfr. per esempio il mio articolo apparso sul numero 32/ 2004 di
Streifzüge “Entsorgung nach der Art des Hauses” [smaltimento fatto in
casa] –
http://www.streifzuege.org/2004/entsorgung-nach-art-des-hauses#more-351
5 Cfr. per esempo l’ottima analisi proposta in Elmar Altvater,
Volkhard Brandes, Jochen Reiche (Hrsg.): “Handbuch 4. Inflation –
Akkumulation – Krise II” [manuale vol.4. Inflazione – Accumulazione -
Crisi], Frankfurt/M. 1976
6 Per una rappresentazione grottesca ed esasperata della tesi secondo
la quale il superamento del gold-standard sia da attribuire ad una
scelta volontaria, cfr Jürgen Elsässer: „1971 verkündigte US-Präsident
Richard Nixon in einer Nacht- und Nebelaktion das Ende der
Goldumtauschpflicht für den Dollar. Seither zersetzt sich die
ökonomische Grundlage des Kapitalismus sukzessive“ [nel 1971, il
presidente Nixon annunciò in un colpo la fine del cambio obbligatorio in
oro per il dollaro: da allora, si sono distrutti i fondamenti economici
del successivo capitalismo] in: Solidarität – Sozialistische Zeitung,
Nr. 57, 4.5.2007.
7 Le statistiche economiche mostrano come oggi sia necessaria una
crescita del PIL molto più alta rispetto agli anni ’70 per creare dei
posti di lavoro. L’analisi statistica tuttavia si muove ancora entro un
quadro molto ottimistico, considerando semplicemente una contabilità dei
posti di lavoro senza domandarsi se essi contribuiscano alla produzione
di valore o meno (questione che le statistiche economiche escludono a
priori). Per la maggior parte dei servizi, così come per la “produzione
di sapere”, non vi è produzione di valore [su ciò cfr. Samol: Arbeit
ohne Wert [lavoro senza valore], Lohoff: Der Wert des Wissens (il valore
del sapere), und Meretz: Der Kampf um die Warenform [la lotta per la
forma-merce], in Krisis 31/2007]. In tal senso, la crescita del
terziario non può compensare la secolare tendenza a liquefarsi della
sostanza del lavoro e del valore
8 Su ciò è bene ricordare quanto Marx, a questo proposito, riferisce
nel primo libro del Capitale: “potrebbe sembrare che, se il valore di
una merce è determinato dalla quantità di lavoro impiegato durante la
sua produzione, più un uomo è pigro o goffo, più preziosa è la merce che
egli produce, visto che ha bisogno di più tempo per la sua
preparazione. Il lavoro tuttavia, che costituisce la sostanza del
valore, è sempre lo stesso lavoro umano, dispendio della stessa
forza-lavoro umana. La forza-lavoro totale della società, che si
manifesta come valore nel mondo delle merci, vale qui come una e stessa
forza-lavoro umana, sebbene sia composta da innumerevoli singoli
lavoratori. … Dopo l’introduzione del telaio a vapore in Inghilterra,
per esempio, era forse sufficiente metà del lavoro prima impiegato per
trasformare una data quantità di filato in tessuto. I tessitori inglesi
lavoravano però tanto tempo quanto prima, ma il prodotto delle loro ore
di lavoro individuali rappresentava ora solo una mezz’ora sociale di
lavoro, ed era quindi sceso a metà del suo valore precedente. “(MEW 23,
pag .53; it.pag.30, Newton Compton ed.,1979. La traduzione qui è
leggermente ritoccata)
9 Cfr. Norbert Trenkle: Es rettet euch kein Billiglohn [non vi
salverà neanche il salario basso] in: Kurz, Lohoff, Trenkle (Hrsg.)
Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit [Facciamo festa! Undici
attacchi contro il lavoro], Hamburg 1999 –
http://www.krisis.org/navi/feierabend-elf-attacken-gegen-die-arbeit
10 Scrive Elmar Altvater: “I cittadini statunitensi possono tenere un
elevato standard di consumo, il famoso “stile di vita americano”,
sebbene essi siano profondamente indebitati … Ciò richiede, in primo
luogo, un elevato tasso di risparmio in altre regioni del mondo, che
consenta agli Stati Uniti e ai suoi cittadini di oltrepassare i limiti.
In secondo luogo, che i mercati finanziari funzionano in modo che i
risparmi del mondo vengono convogliati negli Stati Uniti “((Elmar
Altvater: Das Ende des Kapitalismus – so wie wir ihn kennen, Münster
2005, S. 135 [La fine del capitalismo per come noi lo conosciamo],
Münster 2005, p 135)
11 Lafontaine ha ironicamente accusato Josef Ackermann di esser
diventato di sinistra, poiché questi di fronte alla crisi finanziaria
sosteneva l’intervento dello Stato nel sistema bancario (Netzeitung,
20.3.2008). Di fatto questo mostra come, per quanto riguarda la gestione
della crisi, tutti i partiti si trovino allineati.
12 È quindi anche ridicolo che oggi le banche siano criticate per le
loro perdite da speculazione immobiliare. Hanno fatto solo quello che,
nel boom speculativo, ci si aspettava da esse, ovvero di mettere i
“loro” soldi a profitto. Se non lo avessero fatto, sarebbero certamente
stati attaccati dagli “esperti” per la loro “eccessiva cautela”, gli
stessi che ora, a fronte delle alte perdite, gridano allo “scandalo”.
13 Tuttavia, si deve registrare anche un conflitto di interessi tra
gli Stati Uniti e l’Unione europea, di cui la crisi potrebbe accelerare
lo slancio. Mentre gli Stati Uniti, come al solito, hanno penalizzato i
tassi di interesse, e hanno creato in poco tempo un pacchetto di aiuti
governativi del valore di circa 150 miliardi di dollari, i governi
europei e la BCE mettono in primo piano la lotta all’inflazione e si
rifiutano perciò di abbassare gli interessi. Qui, l’argomento un po’
stupido che viene utilizzato è che la crisi è negli Stati Uniti, mentre
in Europa l’economia è stabile, come se le due economie non fossero
legate strettamente. In realtà, tutto questo potrebbe causare un ancora
più forte crash del dollaro, che potrebbe far perdere agli USA il loro
ruolo di motore del consumo nell’economia globale. Allora il legame tra
BCE e UE, ora rimosso, si imporrebbe certamente in modo violento
14 Per l’analisi di questo meccanismo, cfr. Ernst Lohoff: Out of Area – Out of Control, in: Streifzüge Nr. 31 e 32, Wien 2004
15 Così, ad esempio, come è successo per gran parte del movimento
italiano anti-globalizzazione e per i social forum che si sono lasciati
confluire nel partito “Rifondazione” e sono stati quindi costretti a
sostenere il governo Prodi, almeno indirettamente. In questo modo hanno
perso la loro capacità di mobilitare e sono ora di fronte a un disastro
politico…
16 In certi ambienti economici si discute seriamente di un ritorno al
gold standard, ciò che fra le altre cose porterebbe ad una completa
svalutazione dei dollari accumulati negli ultimi decenni. “Se tutto va a
catafascio e nessuno più vuole avere il dollaro debole, l’America tagli
la sua valuta e la leghi all’oro accumulato in Fort Knox. Il resto del
mondo, che attraverso l’acquisto di valuta statunitense ha finanziato la
mcchina-da-debito statunitense, rimarebbe con un palmo di naso”
(Wirtschaftswoche 18.2.2008, p 134).
FONTE:
www.krisis.org/