Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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domenica, ottobre 20, 2019

Charles Manson vive!

Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi.”(Col. Kurtz)
“-Ei Charles ma che fine hai fatto?!"Figlio mi mancavi!”

L'amore più profondo è l'amore nascosto. Una poesia dice: «Alla mia morte dal fumo conoscerai il mio amore, mai espresso e tenuto celato nel mio cuore». #hagakure #ghostdog 


PS: Una dedica a chi mi ha sfiorato l'anima in questi mesi che valgono anni.



“Dentro, ti sento dentro ad ogni parte di me
e sai che non ho scelto
Dentro, ti sento dentro ad ogni parte di me
e sai che non ho scelto” Ella Nadi Dentro

Le ultime ore del giorno 7 settembre 2018 le ho passato pensando di morire. Morire come il Coraggioso in un snuff movie che assomiglia tanto alla mia vita. Morire sotto i proiettili del fuoco nemico la razza umana. E mi sono messo nel frangente della battaglia in trincea a leggere passi dal Hagakure che non comprendevo e vecchi articoli del anarchico Renzo Novatore /(Le rose dove sono le rose?!) che invece mi illuminavano e avevo scelto di non scegliere quindi resistevo all'ondata che nel mio cervello si abbatteva e sognavo delirando una vita normale. Sognavo l'amore.
La mattinata successiva un flash back come quello che da l'acido lisergico, nella notte in una stanza in una casa maledetta della capitale la casa di un eminenza grigia che tiene sotto scatto l'intero Paese, lo stato d’eccezione comprato al mercato del lunedì. Ero insieme a mio figlio in quel allucinazione e c'è stata la rivincita dei perdenti. E stato un massacro come quello che facevano i pellerossa per vendicare la loro estinzione da parte dei visi pallidi. IL rosso era tutto rosso, le pareti, i letti i mobili il rosso il colore che da la vita perché è quello del sangue. E noi due come vampiri abbiamo bevuto il sangue del capo, caprone della mafia di Stato. Una strage? Si direbbe ma invece è stato un happening di allegri burloni che una volta urlavano serietà nemmeno per scherzo. E’ stata anche una cerimonia antica dettata dalla vecchia religione usurpata e oltraggiata dai frankisti per decenni che sembrano secoli. Un sacrificio umano per i nostri Dei. E’ stata anche giustizia per noi ultimi pariah che quando camminavamo volevamo realizzare un sogno, una favola un illusione comune.
La fine del racconto è come l’inizio della fine.


PS: i ritorni #battistipanella avevo deciso di togliere questo post per chiedere scusa ad una persona ma ho capito che il mercato delle indulge è ancora in piedi e oltre non guadarsi le spalle e non nascondersi bisogna dire il vero come raccontava Socrate ai suoi astanti.

IL suicidio per Giovanna d’Arco in un Tweet e Curre curre guaglió a Gomorra!

La morte mi vuole? Io voglio la morte, ecco il solo modo di restare all'epicentro di se stessi, padroni della propria rotta. Attori di uno spettacolo teatrale dove almeno l'ultima replica sarà siglata con il proprio nome.
Vivere va bene, ma per fare cosa? Vivere per vivere? Niente sembra più stupido.
Morire bene piuttosto che vivere male , godere di una morte volontaria e non subire una vita costretti a letto. E’ meglio morire per amore di una vita nobile che vivere preferendo una morte ignobile.
M. Onfray Il corpo incantato
- Senza volerlo ti ho cercata pensavo?! Senza volerlo … In realtà mi stavi aspettando da una vita insieme a tutta l'armata (delle tenebre). E dalle tenebre hai visto Gesù. Volevi distruggere un corpo senza organi, uno scherzo del destino, un demone della negazione o forse per te un semplice perdente, fallito su tutta la linea di condotta, che si lamenta sempre contro tutto quello in cui credi, i tuoi valori il tuo sogno lo Stato d'eccezione. Ma viviamo già in una democrazia sospesa cosa vorresti di più? Si lo so essere una lobbista.
- Io ho perso la testa per te Giovanna d'Arco, e ogni tweet per me era un bacio, una carezza nei capelli era amore e tralasciavo tutto le tue parole e frasi di disprezzo per gli ultimi e il politicamente corretto.
- Io ho perso la testa per te Giovanna d'Arco e quando ho capito che non bastavano i miei sogni virtuali e artificiali forse un contatto ESP dove ti vedevo nuda accanto a me e parlavi e parlavi “ Sei un fallito”. Non ho pensato al suicidio come pensavi ho avuto una grande crisi d'ansia libera e due attacchi di panico giganteschi dove ho combattuto come gli antichi guerrieri Sumeri per la vita e la morte della mia famiglia.
-Io ho perso la testa e non solo quella, Giovanna d'Arco,  ma la differenza con l'Amica  è che per te non avrei fatto il salto nel vuoto sotto le rotaie di un treno.  Anche lei mi aveva distrutto con le parole io che la pensavo diversa un eccezione. La voce di quella contro società che ho frequentato come un alieno tanti anni fa e cacciato come un cane rabbioso un appestato, che dagli anni 80 si è diluita nel frankismo e nelle sue regalie ed oggi dove non esiste ne più Ordine ne Finanziere ne Lobby si allea col la malavita organizzata aspettando il salario criminale e perdendo per sempre la dignità. Vendendo la propria storia di lotte a Gomorra.
  • Passo e chiudo e saluto chi nonostante tutto cerca un abbraccio col mostro. Il mostro della laguna nera. Saluto quelle persone che hanno tentato di aiutarmi e non solo anche chi non  c'è più…
«Mentre il marxismo tradizionale si è sempre limitato a chiedere una diversa distribuzione dei frutti di questo modo di produzione, la critica del valore ha cominciato a mettere in discussione il modo stesso di produzione» 

Anselm Jappe

venerdì, marzo 13, 2015

Ernst Lohoff La crisi della teoria della rivoluzione

di Ernst Lohoff
1. La crisi della teoria della rivoluzione 

Alla società borghese moderna riesce ogni giorno più difficile assicurare la propria riproduzione. A partire dal rapporto del Club of Rome nei primi anni settanta, si è andata largamente diffondendo, anche nella coscienza quotidiana, la consapevolezza che la società mondiale presenti tendenze suicide. Il continuo arrivo di notizie funeste nei campi dell’ecologia, dell’economia e della politica alimentano in permanenza una diffusa sensazione di crisi, che da tempo non è più centrata sul solo aspetto ecologico. Ma nonostante l’accumulazione di oggettivi sintomi di crisi, la società borghese sembra più salda che mai dal suo lato “soggettivo”. Le ex-opposizioni radicali si dimostrano prive di concetti e di idee di fronte ai reali problemi del nostro tempo e hanno rinunciato a tutte le loro aspirazioni. Con la loro mancanza di idee e di organizzazioni, esse non costituiscono più una sfida, ma forniscono al contrario un’ulteriore legittimazione per continuare lo statu quo. Di fronte al fallimento del pensiero antagonistico, l’attuale società borghese ha a sua disposizione un argomento molto forte: tutti riconoscono che non vi sono alternative a essa. L’opposizione fondamentalista perde ogni lustro e si riduce a moraleggiare e a lanciare accuse, degenerando in una posizione contemplativa e brontolona, mentre i modernizzatori e i riformisti continuano ciechi il loro povero mestiere.
Il nucleo di questo insieme ideologico è la miseria del pensiero marxista. La lunga crisi del marxismo è finita con la sua bancarotta completa. Lo sfacelo non colpisce però tutti gli elementi della teoria marxiana allo stesso modo. La bancarotta del marxismo consiste in prima linea nel misero fallimento della sua pretesa rivoluzionaria, quella di voler trascendere i rapporti borghesi. Mentre Marx, in quanto teorico dello sviluppo capitalistico, riceve ancora ogni tanto delle lodi postume anche dai suoi avversari per la sua lungimiranza analitica, la sua visione di un superamento del modo di produzione borghese viene considerata da tempo il più morto di tutti i cani. I giornalisti di terza pagina e altri sciacalli non debbono oggi aver remore di attingere alle idee di Marx con la stessa disinvoltura con cui hanno sfruttato in altre occasioni Aristotele, San Tommaso o gli illuministi francesi. La sua teoria dell’”alienazione” può essere considerata buona per tutte le stagioni. Solo una cosa è assolutamente esclusa in questi riferimenti a Marx – una prospettiva rivoluzionaria, post-borghese. Chi porta avanti l’idea marxiana di un possibile superamento della società capitalistica commette un imperdonabile passo falso e si rende ridicolo, ponendosi al di fuori di ogni “discorso razionale” e screditandosi con questa “speranza escatologica”, indipendentemente dai motivi che adduce per proclamare la fine possibile della società borghese. Anche alle orecchie della sinistra suona assai oscuro il discorso sul “carattere transitorio del modo di produzione capitalistico”. La futura storia dell’umanità sembra legata, almeno per un lungo periodo, alla forma borghese, la cui eliminazione viene identificata inevitabilmente con il passaggio alla barbarie pura.
Questo paradigma non è limitato agli apologeti di destra e di sinistra della società borghese, ma si riproduce anche là dove la teoria mantiene la sua punta critica e intende negarsi al consenso tacito con lo statu quo vigente. Quella parte minoritaria del marxismo attuale, che non ha fatto la pace con l’ordine esistente, svicola però “adornianamente” davanti alla possibilità di pensare qualcosa come la rivoluzione. Nella corrente ispirata alla Teoria critica, l’insistenza coerente sulla critica radicale coincide con l’abbandono di ogni speranza in una prospettiva rivoluzionaria che trascenda la socializzazione negativa. Il superamento del dominio borghese è per loro tanto necessario quanto impossibile. Tale quintessenza si è pietrificata in un paradigma. Di regola, la fusione di critica e pessimismo non viene nemmeno motivata o argomentata, ma costituisce il tacito presupposto di ogni sforzo analitico. Naturalmente non c’è regola senza eccezione. Nel nostro caso, essa si chiama soprattutto Stefan Breuer. Nel suo libro La crisi della teoria della rivoluzione, egli cerca di motivare in modo autonomo ed esplicito il nesso tra la critica radicale e il deciso rifiuto di tutte le “illusioni rivoluzionaristiche”. Questo tentativo merita attenzione, perché forma un piacevole contrasto con la ripetizione vuota di paradigmi della teoria critica, su cui normalmente si riposano intellettualmente gli apologeti della classica Scuola di Francoforte che hanno perso ogni speranza nella prospettiva rivoluzionaria.
Nella sua discussione della teoria di Marx, Breuer evidenzia due filoni teorici diametralmente opposti che esistono l’uno accanto all’altro nell’opera del maestro. Da una parte, Marx dimostra nella sua critica del feticismo che il dominio della forma-valore lascia spazio solo per una soggettività costituita dal capitale e totalmente sottoposta ad esso, mentre dall’altra sostiene una teoria della rivoluzione del tutto separata da questa impostazione e che ricorre invece all’”ontologia del lavoro”. Scrive Breuer: “Mentre – per riprendere una distinzione della vecchia interpretazione di Hegel – il Marx «esoterico» ha svelato, con un radicalismo insuperato, la natura astratta e repressiva della socializzazione borghese che ha violentemente eliminato tutte le forme di vita, di rapporti e di produzione che non le corrispondevano – poiché essa non era altro che la «sottomissione completa dell’individualità alle condizioni sociali che prendono la forma di forze oggettive, anzi di cose soprannaturali» -, il Marx «essoterico» era incline a revocare la sua affermazione secondo cui la socializzazione della produzione nel modo di produzione capitalistico non poteva essere altro che socializzazione astratta”.
Per poter salvare il proletariato come soggetto rivoluzionario, e quindi la prospettiva rivoluzionaria in quanto tale, Marx abbandona, nelle sue considerazioni sulla teoria della rivoluzione, il livello di riflessione raggiunto nella critica dell’economia politica, proprio come fanno i suoi epigoni. Egli tratta invece il proletariato come una potenza intimamente estranea al capitale, cui è sottomesso solo esteriormente: “Per poter conservare nonostante tutto le sue speranze rivoluzionarie, fondandole allo stesso tempo su processi oggettivi … Marx ha indietreggiato di fronte alle conseguenze della propria teoria e ha fatto della forma specificamente capitalistica del lavoro un punto d’Archimede situato al di là di ogni determinazione della forma, un punto da cui si poteva condurre la critica del modo di produzione capitalistico e la cui esistenza garantiva la possibilità della nascita di un soggetto nuovo e veramente umano”.
Secondo Breuer, Marx poteva farsi l’illusione di una prospettiva trans-borghese solo perché nella sua teoria della rivoluzione egli tratta il lavoro come un’opposizione ontologica al capitale e presuppone che il lavoro nel suo nucleo non venga inficiato dal dominio del capitale. Ma l’analisi della forma-valore, decifrata da Marx nella sua critica dell’economia politica come forma basilare della socializzazione borghese, toglie la base proprio a questo modo di vedere. Il trionfo del valore, anticipato da Marx, spezza l’indipendenza dei produttori immediati e degrada i lavoratori ad appendici del sistema delle macchine. Il fiero produttore indipendente diventa una rotella dell’ingranaggio capitalistico e può comportarsi solo come parte del capitale variabile, cioè in quanto integrato nel processo di valorizzazione. In queste condizioni, l’interesse proletario non contiene più nessuna potenza rivoluzionaria. La conclusione è che la rivoluzione comunista, se mai è stata teoricamente possibile, lo è stata durante il passaggio storico dalla sussunzione formale a quella reale. Ma quest’occasione è stata persa, e così, con il compimento della reale sussunzione del lavoro al capitale, l’universo capitalistico si chiude e diventa una totalità negativa, non più superabile. Lo scandaloso rapporto capitalistico si eternizza universalizzandosi. Diventa invincibile facendo della classe operaia una parte integrante del suo meccanismo. L’autonomizzazione del valore, che diventa il soggetto automatico della società, costituisce nell’interpretazione di Breuer il garante della stabilità della forma borghese. La teoria marxiana della rivoluzione, la speranza in una fine del rapporto capitalistico, è agli occhi di Breuer ormai solo un corpo estraneo, incompatibile con tutto il contenuto principale della critica dell’economia politica.

venerdì, febbraio 27, 2015

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination


       In this ambitious book, Moishe Postone undertakes a fundamental reinterpretation of Marx's mature critical theory. He calls into question many of the presuppositions of traditional Marxist analyses and offers new interpretations of Marx's central arguments. These interpretations lead him to a very different analysis of the nature and problems of capitalism and provide the basis for a critique of "actually existing socialism." According to this new interpretation, Marx identifies the central core of the capitalist system with an impersonal form of social domination generated by labor itself and not simply with market mechanisms and private property. Proletarian labor and the industrial production process are characterized as expressions of domination rather than as means of human emancipation. This reformulation relates the form of economic growth and the structure of social labor in modern society to the alienation and domination at the heart of capitalism. It provides the foundation for a critical social theory that is more adequate to late twentieth-century capitalism.

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination PDF

giovedì, febbraio 19, 2015

Moishe Postone: Per una teoria critica del presente

Quello che non dobbiamo fare

da una conversazione di Silvia Lòpez con Moishe Postone

imm045Silvia Lòpez: La prima serie di domande ha a che fare con la "Neue Marx Lektüre". Il tuo libro, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato recentemente tradotto in spagnolo, nel 2006, e ha ricevuto molta attenzione. Però, a livello europeo, in generale, la discussione circa una nuova lettura di Marx si è sviluppata a partire dagli anni sessanta. Si potrebbe collocare il tuo lavoro in relazione a questa nuova lettura, soprattutto in rapporto ad alcuni tuoi contemporanei, come Michael Heinrich o l'ultimo Robert Kurz? In che misura consideri il tuo contributo diverso dal loro, e che cosa lo differenzia? Quali sono state le circostanze sociopolitiche concrete che ti hanno portato a leggere e a teorizzare un nuovo Marx?
Moishe Postone: Quando incappai in Marx per la prima volta, erano gli anni sessanta, rimasi molto impressionato dal giovane Marx, il Marx della teoria dell'alienazione. La sua successiva critica dell'economia politica mi sembrava disperatamente vittoriana, un pamphlet positivista contro lo sfruttamento dei lavoratori. Come molte persone, compresi molti marxisti, pensavo che Marx avesse elaborato conseguentemente la critica dell'economia politica classica per dimostrare l'esistenza e la centralità dello sfruttamento.
E, sebbene simpatizzassi politicamente con un tale proposito, mi sembrava troppo limitato per spiegare in maniera ricca e completa i problemi centrali della società contemporanea. Credevo che l'opera del giovane Marx offrisse un modello di critica più opportuno, però, non avendo compreso totalmente la sua teoria dell'alienazione, lo consideravo soprattutto un critico culturale. In questo senso, Marx mi appariva un critico culturale come altri; la differenza stava nel fatto che era progressista, mentre molti degli altri erano conservatori. Quello che cambiò fondamentalmente la mia comprensione e che si rivelò essere una svolta dal punto di vista concettuale, fu la mia scoperta dei Grundrisse, Quello che mi colpì particolarmente furono le famose sezioni del manoscritto che dicevano chiaramente che, per Marx, la categoria del valore è una categoria storicamente specifica. Per me questo aveva delle implicazioni enormi. Era una chiave per capire il Marx maturo, una leva per mezzo della quale ho cercato di liberare dalle sue catene la comprensione tradizionale di Marx. La mia conclusione è stata che la teoria di Marx era completamente diversa dalla lettura che ne aveva fatto il marxismo tradizionale. Per esempio, l'idea che il valore è storicamente specifico significava che il superamento del capitalismo non voleva dire la realizzazione del valore, come sosteneva molta gente. Molti concepivano il valore alla maniera della sinistra ricardiana, ossia, come una categoria che dimostra che la classe lavoratrice è l'unica fonte di creazione della ricchezza sociale (e qui la ricchezza viene intesa in forma trans-storica). Di conseguenza, una società giusta sarebbe quella in cui la ricchezza sociale apparterrebbe alla classe che la produce. Tale società rappresenterebbe la realizzazione del valore. Tuttavia, l'affermazione marxiana per cui il superamento del capitalismo richiederebbe l'abolizione del valore non solo implica che la questione fondamentale non si trova al livello della remunerazione dei lavoratori per quello che producono, sebbene la questione oggi torni certamente a ricoprire una certa importanza, ma implica anche che tanto meno si tratta di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. I Grundrisse indicano che, per Marx, il post-capitalismo è post-proletario. Questo, tuttavia, fa sì che il rapporto fra riforma e rivoluzione diventi ancora più problematico. Non può essere visto come un rapporto fra le riforme che cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori dentro il capitalismo ed una rivoluzione che mira a rovesciare il capitalismo abolendo la borghesia. Ma piuttosto, l'abolizione del capitalismo richiede, come condicio sine qua non, l'abolizione del lavoro proletario. La riforma, pertanto, deve perseguire quest'obiettivo. E questo apre nuovi modi di intendere la nostra situazione storica attuale, compreso l'emergere di movimenti post-proletari. Tuttavia, ciò pone anche serie difficoltà politiche e concettuali, dal momento che non c'è una continuità lineare fra la difesa degli interessi dei lavoratori ed il superamento del capitalismo. La questione dell'auto-abolizione del proletariato è stata storicamente messa all'ordine del giorno; tuttavia, allo stesso tempo, vengono erose le conquiste fatte dai lavoratori negli ultimi 150 anni.
(...)

S.L.: Possiamo tornare agli anni sessanta e all'inizio dei settanta, alla tua scoperta dei Grundrisse e alle tue riflessioni sul valore?
M.P.: La mia intenzione era quella di contribuire alla ricostituzione di una teoria critica della modernità capitalista. Permettimi un commento a margine sulla questione della modernità: in questo senso non mi trovo d'accordo con quelli come Michael Heinrich, e concordo molto di più con Lukács, Adorno e Horkheimer. Il capitalismo non è solamente un modo di produzione, inteso in senso stretto, ma è ciò che struttura una forma di vita cui a volte ci riferiamo come modernità, e questa strutturazione avviene tanto nella sua dimensione soggettiva quanto in quella oggettiva. Habermas non sembra comprenderlo. Sembra che consideri la comunicazione intersoggettiva nella modernità come qualcosa che si fondi su sé stessa, mentre nelle società pre-capitaliste detta comunicazione sarebbe strutturalmente determinata dalle forme politiche e religiose. Come dire, Habermas rileva la configurazione sociale delle strutture comunicative quando si verificano in forma palese, come avviene nelle società pre-capitaliste, ma si dimentica della brillante analisi di Marx quando si accorge che, nel capitalismo, la forma di costituzione sociale funziona in modo che quello che si costituisce socialmente, per esempio l'individuo, non appare come sociale, ma piuttosto come "naturale", come qualcosa che si fonda su sé stessa e che è apparentemente decontestualizzata. Ossia, Habermas non stima che ciò che caratterizza la contestualizzazione capitalista sia proprio l'apparenza di essere decontestualizzato. In tal senso la comprensione habermasiana della razionalità comunicativa cade preda di una forma feticcio. E credo che anche Heinrich consideri la critica dell'economia politica in modo troppo limitato, come se fosse riferita unicamente alla produzione e all'economia. Perde di vista la dimensione soggettiva e culturale delle categorie. Credo che ciò sia insufficiente ed insoddisfacente. Non è il tipo di teoria di cui abbiamo bisogno.

S.L.: Sì. In un certo senso è come un ritorno a prima di Lukàcs, il quale stava già cercando di leggere Marx a partire da una certa nozione di modernità. E cosa succede con altri come Robert Kurz? Negli ultimi dieci anni ha proposto una critica del valore che presenta delle evidenti somiglianze con la tua, per lo meno a livello teorico. Cosa pensi del suo contributo? Oggi, nei gruppi Exit! e Krisis, ci sono una serie di autori che hanno seguito i suoi passi.
M.P.: Penso che la morte prematura di Kurz sia una grave perdita. Quando ci siamo incontrati per la prima volta con il grupo Krisis, non sapevo niente di loro, e non credo che loro sapessero qualcosa di me. E, tuttavia, i nostri lavori avevano delle forti coincidenze, soprattutto per quel che riguarda la critica del valore e la critica del lavoro. Non sono completamente d'accordo con il modo in cui Kurz pone l'idea della crisi, affermando che, o uno crede che il capitalismo crollerà, oppure crede che potrà continuare all'infinito. Non condivido questo punto di vista, che mi sembra fortemente dicotomico. Credo anche che il mio lavoro sia più aperto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, di quanto lo sia il lavoro di Kurz, e che si occupi più di queste cose.

S.L.: Potresti svilupparlo un po' di più?
M.P.: Sì, non credo che l'interesse di Kurz fosse tanto di capire i cambiamenti nelle soggettività che si producono insieme ai cambiamenti nel capitale stesso. Ho cercato di elaborare questo, nei miei lavori sull'antisemitismo, cercando di sviluppare una teoria non-funzionalista di questa visione del mondo, in modo diverso da come lo fa la maggior parte delle cosiddette teorie materialiste della soggettività. La mia analisi si relaziona assai di più alle forme feticistiche. Non sono sicuro che il gruppo Krisis, o Krisis ed Exit!, si occupino tanto di questioni di soggettività e feticismo come faccio io, ma forse sono ingiusto nel dire questo. Certamente, fra tutte le nuove letture di Marx, il suo lavoro è quello che ha più parallelismi e somiglianze con il mio.

S.L.: Per me, come latino-americana, quando ho scoperto il tuo lavoro e quello di Kurz, la cosa più suggestiva è stata che eravate arrivati, in modo indipendente, a conclusioni simili circa il valore in Marx. Questo confermava una rigorosa lettura dell'ultimo Marx in riferimento al valore. Il marxismo ortodosso non poteva contribuire ad una tale comprensione. Forse la questione non sta tanto nel fatto che queste letture di Marx, fatte dalla Germania, non si interessino tanto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, ma piuttosto che la loro teoria di sviluppa ad un tale livello di astrazione che c'è appena spazio per elaborare una teoria critica della società.
M.P.: Non ne sono sicuro. C'è stato un periodo, poco dopo che ho lasciato la Germania, durante il quale avevo una percezione molto precisa di quello che stava succedendo lì, ma oggi non ne sono sicuro. Quello che potrebbe accadere è che, nella sinistra tedesca, molti di coloro che sono interessati alla soggettività sono rimasti seguaci ortodossi della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno. E credo che, come me, i membri di Krisis e di Exit! pensino che la comprensione della critica dell'economia politica da parte di Adorno, per quanto fosse ricca, non andava abbastanza lontano. Perciò potrebbe essere che, dentro il contesto specificamente tedesco, abbiano deciso di rimanere ai margini della questione della soggettività. dal momento che i seguaci più ortodossi di Adorno si sono concentrati su quello.
(...)

S.L.: ... rispetto al tentativo di gettare le basi di una teoria critica della società. Come concili il tuo lavoro rigoroso su Marx con lo sviluppo di una teoria critica della società oggi?
M.P.: Deduco dalle tue parole che quanto ho detto prima potrebbe essere stato male interpretato. Apprezzo enormemente i brillanti sforzi di persone come Lukàcs e Adorno, con tutte le differenze che li separano dall'interpretare la soggettività come intrinsecamente unita all'oggettività sociale, facendo coincidere soggettività ed oggettività come due dimensioni della medesima cosa, che non possono essere comprese a partire dal modello base/sovrastruttura, ed ancor meno in termini di interesse. Per dirlo in altre parole, per loro teoria critica della cultura e teoria critica della società erano intrinsecamente relazionate, e credo che questa sia una comprensione enormemente valida che non dobbiamo perdere. Per quel che riguarda Foucault, non ho mai capito perché la gente creda che Foucault avesse una teoria della soggettività: non c'è soggettività reale in Foucault. Inoltre, Foucault non poteva dare teoricamente conto delle possibilità della sua teoria. Cioè, come lo strutturalismo, il post-strutturalismo fallisce sulla questione dell'auto-riflessività. Naturalmente, chiunque sottoscriva le sue posizioni negherà che questa sia una questione rilevante, però, nella mia opinione, l'assenza di auto-riflessività rende incoerente una teoria. Credo sia una vergogna che il post-strutturalismo si sia tanto diffuso in Germania. In Francia, almeno, si poteva dire che il marxismo dominante era quello del Partito Comunista Francese, che era possibilmente il partito più ortodosso dell'Occidente. E, a quanto io ne sappia, è lì che Foucault incontra Marx.
(...)
M.P.: Prima hai menzionato qualcosa su cui mi piacerebbe tornare, ma prima voglio affrontare alcune delle questioni relative alla soggettività, Foucault e Adorno. Dicevi che Foucault era incapace di spiegare il cambiamento storico. Credo che la questione della storia sia uno degli aspetti più contraddittori dal punto di vista formativo del pensiero di Foucault. Da un lato, Foucault afferma che la storia è contingente, e perciò usa la parola genealogia. Tuttavia scrive un libro dietro l'altro indicando trasformazioni potenti che avvengono più o meno nello stesso momento, all'inizio dell'Età moderna europea. E, ciò nonostante, non problematizza le trasformazioni che descrive. Quindi quello che dice di fare e quello che fa sono due cose molto diverse. Per me, uno degli argomenti centrali dell'analisi di Marx è quello che distingue veramente il capitalismo e che ha una dinamica storica intrinseca. Questa è una delle ragioni per cui non sono d'accordo con chi si concentra troppo sulla sfera della circolazione, cosa che possibilmente fa anche Heinrich. Poiché così si perde di vista il carattere non-teleologico, complesso e direzionale della dinamica capitalista. Marx, nelle sue opere della maturità, interpreta non solo il valore ed il lavoro, ma la stessa storia, come cosa storicamente specifica, nel senso che questa è dotata di una dinamica direzionale intrinseca. Se la storia, intesa come tale dinamica concreta, è una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, non può essere applicata alla specie umana come un tutto, o a tutte le società, ma solamente al capitalismo. Però questo significa che non si può dare per scontata questa dinamica e, partendo da qui, dirimere questioni a proposito del libero arbitrio e del determinismo: questi sono solamente argomenti teologici vestiti con i panni del linguaggio moderno dell'agenzia e della struttura. Piuttosto, la prima domanda dovrebbe essere come spieghiamo, come fondiamo la straordinaria dinamica del capitale, una dinamica che genera una traiettoria complessa. Mi sembra che il post-strutturalismo non può neanche avvicinarsi a trattare simili questioni.

S.L.: In effetti, il post-strutturalismo non elabora una teoria del capitalismo, ma piuttosto delle descrizioni strutturali del funzionamento delle diverse istituzioni, che sia la prigione o il manicomio, che controllano e dominano la popolazione, ma non spiega queste strutture sociali o istituzioni in relazione alla realtà di base del capitalismo in ciascun momento specifico: questo sembra che intervenga in differenti momenti della storia, però non c'è una teoria del perché questo avvenga o che cosa si deve.
M.P.: Infatti. E ciò è dovuto in parte al fatto che le teorie del capitalismo restano implicitamente intese come teorie dello sfruttamento, teorie della proprietà e teorie della distribuzione diseguale del potere e della ricchezza. E la dinamica storica del capitalismo viene vista come un assunto metafisico proveniente dalla filosofia, di Hegel, ma non è realmente parte della teoria.

S.L.: Questo è un assunto molto interessante. Prima hai menzionato il tema della ricchezza. Comprendo perfettamente la distinzione fra ricchezza e valore, ma mi domando quale nozione di prassi politica si propone alla luce di questa teoria, in un momento in cui si continua a creare ricchezza e la ricchezza viene distribuita in forma diseguale. Questo non toglie importanza alla distinzione teorica fra ricchezza e valore, ma le tue riflessioni teoriche hanno implicazioni per la comprensione della prassi politica. Cosa puoi dire in proposito?
M.P.: Si tratta di una domanda enorme che si riferisce ad un problema enorme. Mi piacerebbe poter dare una risposta chiara, ma temo di non averla. Però qui, di nuovo, c'è una sovrapposizione fra il mio approccio e quello di Kurz. Se torniamo indietro di quarant'anni, una delle ipotesi inespresse di molti movimenti identitari dell'epoca, centrati intorno alle questioni della razza e del genere, era che il tipo di crescita economica che aveva caratterizzato i decenni dopo la guerra sarebbe continuata. Usando una metafora assai comune negli Stati Uniti, la torta da dividersi cresceva, e i diversi gruppi reclamavano la loro parte. Queste domande non erano solo economiche e, in tal senso, oggettive, ma erano anche soggettive: si trattava di gruppi che reclamavano riconoscimento. Credo che uno dei modi per comprendere le continue crisi degli ultimi quarant'anni è che non è così chiaro che il lavoro salariato sia in aumento. Questo ha modificato gli effetti e le conseguenze per molti movimenti identitari, che si vedono coinvolti in lotte per una torta che non sta crescendo e che, a volte, perfino diminuisce. C'è chi crede che il lavoro salariato continui ad espandersi in altri luoghi, come per esempio la Cina, l'India o il Bangladesh, che i posti di lavoro siano stati semplicemente dislocati in altri luoghi. In parte è così. Tuttavia, la mia interpretazione è che il cambiamento tecnologico abbia svolto un ruolo molto più importante e che, anche in Cina, il lavoro salariato è stato livellato. L'epoca dell'accumulazione che implicava la continua espansione del lavoro proletario potrebbe essere arrivata alla sua fine. E non disponiamo di un immaginario adeguato per confrontarci con una tale situazione - nel senso di idee su come potrebbe essere una società post-capitalista, oppure un senso della politica adeguato a muoverci in quella direzione. Prima, essere socialista era concettualmente semplice, dal momento che l'obiettivo sembrava relativamente chiaro: se si aboliva la proprietà privata e si faceva una pianificazione razionale dell'economia, il risultato sarebbe stata una società migliore. E si pensava che una classe operaia radicalizzata avrebbe lottato per un tale obiettivo. Il dibattito si concentrava sulla natura dei rapporti di potere esistente e su come motivare i lavoratori per incamminarsi sulla strada del socialismo. Se è vero che oggi la società capitalista sta entrando in crisi perché sono state erose le sue basi che poggiavano sul lavoro proletario, questo ci pone davanti a problemi molto diversi. E si pone la questione di cosa significhi vivere in una società che non è più basata sul lavoro. Usando un'analogia storica non troppo buona, la differenza fra il proletariato romano ed il proletariato moderno poteva essere sottolineata dicendo che il proletariato moderno era una classe lavoratrice, mentre il proletariato romano doveva arrangiarsi per conto proprio e la pace sociale veniva garantita mediante "Panem et circenses". In un certo qual modo stiamo entrando in una fase storica in cui il proletariato si sta avvicinando più al modello romano, dove il lavoro superfluo viene ridefinito strutturalmente come popolazione superflua. Il precariato ne è un esempio; credo che le gigantesche popolazioni delle baraccopoli, in gran parte del mondo, ne siano un altro esempio. Forse, un antropologo che studia le persone che sopravvivono a malapena, raccogliendo la spazzatura nelle discariche di Rio, può mostrarci come questa gente riesca a sopravvivere, e come questo abbia un suo proprio sistema significante. Però credo che tutto ciò trascuri la grande questione della crisi della società del lavoro, per la quale non abbiamo delle risposte.

S.L.: Sì, credo che circa un abitante del pianeta su tre viva in slum e baraccopoli, ossia, in comunità marginali ...
M.P.: Mi sorprende che la cifra sia così bassa. Mi sarei aspettato una percentuale ben maggiore.

S.L.: Si tratta di popolazione eccedente che non può essere incorporata nel processo produttivo, anche se gli antropologhi hanno modo di collegare queste popolazioni. Voglio dire che, soprattutto in Brasile, le connessioni fra le favelas e la città sono dinamiche. La gente vive nelle favelas, ma lavora come personale di servizio nell'industria alberghiera, così le economie sono organizzate in modo particolare ...
M.P.: E' vero. Tuttavia, la situazione non assomiglia a quella che si venne a creare in Europa durante le fasi precedenti al capitalismo, quando la popolazione rurale eccedente emigrava in altri paesi o veniva assorbita dal settore manifatturiero in espansione. Certo, oggi abbiamo emigrazioni di massa, ma di tipo molto diverso. Penso che le reazioni xenofobe nei confronti degli emigranti, così comuni nelle metropoli, non sono solo un segno del fatto che la popolazione sia irrimediabilmente razzista, ma che, fra l'altro, sia anche un segno del fatto che si sente minacciata poiché il tipo di espansione che prevaleva prima non esiste più.

S.L.: Quest'espansione non esiste, se guardiamo alle cifre della disoccupazione in Spagna, per esempio, vediamo che quasi il 45% della popolazione fra i 18 e 1 25 anni è disoccupata ...
M.P.: Sì, il numero dei disoccupati in Spagna è incredibile.

S.L.: ... oppure un 23% di disoccupazione generale fra i lavoratori adulti. Un aspetto centrale della crisi riguarda il come questa popolazione possa reincorporarsi nell'economia di mercato. Se osserviamo le cifre delle diverse economie europee, inclusa la Germania, possiamo vedere un processo di disciplinamento attraverso il quale si abitua la popolazione a percepire salari di mille euro al mese o di accettare di lavorare per i programmi del governo tedesco alla tariffa di un euro l'ora, mentre si percepisce anche l'indennità di disoccupazione, per esempio. Si tratta di forme di impoverimento di una popolazione che non può più essere incorporata come forza lavoro, come quando si dava crescita. Se guardiamo alla popolazione europea in generale, non solo in termini di analisi macroeconomica della situazione, si può pensare che la situazione in Europa sia una sorta di piccolo laboratorio il quale sembra confermare la tua analisi del capitalismo, nel senso che il valore non può continuare ad essere valorizzato come lo era prima.
M.P.: A quel livello, sicuramente. Ad un livello superficiale, la situazione si complica per la peculiare struttura europea che combina sovranità nazionale e moneta comune. Ma, in fondo, credo che tu abbia ragione. E anche se i giornali, almeno negli Stati Uniti, parlano solo di un nord prospero e di un sud in declino, la crisi c'è anche in Germania, per esempio per la classe media. In Germania, i tagli sono cominciati da decenni, nell'istruzione. Il settore dell'istruzione si era ampliato enormemente alla fine degli anni sessanta, come era accaduto anche in Francia, e con la crisi iniziata negli anni settanta si smise di finanziarlo. Questa è stata una delle prime cose che hanno tagliato per poter continuare a finanziare altri programmi sociali. Ma negli ultimi anni il cambiamento è stato ancora più austero; ci sono molti tedeschi che stanno affrontando un periodo di penuria, cosa che era impensabile solo fino ad una generazione fa.

S.L.: Infatti, vengono privatizzati i piani pensionistici, di modo che nessuno avrà soldi a sufficienza; in Germania non esiste salario minimo, solo alcuni settori industriali hanno qualcosa del genere, per il resto tutto quanto viene negoziato, così questa specie di disciplina neoliberista che oggi la Troika sta imponendo in molti paesi, ha avuto inizio in Germania dieci anni fa. Si tratta di un paese che è già stato sottomesso a queste politiche, cosa che ci riporta a quanto si diceva prima a proposito della politica e dell'economia in Europa, alla sovranità nazionale in un momento in cui in Europa la politica è sottomessa all'economia. I governi, in termini strettamente formali, non rappresentano più la volontà popolare, nei termini della loro definizione di democrazia, ma rappresentano gli interessi del capitale finanziario e, negli ultimi mesi, la crisi - che si è verificata rispetto alla Banca Centrale Europea e all'acquisto di obbligazioni, discutendo se dovevano essere convertiti in buoni generali europei che collettivizzassero il debito - rivela che in Europa non stiamo solo assistendo ad una crisi economica, ma ad una crisi politica nella quale si stano erodendo completamente i modelli di democrazia sociale e politica che l'Europa ha avuto negli ultimi sessant'anni.
M.P.: Sono d'accordo con te. Tuttavia, credo che uno dei problemi è dovuto al fatto che la configurazione del capitale basata sul primato della politica si è rivelata una semplice fase dentro il capitalismo, e non una soluzione riformista a lungo termine. Questa fase di primato della politica è durata assai più in Europa che in qualsiasi altro luogo, ma dubito che si possa tornare a quella configurazione del capitalismo. Al suo apice, tale configurazione era legata ad una forte organizzazione nazionale delle economie, interconnesse fra loro a livello internazionale. Oggi, invece, il capitale è sempre più sovranazionale, piuttosto che internazionale. Sta sopra il livello dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione, come unità socio-economica e politica, si è trasformato e, come unità nazionale, è entrato in declino da decenni, almeno così è avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Questa crisi sta colpendo ora tutta l'Europa in forma sempre più evidente. L'Europa ci ha messo di più ad essere colpita perché qui la socialdemocrazia era molto più forte. Ma anche la socialdemocrazia era già stata minata, in modo meno esplicito di quanto mostrassero i programmi della Tatcher e di Reagan. Solo che ora la crisi appare essere globale e l'Europa sembra bloccata in doppio disastro, tanto politico quanto economico. L'unico modo in cui i paesi europei possono effettivamente operare su scala globale, è l'Unione Europea. Le unità nazionali come la Francia, la Germania e l'Olanda si rivelano sempre più inefficacemente piccole su scala mondiale - ancor più che durante il periodo della Guerra Fredda. E con tutto ciò, la politica europea in questi momenti sembra incapace di muoversi, sia in avanti che indietro.
(...)

S.L.: Questo ci porta ancora una volta alla sussunzione della politica nell'economia, in cui gli Stati sono al servizio degli interessi del capitale finanziario e smettono di rappresentare le loro popolazioni, convertendosi in rappresentanti politici degli interessi del capitale.
M.P.: Sono d'accordo, però una delle tante questioni con cui la sinistra di oggi deve confrontarsi è la scomparsa della sintesi fordista-keynesiana nei paesi occidentali e la fine delle economie di controllo verticale nei paesi dell'Est. Per qualche tempo, poteva sembrare che gli Stati fossero arrivati ad essere gli Stati delle loro popolazioni. Ma dobbiamo capire meglio quali erano i limiti di questa configurazione, perché non credo che possiamo tornare ad essa. Gran parte della letteratura degli anni cinquanta e sessanta affermava che i problemi di base della società e dell'economia erano stati risolti, o erano in via di risoluzione: sembrava che si fosse trovata la chiave per farlo. I paesi occidentali e i paesi comunisti rispondevano in maniera differente a questi problemi, ma entrambi erano sicuri di aver dato la risposta. Se non comprendiamo la crisi degli anni settanta, che ha eroso questa configurazione tanto ad Est come in Occidente, non possiamo comprendere quali sono oggi le nostre opzioni. Penso che non si possa tornare ad una situazione come quella degli Stati Uniti nei decenni dopo Roosvelt o alla Spagna come avrebbe potuto essere dopo Franco, o alla Germania socialdemocratica. Ma non sono un profeta, mi limito a segnalare che abbiamo bisogno di più lavoro teorico-politico.

S.L.: Non credi che dovremmo ripensare gli approcci di alcune teorie materialiste dello Stato, come quella di Poulantzas, per esempio, che cercavano di riconcepire lo Stato, non solo come una serie di istituzioni autonome rispetto alla società, ma come una sorta di relazione sociale?
M.P.: Sì, ma credo che, retrospettivamente, ci sono cose che possiamo vedere con maggior chiarezza che negli anni settanta. Nelle risposte a lungo termine, da parte degli Stati, alla crisi dei Settanta, è risultato chiaro che bisognava scegliere fra accumulazione del capitale e benessere sociale delle popolazioni, scelsero l'accumulazione del capitale, perché il contrario avrebbe portato al collasso. Credo che dobbiamo continuare a ripensare il rapporto fra il capitale e lo Stato. Quel che gli anni settanta ci hanno dimostrato è che lo Stato non è un'entità indipendente.

S.L.: Però, anche se non sei un profeta, quali forme di immaginazione e di prassi politica ti spetti e desideri? Su quale forma politica scommetteresti?
M.P.: Ad essere onesto, non scommetterei su nessuna. Però è importante che ci siano molte piccole iniziative differenti che cercano risposte diverse, poiché è a partire dalle iniziative delle persone che possiamo vedere quale funziona meglio, contro quali limiti ci scontriamo, ecc.. Solo così possiamo farci un'idea di fino a dove possiamo arrivare. Una possibilità - e so che questo suona molto tradizionale - è che, anche se c'è una crisi della società del lavoro, possiamo solo delineare i contorni delle possibilità future per mezzo di organizzazioni che intendano contrastare, o per lo meno diminuire, le enorme discrepanze presenti nelle condizioni lavorative, la regolamentazione del lavoro e la sua remunerazione a livello globale. Paesi come la Cina e il Vietnam, luoghi come il Bangladesh, si sono convertiti in immense fabbriche di vestiti per il consumo occidentale, fabbriche dove imperano condizioni di lavoro terribili. E qui vediamo come ideologie che possono aver avuto una dimensione progressista fino ad una generazione fa, si sono convertite in qualcosa di sempre più reazionario. Alcune élite del Terzo Mondo hanno utilizzato l'esistenza, nella sua specificità culturale, per giustificare la repressione politica e raggiungere livelli estremi di sfruttamento. Forse le mie dichiarazioni, o quelle di Robert Kurz, a proposito della fine della società del lavoro sono corrette, ma potremo saperlo solamente attraverso il lavoro che organizza sé stesso. Negli anni novanta, negli Stati Uniti, abbiamo assistito ad un promettente primo passo in questa direzione con il movimento contro il lavoro schiavista, l'anti-sweatshop movement, che fece conoscere le condizioni di lavoro nel Terzo Mondo. Per esempio, resero pubbliche le condizioni che regnavano in fabbriche situate in Indonesia o in Vietnam, le quali producevano scarpe sportive per la Nike. Il movimento evitò di cadere nelle dicotomie proprie della Guerra Fredda, come sarebbe avvenuto se avesse segnalato che le condizioni in Indonesia erano cattive ed avesse ignorato, o giustificato, quelle del Vietnam. Credo che si debba cercare di recuperare una forma di internazionalismo che si è perso a partire dalla prima guerra mondiale. Il supposto recupero dell'internazionalismo nella Terza Internazionale era ideologico: lì, l'internazionalismo significa porsi dalla parte di uno degli schieramenti, che è in realtà cosa ben diversa. Uno degli schieramenti finì per essere immune a qualsiasi critica, e la cosa ebbe effetti disastrosi per la politica e per il pensiero critico. Credo che oggi ci siano forme di anti-imperialismo che riprendano queste abitudini e che si sono convertite in ideologie per la legittimazione di regimi repressivi e movimenti reazionari. Queste forme di anti-imperialismo che diventano reazionarie sono una delle cose che dobbiamo combattere, e dobbiamo combatterle in nome di un internazionalismo progressista. E credo che dobbiamo combatterle nel quadro della capacità di ripensare il lavoro. Non credo che possiamo glorificare la miserabile condizione del precariato, e mi sembra che il modo per cui si cerca di creare nuove comunità non sia la soluzione. Però potrebbe dare una prima idea di come le cose potrebbero essere diverse. Non so come stiano le cose in Spagna, rispetto alle idee della controcultura, ma negli Stati Uniti, almeno negli anni sessanta, insieme al sorgere di una nuova sinistra apertamente politica, c'era anche gente che sperimentava nuove forme di vita. Ma, per la più parte, il loro immaginario consisteva in una forma di vita nuova separata dalla società: non era un modello per il resto della società, né voleva esserlo.

S.L: Credo che l'interessante di questo nuovo immaginario in Spagna sta nel fatto che è differente da quello che c'era nei Sessanta nei paesi cosiddetti industrializzati, come gli Stati Uniti. C'è una coscienza auto-riflessiva sui limiti del lavoro, e questo non perché la gente abbia letto diciamo il Manifesto contro il lavoro, o i tuoi testi, o quelli di Kurz, ma perché credo che la gente in Spagna, ad esempio, può ricorrere alle tradizioni anarchiche e ad altre forme di prassi politica. Oggi in Spagna ci sono comunità di scambio e di moneta alternativa - dozzine di valute alternative che funzionano in piccole comunità -, banche del tempo dove le persone disoccupate si riuniscono e danno inizio ad una banca delle ore, depositando ore del loro tempo. Cioè a dire, se tu coltivi verdure in un orto, io in cambio posso accudire tuo padre anziano, di modo che tutte le attività siano in condizione di uguaglianza nel processo di interscambio. Non si tratta di comuni private come quelle che ci sono in Germania o negli Stati Uniti, ma che funzionano realmente nel campo del sociale, a livello locale, in piccole cittadine. Si tratta di forme di immaginazione di un mondo senza denaro, un mondo senza lavoro, dovute alle condizioni per cui uno spagnolo su quattro è disoccupato e deve sopravvivere. Queste forme sperimentali di vita, sono oltre il lavoro?
M.P.: Sì. Personalmente, mi aspetto che qualcuno, oltre questi esperimenti, provi anche a pensare a delle opzioni praticabili su scala più ampia. Anche se il mondo rimane diviso in giganteschi blocchi globali, ciò senza dubbio costituisce una possibilità (nel caso che fossimo sull'orlo di una Terza Guerra mondiale), dobbiamo cercare di trovare forme nuove. I tuoi esempi rivelano come, a livello locale, la situazione appaia promettente. Ma il vero problema è come allacciare il locale al globale. Non lo dico come una critica, ma credo che sia una questione che dobbiamo tenere presente.

S.L.: Tornando nuovamente alla riflessione teorica, è passato un po' di tempo da quando il tuo "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato pubblicato in inglese; in Spagna la lettura del tuo libro è cosa più recente. Hai avuto tempo di riflettere sul tuo contributo alla lettura di Marx dalla pubblicazione del tuo libro? Quali credi che siano le sfide teoriche per il futuro, quali sarebbero gli elementi chiave per ricostruire una teoria critica della società basata su questa nuova lettura di Marx?
M.P.: Qualcosa che credo stia già avvenendo, e che verrà accentuata in futuro, è che dobbiamo concentrarci di più sul capitale e meno di cercare di trovare il soggetto rivoluzionario. Il tentativo di individuare un soggetto rivoluzionario dapprima si è concentrato sulla classe lavoratrice e più tardi alcuni lo hanno trasferito alle forme diverse di terzomondismo. Credo che sarebbe importante lasciarci tutto alle spalle e cercare di recuperare un internazionalismo critico, invece delle forme ideologiche attuali di nazionalismo che si dichiarano internazionaliste. Questo nuovo internazionalismo deve cercare di affrontare il capitale globale in modo da riuscire a capire sobriamente lo sviluppo del capitale e le possibilità che questo genera (anche se il capitale inizia a perdere la possibile realizzazione di queste possibilità) invece di limitarsi a demonizzarlo. Credo che sia estremamente importante, poiché sebbene la sinistra sia molto sensibile alla xenofobia, ed è bene che sia così, è assai meno sensibile alle ideologie reazionarie di carattere anti-finanziario, anti-statunitense e antisemite. E queste tre ideologie sono in relazione fra di loro. Penso che siano forme feticiste di opposizione che alla fine indeboliscono la sinistra e la portano ad avvicinarsi a fondersi con movimenti che io considero reazionari. Dovremmo liberarci dalle nostre nozioni politiche inconsce, quali il socialismo in un solo paese, o di un post-colonialismo che si fa passare per internazionalismo, e recuperare una forma di internazionalismo reale che possa affrontare la fine della società del lavoro. Tutto questo è molto modesto da parte mia, perché quello che sto suggerendo è che la teoria ci offre assai bene delle direttive chiare circa quello che non dobbiamo fare, piuttosto che di quello che dobbiamo fare. Ma evitare di fare quello che non dobbiamo fare è già un passo importante in direzione della lotta per quello che dobbiamo fare.
pubblicata sulla rivista Constelaciones n°4. Madrid, dicembre 2012
 
FONTE: http://www.sinistrainrete.info/

mercoledì, gennaio 28, 2015

Moishe Postone Antisemitismo e nazionalsocialismo INTRODUZIONE


Antisemitismo e nazionalsocialismo

Autore: 
Traduzione di: 
Irene Battaglia e Fabrizio Bernardi



La pubblicazione del testo di Moishe Postone che qui presentiamo – fin'ora inedito in Italia – rappresenta per molti aspetti un «evento». Quando gli annunciammo il nostro progetto, Postone trattenne a stento un moto di sollievo: dopo quelle in francese, tedesco, spagnolo, portoghese, giapponese e cinese, finalmente una traduzione per il pubblico italiano! Purtroppo la critica che si alimenta alla fonte del pensiero di Marx – e soprattutto quella di matrice anglosassone – stenta a trovare spazio nell'editoria italiana, malgrado o forse proprio in ragione della sua marca fortemente accademica. Ad ogni modo è un peccato, perché i materiali sono di alto livello e il dibattito è vivace.
Per introdurre il testo di Postone, in primo luogo non si potrà evitare di citare il suo lavoro più importante: Time, Labor and Social Domination (Cambridge University Press, 1993); opera mastodontica che propone una particolare interpretazione del testo marxiano, sviluppata a partire da una comprensione del capitale come «dominazione astratta» e «soggetto automatico», e dall'individuazione della «coppia» valore d'uso/valore di scambio come (auto)contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Ai lettori più avvertiti, non sfuggirà la prossimità con le posizioni della cosiddetta Wertkritik (critica del valore) di derivazione mitteleuropea, e dunque con i suoi principali esponenti, Robert Kurz e Anselm Jappe: in estrema sintesi, l'affinità elettiva, se così si può dire, che congiunge idealmente questi diversi indirizzi critici, è il fatto di aver dato preminenza, nell'analisi, al funzionamento e alle interrelazioni delle categorie capitalistiche – valore d'uso e valore di scambio, lavoro concreto e lavoro astratto etc. – piuttosto che alla personificazione di tali categorie nei rapporti fra classi e gruppi sociali.
Ciò emergerà chiaramente alla lettura di questo breve saggio di Postone, incentrato sul tema specifico dell'antisemitismo. Infatti, più che sulla storia della persecuzione e del genocidio, in quanto susseguirsi più o meno aneddotico di eventi, Postone si concentra su quei fenomeni di feticizzazione che considera assolutamente strutturali nel contesto del funzionamento del modo di produzione capitalistico in quanto formazione sociale. Già lo stesso Marx, alla fine del III libro de Il Capitale, aveva messo in luce un particolare fenomeno di reificazione dei rapporti sociali capitalistici, che aveva posto sotto in nome di Formula Trinitaria; i vari elementi del processo di produzione – la terra, il lavoro, i mezzi di produzione – che in realtà formano un tutto inestricabile, cementato dall'estrazione di plusvalore, sembrano poter costituire ciascuno una fonte di reddito autonoma, personificata in una categoria sociale: «Capitale-profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale. Inoltre, poiché l’interesse, come abbiamo precedentemente messo in rilievo, appare come il prodotto proprio, caratteristico del capitale e il guadagno d’imprenditore, in contrapposizione ad esso, appare come salario indipendente dal capitale, questa formula trinitaria si riduce più precisamente alla seguente: capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato. [...] Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società»(1). È qui che Postone si riallaccia a Marx, aggiungendo un ulteriore strato analitico; mostrando, cioè, come la medesima reificazione dei rapporti sociali, agisca laddove si pretende contrapporre la dimensione concreta e materiale del modo di produzione a quella astratta, prendendo inevitabilmente partito per la prima; secondo Postone, da ciò deriva l'identificazione, nella sfera della rappresentazione immediata, del capitale produttivo di interesse (la finanza) alla figura dell'ebreo. Un identificazione che è, per Postone, consustanziale a questa stessa presa di partito.
Di primo acchito, si potrebbe rimproverare a Postone una certa diserzione dal piano propriamente storico. È vero, ma solo in parte. Elemento essenziale, ma forse un po' sottotraccia, nell'analisi di Postone, è l'aver situato la persecuzione anti-ebraica in una congiuntura storica, economica e sociale ben precisa: quella della fase di transizione dal capitalismo concorrenziale a quello organizzato, ovvero – in termini più propriamente marxiani – nell'istante del passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al capitale (2). Forme particolarmente brutali di questo passaggio, in Stati-nazione di recente formazione, scombussolati da aspri conflitti sociali, con problemi di unificazione nazionale, di assorbimento delle comunità intermedie etc., fascismo e nazionalsocialismo non furono però, dal punto di vista della politica economica, affatto dissimili da ciò che si andava realizzando altrove in Europa e negli Stati Uniti. Non solo, come rilevarono tra gli altri Karl Korsch (3) e più tardi Alfred Sohn-Rethel (4), la politica economica nazista non differiva più di tanto da quella del New Deal roosveltiano – ma è noto che il ministro dell'economia della Germania hitleriana dal 1934 al 1937, Hjalmar Schacht, fosse un fervente keynesiano.
Ciò detto, per più di un aspetto il breve saggio di Postone che introduciamo parla tanto del passato che del nostro presente. L'equivalenza tra ebraismo e finanza non solo non è affatto scomparsa, ma ha acquistato nuova linfa con lo scatenarsi, nel 2007/2008, della crisi dentro alla quale ancora ci troviamo. Da allora, gli strali contro la «tirannia dei mercati» e di una «finanza selvaggia», presuntivamente parassitaria rispetto al settore industriale, non hanno fatto che moltiplicarsi; e d'altronde, questa vulgata moralizzatrice che vorrebbe tornare ai «bei tempi andati» dei «Trenta Gloriosi» (1945-1975) e delle politiche keynesiane, non si risparmia qualche pericoloso scivolamento antisemita, all'estrema destra come all'estrema sinistra; anzi, sulle tracce dell'Autore, potremmo dire che questo scivolamento è inerente al funzionamento stesso del dispositivo teorico in oggetto. La riflessione postoniana, formulata in tempi assai meno turbolenti (il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1986) risulta perciò oggi tanto più attuale e utile, soprattutto per coloro che iniziano solo ora (o non hanno mai smesso) di frequentare il «cantiere teorico» di Marx; per il quale – vale la pena ricordarlo – la contrapposizione tra una buona «economia reale» ed una cattiva «economia virtuale», è un totale non-senso: il rigonfiamento della sfera finanziaria opera come controtendenza ad una diminuzione della redditività del capitale industriale e, per un certo tempo, consente di ristabilirne la «salute»; in ciò non si può riscontrare alcuna novità essenziale nel funzionamento dell'economia illustrato da Marx nel Capitale. Se si vuole, l'elemento di novità introdotto dalla «mondializzazione», è che l'espansione del settore finanziario, a partire dagli anni '70 del XX secolo, ha plasmato le stesse modalità di gestione del capitale industriale. Nel 2007/2008, questa configurazione del capitalismo ha raggiunto il suo limite: la fuga in avanti della finanziarizzazione non è più funzionale al proseguimento dell'«ordinaria» spremitura della forza-lavoro – ciò che fin'ora non ha impedito a questa fuga in avanti di perpetuarsi (prima con i salvataggi da parte delle Banche centrali, e poi con le successive iniezioni di liquidità) e che conferisce dunque verosimiglianza all'eventualità di altri e più drammatici crash a venire.
Sul versante sociale, negli ultimi anni abbiamo assistito al nascere di numerosi movimenti di massa, sviluppatisi come reazione alla crisi mondiale; alcuni – in particolare Occupy negli USA e i cosiddetti Indignados in Europa – hanno tentato di mettere a tema, teoricamente e praticamente, l'articolazione tra capitale finanziario e capitale industriale. Senza alcun cinismo, possiamo dire che il loro carattere effimero e le risposte che hanno saputo apportare, si implicano reciprocamente: nello slogan «we are the 99%» del movimento Occupy, non si può non cogliere in negativo la definizione di quel 1% (gli avidi manager di Wall Street) come l'escrescenza o il bubbone di un corpo sano. Se dunque il futuro ci potrà riservare esiti più fortunati, sarà anche perché differenti saranno le formulazioni e le risposte a suddetta questione. In caso contrario – e in un clima di tensioni internazionali rinnovate – il pericolo di ricomposizioni nazionaliste e crudeli è forte. Ed è noto che sovente tali ricomposizioni non vanno senza la caccia all'ebreo di turno.

Note:
(1) Karl Marx, "Il Capitale", Libro III, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 927.
(2) Per una disamina di questi concetti, si veda Karl Marx, "Il Capitale: libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato", prefazione di Bruno Maffi, Etas Libri, Milano 2002.
(3) Paul Mattick, Karl Korsch, Heinz Lagerhans, "Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays»", La Nuova Italia, Firenze 1976.
(4) Alfred Sohn-Rethel, Economia e struttura di classe del fascismo tedesco, De Donato, Bari 1978. 


FONTE: http://www.asterios.it/catalogo/antisemitismo-e-nazionalsocialismo

sabato, dicembre 13, 2014

“Ciò che ti distrugge, non va riparato!”

Ciò che ti distrugge, non va riparato!


Pamphlet per la buona vita

a cura della redazione della rivista Streifzüge (tradotto dal tedesco da Massimo Maggini)

1.
Non si può costruire alcuna alternativa attraverso la politica. La politica non ci aiuta a realizzare le nostre possibilità e capacità: con essa tuteliamo solo gli interessi legati al nostro ruolo nell’ordine esistente. La politica è un programma borghese. Ogni sua mossa ed ogni sua azione è sempre in relazione allo Stato e al mercato. Essa modera la società, il suo medium è il denaro. Segue regole simili a quelle del mercato. Qui come là vi è, al centro, la pubblicità; qui come là ne va della valorizzazione e delle sue condizioni.
Il soggetto moderno ha completamente interiorizzato i vincoli di valore e denaro, non può nemmeno immaginarsi senza di essi. È veramente il “padrone” di se stesso, Signore e servo si incontrano qui nello stesso corpo. La democrazia non significa niente più che l’auto-controllo del ruolo sociale che ci è stato imposto. Dal momento in cui siamo sia contro il governo che contro il concetto di popolo, perché dovremmo essere proprio per il governo del popolo?
Essere per la democrazia, questo è il consenso totalitario, il credo collettivo del nostro tempo. È insieme appello e soluzione. La democrazia viene vista come il risultato finale della storia, che può essere solo migliorato, ma oltre il quale niente più si può dare. La democrazia è parte del regime del denaro e del valore, dello stato e della nazione, del capitale e del lavoro. La parola è vuota , tutto può essere introdotto ed evocato in questo feticcio.
Il sistema politico va sempre più verso lo sfascio. Non si tratta solo di una crisi dei partiti e dei politici, ma di una erosione della politica in tutti i suoi aspetti. Ma è proprio necessaria la politica? Per quale motivo, ma soprattutto a che scopo? Nessuna politica è possibile! Anti-politica significa che gli esseri umani lottano contro i ruoli sociali loro imposti.
2.
Capitale e lavoro non sono in alcun modo antagonisti, sono piuttosto un unico blocco di valorizzazione per l’accumulazione del capitale. Chi è contro il capitale, deve essere contro il lavoro. La professata religione del lavoro è uno scenario di autolesionismo e autodistruzione, nel quale ci troviamo catturati e intrappolati. Il disciplinamento al lavoro è stato ed è uno degli obiettivi dichiarati della modernizzazione occidentale.
Mentre la prigione del lavoro rovina, la fede in esso cresce e diventa fanatismo. È il lavoro che ci rende stupidi e malati. Le fabbriche, gli uffici, i grandi magazzini, i cantieri, le scuole, sono tutte istituzioni di distruzione. Le tracce del lavoro, le vediamo ogni giorno nei volti e corpi.
Il lavoro è la voce principale del consenso. È considerato come necessità naturale ma non è altro che allestimento capitalista dell’attività umana. Essere attivi è un’altra cosa, se non è fatto per i soldi e il mercato, ma come un dono, regalo, contributo, creazione per noi, per la vita individuale e collettiva degli individui liberamente associati.
Una parte significativa di tutti i prodotti e opere serve esclusivamente per la moltiplicazione del denaro, costringendo a tormenti non necessari, sprecando il nostro tempo e minacciando i fondamenti naturali della vita. Alcune tecnologie sono da intendersi solo come apocalittiche.
3.
Il denaro è il feticcio di noi tutti. Non c’è nessuno che non voglia averne. Non lo abbiamo mai deciso noi, ma così è. Il denaro è un imperativo sociale e in nessun modo uno strumento manipolabile. Come una forza che costringe costantemente a calcolare, a spendere, a riscuotere, a risparmiare, a indebitarci, a fare credito, ci umilia e ci domina ora per ora. Il denaro è un inquinante senza pari. La coazione a comprare e vendere è sempre il contrario di ogni liberazione e autodeterminazione. Il denaro ci rende concorrenti, se non nemici. Il denaro mangia la vita. Lo scambio è una forma barbarica di condivisione.
Non è solo assurdo che una miriade di professioni si occupino solo di esso, anche tutti gli altri lavoratori intellettuali e manuali sono in modo permanente impegnati a calcolare e speculare. Siamo macchinette automatiche per il calcolo. Il denaro ci taglia fuori dalle nostre possibilità, ci permette solo quello che è calcolabile secondo l’economia di mercato. Noi non vogliamo che il denaro stia a galla, ma che sparisca.
Merce e denaro non sono da espropriare, ma da superare. Esseri umani, case, mezzi di produzione, la natura e l’ambiente, in breve: niente deve essere una merce! Dobbiamo smettere di riprodurre le condizioni che ci rendono infelici .
Liberazione significa che gli esseri umani fanno pervenire liberamente gli uni agli altri i loro prodotti e i loro servizi. Che essi si relazionano direttamente gli uni agli altri e non si affrontano, come ora, in base ai loro ruoli e interessi sociali (come capitalisti, lavoratori, compratori, cittadini, persone giuridiche, inquilini, proprietari ecc.). Stiamo già ora vivendo momenti liberi dal denaro, come nell’amore, nell’amicizia, nella simpatia, nell’aiuto. Qui ci doniamo qualcosa, mettiamo insieme le nostre energie esistenziali e culturali, senza calcoli. Sentiamo che qui, in alcuni momenti, che non c’è alcun comando, alcuna “Matrix”.
4.
La critica è più che mera analisi radicale, essa desidera la sovversione delle condizioni date. La sua prospettiva cerca di immaginare come i rapporti umani possano divenire tali da non aver più bisogno della stessa critica, l’idea di una società in cui la vita individuale e collettiva possa e debba essere reinventata. La prospettiva senza critica è cieca, la critica senza prospettiva è impotente. “Trasformazione” è esperimento sul fondamento della critica nell’orizzonte della prospettiva. “Ripara ciò che ti distrugge!” non è la nostra formula.
Si tratta di niente di meno che dell’abolizione del dominio, è uguale se questo si manifesta in dipendenza personale o con vincoli strutturali. Non è accettabile che degli esseri umani siano sottoposti ad altri, oppure che siano abbandonati al loro destino o ad anonime strutture. L’auto-dominio, così come l’autocontrollo, non ci riguardano. Il dominio è più che capitalismo, ma il capitalismo è fino ad oggi il sistema di dominio più sviluppato, complesso e distruttivo. La nostra vita quotidiana ne è così condizionata, che riproduciamo capitalismo ogni giorno, ci comportiamo come se non ci fossero alternative.
Siamo bloccati, soldi e valore si attaccano al nostro cervello e intasano i nostri sentimenti. L’economia di mercato funziona come una grande “Matrix”. Negarla e superarla è il nostro obiettivo. Una vita buona e appagante presuppone la rottura con il capitale e il dominio. Non si dà alcuna trasformazione delle strutture sociali senza il cambiamento delle nostra basi mentali, e nessun cambiamento delle basi mentali senza il superamento delle strutture sociali.
5.
Noi non protestiamo, per ciò da cui siamo già fuori. Noi non vogliamo reinventare la democrazia e la politica. Noi non lottiamo per l’uguaglianza e la giustizia, e non ci affidiamo ad alcun libero arbitrio. Non vogliamo neanche puntare sullo stato sociale e sullo stato di diritto. E di certo non vogliamo andare in giro a spacciare valori. Alla domanda su quali siano i valori di cui noi abbiamo bisogno, è facile rispondere: nessuno!
Noi siamo per la totale svalorizzazione dei valori, per la rottura con il repertorio degli schiavi – generalmente denominati “cittadini”. Questo status è da respingere. Idealmente abbiamo già licenziato il rapporto di dominazione. La rivolta , che abbiamo in mente, rassomiglia ad un salto paradigmatico.
Dobbiamo uscire dalla gabbia della forma borghese. Politica e Stato, democrazia e diritto, nazione e popolo sono forme immanenti di dominazione. Per la trasformazione non ci sono categorie né partiti, nessun soggetto e nessun movimento.
6.
Si tratta della liberazione del tempo della nostra vita. Solo così è possibile più agio, più piacere, più felicità. Buona vita significa avere tempo. Abbiamo bisogno di più tempo per l’amore e l’amicizia, per i bambini, per riflettere o oziare, ma anche per occuparci intensamente ed in modo eccessivo di ciò che ci piace. Noi siamo per il dispiegamento a tutto tondo del godimento.
Vita liberata significa dormire più a lungo e meglio, e soprattutto anche dormire più spesso e più intensamente l’uno con l’altro. Nell’unica vita ne va della buona vita, l’esistenza deve avvicinarsi ai desideri, i bisogni sono da spingere indietro e il gradevole da ampliare. Il gioco e la gioia, in tutte le loro varianti, richiedono tempo e spazio. La vita deve cessare di essere la grande assente .
Non vogliamo essere quello che siamo costretti ad essere
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pubblicato nel sito web di Streifzüge
http://www.streifzuege.org/2014/ci-che-ti-distrugge-non-va-riparato

sabato, giugno 07, 2014

Cos'è la wertkritik "critica del valore"?

Cos'è la wertkritik?



Con da una parte il lavoro magistrale di Moishe Postone, il "Chicago Political Workshop" ed il gruppo con base a Londra "Principia Dialectica" e dall'altra parte i gruppi tedeschi ed austriaci come Krisis, Exit, Streifzüge o il gruppo 180° con dei teorici come Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Robert Kurz, Anselm Jappe, Gérard Briche, Ernst Lohoff, e molti altri autori, una "reinterpretazione della teoria critica di Marx" come l'ha chiamata Postone, è apparsa durante gli ultimi due decenni. A differenza delle tradizionali letture di Marx con le quali essa rompe, quest'approccio a volte etichettato come movimento della "critica del valore" (wertkritik), ha degli interessi principali diversi: questa nuova critica si è in gran parte fatta notare per aver articolato un approccio teorico che porta un'attenzione particolare al carattere feticista della produzione delle merci, alla dimensione astratta (lavoro astratto) di ogni lavoro, alla distinzione tra valore e ricchezza materiale ed alla natura del capitale come "soggetto automata". Così, a differenza dei marxismi tradizionali i principali soggetti del capitalismo non sono né il proletariato, né la borghesia, ma piuttosto il capitale stesso (il valore che si autovalorizza). Il valore non è limitato alla sola "sfera economica", ma impone la sua struttura a tutta la società, il valore è una forma sociale di vita e di socializzazione, un "fatto sociale totale".
Uno dei punti centrali di questo nuovo lavoro teorico è di sviluppare una critica del capitalismo che non si ferma al livello degli antagonismi di classe sociologici, alla questione dei rapporti di distribuzione e di proprietà privata dei mezzi di produzione. La classe capitalista gestisce un processo di produzione di merci a suo proprio profitto, ma non ne è né l'autore né il padrone. Lavoratori e capitalisti non sono che le comparse di un processo che li supera, la lotta di classe se esiste, non è in realtà che una lotta di interessi all'interno delle forme di vita e di socializzazione capitaliste. Così al contrario dell'anticapitalismo limitato, la critica del valore osa infine criticare il sistema nella sua totalità, e innanzitutto criticare per la prima volta il suo principio di sintesi sociale, il lavoro in quanto tale, nelle sue due dimensioni concreta ed astratta, come attività socialmente mediatizzante e storicamente specifica al solo capitalismo, e non come semplice attività strumentale, naturale e transtorica, come se il lavoro fosse l'essenza generica dell'uomo che sarebbe captata esternamente dal capitale. È il doppio carattere di questa forma di vita sociale e sfera separata della vita che è il lavoro e non il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione , che costituisce il nucleo del capitalismo. Soltanto nella società capitalista, il lavoro astratto si rappresenta nel valore, il valore è l'oggettivazione di un legame sociale alienato. Il valore di scambio di una merce non è che l'espressione, la forma visibile, del valore "invisibile".
Un movimento di emancipazione dal feticismo del valore, non può più criticare questo mondo a partire dal punto di vista del lavoro. Non si tratta dunque più di liberare il lavoro dal capitale, ma di liberarsi dal lavoro in quanto tale, non facendo lavorare le macchine esistenti perché il modo industriale di produzione è intrinsecamente capitalista (la tecnologia non è neutra), ma abolendo un'attività posta al centro della vita come socialmente mediata. Tuttavia la critica non deve fornire in allegato, un manuale di istruzioni per un'organizzazione alternativa dell'utilizzazione della vita. Essa sviluppa una spiegazione possibile del mondo presente, delle sofferenze reali delle nostre proprie vite e delle esigenze sociali che sono loro imposte, ma non è un manuale di istruzione che spieghi come costruire correttamente una "società ideale". Il solo criterio proposto dalla wertkritik è che nessunmedium feticista (come oggi il lavoro) si interpone oramai tra gli individui sociali e tra gli individui sociali ed il mondo.
E poiché non è mai esistito, ciò resta da inventare. Ma non c'è compromesso possibile con l'economia, e cioè con il lavoro come forma capitalista del metabolismo con la natura, e come mediazione sociale tra gli umani. Non si può privilegiare accanto all'economia, altre dimensioni (il dono, il mutuo appoggio, la cura, ecc.) che potrebbero esistere parallelamente, perché il valore è una forma sociale totale feticista che invade tutto: bisogna uscire decisamente dall'economia inventando altre forme di mediazione sociale tra noi, oltre quelle del lavoro, della merce, dl denaro, del capitale che collega le nostre "capacità di lavoro" sulle sue disposizioni sociali e le sue macchine.
Altri punti forti di questo nuovo lavoro teorico è stato di fornire una struttura che permette di comprendere il processo di crisi economica che è iniziato negli anni 70 e di cui i notevoli effetti attuali sono spesso intesi come una semplice "crisi finanziaria", o un altro apporto è stato l'elaborazione di una teoria socio-storica delle conoscenza e della soggettività che rompe con l'epistemologismo contemporaneo, pur consentendo di comprendere in altro modo l'antisemitismo, il razzismo, la politica, lo Stato, il diritto, il dominio patriarcale, ecc. Per avere più ampia conoscenza con questo nuovo lavoro teorico che rompe con il marxismo, si potrà consultare la sezione "presentazione della wertkritik". 
 
 
[Traduzione di Ario Libert]
 
LINK al post originale:

lunedì, giugno 02, 2014

Sulle cause profonde dell’attuale crisi finanziaria - Norbert Trenkle (gruppo Krisis)

Nel 2008, a seguito della crisi economica mondiale scatenata dall'implosione dei cosiddetti mutui “subprime” negli Stati Uniti, esce, a cura di Norbert Trenkle del gruppo Krisis, il testo “Weltmartkbeben” (Terremoto nel mercato mondiale), qui tradotto.
 
Il testo assume un'importanza particolare, nella misura in cui riassume le posizioni che questo gruppo porta avanti da anni e che in qualche modo hanno largamente anticipato la crisi e le sue ragioni. Esso prova a dare una lettura “inattuale” e fuori dal coro della crisi economica in corso, lettura che può aiutare ad impostare correttamente il problema e a cercare soluzioni più radicali e capaci di intaccarne i meccanismi di fondo.
Per un aiuto alla lettura, sinteticamente ecco i punti “forti” del testo:
  • la crisi economica mondiale era in corso da lungo tempo e la sua esplosione entro un periodo più o meno breve era ampiamente prevedibile
  • le cause di questa esplosione non sono da ricercarsi nella malvagità di un numero comunque limitato di avidi speculatori dediti alla finanza più cinica e spietata, ma nel meccanismo di fondo della riproduzione capitalistica stessa. La “rivoluzione microelettronica”, ovvero il passaggio da una produzione seriale meccanica fondata sul lavoro vivo ad una fondata sulla tecnologia microelettronica, ha destrutturato gli apparati produttivi, aumentando in modo esponenziale la produttività del lavoro e al tempo stesso espellendo lavoro vivo. Questo ha determinato un afflusso enorme di merci sul mercato che restano per lo più invendute, interrompendo quindi la loro necessaria valorizzazione, ovvero l'indispensabile trasformazione in valore monetario, e insieme minato la base stessa della creazione di valore, cioè il lavoro vivo ora espulso dai cicli produttivi, quindi neanche più in grado, come lo voleva per esempio il sistema di regolazione fordista, di concretizzare il ciclo della valorizzazione acquistando la merce prodotta. Almeno dagli anni '70, da quando cioè la crisi di valorizzazione ha cominciato a farsi pressante, il capitale si è rifugiato nell'ambito finanziario, unico grazie al quale era possibile realizzare i profitti necessari a mantenere in vita il ciclo capitalistico. Questi profitti tuttavia erano fittizi, perché non realizzati grazie all'estrazione di valore derivato dal lavoro vivo, quindi dall'economia reale, ma dalla mera speculazione su valore già esistente, speculazione che da quel momento ha generato una bolla di valore senza base reale (capitale fittizio) la cui inevitabile deflagrazione sta portando conseguenze che cominciano ad avvertirsi, con estrema durezza, solo adesso.
  • la politica mostra anch'essa, entro questo schema, i suoi limiti storici, nella misura in cui è un elemento indispensabile, insieme allo Stato, della regolazione e distribuzione capitalistica, e dalle sue regole e dalle sue esigenze determinata.
  • false risposte alle cause della crisi determinano fallaci illusioni, come quella che la politica possa in qualche modo trovare soluzioni efficaci, e pericolosi sviamenti, quali quelli che vedono negli “ebrei” (parola usata da quelli di Krisis, oltre che nel suo senso letterale, anche per indicare l'immagine stereotipata di “speculatore” tipo) la causa di tutti i mali. Tra le nefaste conseguenze che questo tipo di risposte possono comportare, non ultima è quella di credere che la soluzione passi per l'“eliminazione” di alcune soggettività e la loro sostituzione con altre più “virtuose”, capaci di “valorizzare” il lavoro onesto e produttivo, lasciando però di fatto intatto il sistema, e non accorgersi invece come siano il capitalismo (il “soggetto automatico” come lo chiamava Marx) ed i suoi meccanismi di riproduzione il problema e l'unica soluzione la loro estinzione.
La produzione del gruppo Krisis, molto ampia e per lo più non tradotta in italiano, è rintracciabile nel loro sito web ==> http://www.krisis.org (Cybergodz).]
È almeno a partire dalla cosiddetta “critica del capitalismo” di Franz Müntefering nel 2005 che si è imposta un po’ ovunque l’immagine della “locusta” per esprimere ciò che gran parte dell’opinione pubblica già dava per scontato: e cioè che la responsabilità principale dell’attuale crisi economica e sociale debba essere imputata ad “avidi investitori finanziari”. Non deve quindi sorprendere l’eccessivo utilizzo di questa metafora e l’equivalenza, espressa nella broschure del “sindacato unificato dei servizi” (in tedesco: Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft – Ver.di), per la quale “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro”1.
Per fortuna è stata articolata, per esempio nei sindacati, una forte critica a questo opuscolo, critica che sembra destinata a dar vita a un dibattito a lungo rimandato. Per difendersi contro le critiche gli autori dell’opuscolo hanno messo in campo un argomento molto illuminante. Avrebbero – scrivono in un contibuto pubblicato sul giornale on-line LabourNet2 – preventivamente discusso sulla metafora “locuste”, arrivando però “alla conclusione che … parlando di queste tematiche, questo concetto andava necessariamente espresso, altrimenti avremmo avuto bisogno di circonlocuzioni complicate, e alla fine sarebbe diventato chiaro ai lettori che comunque stavamo parlando delle ‘locuste’.
Questo argomento è illuminante in quanto sottolinea come la metafora della locusta non sia solo una superficiale attribuzione ideologica, che possa essere sostituita da un’altra più “innocua” (cioè senza connotazione anti-semitica), bensì sia strettamente legata alle argomentazioni della brochure e ad altre simili. Proprio qui insomma casca l’asino. Problematica è però soprattutto l’analisi economica o, più precisamente, il modo in cui viene effettuata la critica del capitale finanziario, con la quale l’immagine utilizzata va a braccetto. Naturalmente la critica del capitalismo deve analizzare la connessione tra l’enorme bolla dei mercati finanziari e la dinamica della crisi globalizzata del capitalismo, e chiedersi quali conseguenze pratiche per i movimenti sociali e sindacali ne conseguano. La questione fondamentale, tuttavia, è in che cosa consista tale connessione. Il seguente testo cercherà di contribuire a trovare una risposta a questa domanda, rispondere alla quale sta diventando, a fronte della sempre più minacciosa crisi dei mercati finanziari internazionali, estremamente urgente.
L’attuale crisi dei mercati finanziari internazionali, che rischia di trasformarsi in una crisi vera e propria a livello mondiale, è attribuita da quasi tutti i commentatori ed esperti economici allo scatenamento senza freni della speculazione, soprattutto negli Stati Uniti. Nel mirino sono finiti quindi banche e fondi di investimento, considerati i principali attori di questa speculazione, ma anche governi e le stesse banche centrali (in primo luogo il governo degli Stati Uniti e la Federal Reserve), che avrebbero consentito e incoraggiato questa evoluzione. Si sentono così rassicurati nelle loro convinzioni tutti coloro che per anni hanno indicato nella speculazione sfrenata la causa principale degli attuali sconvolgimenti economici e sociali – quali la disoccupazione di massa, il taglio dei salari o l’incentivazione della concorrenza e la demolizione dello Stato sociale – e vedono come chiave di volta per risolvere questi problemi la regolamentazione e il controllo dei mercati finanziari.
Ora, potrebbe sembrare, ad una prima superficiale considerazione, che la crescente pressione economica sulla società origini effettivamente, nel suo complesso, dai mercati finanziari. Chi potrebbe negare che essi abbiano storicamente vinto, in modo determinante, e abbiano avuto una forte influenza sullo sviluppo economico? Da lì ad identificarli come i principali responsabili dei mali sociali, è un passo. Tuttavia non è solo per il fatto che rimane in superficie che la polemica contro gli hedge fund, i private equity fund e altri fondi operanti sul mercato finanziario (usando immagini ideologicamente estremamente pericolose come “locuste” e “sanguisughe”)3 trovi un’eco così forte nell’opinione pubblica. Essa si basa anche su un diffuso preconcetto, per il quale il capitale finanziario, le banche e gli “speculatori” sono i maggiori responsabili dei mali del capitalismo, a scapito – si suppone – del “lavoro onesto” e delle “imprese produttive”, da cui traggono i loro guadagni senza dover alzare un dito. Di conseguenza, è l’“avidità insaziabile” dei mercati finanziari, che aspirano a guadagni eccessivi, ad essere denunciata (come se il modo di produzione capitalistico non si basasse essenzialmente sul principio della massimizzazione dei profitti e la sua strada non fosse da sempre cosparsa di cadaveri).
Questa però non è una critica del capitalismo, quanto nella migliore delle ipotesi una glorificazione nostalgica dello stato sociale, cioè del capitalismo regolamentato, del dopoguerra, quando il mondo si suppone era ancora in “ordine”. Peggio ancora essa apre così, al tempo stesso, la porta all’anti-semitica delirante proiezione il cui nucleo centrale è ben noto: la divisione del capitale fra concreto capitalismo che lavora e un capitalismo astratto e “rapace”, dove “gli speculatori” vengono tout court idenficati con gli ebrei, che si pensa tirino le fila dietro le quinte del mondo dell’economia e della politica. Questa pericolosa connessione ideologica è stata, negli ultimi anni, più volte additata e criticata, per cui non vale la pena qui insistere4. Meglio invece puntare l’attenzione sul fatto che concentrare l’attacco sul capitale finanziario significa di fatto rovesciare la connessione di causa-effetto dei rapporti della logica capitalistica, e con ciò quindi sul fatto che non solo viene a mancare una corretta analisi dei processi in corso nella crisi attuale, ma anche la possibilità di una resistenza adeguata alle condizioni sociali e politiche che essa impone.

Le conseguenze di lungo periodo della crisi del fordismo

Basta uno sguardo alla storia per dimostrare che l’emergere di grandi bolle speculative e creditizie nei mercati finanziari non è mai stata la causa delle crisi del capitalismo, bensì solo risultato e forma di processi di crisi in corso, le cui ragioni vanno sempre ricercate nella congestione dei capitali da valorizzare nell’economia reale. Ciò vale anche e soprattutto per le attuali turbolenze finanziarie e il lungo periodo di speculazioni che le ha precedute, anche se questa crisi può vantare, rispetto alle crisi precedenti, alcune specificità storiche.
È noto che il decollo e l’ampia autonomizzazione dei mercati finanziari sono cominciati nella metà degli anni ’70. Le ragioni, tuttavia, non sono da ricercare in arbitrarie decisioni politiche o nell’influenza dei Think Tanks neo-liberali o di potenti gruppi di interesse economico, come spesso si sostiene oggi a posteriori, ma nel fatto che il lungo boom del dopoguerra cadde allora in una profonda crisi strutturale e il fordismo sbatté nei propri limiti. I margini di profitto calarono perché la produttività delle aziende, basate sulla produzione standardizzata di massa, veniva esaurendo mentre, al contempo, avevano successo le lotte dei lavoratori per garantire un aumento dei salari e dei benefici, e il finanziamento delle infrastrutture pubbliche diventava sempre più costoso. Quando i paesi OPEC aumentarono sensibilmente i prezzi del petrolio, e quindi i costi per lo sfruttamento delle riserve di energia fossile salirono velocemente, la forte crescita del dopoguerra giunse alla fine. Gli investimenti in impianti di produzione, fabbriche, edifici, ecc. vennero accantonati, poiché non permettavano più un guadagno sufficiente e, di conseguenza, una parte significativa del capitale venne “liberato “, senza che trovasse più alcuna opzione di investimento praticabile e redditizia.
Poiché però il capitale è per sua essenza valore che si valorizza, e quindi l’unico scopo della produzione capitalistica consiste nel fare più soldi dai soldi (da qui anche il fine capitalistico della crescita quantitativa permanente, senza riguardo per i bisogni umani e i limiti naturali), un tale ristagno del processo di valorizzazione equivale a una crisi. Più precisamente, a una crisi di sovra-accumulazione o – per dirla con il vocabolario economico attuale – a una crisi di sovra-investimenti. Una parte del capitale è in eccesso (sempre relativamente al suo fine astratto) e quindi a rischio svalorizzazione. Questa svalorizzazione non si limita ai singoli fallimenti di società o banche (come sempre avviene in regime di capitalismo normale) ma colpisce – mediata e rafforzata da negativi effetti moltiplicatori – tutta l’economia e la società intera.
Proprio questo è il pericolo che minaccia il capitalismo dalla metà degli anni ’70, pericolo che molti economisti (non solo di sinistra) a suo tempo previdero5. Perché tuttavia ancora non si è realizzato appieno? Perché l’economia mondiale non è crollata? Una delle principali ragioni è stata che una quota significativa del capitale in eccesso, che non poteva più essere investito nell’economia, ha ripiegato nei mercati finanziari internazionali, dove è stata investita dapprima soprattutto sotto forma di prestiti statali, successivamente sempre più anche in titoli azionari e obbligazionari. Questo scivolamento nella sfera finanziaria è di per sé una forma del tutto normale della valorizzazione del capitale durante una crisi. Marx ha già analizzato tutto ciò alla luce della crisi del 1857, ed ha coniato per questo il concetto di “capitale fittizio”. “Fittizio” è il capitale creditizio e speculativo, perché agisce solo in apparenza come capitale. Ma per quanto investa per il suo proprio interesse e profitto, la valorizzazione reale resta insufficiente, poiché essa presuppone sempre che vi sia lavoro astratto impiegato nella produzione di beni e servizi e che una parte di esso sia “estratto” in quanto plusvalore. Il “reddito”, che il capitale fittizio “produce” proviene, invece, da altre fonti, siano esse tasse e nuovi crediti (come nel caso della crescita esponenziale del debito pubblico), siano esse “scommesse sul futuro” (come nel caso dei guadagni che provengono da speculazioni in borsa) o la svendita dello stato (come nel caso dei proventi derivanti dalle privatizzazioni).
Questo si vede molto bene nel caso del debito pubblico: lo Stato prende in prestito denaro per poi reimmetterlo immediatamente nel ciclo del consumo. Dal punto di vista del creditore questo denaro appare come capitale, perché frutta interessi. In realtà è stato speso già da lungo tempo, per cui esiste come “valore” solo in forma di richiesta di versamento (titoli di Stato). Ma anche il credito per il consumo privato o per i mutui ipotecari funziona allo stesso modo: i mutuatari prendono in prestito soldi per comprare case, automobili e altri prodotti di consumo. Per i creditori questi stessi soldi appaiono come capitale che è stato investito con profitto, anche se questo capitale in realtà è già stato bruciato nel consumo da molto tempo. Ma questo fatto viene tranquillamente rimosso. Il sistema finanziario o speculativo appare come una opzione di investimento “reale”, come qualsiasi altra, fintanto almeno che il denaro continua a sgorgare.
La bolla del capitale fittizio non solo dà agli investitori una possibilità alternativa, ma significa anche, dal punto vista macroeconomico, un rinvio dello scoppio della crisi. Questo perché il ripiegamento nei mercati finanziari non solo nasconde provvisoriamente la svalutazione del capitale in surplus, ma crea anche potere d’acquisto addizionale mediato da diversi meccanismi, potere che si esprime nella domanda di beni e servizi. Grazie a questo l’economia reale continua a reggere, su questa base può nuovamente ravvivarsi. Nel caso del debito pubblico, questo meccanismo agisce in modo immediato ed è, in quanto tale, già diventato uno strumento chiave della politica economica. Non importa se lo stato prende in prestito soldi per costruire strade, per l’acquisto di aerei militari o per la spesa sociale, questo meccanismo torna sempre indietro nel ciclo del consumo e rianima la congiuntura di crisi. Esattamente la stessa funzione economica compie il credito al consumatore e i prestiti ipotecari, come il recente boom immobiliare negli Stati Uniti ha mostrato, salvo che i mutuatari sono solo individui. Ma anche i guadagni finanziari rifluiscono parzialmente nell’economia reale, sia attraverso la spesa per ristrutturazione di banche, fondi comuni e altri operatori istituzionali del mercato finanziario (dalla flotta dei computer fino agli edifici più prestigiosi), sia che dipendenti o semplici privati finanzino i propri consumi con la finanza speculativa o con redditi da interessi. In questo senso il capitale fittizio è tutt’altro che un peso morto che grava sull’economia reale e la ostacola nel suo funzionamento. Al contrario, esso consente il mantenimento provvisorio delle normali attività capitalistiche.
In tutte le grandi crisi capitalistiche fino ad oggi questo modo di differimento della crisi non è durato molto a lungo. Dopo una breve fase, al surriscaldamento speculativo seguiva inevitabilmente una caduta di grandi dimensioni del mercato finanziario, in cui il potenziale represso di crisi scoppiava con una forza tremenda e distruggeva in un colpo solo gran parte delle strutture economiche e sociali. La specificità storica della crisi del fordismo consiste nel fatto che una tale massiccia svalutazione con un tale accumulo di speculazione e massa di credito non c’è mai stata. Ma questo non significa che le leggi dello sfruttamento capitalistico e della sua logica funzionale siano sospese, come è stato spesso sostenuto. Dal punto di vista storico unico è solo il periodo lunghissimo di differimento della crisi, che tuttavia strutturalmente non è diversa dalle precedenti crisi del meccanismo di capitale fittizio e quindi, prima o poi, deve sfociare in una enorme violenta svalorizzazione. Logicamente, questo lungo periodo di differimento corrisponde al rigonfiamento di una gigantesca bolla di speculazione e di credito. Se oggi, dunque – come possiamo possiamo leggere in quasi tutti i giornali – circa il 97 per cento di tutti i flussi finanziari transnazionali ha finalità meramente speculative, questo non dipende in alcun modo da una “carenza di controllo” sull’economia o dall’“avidità” di voraci speculatori, ma mostra piuttosto quali proporzioni abbia raggiunto il rinvio della crisi, e quindi anche l’enorme potenziale di crisi che è stato accumulato.

Le peculiarità del lungo differimento della crisi

Politicamente, è stata la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari trans-nazionali e il definitivo sganciamento del denaro dall’oro (con il superamento della conversione del dollaro in oro nel 1971 e quindi la fine del sistema regolato dei tassi di cambio), a rendere possibile questo rinvio incredibilmente lungo della crisi. È stato infatti solo grazie a ciò che l’offerta globale di denaro è potuta crescere in modo impensabile rispetto alle crisi precedenti, visto che prima il gold standard e i mercati finanziari regolati nazionalmente ponevano rigide limitazioni. Ma la decisione di abbattere questi confini non è stato un atto accidentale di una politica che avrebbe seguito le indicazioni di alcuni potenti gruppi di interesse6. Piuttosto seguiva le dinamiche di sviluppo economico degli anni 1950 e 1960, che a poco a poco hanno minato le basi del sistema di Bretton Woods. Nella misura in cui l’indiscussa egemonia economica degli Stati Uniti andava perduta e i costi per il mantenimento della sua posizione politica e militare mondiale potevano essere finanziati solo da un crescente debito nazionale (i costi della guerra in Vietnam hanno giocato qui un ruolo determinante), tassi di cambio fissi e la dipendenza delle valute dell’occidente alle riserve auree degli Stati Uniti non erano più sostenibili. Ma con ciò si ponevano anche le condizioni per una enorme bolla di offerta di moneta con la partecipazione attiva dei governi, delle banche centrali e degli organismi finanziari internazionali. Sono stati così pompate dal 1970 e soprattutto dopo il 1980 grandissime quantità di liquidità non garantite nei mercati, da una parte attraverso il percorso diretto del debito pubblico, dall’altra grazie a una politica di “denaro a buon mercato”, che è una ricetta classica per risolvere le crisi dei mercati finanziari. Un ruolo centrale hanno svolto qui gli Stati Uniti, i quali hanno potuto ricorrere all’indebitamento per un lungo periodo senza timore di dover incorrere in grosse perdite di cambio grazie alla loro posizione di potenza mondiale, poiché il dollaro ha fattivamente servito da valuta mondiale (un ruolo che viene ora messo in discussione). Ma anche gli altri stati occidentali hanno, con il loro indebitamento e le politiche di creazione di moneta, contribuito in modo significativo a gonfiare in modo permanente la bolla globale di capitale fittizio, in questo modo rendendo possibile un ulteriore differimento del crollo.
C’è da considerare, tuttavia, un’altra caratteristica storicamente importante del lungo ciclo di finanziamento capitalistico che ha preso inizio negli anni ’70. Essa consiste nel fatto che esso non ha rappresentato solo un rinvio della crisi del fordismo, ma anche di quella prodotta dall’enorme spinta produttiva dalla terza rivoluzione industriale. Secondo i termini di una “normale” crisi da sovra-accumulazione la violenta trasformazione della produzione sulla base delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione avrebbe dovuto causare, se possibile, una ancora più profonda depressione in tutto il mondo, nel corso della quale tutto l’impianto economico del dopo guerra sarebbe stato ridotto in macerie. Il lungo rinvio della crisi utilizzando il capitale fittizio, invece, ha permesso di limitare questa opera di distruzione e di confinarla in un primo momento in gran parte nei paesi del Sud del mondo e dell’ex blocco orientale. Se le strutture fordiste si sono poi sgretolate anche nelle metropoli occidentali, questo è accaduto entro un processo più lungo, nel corso del quale la pressione sulle condizioni di lavoro e sui sistemi sociali è cresciuta costantemente e le strutture produttive sono state sconvolte a fondo. A seconda della posizione nel mercato mondiale e della competitività dei diversi paesi, questo processo ha proceduto in modo diverso, ma la tendenza è stata la stessa ovunque: il settore industriale è stato razionalizzato in modo drastico con l’aiuto di applicazioni microelettroniche, e ridotto gradualmente al suo nocciolo iperproduttivo, mentre le parti della produzione, la cui automatizzazione non era (ancora) “conveniente”, sono state relegate nei paesi a basso salario o nell’outsourcing.
Poiché però al tempo stesso il cosiddetto “terzo settore” (o settore dei servizi) è diventato sempre più importante ed ha assorbito una notevole quantità di forza lavoro non più necessaria nel mondo del lavoro industriale, potrebbe superficialmente sembrare che il capitalismo abbia solo attraversato l’ennesimo cambiamento strutturale, che essenzialmente si sarebbe caratterizzato attraverso la sostituzione del vecchio settore-guida dell’industria con il settore dei servizi e della “produzione di sapere” e la contemporanea globalizzazione delle relazioni economiche. Di conseguenza, la stragrande maggioranza degli osservatori e esperti del settore hanno concordato sul fatto che il capitalismo abbia ottenuto notevole successo nel superare la crisi degli anni ’70 e ’80, almeno nelle metropoli occidentali (parola chiave “crisi della società del lavoro”), anche se al prezzo di un aumento della precarietà della vita e delle condizioni di lavoro per ampie fasce della popolazione – fatto che è stato letto, in base alle posizioni politiche, come inevitabile, oppure denunciato come risultato, suscettibile di revisione, delle politiche neoliberiste. Da tutte le parti, tuttavia, la diagnosi che vedeva in tutto ciò un processo irreversibile di crisi è stata giudicata assurda e irragionevole. “Basta guardare come il capitalismo è vivo e vegeto”, si leggeva – di volta in volta con posizioni di giubilo, critiche o rassegnate – con riferimento alle plusvalenze spumanti, soprattutto negli ultimi anni.
L’attuale crisi finanziaria, tuttavia, sottolinea chiaramente come tale valutazione fosse fondamentalmente sbagliata. E questo non a causa di speculazioni che avrebbero distrutto una struttura economica di per sé valida (come nella campagna contro le “locuste” viene sempre sostenuto), ma perché la struttura che si è evoluta nel corso degli ultimi venticinque-trenta anni non può rappresentare una base per un nuovo boom di accumulazione del capitale. Al contrario, essa è rimasta in vita proprio perché si è nutrita in modo permanente dei flussi del capitale fittizio (e ancora adesso ne è alimentata). Una nuovo boom richiederebbe, sulla via di una crescita continua, che venisse utilizzata sempre più forza-lavoro nella produzione di merci al necessario livello di produttività, perché solo attraverso ciò può aumentare la massa del valore e il circolo “Denaro-Merce-più Denaro” essere costantemente mantenuto. Visto dal lato della domanda, ciò significa che in ogni periodo si creano guadagni sufficienti solo se viene venduta la merce prodotta nel periodo precedente. Proprio questi presupposti però non si danno più sotto le condizioni della Terza Rivoluzione Industriale. La razionalizzazione sulla base delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione solca con un ritmo infernale tutti i settori dell’economia in tutte le sue branche, tale da rendere nel suo insieme superfluo un numero sempre maggiore di forza-lavoro, in quanto non necessario per la crescita del momento. Con ciò però non solo il processo di valorizzazione recide in modo permanente la domanda, a cui ha delegato di realizzare nel mercato il valore prodotto. Ancora più radicalmente ne compromette definitivamente il fondamento più proprio7. In quanto la rivoluzione microelettronica produce una sorta di crisi da sovraccumulazione permanente, questo significa che crea incessantemente un surplus di capitale produttivo non più valorizzabile, che deve rifugiarsi nella sfera del capitale fittizio, contribuendo quindi in modo molto significativo alla crescita esponenziale della bolla finanziaria.

Crisi? Quale crisi?

Contro questa diagnosi viene spesso sostenuto che sono stati tuttavia creati, negli ultimi decenni, milioni di nuovi posti di lavoro nei paesi ex-periferici, soprattutto nei paesi dell’Est e Sud-Est asiatico, e quindi la base della produzione di valore è cresciuta, non diminuita. Ma questo argomento non tiene conto di due cose fondamentali. In primo luogo, la grande massa del lavoro industriale in questi paesi viene eseguita ad un livello molto basso di produttività e, quindi, in rapporto al livello mondiale standard di automazione e razionalizzazione industriale richiesto sul mercato, rappresenta solo una percentuale molto piccola di valore. Questo perché dal punto di vista della produzione di valore non conta il mero numero di ore fatte, quanto piuttosto la quota di valore di una merce, quota definita dal livello di produttività socialmente già raggiunto8. Poiché esso nei segmenti chiave del mercato mondiale della produzione aumenta in modo permanente, le fasi della produzione di lavoro sotto-produttivo esternalizzato restano anch’esse permanentemente sotto-valorizzate. Pertanto, l’outsourcing in termini di business è sostenibile solo fino a quando si mantengono salari sempre più bassi e condizioni di lavoro peggiorative9. E questa è a sua volta la ragione per la quale l’attuale spinta alla razionalizzazione non porta ad una riduzione generale dell’orario di lavoro e ad una buona vita per tutti (ancora una volta non si apre spazio per un relativo miglioramento delle condizioni di vita all’interno della società capitalista), ma ad un impoverimento sociale e umano di massa.
In secondo luogo, inoltre, il boom in Cina, India e altri “mercati emergenti” è di per sé ben lungi dall’essere autosufficiente: esso dipende totalmente dalla creazione di fondi speculativi e creditizi sui mercati finanziari transnazionali. È ben noto come l’intera struttura economica di questi paesi sia stata progettata per l’esportazione di massa in primo luogo negli Stati Uniti e nell’Unione europea, i quali a loro volta finanziano le loro importazioni in larga misura con gli afflussi di capitali speculativi e di credito. Paradigmatico in questo senso è il deficit circolatorio del Pacifico, cioè tra Stati Uniti e Asia orientale, che fin dai tempi dell’amministrazione Reagan è diventato il motore centrale dell’economica mondiale. Il suo meccanismo di funzionamento è fondamentalmente molto semplice: il crescente disavanzo commerciale viene coperto da una altrettanto crescente importazione di capitali finanziari, che vengono in parte coperti attraverso la via diretta della spesa pubblica finanziata con il credito (“deficit gemelli”), in parte attraverso il giro del sistema privato della finanza che viene reintrodotto nel circolo del consumo. I flussi di denaro provengono però in gran parte dai paesi asiatici (soprattutto inizialmente Giappone, ora sempre più Cina) i quali investono le loro vendite nel settore finanziario degli Stati Uniti o creano riserve in valuta estera in dollari, finanziando così il loro stesso export. Nell’era Reagan, inizialmente, era il gigantesco debito statale a funzionare da motore per il consumo, poi lo divenne sempre più la speculazione sulla carta – a quel tempo, nella cosiddetta “new economy”, non pochi investitori privati finanziarono una parte del loro consumo grazie a enormi aumenti dei prezzi sul “nuovo mercato”. E negli ultimi anni, il centro focale si è infine spostato verso la speculazione immobiliare.
Tuttavia, questo circuito funziona solo fino a quando il dollaro statunitense gode della fiducia necessaria, in modo che sempre nuovo capitale finanziario affluisca per finanziare il deficit permanente. Questa crisi finanziaria si distingue però per il fatto che la fiducia viene a mancare in misura crescente (come mostra la caduta del corso del dollaro). Se il governo americano e la Fed non dovessero riuscire ad invertire questa tendenza, la circolazione del deficit del Pacifico arriverebbe a un punto morto, e questo avrebbe per l’economia mondiale all’incirca lo stesso significato che il prosciugamento della Corrente del Golfo per il clima mondiale. È comunque anti-americanismo spicciolo, a fronte di questo scenario di pericolo, che in Europa si innalzino ora sempre più voci per denunciare con indignazione gli Stati Uniti che avrebbero “vissuto a spese del resto del mondo”, con il loro “consumo improduttivo” finanziato dal credito10, e che vorrebbero ora anche precipitare l’economia mondiale nella crisi. Si riproducono qui una volta di più le divisioni ideologiche fra capitale creditizio “parassitario” e onesto capitale produttivo – e, almeno in Europa, questi schemi dell’ideologia anti-americana sono sempre stati pericolosamente vicini all’antisemitismo – ma soprattutto viene qui completamente capovolto il contesto reale. Perché, da un lato, i paesi europei hanno beneficiato in forte misura della domanda finanziata con il credito proveniente dagli Stati Uniti, in particolare l’industria tedesca che sarebbe già da lungo tempo a terra senza le ingenti esportazioni oltre Atlantico, dall’altro il debito pubblico in Europa rivaleggia con quello statunitense. E anche per la speculazione non siamo rimasti indietro: negli ultimi anni c’è stato, principalmente in Europa meridionale, un massiccio boom speculativo sui mercati dei beni immobili, che ora sta implodendo. Vista nel suo complesso, l’intera economia mondiale capitalistica è appesa al filo del capitale fittizio, poiché l’economia reale non sta più in piedi.
È pertanto completamente assurdo che i commentatori di tutti i giornali, da sinistra a destra, accusino oggi la banca centrale Usa di aver alimentato la speculazione immobiliare attraverso la sua politica dei tassi a basso interesse, per cui sarebbe quindi responsabile dell’attuale crisi finanziaria. Ciò che ha fatto la Fed, dopo il crollo della New Economy, è semplicemete evitare che già in quel momento crollasse la gigantesca valanga dei mercati finanziari. Ha così ancora una volta ritardato la crisi di sette-otto anni e con ciò reso possibile, fra altro, la famosa “ripresa” di cui oggi tutti i politici si vantano. Se quindi proprio si volessero utilizzare categorie morali in questo contesto, si dovrebbe esser grati alla Fed e al governo degli Stati Uniti per aver dato all’economia mondiale, attraverso la loro politica monetaria espansiva, ancora una volta un po’ di fiato. Ma la gratitudine è qui ovviamente inappropriata, come lo è un atto d’accusa morale. Piuttosto, è necessario in primo luogo rendersi conto che la crisi dei mercati finanziari non ha le proprie cause nella speculazione, ma in una crisi strutturale fondamentale della riproduzione capitalistica. Questa consapevolezza ha implicazioni di vasta portata per i conflitti sociali del prossimo futuro.

Un altro rinvio della crisi …

Non è possibile prevedere con sicurezza quale ulteriore corso la crisi potrà prendere. Attualmente non è chiaro se le banche centrali e i governi unendo le forze potranno nuovamente rimandare, grazie ai mercati finanziari, il mega-crash, con i suoi effetti devastanti per il mondo intero. Se dovessero avere successo, questo comporterebbe, tuttavia, solo il rigonfiamento di una ennesima bolla finanziaria. Ciò sarebbe una beffa per tutti coloro che vedono nel controllo dei mercati finanziari la soluzione del problema, richiesta questa che, fra l’altro, proviene un po’ da tutte le parti, anche da coloro che fino ad oggi erano inflessibili neo-liberali – secondo il motto: “Che me ne importa di quello che dicevo ieri”. Ma, in pratica, questo intervento dello Stato equivarrebbe all’esatto contrario: in sostanza, a limitare i danni diretti derivanti dallo scoppio della bolla immobiliare. È significativo che persino il socialdemocratico populista Lafontaine si prodighi per un aiuto statale per le banche in difficoltà: perché sa che un collasso del sistema bancario avrebbe conseguenze devastanti per la società nel suo complesso11. Naturalmente ha poi doverosamente richiesto che le banche e gli attori del mercato finanziario siano controllati meglio. Ma questa è pura retorica, perché i crediti inesigibili del presente potranno – se mai lo saranno – esser compensati solo attraverso futuri utili finanziari. Non fa alcuna differenza in linea di principio quindi, che l’attore dei mercati finanziari sia pubblico o privato, perché entrambi sono ugualmente soggetti all’obbligo di gestire il “loro” capitale con profitto, e questo, sotto le permanenti condizioni di sovra-accumulazione, può accadere solo nel settore del credito e della speculazione12, visto che i margini per una reale valorizzazione del capitale restano chiusi. Che questo sia riconosciuto o meno è uguale, nei fatti le cose stanno così. I governi e le banche centrali continueranno pertanto ad essere niente di più che casse ancora una volta da spalancare. Governo Usa e Fed sono già su questa strada13.
La politica poi è sempre limitata nelle sue azioni dal vincolo di non poter toccare la logica funzionale del capitalismo in quanto tale. Per sua natura essa politica, in quanto gestione degli affari pubblici, resta chiusa all’interno di questa logica. I margini della politica si sono sì modificati nel corso della storia. Sono stati però sempre strutturati e vincolati da uno specifico quanto storico spazio di possibilità, che a sua volta dipende dalle cieche dinamiche di sviluppo capitalistico. All’interno di questo spazio le decisioni e le scelte politiche derivano dalla combinazione di vari fattori quali i rapporti sociali di forza, le costellazioni di potere internazionali o il divario di competitività nel mercato globale. L’insieme del telaio di questo spazio si trova perciò al di là della portata della politica. Ciò vale anche per l’oggi tanto glorificato fordismo. Nonostante il potenziale di regolazione relativamente grande la politica del boom fordista ha, in quel periodo, potuto fare veramente poco per impedire la sua fine. Essa poteva infatti influenzare solo fino a un certo punto il suo corso interno e utilizzare i margini di distribuzione esistenti per la costruzione di una vasta infrastruttura sociale. Nell’epoca della crisi gobale capitalistica essa ne rappresenta uno specchio efficace. La politica non può realmente combattere il capitale fittizio, poiché il rigonfiamento costante della bolla del credito e della speculazione è il prerequisito per la precaria tregua della crisi e determina perciò anche lo spazio e i confini del suo agire. Per questo essa deve fare di tutto per mantenere questi prerequisiti il più a lungo possibile, e ciò determina, oltre a misure di politica monetaria, anche il progressivo impoverimento dei beni “pubblici”, che vengono gettati nelle fiamme dello sfruttamento privato al fine di poter mantenere la macchina capitalista in corsa ancora per un po’14.
È quindi completamente al di fuori delle possibilità della politica fermare la dinamica della crisi del capitalismo in quanto tale. Piuttosto, essa contribuisce, attraverso le sue azioni, a portare la riproduzione costante delle contraddizioni di fondo del processo di crisi a livelli sempre più alti. Mentre la massa di capitale fittizio, che deve essere protetta contro la svalorizzazione, cresce in modo esponenziale (come mostra uno sguardo alla crescita dei mercati finanziari), aumenta, con ogni fase di rinvio della crisi, la pressione sulla società e sulla gran massa della popolazione, che si trova costretta a vendersi in condizioni sempre più precarie. Di conseguenza, i costi sociali di un nuovo rinvio della grande crisi finanziaria sono di grande rilievo. In primo luogo è da prevedere un conseguente crollo congiunturale, che, contrariamente al presunto “sviluppo”, arriverà con certezza. In secondo luogo, il rigonfiamento della massa monetaria dovrebbe portare ad un ulteriore accelerazione dell’inflazione, e quindi un ulteriore deterioramento del potere generale d’acquisto, già in costante diminuzione. E, infine, la prossima ondata di speculazione, presumibilmente, si rivolgerà alle materie prime, i prodotti alimentari e i carburanti agricoli ed avrà quindi dirette conseguenze, del tutto catastrofiche, per gran parte della popolazione mondiale. Anche i tremendi rialzi dei prezzi per i prodotti alimentari negli ultimi due anni sono stati causati in larga misura dal fatto che sempre più speculatori hanno investito i loro capitali in quei settori. Se questa tendenza si rafforzasse, darebbe luogo a una vera e propria esplosione dei prezzi, che moltiplicherebbe come conseguenza inevitabile la fame nel mondo.
Anche in questo caso tuttavia non sarebbe la bolla del capitale fittizio la causa della catastrofe, ma fungerebbe (come nel caso delle privatizzazioni) come mediatore e cinghia di trasmissione del processo di crisi e della sua immanente tendenza a escludere e precarizzare. Esiste quindi il forte rischio che il nuovo risentimento generato si diriga ancora una volta contro l’immagine di un “avido” capitale finanziario, che viene incolpato della miseria dilagante. Diventa allora importante contrapporsi a questa “critica del capitalismo” rovesciata, che con le sue posizioni dà il fianco all’antisemitismo. Ciò richiede tuttavia, accanto alla necessaria critica dell’ideologia, un’analisi approfondita e fondata della crisi, che sottragga terreno alla percezione sbagliata delle relazioni capitalistiche. Naturalmente questo non significa escludere i mercati finanziari e la speculazione dalla critica. Ma essi devono sempre essere compresi come parte di una più radicale crisi del capitalismo, che si dà come processo complessivo di distruzione su vasta scala dei fondamenti sociali e naturali della vita.
Questa critica è da rivolgere anche contro la concezione, in parte nostalgica e in parte populista, che ripropone le politiche keynesiane di crescita e regolazione. In fondo anche gli stessi propagandisti di queste politiche sanno che, alle circostanze attuali, non hanno più alcun spazio reale. Questo viene dimostrato regolarmente là ogni qual volta sono i partiti di “sinistra”, con programmi simili a tutti gli altri, a governare e di fatto realizzano l’esatto contrario di quanto promesso, sia che si tratti del governo della città di Berlino non meno che della passata “coalizione di centro-sinistra” in Italia o del governo Lula in Brasile. In modo assurdo, anche gli “elettori” non sono in gran parte solo creduloni e facilmente “ingannati”, ma vista l’assenza di prospettive spesso vogliono essi stessi credere che sia possibile un ritorno allo stato di benessere keynesiano del dopoguerra, anche se ognuno in realtà intuisce che questo non è più possibile. Tutto ciò rende lo stato d’animo generale schizofrenico, tanto che per esempio è possibile in Germania un ampio sostegno sociale alle classiche rivendicazioni democratiche (salario minimo generale, no alle privatizzazioni etc) e al tempo stesso elevati livelli di simpatia per il governo Merkel. Il problema è che questo stato d’animo, nei suoi tentennamenti fra immanenti quanto irrealizzabili desideri e una accettazione acritica della struttura logica capitalista, diviene altamente vulnerabile alla individuazione di capri espiatori, siano essi i fondi speculativi (Hedge Funds), il governo degli Stati Uniti o le grandi imprese o – in ultima delirante conseguenza – “gli ebrei”.
Può sembrare paradossale, ma se non ci si vuole sottomettere alla “Realpolitik” ed a i suoi “credo” è indispensabile identificare chiaramente i limiti delle possibilità della politica nel periodo attuale di crisi capitalistica. Non per darle un riconoscimento, ma come base necessaria per l’orientamento dei movimenti sociali e di quelle parti dei sindacati che si contrappongono al depauperamento sociale sistematico, alla progressiva dequalificazione di tutte le aree della vita, alla precarietà e al controllo che l’accompagnano, e alla repressione. Lasciare che i movimenti si impegnino in illusorie prospettive politiche e nelle politiche di partito, significa solo neutralizzarli15. Coalizzarsi invece per collegare le lotte oltre i confini degli interessi particolari, le relazioni di vita frammentate e le identità separate, potrebbe riuscire a superare la perdita di solidarietà causata dalla pressione della crisi e formare un contrappeso sociale che si opponga con successo alla demolizione neoliberista e alla sua politica di esclusione, e insieme ponga di nuovo il superamento della logica capitalistica nel regno del possibile.

… O la crisi dell’economia mondiale?

Dovesse tuttavia fallire il rinvio della recente crisi, saremmo minacciati da una crisi economica globale di proporzioni enormi, in cui si scaricherebbero i potenziali di crisi accumulati in trent’anni. Il risultato immediato sarebbe un crollo massiccio di aziende e banche, presumibilmente accompagnato da un violento aumento dell’inflazione. Non ci vuole grande fantasia per immaginare l’impatto devastante di questa mega-stagflazione sulle finanze dello Stato, sui sistemi sociali e sulle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione. È molto probabile che in queste condizioni guadagnerebbe consenso un’ideologia nazional-populista di gestione delle crisi, come in effetti già da tempo viene propagata, e non solo dalla parte di destra dello spettro politico. Ad esempio, quando il giornalista di “sinistra” Jürgen Elsässer (che scrive sul Neues Deutschland) chiama ad un “Fronte Popolare Nazionale” contro il capitale globalizzato e, soprattutto, contro il capitale finanziario (che egli – che sorpresa – individua principalmente negli Stati Uniti), questo può lì per lì solo sembrare un’esternazione dettata dalla sovraeccitazione. Essa rappresenta, invece, una tendenza che spinge verso una preclusione aggressiva e nazionalistica nel contronti dell’esterno e verso un disciplinamento autoritario all’interno, al tempo stesso promuovendo sentimenti anti-semitici. È vero che, anche sotto l’aspetto della mera gestione delle crisi, dati i forti legami economici transnazionali, un ritorno a un ben delimitato stato-nazione è quasi impensabile. Più probabile è una disgregazione dell’economia mondiale in blocchi continentali, uno scenario che negli apparati del potere politico e nei Think Tanks viene considerato già da lungo tempo. Una forte spinta in questa direzione potrebbe essere il prevedibile crollo del dollaro e la conseguente perdita della sua funzione di moneta mondiale16.
Un tale scenario non rappresenta certo una soluzione alla crisi nel vero senso della parola, ma solo una forma di gestione delle emergenze. In nessun caso questo tentativo potrebbe avrebbe il carattere di un “ripulimento” della crisi, con il quale venisse creata, spazzando via sovracapacità e titoli tossici, la base per una nuova accumulazione sostenibile. Perché la vera causa della crisi, cioè l’espulsione di forza-lavoro viva dalla produzione diretta attraverso dallo spostamento delle forze produttive sul terreno del sapere generale sociale, e con ciò l’erosione della produzione di valore, non sarebbe stata rimossa. Anche successivamente ogni produzione dovrebbe ripartire dal livello tecnologico di produttività raggiunto, o comunque misurarsi in base ad esso, mentre la gara della produttività continuerebbe. Ad un livello inferiore di produzione di valore si riproporrebbe immediatamente la situazione di costante sovraccumulo, inclusa necessariamente una nuova bolla di capitale fittizio. Con ciò si arriverebbe solo ad una riproduzione delle contraddizioni della recente crisi, significativamente aggravata dalle condizioni economiche e sociali. La domanda cruciale allora è se si può sviluppare, dalla resistenza contro la gravità del processo di crisi, un movimento globale di emancipazione, che faccia emergenere un programma pratico di appropriazione dei legami sociali al di là della logica dello sfruttamento capitalistico.
Trad. a cura di Cybergodz
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Note

1 http://wipo.verdi.de/broschueren/finanzkapitalismus
2 www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten_wipo.pdf
3 Sulla citata broschure dei Ver.di “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro” cfr.. Lothar Galow-Bergemann: “Gegen Börsenungeziefer” [contro i parassiti delle borse] apparso su Streifzüge 42/ 2008 (http://www.streifzuege.org/2008/gegen-boersenungeziefer#more-492) oppure la critica del capitale finanziario presente in www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten.html a cura dei Ver.di di Stuttgart
4 Cfr. per esempio il mio articolo apparso sul numero 32/ 2004 di Streifzüge “Entsorgung nach der Art des Hauses” [smaltimento fatto in casa] – http://www.streifzuege.org/2004/entsorgung-nach-art-des-hauses#more-351
5 Cfr. per esempo l’ottima analisi proposta in Elmar Altvater, Volkhard Brandes, Jochen Reiche (Hrsg.): “Handbuch 4. Inflation – Akkumulation – Krise II” [manuale vol.4. Inflazione – Accumulazione - Crisi], Frankfurt/M. 1976
6 Per una rappresentazione grottesca ed esasperata della tesi secondo la quale il superamento del gold-standard sia da attribuire ad una scelta volontaria, cfr Jürgen Elsässer: „1971 verkündigte US-Präsident Richard Nixon in einer Nacht- und Nebelaktion das Ende der Goldumtauschpflicht für den Dollar. Seither zersetzt sich die ökonomische Grundlage des Kapitalismus sukzessive“ [nel 1971, il presidente Nixon annunciò in un colpo la fine del cambio obbligatorio in oro per il dollaro: da allora, si sono distrutti i fondamenti economici del successivo capitalismo] in: Solidarität – Sozialistische Zeitung, Nr. 57, 4.5.2007.
7 Le statistiche economiche mostrano come oggi sia necessaria una crescita del PIL molto più alta rispetto agli anni ’70 per creare dei posti di lavoro. L’analisi statistica tuttavia si muove ancora entro un quadro molto ottimistico, considerando semplicemente una contabilità dei posti di lavoro senza domandarsi se essi contribuiscano alla produzione di valore o meno (questione che le statistiche economiche escludono a priori). Per la maggior parte dei servizi, così come per la “produzione di sapere”, non vi è produzione di valore [su ciò cfr. Samol: Arbeit ohne Wert [lavoro senza valore], Lohoff: Der Wert des Wissens (il valore del sapere), und Meretz: Der Kampf um die Warenform [la lotta per la forma-merce], in Krisis 31/2007]. In tal senso, la crescita del terziario non può compensare la secolare tendenza a liquefarsi della sostanza del lavoro e del valor1 http://wipo.verdi.de/broschueren/finanzkapitalismus
2 www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten_wipo.pdf
3 Sulla citata broschure dei Ver.di “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro” cfr.. Lothar Galow-Bergemann: “Gegen Börsenungeziefer” [contro i parassiti delle borse] apparso su Streifzüge 42/ 2008 (http://www.streifzuege.org/2008/gegen-boersenungeziefer#more-492) oppure la critica del capitale finanziario presente in www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten.html a cura dei Ver.di di Stuttgart
4 Cfr. per esempio il mio articolo apparso sul numero 32/ 2004 di Streifzüge “Entsorgung nach der Art des Hauses” [smaltimento fatto in casa] – http://www.streifzuege.org/2004/entsorgung-nach-art-des-hauses#more-351
5 Cfr. per esempo l’ottima analisi proposta in Elmar Altvater, Volkhard Brandes, Jochen Reiche (Hrsg.): “Handbuch 4. Inflation – Akkumulation – Krise II” [manuale vol.4. Inflazione – Accumulazione - Crisi], Frankfurt/M. 1976
6 Per una rappresentazione grottesca ed esasperata della tesi secondo la quale il superamento del gold-standard sia da attribuire ad una scelta volontaria, cfr Jürgen Elsässer: „1971 verkündigte US-Präsident Richard Nixon in einer Nacht- und Nebelaktion das Ende der Goldumtauschpflicht für den Dollar. Seither zersetzt sich die ökonomische Grundlage des Kapitalismus sukzessive“ [nel 1971, il presidente Nixon annunciò in un colpo la fine del cambio obbligatorio in oro per il dollaro: da allora, si sono distrutti i fondamenti economici del successivo capitalismo] in: Solidarität – Sozialistische Zeitung, Nr. 57, 4.5.2007.
7 Le statistiche economiche mostrano come oggi sia necessaria una crescita del PIL molto più alta rispetto agli anni ’70 per creare dei posti di lavoro. L’analisi statistica tuttavia si muove ancora entro un quadro molto ottimistico, considerando semplicemente una contabilità dei posti di lavoro senza domandarsi se essi contribuiscano alla produzione di valore o meno (questione che le statistiche economiche escludono a priori). Per la maggior parte dei servizi, così come per la “produzione di sapere”, non vi è produzione di valore [su ciò cfr. Samol: Arbeit ohne Wert [lavoro senza valore], Lohoff: Der Wert des Wissens (il valore del sapere), und Meretz: Der Kampf um die Warenform [la lotta per la forma-merce], in Krisis 31/2007]. In tal senso, la crescita del terziario non può compensare la secolare tendenza a liquefarsi della sostanza del lavoro e del valore
8 Su ciò è bene ricordare quanto Marx, a questo proposito, riferisce nel primo libro del Capitale: “potrebbe sembrare che, se il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro impiegato durante la sua produzione, più un uomo è pigro o goffo, più preziosa è la merce che egli produce, visto che ha bisogno di più tempo per la sua preparazione. Il lavoro tuttavia, che costituisce la sostanza del valore, è sempre lo stesso lavoro umano, dispendio della stessa forza-lavoro umana. La forza-lavoro totale della società, che si manifesta come valore nel mondo delle merci, vale qui come una e stessa forza-lavoro umana, sebbene sia composta da innumerevoli singoli lavoratori. … Dopo l’introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, per esempio, era forse sufficiente metà del lavoro prima impiegato per trasformare una data quantità di filato in tessuto. I tessitori inglesi lavoravano però tanto tempo quanto prima, ma il prodotto delle loro ore di lavoro individuali rappresentava ora solo una mezz’ora sociale di lavoro, ed era quindi sceso a metà del suo valore precedente. “(MEW 23, pag .53; it.pag.30, Newton Compton ed.,1979. La traduzione qui è leggermente ritoccata)
9 Cfr. Norbert Trenkle: Es rettet euch kein Billiglohn [non vi salverà neanche il salario basso] in: Kurz, Lohoff, Trenkle (Hrsg.) Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit [Facciamo festa! Undici attacchi contro il lavoro], Hamburg 1999 – http://www.krisis.org/navi/feierabend-elf-attacken-gegen-die-arbeit
10 Scrive Elmar Altvater: “I cittadini statunitensi possono tenere un elevato standard di consumo, il famoso “stile di vita americano”, sebbene essi siano profondamente indebitati … Ciò richiede, in primo luogo, un elevato tasso di risparmio in altre regioni del mondo, che consenta agli Stati Uniti e ai suoi cittadini di oltrepassare i limiti. In secondo luogo, che i mercati finanziari funzionano in modo che i risparmi del mondo vengono convogliati negli Stati Uniti “((Elmar Altvater: Das Ende des Kapitalismus – so wie wir ihn kennen, Münster 2005, S. 135 [La fine del capitalismo per come noi lo conosciamo], Münster 2005, p 135)
11 Lafontaine ha ironicamente accusato Josef Ackermann di esser diventato di sinistra, poiché questi di fronte alla crisi finanziaria sosteneva l’intervento dello Stato nel sistema bancario (Netzeitung, 20.3.2008). Di fatto questo mostra come, per quanto riguarda la gestione della crisi, tutti i partiti si trovino allineati.
12 È quindi anche ridicolo che oggi le banche siano criticate per le loro perdite da speculazione immobiliare. Hanno fatto solo quello che, nel boom speculativo, ci si aspettava da esse, ovvero di mettere i “loro” soldi a profitto. Se non lo avessero fatto, sarebbero certamente stati attaccati dagli “esperti” per la loro “eccessiva cautela”, gli stessi che ora, a fronte delle alte perdite, gridano allo “scandalo”.
13 Tuttavia, si deve registrare anche un conflitto di interessi tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, di cui la crisi potrebbe accelerare lo slancio. Mentre gli Stati Uniti, come al solito, hanno penalizzato i tassi di interesse, e hanno creato in poco tempo un pacchetto di aiuti governativi del valore di circa 150 miliardi di dollari, i governi europei e la BCE mettono in primo piano la lotta all’inflazione e si rifiutano perciò di abbassare gli interessi. Qui, l’argomento un po’ stupido che viene utilizzato è che la crisi è negli Stati Uniti, mentre in Europa l’economia è stabile, come se le due economie non fossero legate strettamente. In realtà, tutto questo potrebbe causare un ancora più forte crash del dollaro, che potrebbe far perdere agli USA il loro ruolo di motore del consumo nell’economia globale. Allora il legame tra BCE e UE, ora rimosso, si imporrebbe certamente in modo violento
14 Per l’analisi di questo meccanismo, cfr. Ernst Lohoff: Out of Area – Out of Control, in: Streifzüge Nr. 31 e 32, Wien 2004
15 Così, ad esempio, come è successo per gran parte del movimento italiano anti-globalizzazione e per i social forum che si sono lasciati confluire nel partito “Rifondazione” e sono stati quindi costretti a sostenere il governo Prodi, almeno indirettamente. In questo modo hanno perso la loro capacità di mobilitare e sono ora di fronte a un disastro politico…
16 In certi ambienti economici si discute seriamente di un ritorno al gold standard, ciò che fra le altre cose porterebbe ad una completa svalutazione dei dollari accumulati negli ultimi decenni. “Se tutto va a catafascio e nessuno più vuole avere il dollaro debole, l’America tagli la sua valuta e la leghi all’oro accumulato in Fort Knox. Il resto del mondo, che attraverso l’acquisto di valuta statunitense ha finanziato la mcchina-da-debito statunitense, rimarebbe con un palmo di naso” (Wirtschaftswoche 18.2.2008, p 134).

FONTE: www.krisis.org/