Lo spettacolo del segreto di Stato
è lo spettacolo totalitario del capitale della lobby
dalla redenzione attraverso il peccato al fascismo sociale
dall'arianesimo al comunismo nazionale
dal santo peccato alla dottrina sociale della chiesa
sempre in pista il finanziere usa il denaro come arma di devianza di massa
piega ogni volontà alla propria causa quella del Nulla
Risuonano nella mia testa
le parole e le immagini dello spettacolo della Lobby:
"Se l'Ebreo di spirito, il capro espiatorio, sta male e viene violentato
tu puoi avere tutto il denaro che vuoi"
"è un mezz'uomo un infelice un impotente
i suoi figli sono nati per sbaglio" " uccidilo è un sacrificio umano, è sempre stato così.
La Dea madre l'ex nazista madrina della camorra è li a testimoniarlo dalla notte dei tempi "
il finanziere l'uomo più amato e deviato di questo Stato conosce i segreti dell'Ordine
e brama l'immoratalità ma non conosce il rispetto
ha scritto una sentenza di morte apparente di violenza inaudita
per lo stregone che si è trasformato per la magia del Capitale nell'ebreo errante
Al servizio del santo peccatore il finanziere un gregge di stolti coi valori
non importa se trafficano in droga protetti dai servizi
non importa se rubano i figli alle madri
non importa se stuprano e molestano i deboli
sono gli eroi di questo Stato
sono lo spettacolo di questo paese, la Lobby
"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post
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sabato, febbraio 21, 2015
sabato, dicembre 27, 2014
Nichilismo virtuale
Voci sconnesse di un pogrom in diretta virtuale
nella crisi del bel paese, nel tramonto dell'occidente,
ubriache di politiche del risentimento che fanno una litania sempre uguale
"Ebreo, ebreo, ebreo muori!
Il capro espiatorio c'è sempre stato!
Sei nato per subire!
Hai ucciso Gesù Cristo, hai ucciso il Principe!"
Il razzismo spirituale e ariano di evoliana memoria
portato dalle dee madri, naziste ma di sinistra,
(comunità di sangue contro l'ebreo di spirito da violentare a pagamento)
si fa forza con quei soldi quel denaro di matrice Frankista
sono le conquiste del nazional-comunismo
che arrivano agli stolti che già si sentono in paradiso
Sono un club esclusivo gli stolti della lobby,
portatori di un nichlismo virulento
che non fa prigionieri
una setta che si è fatta Stato
devianza assoluta il loro motto
"La redenzione attraverso il peccato"
chi finisce sulla loro starda diventa per magia anti-italiano
e poi scompare nel nulla
non si può sconfiggerla ma solo oltrepassarla
la linea del nulla senza poi fare ritorno
tossici fuggiaschi, altenativi al sistema, nazisti della porta accanto, commercialisti della nuova borghesia, burocrati con lo scheletro nell'armadio, dirigenti d'azienda, preti pedofili, esoterici da strapazzo dell'Ordine di Zerothustra
artisti del contemporaneo che si comprano la coca coi soldi del finaziere
emineza grifia che ci sta per lasciare
è una legge fisica non una predizione
Essere testimoni del nichlismo
dalla tv parlano di omicidi senza senso
esplosioni di violenza incontrollata
c'è che invoca la pena di morte
c'è chi dovrebbe stare zitto
proprio come quel compagno coperto dallo Stato e dal Partito
che ha ammazzato senza pietà chi era indifeso
parlo io che non dovrei parlare
io che ho offeso
io un intoccabile
ma il trattamento sanitario illegale di un intera vita
la persecuzione razziale
l'esperimento
mi ha ridato diritto alla parola
un marsigliese
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Simonetti Walter
venerdì, dicembre 19, 2014
Federico Ferrari L'anarca
L'anarca. La libertà del singolo tra anarchia e nichilismo di Federico Ferrari
http://www.ibs.it
Attraverso i tuoi occhi ho incominciato a vedere, nelle tue parole ho iniziato ad ascoltare. Ho creduto dapprima che il “sì”, l’azione, dovesse mutare il mondo. Ho pensato che fosse necessaria una morale da eroi o da martiri per sconfiggere i gelidi mostri generati dal nichilismo. Ti vedevo sulle montagne, dopo aver rinunciato al titolo di basileus, passeggiare solitario e, dall’alto dei boschi, guardare Efeso dibattersi nella follia del potere. Pensavo alla tua rinuncia, ma non ne comprendevo fino in fondo il senso. Anche quando, in cammino verso il deserto con il tuo bufalo d’acqua, ti apprestavi a varcare il posto di guardia di Hangu e non fare più ritorno, ti guardavo e non capivo. Nemmeno leggendo le tue lettere indirizzate al di là del tempo, dopo il tuo ritiro definitivo dal cuore stesso dell'Impero, nemmeno allora compresi. Pensavo che la salvezza fosse negli altri, nella vita comune, nel sogno di una cosa, nella storia, nell’eredità vivente dell’arte e del pensiero, nei corpi e nel desiderio. Ho lottato e militato su tutti questi fronti e mi sono scontrato, a viso aperto, con i Titani, ma mi hanno schiacciato, spingendomi nella sfera del dolore, in cui tutto scivola su pareti senza appiglio.
Sono rimasto immobile, per anni, guardando nel vuoto, incapace di una reale parola. Sconfìtto e nell’impossibilità di rialzarmi. Non c’era linea da superare in quella sfera claustrofobica. E tu stesso, nonostante la tua forza inaudita, non hai retto e hai dovuto spingerti nella follia, nella conversione, nel suicidio. Nella casa di Weimar, seduto sull’umiliante seggiolone e accudito da tutto ciò che ti faceva orrore; ma anche disperato e alcolizzato nella tua mansarda parigina. Pensavo a quante volte ti eri perso ed eri stato umiliato dal secolo. Io, seduto sulla panchina sotto il grande albero, vegliavo sulla tua tomba nel cimitero di Bergstraße, mentre buffoni di ogni sorta scimmiottavano la tua esistenza, facendo mercimonio del tuo eroismo. Pagliacci, fascisti, tecnocrati, uomini della megamacchina, funzionari dello spettacolo, profeti e apocalittici, neomessianici e post-human. Una coltre umana, troppo umana, alla luce della quale, più che mai, il dolore aumentava e il nichilismo risplendeva. Vedevo mia madre e mio padre attaccati a macchine che ne prolungavano la sofferenza atroce, sotto lo sguardo vuoto di medici al di là della dimensione del senso. Sempre più immobile, guardavo tutto ciò.
Poi, quando la forza del nulla si apprestava a darmi il colpo finale, quel colpo letale da cui non ci si rialza più, ho compreso che non c’era una linea da superare per salvarsi e, soprattutto, ho compreso che quella linea non era dietro il nichilismo, non c’era nessun fronte da oltrepassare. Non era quindi necessario opporre alla forza distruttrice del nichilismo una forza opposta. Non era necessaria alcuna lotta, alcuna battaglia frontale. Non aveva nessun senso l’idea di un superamento della linea del nichilismo.
Dovevo, semplicemente, scartare di lato. La linea ero io, l’anarca.
2014, 74 p. mimesis | |
http://www.ibs.it
Attraverso i tuoi occhi ho incominciato a vedere, nelle tue parole ho iniziato ad ascoltare. Ho creduto dapprima che il “sì”, l’azione, dovesse mutare il mondo. Ho pensato che fosse necessaria una morale da eroi o da martiri per sconfiggere i gelidi mostri generati dal nichilismo. Ti vedevo sulle montagne, dopo aver rinunciato al titolo di basileus, passeggiare solitario e, dall’alto dei boschi, guardare Efeso dibattersi nella follia del potere. Pensavo alla tua rinuncia, ma non ne comprendevo fino in fondo il senso. Anche quando, in cammino verso il deserto con il tuo bufalo d’acqua, ti apprestavi a varcare il posto di guardia di Hangu e non fare più ritorno, ti guardavo e non capivo. Nemmeno leggendo le tue lettere indirizzate al di là del tempo, dopo il tuo ritiro definitivo dal cuore stesso dell'Impero, nemmeno allora compresi. Pensavo che la salvezza fosse negli altri, nella vita comune, nel sogno di una cosa, nella storia, nell’eredità vivente dell’arte e del pensiero, nei corpi e nel desiderio. Ho lottato e militato su tutti questi fronti e mi sono scontrato, a viso aperto, con i Titani, ma mi hanno schiacciato, spingendomi nella sfera del dolore, in cui tutto scivola su pareti senza appiglio.
Sono rimasto immobile, per anni, guardando nel vuoto, incapace di una reale parola. Sconfìtto e nell’impossibilità di rialzarmi. Non c’era linea da superare in quella sfera claustrofobica. E tu stesso, nonostante la tua forza inaudita, non hai retto e hai dovuto spingerti nella follia, nella conversione, nel suicidio. Nella casa di Weimar, seduto sull’umiliante seggiolone e accudito da tutto ciò che ti faceva orrore; ma anche disperato e alcolizzato nella tua mansarda parigina. Pensavo a quante volte ti eri perso ed eri stato umiliato dal secolo. Io, seduto sulla panchina sotto il grande albero, vegliavo sulla tua tomba nel cimitero di Bergstraße, mentre buffoni di ogni sorta scimmiottavano la tua esistenza, facendo mercimonio del tuo eroismo. Pagliacci, fascisti, tecnocrati, uomini della megamacchina, funzionari dello spettacolo, profeti e apocalittici, neomessianici e post-human. Una coltre umana, troppo umana, alla luce della quale, più che mai, il dolore aumentava e il nichilismo risplendeva. Vedevo mia madre e mio padre attaccati a macchine che ne prolungavano la sofferenza atroce, sotto lo sguardo vuoto di medici al di là della dimensione del senso. Sempre più immobile, guardavo tutto ciò.
Poi, quando la forza del nulla si apprestava a darmi il colpo finale, quel colpo letale da cui non ci si rialza più, ho compreso che non c’era una linea da superare per salvarsi e, soprattutto, ho compreso che quella linea non era dietro il nichilismo, non c’era nessun fronte da oltrepassare. Non era quindi necessario opporre alla forza distruttrice del nichilismo una forza opposta. Non era necessaria alcuna lotta, alcuna battaglia frontale. Non aveva nessun senso l’idea di un superamento della linea del nichilismo.
Dovevo, semplicemente, scartare di lato. La linea ero io, l’anarca.
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mercoledì, dicembre 03, 2014
Angeli caduti
Ero su un tetto di un vecchio palazzo
insieme ad un amico
avevo delle ali di cartone
legate sulla schiena
credevo e fingevo di essere un uccello rapace
che spiccava il volo
col sangue pieno di acido lisergico
cercavo scalpore trovavo indifferernza
dalla moltitudine solo urla indistinte
"Buttati! falla finita, criminale!"
La visione di un santo eretico
ci portò al salto improvviso
dieci metri sotto di noi
sembravamo spacciati
ma qualcuno, qualcosa ci teneva
per le braccia
il volo dell'angelo caduto
la leggenda del RE pescatore
siamo il frutto di esperimenti
siamo il frutto di macchinazioni
siamo il frutto della violenza dello Stato
siamo agenti provocatori
che sono diventati lavori sporchi
ma non sanno loro come farla finita
la legge del Karma
la violenza che fai un giorno ritornera contro di te
sono stato vittima e carnefice
un angelo caduto
Mi contraddico, cammino al buio
un uomo solo
con la vita fatta a pezzi
non solo dalla finanza ma da tutto il resto
dell'umana società
questa storia ci dice che siamo tutti in vendita
e chi parla per valori parla per il nulla
del denaro
fatto con la merce dell'infamia e dell'ipocrisia
solo la forza primordiale che sta dentro di noi, l'anarchia ci può salvare!
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Simonetti Walter
sabato, novembre 22, 2014
Dopo il trattamento
Sono stato internato
per il mio bene e della comunità
avevo un coltello in mano
o volevo andarmene di nuovo
così mi è stato detto
sono stato classificato come un fuoriuscito
dal circo dal manicomio della vita
a cielo aperto
una gabbia d'acciaio
da cui non si può fuggire
non si può scappare
dalle proprie responsabilità
nemmeno morire i tentacoli dell'Ordine sono ovunque
nemmeno con la droga e l 'alcool si può far perdere
le proprie tracce
annegare i pensieri molesti paranoici
è solo una nuova prigione
da cui è difficile uscire
Sono stato internato
per delle agitazioni psichiche
disturbo borderline di personalità
sono stato venduto come Gesù
per tranta denari
il socialismo degli straccioni, degli imbecilli
dopo anni di analisi viene a galla
che non esisto
e mai ho potuto vivere nell'isola felice
un film tragicomico
il riso ha soffocato il dolore della perdita
il sacrificio come costante e rigenerazione
Sono stato internato
per il divertimento del Principe
e del capo della Lobby dei devianti che crede di essere un ariano
per paura delle proprie origini
e compra le proprie amicizie
a suon di quattrini
violentando e ammazzando quello che chiama ebreo di spirito
il pariah l'intoccabile che non vuole morire
che non ha più paura della paura
giovedì, settembre 18, 2014
F. Nietzsche Il viandante e la sua ombra
Parte seconda
Il viandante e la sua ombra
L 'ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene
un'occasione.
Il viandante: Parla — dove? e chi? E quasi come se sentissi parlare me stesso, solo
con voce più debole della mia.
L'ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un'occasione di parlare?
Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la
sento, ma non ci credo.
L'ombra: Accettiamolo e non pensiamoci oltre, tra un'ora sarà tutto finito.
II viandante: Pensai proprio così, quando in un bosco vicino a Pisa vidi prima due e
poi cinque cammelli.
L'ombra: E bene che ambedue siamo ugualmente indulgenti verso di noi, se per una
volta la nostra ragione tace: così anche nel nostro colloquio non ci adireremo e non
metteremo subito le manette all'altro se la sua parola ci suonerà incomprensibile.
Se proprio non si sa rispondere, basta già dire qualcosa: questa è l'equa condizione
alla quale io mi intrattengo con qualcuno. In un dialogo un po' lungo, anche il più
savio diventa una volta pazzo e tre volte babbeo.
Il viandante: Le tue modeste pretese non sono lusinghiere per colui al quale le
confessi.
L'ombra: Debbo dunque lusingare?
II viandante: Pensavo che l'ombra dell'uomo fosse la sua vanità: ma questa non
chiederebbe mai: «debbo dunque lusingare?».
L'ombra: La vanità umana, se ben la conosco, non domanda neppure, come io ho
già fatto due volte, se può parlare: parla sempre.
Il viandante: Solo adesso mi accorgo quanto sono scortese nei tuoi confronti, mia
cara ombra: non ho ancor neppure fatto parola su quanto mi rallegra di ascoltarti, e
non solo di vederti. Lo sai, io amo l'ombra come amo la luce. Perché esistano la
bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere,
l'ombra è necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: anzi si tengono
amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l'ombra le scivola dietro.
L'ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci
della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e
scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell'ombra che tutte le cose
mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza — io sono anche
quell'ombra.
Il viandante: Credo di capirti, anche se ti sei espressa in modo un po' umbratile. Ma
avevi ragione: i buoni amici si dicono talvolta una parola oscura, come segno
d'intesa, che dev'essere un enigma per ogni altra persona. E noi siamo buoni amici.
Perciò basta con i preamboli! Centinaia di domande premono il mio animo, e il
tempo in cui tu potrai rispondervi è forse troppo breve. Vediamo su che cosa
incontrarci in fretta e pacificamente.
L'ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non dirai a nessuno come
abbiamo parlato insieme!
Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? II cielo mi guardi da lunghi ed
elaborati dialoghi scritti! Se Platone avesse avuto meno gusto a elaborare, i suoi
lettori avrebbero più gusto a lui. Un dialogo che nella realtà delizia è, se
trasformato in scrittura e letto, un quadro con prospettive del tutto false: tutto è
troppo lungo o troppo corto. — Tuttavia potrò forse comunicarti su che cosa ci
siamo accordati?
L'ombra: Questo mi basta; perché tutti vi riconosceranno solo le tue opinioni;
nessuno si ricorderà dell'ombra.
Il viandante: Forse ti sbagli, amica! Sinora nelle mie opinioni si è vista più l'ombra
che me.
L'ombra: Più ombra che luce? È possibile?
Il viandante: Sii seria, cara matta! La mia prima domanda esige subito serietà!
8.
Nella notte. — Non appena scende la notte, cambia la nostra percezione delle cose
più vicine. C'è il vento che si insinua per vie proibite, bisbigliando, come se
cercasse qualcosa, turbato perché non la trova. C'è la luce della lampada, dal cupo,
rossastro bagliore, che guarda stanca e resiste malvolentieri alla notte, schiava
impaziente dell'uomo che veglia. Ci sono i respiri del dormiente, il loro ritmo
raccapricciante al quale un sempre ritornante affanno sembra scandire la melodia;
noi non la udiamo, ma come il petto del dormiente si solleva, sentiamo una stretta
al cuore e quando il respiro si abbassa, quasi estinguendosi in una quiete mortale, ci
diciamo: «riposa un poco, povero spirito travagliato!» — a ogni vivente
auguriamo, poiché vive così oppresso, una pace eterna: la notte induce alla morte.
Se gli uomini rinunciassero al sole e conducessero la lotta contro la notte al chiaro
di luna o al lume dell'olio, quale filosofia li avvolgerebbe nel suo velo! Già fin
troppo si nota dalla natura intellettuale e spirituale dell'uomo, come essa venga
complessivamente offuscata da quella metà di oscurità e assenza di sole che ricopre
la vita.
9.
Da dove ha origine la dottrina della libertà del volere. — Su uno la necessità grava
sotto forma delle sue passioni, su un altro come abitudine ad ascoltare e obbedire,
su un terzo come coscienza logica, sul quarto come capriccio e malizioso piacere
dell'avventura. Da questi quattro, comunque, la libertà del volere viene cercata
appunto là dove ognuno di loro è più strettamente legato: è come se il baco da seta
cercasse la libertà del suo volere proprio nel tessere. Da dove viene ciò?
Evidentemente dal fatto che ciascuno si ritiene più libero là dove è più grande la
sua sensazione di vita, quindi, come abbiamo detto, ora nella passione, ora nel
dovere, ora nella conoscenza, ora nel capriccio. il singolo individuo ritiene
istintivamente che ciò che lo rende forte e lo stimola debba anche essere sempre
l'elemento della sua libertà: egli considera dipendenza e ottusità, indipendenza e
sensazione vitale come abbinamenti necessari. — Viene così erroneamente traslata
all'estremo campo metafisico un'esperienza che l'individuo ha fatto nel campo
sociopolitico, dove l'uomo forte è anche l'uomo libero, dove il senso vitale di gioia
e di dolore, l'intensità della speranza, l'audacia del desiderio, la potenza dell'odio
sono pertinenza dei dominanti e degli indipendenti, mentre l'assoggettato, lo
schiavo vive oppresso e ottuso. — La teoria della libertà è una invenzione delle
classi dominanti.
10.
Non sentire nuove catene. — Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci
riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia
presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e
riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto
che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse,
sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento. — E se invece fosse vero
il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero
quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per
le nuove catene egli soffre ancora: — «libertà del volere» non significa altro che
non sentire nuove catene.
11.
La libertà del volere e l'isolamento dei fatti. — La nostra abituale, imprecisa
osservazione prende un gruppo di fenomeni come una unità e lo chiama un fatto:
fra questo e un altro fatto essa si figura uno spazio vuoto, essa isola ogni fatto. Ma
in verità tutto il nostro fare e conoscere non è una sequenza di fatti e di spazi vuoti,
intermedi, ma un flusso continuo. Ora, proprio la fede nella libertà della volontà è
incompatibile con l'idea di un fluire continuo, omogeneo, indiviso e indivisibile;
essa presume che ciascuna singola azione sia isolata e indivisibile; è un atomismo
nell'ambito del volere e del conoscere. — Proprio come comprendiamo
inesattamente i caratteri, così facciamo con i fatti: parliamo di caratteri uguali, di
fatti uguali: né gli uni né gli altri esistono. Ora, noi lodiamo o biasimiamo, ma solo
in base a questa falsa premessa che vi siano fatti uguali, che esista un ordinamento
graduato di generi di fatti al quale corrisponda un ordinamento graduato di valori:
quindi noi non isoliamo soltanto il singolo fatto, ma anche i gruppi di fatti ritenuti
uguali (azioni buone, cattive, pietose, invidiose eccetera) — in entrambi i casi
erroneamente. — La parola e il concetto sono il motivo più evidente per cui
crediamo a questo isolamento di gruppi di azioni: con essi noi non designiamo
soltanto le cose, noi intendiamo originariamente afferrare con essi l'essenza delle
cose stesse. Con parole e concetti veniamo ancor oggi continuamente tentati di
immaginare le cose più semplici di quello che sono, separate l'una dall'altra,
indivisibili, ognuna esistente di per sé. Nel linguaggio si nasconde una mitologia
filosofica che, per quanto si possa essere prudenti, sbuca fuori a ogni istante. La
fede nella libertà del volere, e cioè nei fatti uguali e nei fatti isolati, trova nel
linguaggio il suo fedele evangelista e avvocato.
13.
Dire due volte. — E bene esprimere subito una cosa due volte e darle un piede
destro e uno sinistro. La verità può si stare in piedi su una gamba, ma con due
camminerà e andrà in giro.
14.
L'uomo, il commediante del mondo. — Ci dovrebbero essere creature più di spirito
di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel
fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si
ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio
ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di
divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla
terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo.
Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per
trovare, nei gesti tragico-orgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma
soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa creatura, la sua gioia —
quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più
spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito. — Persino qui, dove la nostra
umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno
scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione,
qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel
mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca
talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la
goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del
mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni
simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi — ma francamente
neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il
germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di
questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una
vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé — quindi, in nessun
caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza. Forse la formica del bosco è
altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco,
come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente
la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo
a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un
crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato
non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante
sepolcro dell'umanità.
16.
Dove è necessaria l'indifferenza. — Nulla sarebbe più assurdo del voler attendere,
come tanto spesso viene consigliato, ciò che la scienza stabilirà definitivamente
circa le cose prime e ultime, e del pensare (e soprattutto credere!) fino a quel
momento nel modo tradizionale. L'impulso a voler assolutamente avere in questo
ambito solo certezze è una inclinazione religiosa, nulla di meglio, — una forma
nascosta e solo apparentemente scettica di «esigenza metafisica», abbinata al
pensiero recondito che ancora per molto, molto tempo non vi sarà alcuna
prospettiva di ottenere queste certezze ultime e che fino ad allora il «credente» avrà
diritto di non preoccuparsi dell'intero settore. Queste certezze sugli estremi
orizzonti non ci sono affatto necessarie per vivere un'umanità piena e valida: non
più di quanto siano necessarie alla formica per essere una buona formica. Assai più
dobbiamo invece chiarire a noi stessi da dove effettivamente provenga quella fatale
importanza che per tanto tempo abbiamo attribuito a quelle cose: e a tale scopo ci
serve la storia dei sentimenti etici e religiosi. Infatti solo sotto l'influsso di questi
sentimenti sono diventate così rilevanti e terribili per noi le più spinose questioni
della conoscenza: si sono trascinati negli estremi settori, dove l'occhio spirituale
ancora giunge ma senza penetrarvi, concetti come colpa e punizione (e
precisamente punizione eterna!): e questo tanto più incautamente quanto più oscuri
erano questi settori. Dai tempi più remoti si è fantasticato con temerarietà laddove
non si poteva stabilire nulla, e si sono indotti i posteri a prendere queste fantasie
come cose serie e vere, da ultimo con l'esecrabile espediente che il credere valga
più del sapere. Ora, a proposito di quelle ultime cose non è necessario opporre il
sapere al credere, ma piuttosto l'indifferenza circa il credere e il preteso sapere in
questi campi! Tutto il resto ci dev'essere più vicino di ciò che finora ci è stato
predicato come più importante — intendo quegli interrogativi: perché l'uomo?
quale sorte avrà dopo la morte? come si riconcilia con Dio? o comunque possano
essere formulate queste curiosità. Non più di questi interrogativi dei religiosi ci
interessano le questioni dei dogmatici filosofici, siano essi idealisti, materialisti o
realisti. Tutti quanti ci spingono a prendere una decisione in campi nei quali non è
necessario né il credere né il sapere; persino ai più grandi appassionati della
conoscenza è più utile che intorno a tutto ciò che è ricercabile e accessibile alla
ragione si stenda una fascia acquitrinosa, nebulosa e illusoria; la fascia
dell'impenetrabile, dell'eternamente fluido e indefinibile. Proprio dal confronto con
il regno dell'oscurità ai margini della terra del sapere aumenta continuamente di
valore il chiaro e vicino, vicinissimo mondo del sapere. — Dobbiamo ridiventare
buoni vicini delle cose prossime e non distogliere così sprezzantemente lo sguardo
da esse, come abbiamo fatto sinora, verso le nuvole e i mostri notturni. In selve e
caverne, in zone acquitrinose e sotto cieli coperti — qui l'uomo è vissuto troppo a
lungo come su gradini di civiltà di interi millenni, e vissuto miseramente. Qui ha
appreso a disprezzare il presente e i vicini e la vita e se stesso — e noi, abitanti dei
più luminosi campi della natura e dello spirito, riceviamo ancora, per eredità, nel
nostro sangue qualcosa di questo veleno del disprezzo per cose che è prossimo.
19.
Immoralisti. — oggi i moralisti debbono accettare di venir additati quali
immoralisti, perché sezionano la morale. Ma chi vuol sezionare deve uccidere:
tuttavia solo perché si possa meglio conoscere, meglio giudicare, meglio vivere;
non affinché tutto il mondo sezioni. Ma purtroppo gli uomini continuano a credere
che ogni moralista debba essere anche in tutto il suo agire un esempio che gli altri
debbono imitare: essi lo scambiano per il predicatore della morale. I primi moralisti
non sezionavano abbastanza e predicavano troppo spesso; da questo derivano
quella confusione e quelle spiacevoli conseguenze per i moralisti attuali.
35.
Casistica del vantaggio. — Non esisterebbe una casistica della morale se non
esistesse una casistica del vantaggio. L'intelligenza più libera e sottile spesso non
basta a scegliere tra due cose in modo che la sua scelta implichi necessariamente il
vantaggio maggiore. In tali casi si sceglie perché bisogna scegliere, e dopo si soffre
una specie di mal di mare del sentimento.
37.
Una specie di culto delle passioni. — Voi, uomini tetri e bisce filosofiche, per
accusare il carattere di tutto il mondo parlate del carattere terribile delle passioni
umane. Come se ovunque ci sono state passioni, ci sia anche stata questa terribilità!
Come se nel mondo dovesse sempre esserci questa terribilità! — Per aver
trascurato le cose piccole, per non aver osservato voi stessi e coloro che debbono
essere educati, avete fatto assurgere le passioni a mostri tali che oggi già alla parola
«passione» siete presi da paura! Stava a voi e sta a noi togliere alle passioni il loro
carattere terribile e prevenirle in modo che non diventino torrenti devastatori. —
Non bisogna gonfiare i propri errori a fatalità eterne; lavoriamo piuttosto
onestamente a trasformare tutte le passioni dell'umanità in gioia.
39.
Origine dei diritti. — I diritti risalgono in massima parte a una tradizione, e la
tradizione a un accordo accaduto una sola volta. Un tempo si fu dapprima
soddisfatti da entrambe le parti per le conseguenze dell'accordo raggiunto, e poi si
fu troppo pigri per rinnovarlo formalmente; così si continuò a vivere come se
l'accordo venisse sempre rinnovato, e gradualmente, quando la dimenticanza ne
coprì con le sue brume le origini, si credette di possedere una situazione sacra e
immutabile, sulla quale ogni generazione doveva continuare a costruire. La
tradizione divenne allora costrizione, anche se non recò più quell'utile in base al
quale si era originariamente stipulato l'accordo. — I deboli vi hanno trovato in ogni
tempo la loro solida rocca: e tendono a eternare quell'accordo di una volta, quella
concessione di grazia.
40.
Importanza del dimenticare nel sentimento morale. — Le stesse azioni che
all'interno della società primitiva furono dapprima dettate dall'utilità comune, sono
poi state compiute dalle generazioni successive in base ad altri motivi: per timore o
rispetto verso coloro che le esigevano e consigliavano, o per abitudine, perché sin
da bambini le si era vedute compiere intorno a sé, o per benevolenza, perché il farle
causava ovunque gioia e visi consenzienti, o per vanità, perché venivano lodate.
Tali azioni di cui è stato dimenticato il motivo fondamentale, quello dell'utilità,
vengono dette poi morali: non perché vengano compiute in base a quegli altri
motivi, ma perché non sono compiute per consapevole utilità. — Da dove proviene
quest'odio per l'utilità, che qui diviene visibile, dove ogni agire degno di lode si
separa formalmente da ogni agire in base a un'utilità? — Evidentemente la società,
focolare di ogni morale e di ogni lode per l'agire morale, ha dovuto combattere
troppo a lungo e troppo duramente contro l'utile personale e l'egoismo del singolo,
per non stimare moralmente più alto ogni altro motivo che non sia l'utilità.
S'ingenera così l'apparenza che la morale non sia nata dall'utilità; mentre in origine
essa è l'utilità della società, che a gran fatica si è affermata contro tutte le utilità
private e si è fatta considerare superiore ad esse.
44.
Livelli della morale. — La morale è innanzitutto un mezzo per conservare in
genere la comunità e scongiurarne la decadenza; poi è un mezzo per mantenere la
comunità a un certo livello e in una certa bontà. I suoi motivi sono la paura e la
speranza: e tanto più rudi, potenti e grossolani, quanto più forte è la tendenza
all'errore, all'unilateralità, all'individualismo. Debbono qui operare i mezzi di
intimidazione più terribili, sinché non vorranno agire mezzi più miti e non si possa
raggiungere in altro modo quella duplice specie di conservazione (tra i suoi mezzi
più forti è l'invenzione di un aldilà con un inferno eterno). Allora dovranno esserci
torture dell'anima e aiutanti del boia. Altri gradi della morale e quindi mezzi per lo
scopo indicato sono i dettami di un dio (come la legge mosaica); gradi ulteriori e
più elevati, i dettami di un'idea assoluta di dovere con il «tu devi» — gradini, tutti,
ancora rozzamente sbozzati ma larghi, perché gli uomini non sanno ancora posare
il piede su quelli più sottili e stretti. Viene poi una morale dell'inclinazione, del
gusto, e infine quella della conoscenza — la quale sta al di sopra di tutti gli
illusionistici motivi della morale, ma ha compreso come per lungo tempo l'umanità
non abbia potuto averne altri.
47.
Cloache dell'anima. — Anche l'anima deve avere le sue determinate cloache nelle
quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la
patria oppure il mondo oppure infine — per quelli molto boriosi (voglio dire i
nostri cari «pessimisti» moderni) — il buon dio.Contenuto della coscienza. — Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che
negli anni dell'infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da
persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel
senso del dovere («questo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché
debbo? In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un «perché», l'uomo agisce
senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. La fede nelle autorità è la fonte
della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell'uomo, ma la
voce di alcuni uomini nell'uomo.
74.
La preghiera. — Solo con due premesse il pregare — quest'usanza dei tempi
antichi non ancora completamente estinta — avrebbe un senso: dovrebbe esser
possibile persuadere o dissuadere la divinità, e chi prega dovrebbe saper meglio di
ogni altro di che cosa abbia bisogno, che cosa per lui sia veramente da desiderare.
Ma queste due premesse, accolte e tramandate in tutte le altre religioni, furono
negate proprio dal cristianesimo; se esso tuttavia conservò la preghiera, nonostante
la sua fede in una ragione divina onnisciente e onniprevidente, la quale appunto
rende in fondo la preghiera priva di senso, anzi sacrilega, — anche in questo
mostrò ancora una volta la sua ammirevole astuzia di serpente; perché un
comandamento chiaro, «non pregare», avrebbe portato i cristiani per noia a un noncristianesimo.
Nell'ora et labora cristiano, l'ora tiene il posto del piacere: e che
cosa avrebbero fatto senza l'ora quegli infelici che si negarono al labora, i santi! —
ma intrattenersi con Dio, chiedergli ogni sorta di cose piacevoli, e divertirsi persino
un po' sul fatto di esser tanto folli da avere ancora desideri, nonostante un padre
così eccellente, — questa fu per i santi un'ottima invenzione.
78.
Credere nella malattia in quanto malattia. — Solo il cristianesimo ha dipinto il
diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel
mondo. La fede nei rimedi che esso ha offerto contro di esso è stata a poco a poco
scossa sin nelle sue più profonde radici: ma tuttora esiste la fede nella malattia che
esso ha insegnato e diffuso.
81.
La giustizia del mondo. — E possibile sconvolgere la giustizia del mondo — con la
teoria della totale irresponsabilità e innocenza di ognuno: ed è già stato fatto un
tentativo nella stessa direzione proprio in base alla teoria opposta, della totale
responsabilità e colpevolezza di ciascuno. Fu il fondatore del cristianesimo a voler
abolire la giustizia terrena e cancellare dal mondo il giudizio e la punizione. Egli
infatti intendeva ogni colpa come «peccato», ossia come offesa nei confronti di Dio
e non come offesa nei confronti del mondo; d'altra parte riteneva tutti in
larghissima misura e quasi sotto ogni rispetto come peccatori. Ma i colpevoli non
debbono essere giudici dei loro pari: così sentenziò la sua equità. Tutti i giudici
della giustizia terrena erano dunque ai suoi occhi colpevoli quanto i condannati, e
la loro aria di innocenza gli appariva ipocrita e farisaica. Inoltre egli guardava ai
motivi delle azioni e non agli esiti, e riteneva che solo uno avesse l'acutezza
necessaria per giudicare sui motivi: lui stesso (o, come si esprimeva: Dio).
82.
Affettazione nel congedo. — Chi vuol separarsi da un partito o da una religione
pensa che ora gli sia necessario confutarli. Ma questo è un pensiero assai superbo.
Necessario è solo che egli comprenda chiaramente quali appigli lo tennero legato a
quel partito o a quella religione, e che essi non lo fanno più, quali propositi lo
hanno spinto verso di quelli e ora lo portano altrove. Noi non abbiamo aderito a
quel partito o a quella religione per rigorosi motivi di conoscenza: separandocene,
non dobbiamo nemmeno fingerlo.
84.
I prigionieri. — Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile dove lavoravano: il
sorvegliante mancava. Alcuni di loro si misero subito al lavoro com'erano soliti,
altri rimasero inoperosi guardandosi intorno con caparbietà. Allora si fece avanti
uno e disse: «Lavorate quanto vi pare, oppure non fate nulla: è la stessa cosa. Le
vostre macchinazioni segrete sono state scoperte, di recente il sorvegliante vi ha
spiato e nei prossimi giorni vuol pronunciare su di voi un terribile giudizio. Voi lo
conoscete, è duro e vendicativo. Ora però fate attenzione: sinora non mi avete
conosciuto bene: io non sono quel che sembro, ma molto di più: sono il figlio del
sorvegliante e posso tutto presso di lui. Posso salvarvi, voglio salvarvi; ma, beninteso,
solo quelli di voi che credono che io sono il figlio del sorvegliante; gli altri
raccolgano il frutto della loro incredulità». — «Ora», disse dopo un silenzio un
anziano prigioniero, «che cosa può importarti che ti crediamo o no? Se sei
veramente il figlio e puoi fare quel che dici, metti una buona parola per noi tutti:
sarebbe veramente molto buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso sul credere
e sul non credere!» — «E», gridò intanto un giovane, «io non gli credo: si è solo
messo in testa qualcosa. Scommetto che tra otto giorni noi ci troveremo
esattamente come ora, e che il sorvegliante non sa nulla.» — «E se anche sapeva
qualcosa, non lo sa più», disse l'ultimo dei prigionieri che solo allora era giunto nel
cortile, «il sorvegliante è morto ora, all'improvviso.» — «Olà», gridarono tutti
confusamente, «olà! Signor figlio, signor figlio, come la mettiamo con l'eredità?
Siamo forse ora tuoi prigionieri?» — «Ve l'ho detto», rispose quello dolcemente,
«lascerò libero chiunque creda in me, così com'è certo che mio padre vive ancora.»
I prigionieri non risero, alzarono le spalle e lo lasciarono.
85.
Il persecutore di Dio. — Paolo ha concepito il pensiero, e Calvino lo ha elaborato,
che per innumerevoli uomini la dannazione è stabilita dall'eternità, e che questo bel
piano del mondo è stato concepito in modo che vi si manifesti la maestà di Dio;
dunque cielo e inferno e umanità esistono — per soddisfare la vanità di Dio! Quale
crudele e insaziabile vanità deve aver divampato nell'animo di colui che per primo
o per secondo pensò una cosa del genere! — Paolo è dunque pur rimasto Saulo —
il persecutore di Dio.
193.
Le epoche della vita. — Le vere epoche della vita sono quei brevi periodi di sosta
tra il sorgere e il tramontare di un pensiero o di un sentimento dominante. Qui c'è
ancora una volta sazietà: tutto il resto è sete e fame — oppure noia.
194.
Il sogno. — I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e giungono a
completarsi — il sogno di solito è una abborracciatura — , sono concatenazioni
simboliche di scene e immagini al posto di un linguaggio poetico narrante; essi
parafrasano le nostre esperienze o aspettative o relazioni con audacia ed esattezza
poetiche, sicché la mattina nel ricordare i nostri sogni ci meravigliamo sempre di
noi. Nel sogno consumiamo troppa arte — ed è per questo che di giorno spesso ne
siamo così poveri.
218.
La macchina come maestra. — La macchina insegna, attraverso se stessa,
l'interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa
fornisce il modello dell'organizzazione partitica e della condotta bellica. Non
insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni
individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare
il vantaggio della centralizzazione.
220.
Reazione contro la civiltà delle macchine. — La macchina, essa stessa prodotto del
più alto raziocinio, mette in moto nelle persone che le sono addette quasi
esclusivamente le energie più basse e prive di pensiero. Essa scatena così una
quantità di forze in genere, che altrimenti dormirebbe, questo è vero; ma non dà la
spinta a salire più in alto, a far meglio, a diventare artisti. Rende attivi e uniformi
— ma ciò produce alla lunga un effetto contrario, una disperata noia dell'anima che
per mezzo suo impara ad aver sete di un ozio ricco di mutamenti.
266.
Gli impazienti. — Proprio colui che diviene non vuole ciò che diviene: è troppo
impaziente per questo. Il giovane non vuole attendere sino a che dopo lunghi studi,
sofferenze e privazioni, il suo quadro degli uomini e delle cose sia completo: così
in buona fede ne accetta un altro, che è pronto e gli viene offerto, come se questo
dovesse anticipargli linee e colori del suo quadro: si getta tra le braccia di un
filosofo, di un poeta, e allora deve stare per lungo tempo a servizio e rinnegare se
stesso. In tal modo impara molto: ma spesso un giovane dimentica così ciò che è
più degno di essere appreso e conosciuto — se stesso, e rimane per tutta la vita un
partigiano. Bisogna ahimè superare molta noia, versare molto sudore prima di
trovare i propri colori, il proprio pennello, la propria tela! — E neanche allora si è
maestri nella propria arte di vivere — ma almeno si è padroni nella propria
officina.
267.
Non esistono educatori. — Come pensatori si dovrebbe parlare solo di
autoeducazione. L'educazione dei giovani ad opera d'altri o è un esperimento
condotto su un essere ancora sconosciuto e non conoscibile, oppure è un
livellamento di principio, volto a rendere il nuovo essere, quale esso sia, conforme
alle abitudini e ai costumi dominanti: dunque in ambedue i casi è cosa indegna del
pensatore; è opera dei genitori e dei maestri, che un coraggioso sincero ha definito
nos ennemis naturels. Un giorno, quando secondo l'opinione del mondo si è già
educati da tempo, si scopre se stessi: allora comincia il compito del pensatore;
allora è tempo di rivolgersi a lui, non come a un educatore, ma come a uno che ha
educato se stesso, che ha esperienza.
269.
Le età della vita. — Il paragone tra le quattro età della vita e le quattro stagioni è
una venerabile sciocchezza. Né i primi vent'anni della vita né gli ultimi venti
corrispondono a una stagione: posto che, in tale paragone, non ci si accontenti del
bianco dei capelli e di quello della neve e simili giochi cromatici. Quei primi
vent'anni sono una preparazione alla vita in genere, a tutto l'anno della vita, come
una specie di lungo capodanno; e gli ultimi venti sono uno sguardo d'insieme, una
interiorizzazione, una riconnessione e armonizzazione di tutto quel che si è vissuto
prima: così come si fa, in piccolo, nel giorno di San Silvestro con tutto l'anno che è
passato. In mezzo sta però effettivamente un periodo che suggerisce il paragone
con le stagioni: il periodo dai venti ai cinquant'anni (per calcolare qui in blocco a
decenni, mentre è ovvio che ciascuno dovrà affinare secondo la propria esperienza
questa rudimentale impostazione). Quei tre decenni corrispondono a tre stagioni:
all'estate, alla primavera e all'autunno — un inverno nella vita umana non c'è, a
meno che non si vogliano definire periodi invernali dell'uomo quei lunghi periodi
di malattia che purtroppo non di rado intessono la sua vita, duri, freddi, solitari,
poveri di speranze, infruttuosi. Gli anni dai venti ai trenta: caldi, fastidiosi,
burrascosi, pieni di esuberanza, stancanti, anni in cui alla sera, quando il giorno è
finito, si esalta questo asciugandosi la fronte: anni in cui il lavoro ci appare duro
ma necessario — questi anni sono l'estate della vita. Gli anni sulla trentina sono
invece la sua primavera; l'aria ora è troppo calda, ora troppo fredda, sempre
inquieta e stimolante: sgorgare di linfa, piena fioritura, profumo di fiori,
dappertutto: molti mattini e notti incantevoli, il lavoro, al quale ci risveglia il canto
degli uccelli, un vero e proprio fervore, una specie di godimento del proprio vigore,
potenziato da speranze anticipatrici di gioia. Infine gli anni dai quaranta ai
cinquanta: misteriosi, come tutto ciò che si arresta; simili a un elevato, vasto
altopiano sul quale spiri un vento fresco; sovrastato da un cielo chiaro e senza nubi,
che notte e giorno guarda con la stessa soavità: il tempo del raccolto e della più
grande serenità del cuore — è l'autunno della vita.
L'ombra: Di quel che hai detto, più di tutto mi è piaciuta una promessa: che volete
ridiventare buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di
noi, povere ombre. Perché, ammettetelo, sinora ci avete calunniato anche troppo
volentieri.
Il viandante: Calunniato? Ma perché non vi siete difese? Avevate pur vicine le
nostre orecchie.
L'ombra: Ci sembrava appunto di esservi troppo vicine per poter parlare di noi
stesse.
Il viandante: Delicato! Assai delicato! Ah, voi ombre siete «uomini migliori» di
noi, me ne accorgo.
L'ombra: Eppure ci avete chiamato «importune» — noi, che almeno una cosa
sappiamo fare — tacere e attendere — nessun inglese lo sa far meglio. È vero, ci si
trova molto, molto spesso al seguito dell'uomo, ma mai come sue schiave. Quando
l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà.
Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l'uomo e allora anche voi lo
abbandonate.
L'ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose
dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre intorno a lui. Pur di
possedere una totale conoscenza dell'uomo, sarei volentieri la tua schiava.
Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente
padrona? Oppure se tu rimarresti schiava ma, disprezzando il tuo padrone,
condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della
libertà, così come è rimasta a te — a te e a me! Giacché la vista di un essere non
libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero,
se qualcuno dovesse dividerle con me, — non voglio sapere di schiavi intorno a
me. Per questo non amo il cane, il pigro e scodinzolante parassita, che è diventato
«cane» solo come servo degli uomini, e di cui essi sogliono addirittura decantare la
fedeltà al padrone e il fatto di seguirlo come la sua …
L'ombra: Come la sua ombra, essi dicono. Forse anch'io oggi ti ho seguito per
troppo tempo? È stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un
attimo di pazienza! Il prato è umido, ho i brividi.
II viandante: Oh, è già tempo di separarsi? E ho dovuto alla fine farti ancora male,
l'ho visto: sei diventata più scura.
L'ombra: Arrossivo, nel colore in cui posso farlo. Mi è venuto in mente che spesso
sono stata ai tuoi piedi come un cane, e che tu allora …
Il viandante: E, in tutta fretta, non potrei farti ancora un piacere? Hai qualche
desiderio?
L'ombra: Nessuno, tranne quello che ebbe il «cane» filosofico davanti al grande
Alessandro: togliti un poco dal sole, ho troppo freddo.
Il viandante: Che debbo fare?
L'ombra: Cammina sotto quei pini e guarda i monti: il sole tramonta.
Il viandante: Dove sei? Dove sei?
FONTE:F. Nietzsche, Umano,, toppo umano, I e II, Arnoldo Mondadori, 2008
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mercoledì, agosto 27, 2014
Riccardo d’Este Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna
Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna
Novembre 1994, Riccardo d’Este1
La società del capitale, intesa come società dell'alienazione generalizzata, della riproduzione iterativa e insignificante di merci, del lavoro estorto e del profitto conquistato dai singoli capitalisti, o da gruppi di essi, ha subìto un processo modificativo che ha portato all'integrazione dei vari aspetti. Questa integrazione è un processo di integrazione.Sarebbe inesatto sostenere che si tratta di un fenomeno nuovo, recentissimo nel meccanismo di produzione e riproduzione capitaliste e nelle strutture sociali, politiche, ideologiche che lo inverano. Di fatto, è stata una tensione sempre interna all'ambizione totalizzante del capitale (rendere la vita un immenso mercato e tutti i soggetti e gli oggetti delle merci), così come è storica la tendenza all'integrazione delle strutture riproduttive mondiali e dei sistemi politico-ideologici che le rappresentano, pur mantenendo le differenziazioni che consentono al capitale di riprodursi e di presentarsi come “unità nelle contraddizioni” (le guerre intercapitaliste ne sono state un chiaro esempio anche dal punto di vista delle ideologie, oltre che da quello degli interessi economici).
L'unica vera novità, se così vogliamo chiamarla, consiste nella consapevolezza collettiva, più o meno dichiarata o più o meno offuscata, che si è di fronte al tentativo di unificare materialità e immaterialità sotto il segno omogeneizzante del capitale. Se Félix Guattari cercò di identificare questo processo, peraltro sotto gli occhi di tutti, con la formula CMI (capitalismo mondiale integrato), Guy Debord, nei suoi Commentati sulla Società dello Spettacolo, parla di spettacolo integrato per indicare il percorso di unificazione tra quelli che venivano definiti lo “spettacolo diffuso” e lo “spettacolo concentrato”, vale a dire le tecniche prevalenti di produzione, riproduzione e trasmissione di rappresentazioni all'Ovest e all'Est. Ora, questa integrazione non è data certo dalla caduta del muro di Berlino, come frettolosamente cercano di spiegare alcuni sedicenti studiosi, ma è un processo che si è sviluppato, sia pure con picchi e cadute, per parecchio tempo (almeno, dichiaratamente, dagli anni Sessanta, con il colpo di coda della pretesa “rivoluzione culturale” di Mao-TseTung). Ma erroneo sarebbe vedere in questo fenomeno di integrazione la realizzazione di quel “capitale totale” che è sempre stato il cuore e l'anima dell'utopia capitalista o di quella sorta di cielo immobile in cui dovrebbero proiettarsi incessantemente e con sempre maggiore accelerazione immagini qualsivoglia, tutte accattivanti e fuorvianti, com'è nel sogno di una società dello spettacolo compiuta. Ma nei fatti si sono verificate tali forme di resistenza materiale e di senso, a vari livelli e in differenti modi, da costringere la società del capitale a continue modificazioni e riproposizioni di sé.
4 Il passaggio epocale recente più importante è la costruzione di quella che noi definiamo come società capitalista neomoderna proprio per distinguerla dalla società capitalistico-produttiva classica, dalla società dello spettacolo, che sì persiste e anzi apparentemente si afferma in maniera più interstiziale (attraverso la riduzione sempre maggiore di aspetti di vita a mere rappresentazioni e con il deperimento sempre più rapido delle immagini stesse), ma che, essendosi a tal punto generalizzata, sta progressivamente perdendo la sua funzione “innovativa” e perciò ''vivificante” e catalizzatrice, nonché da quella che taluni chiamano epoca della postmodernità, sciocchezza palese perché solo scorie marginali (arti, filosofie eccetera) possono vagare in un “vacuum” che finga di prescindere da quella che è stata la base strutturale della modernità (la vittoria della borghesia, l'avvento del capitale industriale e finanziario, le modificazioni, anche rivoluzionarie, nella produzione, nelle tecnologie eccetera) mentre la società del capitale nel suo insieme ha bisogno costante di essere moderna, e oggi neomoderna.
2
Il General Intellect, almeno nell'accezione marxiana, esprimeva un'intelligenza e dei saperi diffusi e generali, una conoscenza che, al pari della forza lavoro, veniva sottomessa alle regole del capitale e dunque della produzione. Il General Intellect, insomma, altro non è che la forza lavoro cognitiva e mentale, resa astratta ma nel contempo assorbita dal processo di sviluppo del sistema di produzione capitalista. Ciò è stato senz'altro vero sin tanto che vi è stata un' effettiva produzione capitalista intesa come capacità di percorsi innovativi ancorché fondati sullo sfruttamento materiale e intellettuale. Ormai ciò non ha più molto senso perché la produzione, pur ovviamente mantenendosi, si è trasformata essenzialmente in riproduzione, da un lato, e in amministrazione dall'altro. Il GeneraI Intellect, esprimendo capacità creative collettive, seppur sottomesse ed espropriate, poteva essere il punto di riferimento, addirittura la leva per una trasformazione radicale. In altre parole, riappropriarsi di questa intelligenza collettiva poteva significare un ribaltamento dei rapporti sociali. Oggi non è più così: nell'epoca della riproduzione è la mera funzione, ovviamente ad alto tasso di intercambiabilità, ad essere fondamentale (perciò le richieste di flessibilità non sono il frutto maligno di un padronato rapace, quanto un'esigenza precisa nel neomoderno), e non più l'intelligenza collettiva già incorporata nell' essere inorganico (il capitale). Ben altra e più drammaticamente radicale è la trincea su cui si sta giocando e si giocherà la partita. Pertanto ridicola è la pretesa di ridurre quello che venne definito General Intellect alle capacità tecnologiche o “scientifiche” di singoli o di gruppi (nella cibernetica, nella telematica eccetera) e di attendersi da lì una specie di “nuova avanguardia”: queste intelligenze sono ormai asservite alla macchina, con un singolare rovesciamento della funzione di protesi, e i suoi portatori ridotti a riproduttori, magari ad alto livello, dell' esistente.3
Importante è discernere tra la produzione e la riproduzione allargata. La produzione contiene in sé qualcosa di “creativo”, di “inventivo”. La riproduzione no; è, se così si può dire, null'altro che una variazione sul tema. Per esempio, il passaggio dal calesse all'automobile è stato produttivo ed epocale e ha coinvolto enormi masse di persone, mentre il passaggio dalla Uno alla Punto sta all'interno di un programma di “modernizzazione” volto a incrementare la volubilità di un mercato drogato ed è una forma della riproduzione. In altri termini, finite le innovazioni reali, autonomizzandosi sempre più lo spettacolo, tutte le apparenti innovazioni, in qualsiasi ambito, sono soltanto delle modificazioni e delle modulazioni secondo i criteri della riproduzione.Per questo fenomeno, fondativo del neomoderno, se dal punto di vista produttivo è corretto definirlo come passaggio alla riproduzione allargata e iterativa, se dal punto di vista macroeconomico si può parlare di fine dell'economia, intesa come suddivisione che si pretende razionale delle risorse e come loro impiego rivolto a fini di progresso, dal punto di vista sociale non si può che affermare che si tratta di glaciazione sistematica e sistemica.
Naturalmente, ma secondo la “naturalità” del capitale, la produzione apparentemente persiste. Se non fossero state prodotte le penne che abbiamo in mano, noi non scriveremmo; se non fossero stati prodotti i computer noi non comunicheremmo attraverso tale mezzo. Ma è una produzione finalizzata a due soli scopi: la riproduzione iterativa delle stesse merci, pur con modificazioni modali, e la costanza dell'ordine societario. La costanza dell' (nell') ordine sociale implica essenzialmente una persistenza e una divisione di ruoli, anche, se non soprattutto, al di fuori del momento produttivo. La riproduzione ha da essere infinita, con sterminate variazioni, soprattutto sul terreno dello spettacolo, che però non servono più alla creazione di materialità e di ambienti che realmente superino quelli precedenti, mentre in realtà li imitano, concedendo solo nuove fantasmagoriche apparenze.
La borghesia, senza con ciò voler riproporre dei tipi di concetti di classe che appaiono oggi obsoleti ed evidentemente senza voler dare in questa sede alcun giudizio morale o politico su di essa, in un determinato periodo storico ha espresso la forma e la forza dell'innovamento, della modificazione dei sistemi produttivi. Non a caso si è impadronita dell'Intelligenza Generale espropriandola ai suoi singoli possessori e portatori e rendendola, prima, astratta, e ritraducendola, poi, in forza produttiva. L'ultima chance della borghesia è stata la società dello spettacolo, cioè un coagulo di rappresentazioni della realtà sino ad allora prodotta e controllata. Oggi, nell' epoca del neo moderno e della riproduzione quasi sempre autoritativa, la borghesia (ammesso che questa categoria la si possa ancora impiegare) non ha più niente da produrre nell'accezione sopra espressa, ben poco da rappresentare se non sul terreno delle virtualità e pressoché nulla da dire, ormai parassitaria non soltanto di altre classi ma del suo stesso passato. Molto più da dire hanno le polizie o i supermercati.
4
La riproduzione allargata significa l'iterazione del presente con modificazioni di piccolissima portata. Non per nulla, le più importanti e finanziate ricerche riguardano il campo della medicina, della sociologia, dell'ambiente, della comunicazione massmediatica o della bioingegneria. Il corpo umano, disossato della sua capacità di forza di lavoro, che è stata resa per lo più superflua (ma evidentemente senza che ciò sia coinciso con l'abolizione della maledizione del lavoro ), ritorna in primo piano come luogo dell' Amministrazione.Per Amministrazione non intendiamo solo le singole e specifiche amministrazioni, bensì il sogno utopico di amministrare una sorta di eterno presente, estendendo le forme dell'amministrazione in ogni piega della vita collettiva e individuale. Esempi buffi: se aumenta a dismisura il numero degli assicuratori è perché più nulla può venire in realtà assicurato; se cresce freneticamente il numero dei vari professionisti è perché in effetti non esistono quasi più delle reali professioni; se si gonfia quotidianamente il numero dei guardiani (in senso lato) è perché la società è obbligata a salva-guardarsi da qualsiasi rischio di trasformazione radicale.
Vi è un processo, per il momento inarrestabile, di desertificazione stricto sensu (si pensi al concreto deperimento, a causa di incuria o di ipersfruttamento, di interi territori con tutte le conseguenze che sono ben note: carestie, epidemie, gravi squilibri nell'ecosistema eccetera, da un lato, e alla spoliazione di senso di ampie zone urbane, dall'altro). Questo processo di deser-tificazione ovviamente si ripercuote in modo pesante sulle esistenze, sulle capacità, sulle intelligenze dei vari individui: con grande fatica appaiono i nuovi beduini; che sappiano bersi il tè nel deserto.
5
Il nihilismo è ormai essenzialmente monopolio del capitale e dello Stato. Del capitale in quanto, riscontrata la sua impossibilità innovativa (quello che sinteticamente indichiamo come la fine del Progresso), dovendo realizzare valore anche e soprattutto senza il lavoro (che rimane come imposizione autoritativa o consolatoria), volendo persistere, deve amministrare quel deserto animato da merci che ha costruito e in cui è costretto. Non si creda però che la riproduzione del nulla sia nulla. Si sviluppano le attività riproduttrici del nulla.Per nulla intendiamo un “qualcosa” che, pur esistendo e spesso possedendo un “valore” (a causa del processo di autonomizzazione del valore dalle sue basi materiali), è deprivato di senso intrinsecamente e profondamente umano, non allude neppure lontanamente a una passata o futura comunità umana, non attiene alla necessità della specie. In questo senso, sono più teorici, seppur involontariamente, taluni venditori di mercanzie che non filosofi o pretesi teoreti. Questi mercanti, quando proclamano: “Ma prendi questo oggetto: non costa niente!”, non intendono, ovviamente, dire che l'oggetto viene scambiato gratis e neppure, in modo più ammiccante, che costa poco. Vogliono dire: “Non cambia nulla nella tua vita né l'averlo né il non averlo, né l'esborso per averlo, né il risparmio nel non averlo”. Infatti, pur nella loro manifesta demenza, fioriscono merci materiali e immateriali, traffici di ogni tipo, ideologie comprese. Ma queste merci non possono possedere più alcun requisito qualitativo, nullificate (livello economico) in mero valore di scambio o (livello simbolico) come immagini rappresentative di una vita assente.
Lo Stato, dal canto suo, deve tenere in piedi delle rappresentazioni collettive del nulla (la politica, con il suo codazzo di votazioni, cambi della guardia e dei controlli sui racket eccetera, ne è un esempio preclaro) e, d'altra parte, istituire un complotto costante e preventivo contro tutte le istanze di rivolta che possano o possono esprimersi, specie se con forme “antisociali”. Infatti, a dispetto delle declamazioni di molti, lo Stato è esattamente la società civile e la società civile si esplica appunto nello Stato. Un'autonomia della cosiddetta società civile è una delle ultime menzogne del neomoderno, sotto l'aspetto ideologico. Infatti, più polizia (e basta confrontare i numeri negli ultimi vent'anni) significa paradossalmente più Stato sociale e più mafia, o “lotta” ad essa. La società civile è il fuoco fatuo della società neomoderna: perciò suona tanto bene e molte bocche se ne riempiono. Nel nulla bisogna pure che appaiano dei bagliori.
6
Nell'epoca sovversiva degli anni Venti si poteva parlare, in via di tendenza, di postcapitalismo come pretesa di costruire forme di società che fossero OLTRE il capitalismo ma non ancora approdate a un comunismo effettivo, a un'acrazia. Oggi, dal punto di vista della società e dei suoi sudditi, al contrario tutto deve rimanere sempre moderno, diventare sempre più moderno ed è per ciò che risulta improponibile parlare di postmodernità, se non nell'accezione di una superfetazione ideologica: il postmodernismo.Neomoderno invece è il concetto che ingloba e certifica questa, per ora, costante tendenza, mistericamente riformatrice del nulla. Il nihilismo di capitale e Stato e la società neomoderna sono esattamente la stessa cosa: amministrano l'apparenza, presuppongono il nulla, non come teleologia ma come intercambiabilità assoluta, fingono l'esistenza di una produzione che palesemente è divenuta riproduzione, cioè senza più alcun possibile progresso. Progresso inteso in più sensi: l'innovazione produttiva, come si è detto, ma anche il progredire delle conoscenze umane, dei metodi per accrescere il benessere collettivo e individuale, delle idee genialmente espresse e sostenute, delle arti e dei mestieri.
Il neomoderno non è certo la fine del progresso, bensì l'assunzione cosciente di questa fine conclamata e dunque la coscienza organizzante della società che l'ha prodotta. Resisi conto che non c'è più la possibilità di un qualche sviluppo, che il progresso si sta trasformando in degresso, gli amministratori dell'esistente, dopo essersi giocata la carta estrema dello spettacolo, come sviluppo delle e nelle rappresentazioni che sostituissero la realtà intollerabile, di modo che il falso e il vero si confermassero a vicenda e incomprensibilmente, hanno capito cosa dovevano e potevano fare: fingere di creare valore dal capitale finanziario e circolativo, spingerci ad essere tutti consumatori di qualsiasi cosa, meglio se sprovvista di qualsivoglia utilità, ad essere tutti professionisti, operatori o artisti, ad essere umili e tracotanti al tempo stesso. La Guerra del Golfo o i fatti della Bosnia sono esempi incontrovertibili del trionfo del nulla e dunque del neomoderno. L'AIDS è la sua sintomatologia. La sua pandemia.
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Che cosa fare, dunque, contro l'iterazione del nulla, contro la dominazione dell'inorganico, contro l'assenza di un qualche “centro” (tutto è necroticamente diffuso, anche se effettivamente ci sono soggetti specifici che si incaricano di dirigere e controllare la necrosi) contro cui scagliarsi? La domanda, in apparenza senza possibilità di risposta, una qualche risposta invece ce l'ha: la rivolta dell'organico (dei corpi) in ogni situazione possibile, la massima resistenza, in ogni campo, al neomoderno e nessuna collaborazione con qualsivoglia espressione di esso, l'attacco virulento al Nihil organizzato, costruendo senso e sua comunicazione. Non si possono fornire delle indicazioni più precise. Ma alcune ipotesi sono già fin d'ora chiare:– rifiutarsi di assumere i termini della politica comunemente intesa e della democrazia come costitutivi di una qualche azione sovvertente o trasformativa;
– respingere ogni possibile lusinga della partecipazione alla cosiddetta società civile: purtroppo ci siamo già dentro quando lavoriamo, quando pensiamo di godere del tempo libero, quando giocoforza sopportiamo il dominio;
– cominciare, o continuare, a svivere smodatamente usando questa categoria come criterio.
Nota
Il testo che precede, in forma assai ridotta, concentrata e spesso apodittica, è stato fatto circolare in Italia sulla rete telematica ECN nell'aprile 1994 nel corso di una polemica che vedeva opposti compagni di 415, di cui faccio parte, e alcuni neo-operaisti (i tardi profeti del GeneraI Intellect e dell' “operaio sociale” di toninegriana memoria eccetera).L'attuale versione ovviamente non contraddice per nulla il senso di quello scritto ma ha cercato di articolarlo, di svilupparlo, di arricchirlo di argomentazioni.
Dopo discussioni ed incontri, è stato deciso di pubblicare questo nuovo testo in Francia su Temps Critiques e di utilizzarlo in vari modi in Italia.
Questa nota è per la precisione storica.
Rd'E. Urbino, 3 novembre 1994
FONTE: http://tempscritiques.free.fr/spip.php
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Riccardo d’Este
domenica, agosto 03, 2014
Appello alle Nazioni Unite, alla Comunità Europea!
Alle Nazioni Unite, Alla Comunità Europea!
un pariah della società dello spettacolo chiede venia
un capro espiatorio chiede aiuto
sono un pazzo fuoriuscito dal circo della vita
dal manicomio a cielo aperto della Repubblica fondata sul lavoro
un non allienato che non ha più santi in paradiso
ma diavoli per amici all'inferno
sono un figlio della staglione della provocazione
e della libertà quella vera
sono figlio dell'autonomia maledetta
della prima linea del fuoco e della disobbedienza
sono figlio del socialismo alla francese
sono figlio dell'anarchismo stirneriano
sono figlio di un esperimento genetico
celato dal segreto di Stato
un ringiovanito
4 anni della mia vita mangiati in un boccone
da fascisti vestiti di bianco e di rosso
sono un figlio della persecuzione razziale
io non ho un nome
il mio nome è nessuno, il mio nome è legione!
Dalla psicosi dalla nevrosi
dalla malattia mentale non riconosciuta
da oltre la linea della normalità, del nulla
e della decenza vi chiamo a raccolta
vi offro la mia vita in un piatto d'argento
quella del refrattario senza Dio ne legge
e spero in un vostro intervento
ora che andare ai resti non basta più
ora che la droga non basta più
ora che bere non basta più
e solo la Forza ci viene in consiglio da dentro
come la verità che afferma la vita
nel non vissuto quotidiano
Le turbe psichiche arrivate con la torazina
sono in agguato
stanno sferrando l'attacco finale al cervello
per distruggere l'Unico bruciando le sue sinapsi
Questo è un appello alla ragione e al sentimento
qui si è persa la condizione di umanità
di civiltà la famosa dichiarazione dei diritti dell'uomo
solo sulla carta
un becero nichilismo trionfa su tutto
paga per violentare le vite degli intoccabili
per estinguere i figli di caino
nella Stato democratico
destra e sinistra postmoderna unite nella lotta!
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Simonetti Walter
domenica, luglio 27, 2014
la condanna del silenzio 3.0
"Non sei parte del movimento ci sono echi jungeriani nelle tue parole e torni ad ad essere quello che eri una spia votata all'autodistruzione" il cattivo maestro
Doveva essere una festa per tutto il paese
il ritorno dalla paura e dalla follia
il ritorno dal carnevale e dalla paranoia
ma non è stato così
non era l'inizio era la fine della storia
di un sistema
che parte dal sangue e arriva al cervello
finiva così la mia dipendenza
dalle droghe dallo stato e dal partito
dai cattivi maestri e dalle ideologie
il nichilismo è ovunque
domina incontrastato
dietro parole valori ideali c'è il denaro
solo l'unico resiste
il nichilista creatore
le nubi si schiarivano
vedevo oltre la cortina fumogena
del segreto di stato
la mia seconda vita
celata nascosta da speciali medicine della memoria
durante quegli anni gettati via al vento
con una bottiglia
sempre in mano e qualche trip senza ritorno
Ora senza ritegno
la condanna del silenzio
una recita infame
Gesù veniva venduto per trenta denari
e non era solo Giuda lo zelota il traditore
ma un intero paese
stavo impazzendo con la torazina
iniettata nella notte mentre ero ubriaco
cominciavo un viaggio a ritroso
tante storie maledette
balenavano nella mente
droga a fiumi e sesso facile
terrorismo e strategia della tensione
spionaggio e magia nera
ringiovanimenti e omicidi mirati
alieni e demoni
antisemitismo di stato e lavaggi del cervello
praticati da maniaci eroi di un paese maledetto
dalla mia presenza dalla mia essenza
la condanna del silenzio
per il diavolo che si credeva Gesù
finisce in questa bottiglia
nel mare della rete
domenica, giugno 29, 2014
Simonetti Walter Manie di persecuzione 2.0
Manie
di persecuzione nasce
dall’uomo, è opera della fantasia di un Borderline in caduta libera, queste
poesie evocano quella che è stata chiamata ucronia una narrazione
secondo cui la storia è andata diversamente. L’ucronia è un modo per
dire che siamo noi e non gli altri i responsabili della storia, per rivendicare
il nostro protagonismo ed anche le nostre responsabilità e i nostri errori.
Manie di persecuzione è un grido anarchico di libertà che si batte dentro e
contro l’Impero neoliberale
post-moderno, che oggi si impone con il plagio tardo-mediatico tecnico
democratico – nazi(onal) populista. E la
rete virtuale? È a volte viola di vergogna …
Ogni
riferimento a persone, cose e fatti è puramente casuale. Le opinioni e i
giudizi espressi
su
persone, corpi militari, movimenti politici, istituzioni nazionali e religiose
appartengono al protagonista e non allo scrittore, sono usati per fini
meramente narrativi.
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