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mercoledì, gennaio 28, 2015

Moishe Postone Antisemitismo e nazionalsocialismo INTRODUZIONE


Antisemitismo e nazionalsocialismo

Autore: 
Traduzione di: 
Irene Battaglia e Fabrizio Bernardi



La pubblicazione del testo di Moishe Postone che qui presentiamo – fin'ora inedito in Italia – rappresenta per molti aspetti un «evento». Quando gli annunciammo il nostro progetto, Postone trattenne a stento un moto di sollievo: dopo quelle in francese, tedesco, spagnolo, portoghese, giapponese e cinese, finalmente una traduzione per il pubblico italiano! Purtroppo la critica che si alimenta alla fonte del pensiero di Marx – e soprattutto quella di matrice anglosassone – stenta a trovare spazio nell'editoria italiana, malgrado o forse proprio in ragione della sua marca fortemente accademica. Ad ogni modo è un peccato, perché i materiali sono di alto livello e il dibattito è vivace.
Per introdurre il testo di Postone, in primo luogo non si potrà evitare di citare il suo lavoro più importante: Time, Labor and Social Domination (Cambridge University Press, 1993); opera mastodontica che propone una particolare interpretazione del testo marxiano, sviluppata a partire da una comprensione del capitale come «dominazione astratta» e «soggetto automatico», e dall'individuazione della «coppia» valore d'uso/valore di scambio come (auto)contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Ai lettori più avvertiti, non sfuggirà la prossimità con le posizioni della cosiddetta Wertkritik (critica del valore) di derivazione mitteleuropea, e dunque con i suoi principali esponenti, Robert Kurz e Anselm Jappe: in estrema sintesi, l'affinità elettiva, se così si può dire, che congiunge idealmente questi diversi indirizzi critici, è il fatto di aver dato preminenza, nell'analisi, al funzionamento e alle interrelazioni delle categorie capitalistiche – valore d'uso e valore di scambio, lavoro concreto e lavoro astratto etc. – piuttosto che alla personificazione di tali categorie nei rapporti fra classi e gruppi sociali.
Ciò emergerà chiaramente alla lettura di questo breve saggio di Postone, incentrato sul tema specifico dell'antisemitismo. Infatti, più che sulla storia della persecuzione e del genocidio, in quanto susseguirsi più o meno aneddotico di eventi, Postone si concentra su quei fenomeni di feticizzazione che considera assolutamente strutturali nel contesto del funzionamento del modo di produzione capitalistico in quanto formazione sociale. Già lo stesso Marx, alla fine del III libro de Il Capitale, aveva messo in luce un particolare fenomeno di reificazione dei rapporti sociali capitalistici, che aveva posto sotto in nome di Formula Trinitaria; i vari elementi del processo di produzione – la terra, il lavoro, i mezzi di produzione – che in realtà formano un tutto inestricabile, cementato dall'estrazione di plusvalore, sembrano poter costituire ciascuno una fonte di reddito autonoma, personificata in una categoria sociale: «Capitale-profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale. Inoltre, poiché l’interesse, come abbiamo precedentemente messo in rilievo, appare come il prodotto proprio, caratteristico del capitale e il guadagno d’imprenditore, in contrapposizione ad esso, appare come salario indipendente dal capitale, questa formula trinitaria si riduce più precisamente alla seguente: capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato. [...] Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società»(1). È qui che Postone si riallaccia a Marx, aggiungendo un ulteriore strato analitico; mostrando, cioè, come la medesima reificazione dei rapporti sociali, agisca laddove si pretende contrapporre la dimensione concreta e materiale del modo di produzione a quella astratta, prendendo inevitabilmente partito per la prima; secondo Postone, da ciò deriva l'identificazione, nella sfera della rappresentazione immediata, del capitale produttivo di interesse (la finanza) alla figura dell'ebreo. Un identificazione che è, per Postone, consustanziale a questa stessa presa di partito.
Di primo acchito, si potrebbe rimproverare a Postone una certa diserzione dal piano propriamente storico. È vero, ma solo in parte. Elemento essenziale, ma forse un po' sottotraccia, nell'analisi di Postone, è l'aver situato la persecuzione anti-ebraica in una congiuntura storica, economica e sociale ben precisa: quella della fase di transizione dal capitalismo concorrenziale a quello organizzato, ovvero – in termini più propriamente marxiani – nell'istante del passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al capitale (2). Forme particolarmente brutali di questo passaggio, in Stati-nazione di recente formazione, scombussolati da aspri conflitti sociali, con problemi di unificazione nazionale, di assorbimento delle comunità intermedie etc., fascismo e nazionalsocialismo non furono però, dal punto di vista della politica economica, affatto dissimili da ciò che si andava realizzando altrove in Europa e negli Stati Uniti. Non solo, come rilevarono tra gli altri Karl Korsch (3) e più tardi Alfred Sohn-Rethel (4), la politica economica nazista non differiva più di tanto da quella del New Deal roosveltiano – ma è noto che il ministro dell'economia della Germania hitleriana dal 1934 al 1937, Hjalmar Schacht, fosse un fervente keynesiano.
Ciò detto, per più di un aspetto il breve saggio di Postone che introduciamo parla tanto del passato che del nostro presente. L'equivalenza tra ebraismo e finanza non solo non è affatto scomparsa, ma ha acquistato nuova linfa con lo scatenarsi, nel 2007/2008, della crisi dentro alla quale ancora ci troviamo. Da allora, gli strali contro la «tirannia dei mercati» e di una «finanza selvaggia», presuntivamente parassitaria rispetto al settore industriale, non hanno fatto che moltiplicarsi; e d'altronde, questa vulgata moralizzatrice che vorrebbe tornare ai «bei tempi andati» dei «Trenta Gloriosi» (1945-1975) e delle politiche keynesiane, non si risparmia qualche pericoloso scivolamento antisemita, all'estrema destra come all'estrema sinistra; anzi, sulle tracce dell'Autore, potremmo dire che questo scivolamento è inerente al funzionamento stesso del dispositivo teorico in oggetto. La riflessione postoniana, formulata in tempi assai meno turbolenti (il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1986) risulta perciò oggi tanto più attuale e utile, soprattutto per coloro che iniziano solo ora (o non hanno mai smesso) di frequentare il «cantiere teorico» di Marx; per il quale – vale la pena ricordarlo – la contrapposizione tra una buona «economia reale» ed una cattiva «economia virtuale», è un totale non-senso: il rigonfiamento della sfera finanziaria opera come controtendenza ad una diminuzione della redditività del capitale industriale e, per un certo tempo, consente di ristabilirne la «salute»; in ciò non si può riscontrare alcuna novità essenziale nel funzionamento dell'economia illustrato da Marx nel Capitale. Se si vuole, l'elemento di novità introdotto dalla «mondializzazione», è che l'espansione del settore finanziario, a partire dagli anni '70 del XX secolo, ha plasmato le stesse modalità di gestione del capitale industriale. Nel 2007/2008, questa configurazione del capitalismo ha raggiunto il suo limite: la fuga in avanti della finanziarizzazione non è più funzionale al proseguimento dell'«ordinaria» spremitura della forza-lavoro – ciò che fin'ora non ha impedito a questa fuga in avanti di perpetuarsi (prima con i salvataggi da parte delle Banche centrali, e poi con le successive iniezioni di liquidità) e che conferisce dunque verosimiglianza all'eventualità di altri e più drammatici crash a venire.
Sul versante sociale, negli ultimi anni abbiamo assistito al nascere di numerosi movimenti di massa, sviluppatisi come reazione alla crisi mondiale; alcuni – in particolare Occupy negli USA e i cosiddetti Indignados in Europa – hanno tentato di mettere a tema, teoricamente e praticamente, l'articolazione tra capitale finanziario e capitale industriale. Senza alcun cinismo, possiamo dire che il loro carattere effimero e le risposte che hanno saputo apportare, si implicano reciprocamente: nello slogan «we are the 99%» del movimento Occupy, non si può non cogliere in negativo la definizione di quel 1% (gli avidi manager di Wall Street) come l'escrescenza o il bubbone di un corpo sano. Se dunque il futuro ci potrà riservare esiti più fortunati, sarà anche perché differenti saranno le formulazioni e le risposte a suddetta questione. In caso contrario – e in un clima di tensioni internazionali rinnovate – il pericolo di ricomposizioni nazionaliste e crudeli è forte. Ed è noto che sovente tali ricomposizioni non vanno senza la caccia all'ebreo di turno.

Note:
(1) Karl Marx, "Il Capitale", Libro III, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 927.
(2) Per una disamina di questi concetti, si veda Karl Marx, "Il Capitale: libro I, capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato", prefazione di Bruno Maffi, Etas Libri, Milano 2002.
(3) Paul Mattick, Karl Korsch, Heinz Lagerhans, "Capitalismo e fascismo verso la guerra. Antologia dai «New Essays»", La Nuova Italia, Firenze 1976.
(4) Alfred Sohn-Rethel, Economia e struttura di classe del fascismo tedesco, De Donato, Bari 1978. 


FONTE: http://www.asterios.it/catalogo/antisemitismo-e-nazionalsocialismo

sabato, gennaio 17, 2015

Pierre Dardot e Christian Laval La nuova ragione del mondo

di Pierre Dardot e Christian Laval

 
[DeriveApprodi l’edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all’edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un’ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l’identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].

La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2]. A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l’«ordine-quadro» a partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare sul quadro generale»[3] e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino.
Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l’ideale di una «società di diritto privato»[4], non c’è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.
Quarto, l’esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto le frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al livello dell’azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé dell’«individuoimpresa ». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance, deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende dunque «l’insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l’azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui »[5]. L’impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. […]
Un dispositivo di natura strategica
Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante. Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto, condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e aggiustamenti dovuti all’insorgere di effetti indesiderati a volte in completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault[6]. Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo strategico»[7]. L’obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l’innesto di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione, combinazione di due logiche che arriva a imporre l’obiettivo strategico della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello, che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere realizzato seguendo un piano in una fase successiva.
Attribuire un carattere strategico al dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti dei paesi capitalisti dominanti dall’ampiezza della crisi finanziaria. Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista.
Oggi, al di là delle prime «riparazioni» d’urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d’insieme del dispositivo Stato/mercato. Non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato sull’indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi dall’inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista, sarebbe d’altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate, ancorato stabilmente all’«economia reale», rispettoso dell’ambiente, attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene comune dell’umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è almeno un’illusione altrettanto nociva che l’utopia del mercato autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo. È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano ideologico, da una patina di «ritorno alle origini». Dopotutto, l’appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon «codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale» dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell’ideologia, a un ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata[8].
Il carattere strategico del dispositivo neoliberista sarebbe altrettanto misconosciuto se lo si mettesse in rapporto con il Gestell dell’- Heidegger più tardo o con l’oikonomía della teologia cristiana del II secolo, come suggerisce indirettamente Agamben in Che cos’è un dispositivo?[9]. Parlare, come fa lui, di una «genealogia teologica» dei «dispositivi» foucaultiani, vuol dire trascurare che anche se i dispositivi non hanno effettivamente «alcun fondamento nell’essere» e sono di conseguenza votati a «produrre il loro soggetto», non per questo ripetono la «cesura che separa in Dio essere e azione, ontologia e prassi»[10]: a differenza del governo degli uomini da parte di Dio, che rinvia al problema teologico dell’Incarnazione, essi si costituiscono sempre a partire da condizioni storiche singolari e contingenti, e dunque hanno un carattere esclusivamente «strategico», e non «destinale» o «epocale». A questo proposito è bene ricordare l’appunto di Foucault sulla specificità della nuova problematizzazione del governo che vede la luce tra il 1580 e il 1660: se l’azione del governo dà luogo a tematizzazione, è perché non trova «modelli ricavabili da Dio o dalla natura»[11]. In altri termini, non è il «retaggio teologico» del governo degli uomini e del mondo da parte di Dio che spiega come il governo degli uomini da parte degli uomini sia un problema, ma la crisi del modello del «governo pastorale» del mondo da parte di Dio che libera la riflessione sull’arte di governare gli uomini. Ciò che è vero per l’emergere del problema generale del governo è vero anche per la costituzione della forma specificamente neoliberista della governamentalità. Quest’ultima non è né la conseguenza necessaria del regime di accumulazione del capitale, né una delle metamorfosi della logica generale dell’Incarnazione, né un misterioso «invio dell’Essere», e tanto meno una semplice dottrina intellettuale o una forma effimera di «falsa coscienza».
Resta il fatto che la razionalità neoliberista può entrare in contatto con ideologie estranee alla pura logica commerciale, senza per questo cessare di essere la razionalità dominante. Come scrive giustamente la Brown, «il neoliberismo può imporsi come governamentalità anche senza costituire l’ideologia dominante»[12]. Certo, ciò non si verifica mai senza tensioni o contraddizioni. L’esempio americano è particolarmente istruttivo a questo riguardo. Il neoconservatorismo si è imposto come ideologia di riferimento della nuova destra, anche se l’«alto tasso di moralismo» di tale ideologia sembrerebbe incompatibile con il carattere «amorale» della razionalità neoliberista[13]. Un’analisi superficiale potrebbe far pensare a un «doppio gioco». In realtà, tra neoliberismo e neoconservatorismo esiste una corrispondenza che non è per nulla fortuita: se la razionalità neoliberista eleva l’impresa al rango di modello della soggettivazione, è proprio perché la forma-impresa è la «forma cellulare» di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia è la «forma cellulare di moralizzazione del bambino[14]. Di qui l’elogio incessante dell’individuo calcolatore e responsabile (presentato il più delle volte come un padre di famiglia lavoratore, economo e previdente) che accompagna lo smantellamento dei sistemi pensionistici, istruzione pubblica e sanità. Molto più che una semplice «zona di contatto», il collegamento di impresa e famiglia costituisce il punto di convergenza o sovrapposizione tra normatività neo479 liberista e moralismo neoconservatore. Ragion per cui è sempre pericoloso criticare il conservatorismo morale e culturale attaccandosi al presunto «liberismo» dei suoi partigiani in campo economico: cercando di smascherare l’«incoerenza» di questi ultimi, si rivelerebbe soprattutto la propria scarsa comprensione della differenza tra neoliberismo e laissez-faire, e per di più si rischierebbe di dover assumere una sorta di laissez-fairismo integrale e sistematico per salvare la coerenza della propria critica.
Ma la temporanea alleanza di neoconservatorismo e neoliberismo non vuol dire che un nuovo amalgama ideologico, una combinazione di ingredienti di provenienze diverse, non possa prendere il posto di una corrente di pensiero oggi piuttosto anemica. La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti, compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.


[1] Cfr. W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, in W. Brown, Edgework. Critical essays on knowledge and politics, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 40.
[2] Tale norma non esclude affatto strategie di «alleanza» messe in atto dalle imprese per potenziare i loro «vantaggi competitivi», anzi le rende necessarie. Da cui la fortuna nel vocabolario del management del termine «coopetizione», che evidenzia il ricorso a una combinazione morbida di cooperazione e concorrenza. Tuttavia le relazioni informali tramite le quali avviene lo «scambio di saperi» tra aziende concorrenti non si possono ricondurre, non più della «cooperazione volontaria» vantata da Spencer sotto la forma del contratto, a una vera cooperazione nel senso di una condivisione non transazionale.
[3] Sul senso di queste espressioni si veda il capitolo 7 per la prima, il capitolo 10 per la seconda.
[4] Su questa espressione di Böhm si veda il capitolo 7, sulla ripresa e approfondimento di Hayek il capitolo 9.
[5] W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 43.
[6] Sul concetto allargato di «dispositivo» in quanto rete di elementi eterogenei che dipendono tanto dal discorsivo quanto dal «sociale non discorsivo», vedi M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et Écrits, cit. vol. II, pp. 299-301.
[7] Ibid.
[8] Quest’indifferenza, che può arrivare fino alla pura e semplice negazione (l’ordoliberalismo
non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.
[9] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006, pp. 15-18. Il termine Gestell indica un ordinamento in cui l’uomo è costretto a svelare il reale «sul modo dell’ordinare», il che definisce per Heidegger l’essenza della tecnica moderna. Quanto all’oikonomía dei teologi, essa permette di concepire il governo degli uomini e del mondo come affidato da Dio a suo Figlio. È significativo che Agamben dia al concetto di «dispositivo » un’estensione difficilmente compatibile con la preoccupazione di Foucault per la singolarità storica (Ivi, pp. 19-20).
[10] Ivi, p. 17. L’idea è ripresa e approfondita ne Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Neri Pozza, Vicenza 2007, cap. 3, pp. 69-80.
[11] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005., p. 173.
[12] L’autrice aggiunge subito dopo che «la prima fa riferimento all’esercizio del potere, mentre la seconda a un ordine di credenze popolari che può corrispondere perfettamente alla prima o meno, e che può addirittura costituire un punto di resistenza alla governamentalità», W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 49
[13] Ivi, p. 143, nota 5 [«the high moral tone»]. Va osservato che l’autrice parla nella stessa nota del neoconservatorismo come di un’«ideologia»: «Neoliberalism and neoconservatism are quite different, not least because the former functions as a political rationality while the latter remains an ideology». Mentre in un altro recente saggio, intitolato American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization («Political Theory», XXXIV, n. 6, 2006, pp. 690-714), la Brown parla del neoliberismo e del neoconservatorismo come di due «razionalità politiche». Per quanto ci riguarda, crediamo che nessuna simmetria tra razionalità neoliberista e ideologia neoconservatrice sia possibile.
[14] L’impresa costituisce lo «zoccolo etico-politico» del neoliberismo. In effetti già in Röpke, agli albori del pensiero neoliberista, la forma-impresa è concepita come forma di «moralizzazione-responsabilizzazione» dell’individuo (cfr. capitolo 7).


giovedì, gennaio 08, 2015

Je suis Charlie Hebdo

Ancora nessun attentato in Francia. “Aspettate. Abbiamo ancora tutto gennaio per fare i nostri auguri”.
Questa vignetta di Charb è stata pubblicata sull’ultimo numero di Charlie Hebdo. Charb, morto nell’attentato, era il direttore

FONTE: http://www.internazionale.it