Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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sabato, dicembre 13, 2014

“Ciò che ti distrugge, non va riparato!”

Ciò che ti distrugge, non va riparato!


Pamphlet per la buona vita

a cura della redazione della rivista Streifzüge (tradotto dal tedesco da Massimo Maggini)

1.
Non si può costruire alcuna alternativa attraverso la politica. La politica non ci aiuta a realizzare le nostre possibilità e capacità: con essa tuteliamo solo gli interessi legati al nostro ruolo nell’ordine esistente. La politica è un programma borghese. Ogni sua mossa ed ogni sua azione è sempre in relazione allo Stato e al mercato. Essa modera la società, il suo medium è il denaro. Segue regole simili a quelle del mercato. Qui come là vi è, al centro, la pubblicità; qui come là ne va della valorizzazione e delle sue condizioni.
Il soggetto moderno ha completamente interiorizzato i vincoli di valore e denaro, non può nemmeno immaginarsi senza di essi. È veramente il “padrone” di se stesso, Signore e servo si incontrano qui nello stesso corpo. La democrazia non significa niente più che l’auto-controllo del ruolo sociale che ci è stato imposto. Dal momento in cui siamo sia contro il governo che contro il concetto di popolo, perché dovremmo essere proprio per il governo del popolo?
Essere per la democrazia, questo è il consenso totalitario, il credo collettivo del nostro tempo. È insieme appello e soluzione. La democrazia viene vista come il risultato finale della storia, che può essere solo migliorato, ma oltre il quale niente più si può dare. La democrazia è parte del regime del denaro e del valore, dello stato e della nazione, del capitale e del lavoro. La parola è vuota , tutto può essere introdotto ed evocato in questo feticcio.
Il sistema politico va sempre più verso lo sfascio. Non si tratta solo di una crisi dei partiti e dei politici, ma di una erosione della politica in tutti i suoi aspetti. Ma è proprio necessaria la politica? Per quale motivo, ma soprattutto a che scopo? Nessuna politica è possibile! Anti-politica significa che gli esseri umani lottano contro i ruoli sociali loro imposti.
2.
Capitale e lavoro non sono in alcun modo antagonisti, sono piuttosto un unico blocco di valorizzazione per l’accumulazione del capitale. Chi è contro il capitale, deve essere contro il lavoro. La professata religione del lavoro è uno scenario di autolesionismo e autodistruzione, nel quale ci troviamo catturati e intrappolati. Il disciplinamento al lavoro è stato ed è uno degli obiettivi dichiarati della modernizzazione occidentale.
Mentre la prigione del lavoro rovina, la fede in esso cresce e diventa fanatismo. È il lavoro che ci rende stupidi e malati. Le fabbriche, gli uffici, i grandi magazzini, i cantieri, le scuole, sono tutte istituzioni di distruzione. Le tracce del lavoro, le vediamo ogni giorno nei volti e corpi.
Il lavoro è la voce principale del consenso. È considerato come necessità naturale ma non è altro che allestimento capitalista dell’attività umana. Essere attivi è un’altra cosa, se non è fatto per i soldi e il mercato, ma come un dono, regalo, contributo, creazione per noi, per la vita individuale e collettiva degli individui liberamente associati.
Una parte significativa di tutti i prodotti e opere serve esclusivamente per la moltiplicazione del denaro, costringendo a tormenti non necessari, sprecando il nostro tempo e minacciando i fondamenti naturali della vita. Alcune tecnologie sono da intendersi solo come apocalittiche.
3.
Il denaro è il feticcio di noi tutti. Non c’è nessuno che non voglia averne. Non lo abbiamo mai deciso noi, ma così è. Il denaro è un imperativo sociale e in nessun modo uno strumento manipolabile. Come una forza che costringe costantemente a calcolare, a spendere, a riscuotere, a risparmiare, a indebitarci, a fare credito, ci umilia e ci domina ora per ora. Il denaro è un inquinante senza pari. La coazione a comprare e vendere è sempre il contrario di ogni liberazione e autodeterminazione. Il denaro ci rende concorrenti, se non nemici. Il denaro mangia la vita. Lo scambio è una forma barbarica di condivisione.
Non è solo assurdo che una miriade di professioni si occupino solo di esso, anche tutti gli altri lavoratori intellettuali e manuali sono in modo permanente impegnati a calcolare e speculare. Siamo macchinette automatiche per il calcolo. Il denaro ci taglia fuori dalle nostre possibilità, ci permette solo quello che è calcolabile secondo l’economia di mercato. Noi non vogliamo che il denaro stia a galla, ma che sparisca.
Merce e denaro non sono da espropriare, ma da superare. Esseri umani, case, mezzi di produzione, la natura e l’ambiente, in breve: niente deve essere una merce! Dobbiamo smettere di riprodurre le condizioni che ci rendono infelici .
Liberazione significa che gli esseri umani fanno pervenire liberamente gli uni agli altri i loro prodotti e i loro servizi. Che essi si relazionano direttamente gli uni agli altri e non si affrontano, come ora, in base ai loro ruoli e interessi sociali (come capitalisti, lavoratori, compratori, cittadini, persone giuridiche, inquilini, proprietari ecc.). Stiamo già ora vivendo momenti liberi dal denaro, come nell’amore, nell’amicizia, nella simpatia, nell’aiuto. Qui ci doniamo qualcosa, mettiamo insieme le nostre energie esistenziali e culturali, senza calcoli. Sentiamo che qui, in alcuni momenti, che non c’è alcun comando, alcuna “Matrix”.
4.
La critica è più che mera analisi radicale, essa desidera la sovversione delle condizioni date. La sua prospettiva cerca di immaginare come i rapporti umani possano divenire tali da non aver più bisogno della stessa critica, l’idea di una società in cui la vita individuale e collettiva possa e debba essere reinventata. La prospettiva senza critica è cieca, la critica senza prospettiva è impotente. “Trasformazione” è esperimento sul fondamento della critica nell’orizzonte della prospettiva. “Ripara ciò che ti distrugge!” non è la nostra formula.
Si tratta di niente di meno che dell’abolizione del dominio, è uguale se questo si manifesta in dipendenza personale o con vincoli strutturali. Non è accettabile che degli esseri umani siano sottoposti ad altri, oppure che siano abbandonati al loro destino o ad anonime strutture. L’auto-dominio, così come l’autocontrollo, non ci riguardano. Il dominio è più che capitalismo, ma il capitalismo è fino ad oggi il sistema di dominio più sviluppato, complesso e distruttivo. La nostra vita quotidiana ne è così condizionata, che riproduciamo capitalismo ogni giorno, ci comportiamo come se non ci fossero alternative.
Siamo bloccati, soldi e valore si attaccano al nostro cervello e intasano i nostri sentimenti. L’economia di mercato funziona come una grande “Matrix”. Negarla e superarla è il nostro obiettivo. Una vita buona e appagante presuppone la rottura con il capitale e il dominio. Non si dà alcuna trasformazione delle strutture sociali senza il cambiamento delle nostra basi mentali, e nessun cambiamento delle basi mentali senza il superamento delle strutture sociali.
5.
Noi non protestiamo, per ciò da cui siamo già fuori. Noi non vogliamo reinventare la democrazia e la politica. Noi non lottiamo per l’uguaglianza e la giustizia, e non ci affidiamo ad alcun libero arbitrio. Non vogliamo neanche puntare sullo stato sociale e sullo stato di diritto. E di certo non vogliamo andare in giro a spacciare valori. Alla domanda su quali siano i valori di cui noi abbiamo bisogno, è facile rispondere: nessuno!
Noi siamo per la totale svalorizzazione dei valori, per la rottura con il repertorio degli schiavi – generalmente denominati “cittadini”. Questo status è da respingere. Idealmente abbiamo già licenziato il rapporto di dominazione. La rivolta , che abbiamo in mente, rassomiglia ad un salto paradigmatico.
Dobbiamo uscire dalla gabbia della forma borghese. Politica e Stato, democrazia e diritto, nazione e popolo sono forme immanenti di dominazione. Per la trasformazione non ci sono categorie né partiti, nessun soggetto e nessun movimento.
6.
Si tratta della liberazione del tempo della nostra vita. Solo così è possibile più agio, più piacere, più felicità. Buona vita significa avere tempo. Abbiamo bisogno di più tempo per l’amore e l’amicizia, per i bambini, per riflettere o oziare, ma anche per occuparci intensamente ed in modo eccessivo di ciò che ci piace. Noi siamo per il dispiegamento a tutto tondo del godimento.
Vita liberata significa dormire più a lungo e meglio, e soprattutto anche dormire più spesso e più intensamente l’uno con l’altro. Nell’unica vita ne va della buona vita, l’esistenza deve avvicinarsi ai desideri, i bisogni sono da spingere indietro e il gradevole da ampliare. Il gioco e la gioia, in tutte le loro varianti, richiedono tempo e spazio. La vita deve cessare di essere la grande assente .
Non vogliamo essere quello che siamo costretti ad essere
***
pubblicato nel sito web di Streifzüge
http://www.streifzuege.org/2014/ci-che-ti-distrugge-non-va-riparato

martedì, novembre 04, 2014

A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz di François Bochet

 
Per Bordiga, nel socialismo il valore non esisterà più - così come non esisterà la moneta, il salariato, l'impresa, il mercato -, laddove c'è valore, come in Unione Sovietica, non ci può essere socialismo. Anselm Jappe - già autore di un "Guy Debord", apparso nel 2001 - ha scritto un libro ambizioso ed interessante, "Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore", Denoêl, 2003; dove fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato - un Marx che si interessa ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica al Programma di Gotha - ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell'Economia politica, dei Grundrisse, dell'Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe (pag.11) che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale - cosa innegabile - e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della ripartizione del denaro, della merce e del valore senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. - cosa che è insieme falsa e vera - e lui, Jappe, si propone di "ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso" (pagina 15). Rimprovera giustamente a Rubel di avere edulcorato il linguaggio hegeliano di Marx, nella sua edizione delle opere di quest'autore, e di avere chiamato opere "economiche" delle opere "anti-economiche" (molto tempo fa, Paul Mattick aveva fatto la stessa critica al "Trattato di economia marxista" di Ernest Mandel). Jappe afferma - insieme al collettivo tedesco riunito attorno alla rivista Krisis ed al suo principale teorico, Robert Kurz, cui egli è legato - la scomparsa del proletariato ; cosa che non gli viene perdonata dai teorici del proletariato rivoluzionario.
Ma - ed è questo il punto - egli cita come precursori del suo lavoro (a pagina 20), Lukacs e la sua "Storia e coscienza di classe", gli Studi sulla teoria del valore di I. Roubin, così come i lavori di Adorno, di Hans-Jurgen Krahl, di Lucio Colletti, di Rosdolsky, di Perlman e del trotskista J.-M. Vincent. Lungi da noi l'idea di negare l'importanza di tutti questi teorici - anche se associare dei teorici notevoli all'infelice Colletti, o anche a Vincent, ci pare curioso, una sorta di confusionismo, confusionismo interessato per parlare come l'Internazionale Situazionista - ma un'osservazione si impone immediatamente:
delle due l'una, o Anselm Jappe è un ignorante, ed ignora Amadeo Bordiga, Jacques Camatte ed i loro lavori (per non parlare di riviste come Le mouvement communiste, Négation o Théorie Communiste, all'inizio degli anni settanta del secolo scorso; Jappe cita la rivista  Socialisme ou Barbarie, la quale non ha mai sviluppato una critica del valore, non più dell'Internazionale Situazionista - al contrario di quel che pretende Jappe - che ha criticato, al seguito di Lukacs, solo la merce), cosa che facciamo fatica a credere, oppure allora è in mala fede - per non dire peggio - e vuole nascondere ai suoi lettori alcune opere per delle ragioni che possiamo facilmente immaginare. In ogni caso prende in giro tutti. Eliminando quei teorici, evidentemente diventa facile per Jappe sfilare, mostrando la nullità pretenziosa e crassa di un Pierre Bourdieu, della costellazione di Attac, o di un Antonio Negri. Aggiungiamo che se Bordiga ha sempre messo al primo posto, dopo la seconda guerra mondiale, nella sua definizione di comunismo, la soppressione del valore, del denaro, della merce e dello scambio, non è affatto la stessa cosa della corrente consiliarista - chiamata così per semplificare - della sinistra tedesco-olandese. (E qui almento Debord ed i situazionisti fecero opera salutare reclamando, seppure in modo molto ambiguo, la soppressione della merce; non parlarono però affatto di valore). Da qui lo scandalo e la sorpresa che, nel 1972, provoca il testo di Jean Barrot, alias Gilles Dauvé, "Contributo alla critica dell'ultra-sinistra. Leninismo e ultra-sinistra", e l'ostracismo di cui fu vittima il suo autore da parte di quegli ambienti consiliaristi che non potevano tollerare quella critica, e soprattutto il tentativo di Dauvé di integrare elementi della teoria di Bordiga, il quale era stato ridotto assai rapidamente, da quelle correnti consiliariste, ad un teorico ultra-leninista. Serge Bricianer, per esempio, uno dei rappresentati di quest'ambito consiliarista, curatore di un'antologia assai interessante di scritti di Pannekoek (Pannekoek ed i consigli operai), nella sua introduzione alla "Risposta a Lenin" di Gorter difende, così come faceva il GIK olandese, non già "l'abolizione del lavoro salariato e del denaro", ma "la messa in atto di modalità di ripartizione non più fissate arbitrariamente, e sulle quali i lavoratori non possono niente, ma che al contrario vengano determinate da essi e con l'aiuto di appropriati strumenti contabili". Il valore dunque sussiste, bello e buono, e si crede di comprendere che la sua soppressione darebbe luogo alla creazione di un regime come quello dei Khmer Rossi in Cambogia.
Jappe ha il merito di ricordare l'opera di Alfred Sohn-Rethel, il cui libro "Lavoro intellettuale e lavoro manuale" è apparso a Francoforte nel 1970, per il quale le forme di pensiero astratto sono, per semplificare, dei prodotti della forma valore (o, più esattamente, c'è una corrispondenza fra le due cose), e dunque le categorie del pensiero occidentale non sono né universali né a-storiche (cosa che già aveva cominciato ad affermare Lukacs, in Storia e coscienza di classe), solo il valore e lo scambio (che non sono possibili se non attraverso un enorme processo di astrazione, per cui bisogna prima fare astrazione delle qualità per poi poter comparare due oggetti a priori totalmente differenti, e quindi quantificarli per trovare una misura comune) possono a loro volta consentire l'astrazione, ma allora si pongono ulteriori problemi che Sohn-Rethel non ha affrontato (senza contare che 1. per lui l'alienazione proviene dallo scambio di merci, la produzione rimane neutra, e che 2. la separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale non ha, nella definizione di capitale, quel posto centrale accordatogli da Sohn-Rethel): si potrebbe conquistare l'astrazione (senza cui ogni riflessione appare impossibile) senza passare per la deviazione del valore, si può trovare un modo di vita ed una rappresentazione, una volta abolita la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che impedisca all'astrazione di rendersi autonoma e di ritorcersi contro la vita? Come abbiamo detto, Lukacs aveva affrontato questo problema in Storia e coscienza di classe - Lukacs, dopo la sua rottura con lo stalinismo, continuerà ad affermare che il valore è ancora in vigore sotto il socialismo, in particolare in uno dei suoi ultimi scritti, "Il processo di democratizzazione" - e Adorno riprenderà tale intuizione, allora che si lega a Sohn-Rethel. E' certo che il valore ed il capitale sono delle forme a priori del pensiero umano nelle quali siamo ingabbiati, in quanto specie e in quanto individualità, più terribilmente che nelle caverne di Platone, da delle forme che ci hanno modellato, degli schermi che ci impediscono di prendere contatto con la realtà naturale, intermediari obbligati e deformanti, comunità terapeutiche contro-natura e dispotiche.
Per finire, diremo che Jappe - così come fa l'antologia di Marx realizzata da Robert Kurz (Leggere Marx, 2002) - allontana la questione dell'accettazione da parte di Marx dei principi fondamentali della "erranza", la quale si esaspera, ma non comincia col capitalismo e la rivoluzione industriale: l'esigenza dello sviluppo infinito delle forze produttive, la volontà di dominare la natura, di separarsene, la scienza, l'abbandonarsi al divenire e la distruzione dei limiti, ecc.. Se si vuol fare un bilancio dell'opera di Marx, la quale ha un'immensa importanza in ogni caso, bisogna affrontarla nella sua totalità, non certo ridurla, ma nemmeno occultare le sue dimensioni mondane (nel senso di "facente parte di quel mondo"), non inventarsi un Marx fantasmatico che non è mai esistito.
Nel "Manifesto contro il lavoro", il gruppo Krisis - Robert Kurz, Ernst Lohoff et Norbert Trenkle ed altri - intende riprendere la critica laddove, dicono, l'Internazionale Situazionista l'aveva lasciata - cosa questa che limita fortemente la loro teorizzazione. Per loro, e noi lo condividiamo, non c'è più una classe emancipatrice, la lotta di classe non permette di uscire dal capitalismo, è solo una lotta all'interno del capitale, della quale il proletariato è una componente fra le altre. Ma gli autori parlano ancora, se non di rivoluzione, quanto meno di emancipazione sociale e lanciano degli appelli ai proletari (per esempio alla fine del libro). Allora? Criticano il lavoro, ma ci preoccupa la loro rivendicazione di un'estensione massiccia del tempo libero, rivendicazione aberrante - parola d'ordine pubblicitaria dell'industria dell'intrattenimento - perché non si tratta più di rivendicare il lavoro o il non-lavoro ma di considerare l'attività in maniera del tutto differente; così come ci preoccupa lo slogan inquietante "Prendiamoci quello di cui abbiamo bisogno!" (pag.95), e poi, che cosa può significare quell'appello ad "organizzare il legame sociale stesso" e a trovare delle "nuove forme di movimento sociale" (pag.106)?!
Ne "Il fantasma della teoria" (apparso sulla rivista di Jean-Marc Mandosio, "Nouvelles de nulle part" n°4, settembre 2003), Jaime Semprun, a sua volta, fa qualche osservazione critica al libro di Anselm Jappe. Comincia col domandarsi, anche lui, se una teoria rivoluzionaria sia ancora possibile, e critica Lukacs - anche lui - per avere scritto in "Storia e coscienza di classe" che solo il proletariato poteva accedere alla conoscenza ed alla totalità, identificando in questo modo coscienza di classe e partito leninista. Ma che Lukacs avesse fatto quest'identificazione, era solo un fatto secondario, la follia risiede assai più fondamentalmente nella sua teologia proletaria e rivoluzionaria (il proletariato come messia soggetto-oggetto della storia). Fondamentalmente, anche Semprun rimprovera a Jappe di non rimettere in causa lo sviluppo industriale, scientifico e tecnologico, di restare fedele all'escatologia marxista fondata sullo sviluppo delle forze produttive e sulla credenza mistica nel sorgere miracoloso di una società altra a partire dalla "lunga agonia della società delle merci", dalla devastazione rivoluzionaria in atto. Un emergere che lo stesso Jappe non osa più chiamare veramente rivoluzione. Come il gruppo Krisis (vedi a pag.39 della stessa rivista, le "Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis" dello stesso Semprun), Jappe parla effettivamente di produzione senza evocare la natura di quello che viene prodotto - e l'importante non è solo come si produce ma anche ciò che si produce - parla come se ci fosse ancora, anche se ammette la scomparsa del proletariato, un'umanità che non sarebbe stata desustanzializzata, che non sarebbe imprigionata in queste categorie a priori che ha pur tuttavia messo in evidenza.
In breve, come dice Semprun in altri termini, Jappe non sembra comprendere il carattere catastrofico della situazione attuale e l'urgenza di un cambiamento di prospettiva totale e radicale. Scrive Semprun: "Quando la nave cola a picco, non è più tempo di dissertare sapientemente sulla teoria della navigazione: bisogna imparare velocemente a costruire una zattera", così raccomanda di coltivare l'orto e afferma che "un buon manuale di orticoltura (...) sarebbe senza dubbio più utile, per attraversare i cataclismi che arrivano, piuttosto che degli scritti teorici nei quali si persiste a speculare imperturbabilmente, come se stessimo bene all'asciutto, sul perché e sul come del naufragio della società industriale".
Noi siamo del tutto convinti circa l'utilità di coltivare il proprio orto - cosa che va di pari passo con la fuga dalle città, non sempre facile, con il rifiuto della dipendenza, con la terapeutica, con l'inizio della riconquista della salute, dell'habitat, ecc. - e dunque di un buon manuale (citiamo, ad esempio, "La Guida del giardino biologico" di Jean-Paul Thorez), ma non pensiamo affatto - malgrado la presenza dei cataclismi - che lo studio teorico sia inutile, al contrario è più che mai indispensabile; dobbiamo fare soprattutto il bilancio dell'attività teorica e pratica dei rivoluzionari, e studiare il loro contributo alla costruzione del terribile mondo nel quale siamo imprigionati e dove difficilmente riusciamo a trovare l'aria per respirare. 

venerdì, settembre 19, 2014

Pierre Dardot et Christian Laval Du public au commun

Revue du Mauss N° 35 1er semestre 2010

Origine : http://www.sudeduclim.lautre.net/IMG/pdf/C-LAVAL_-_mauss-public-commun.pdf
La posture classique d’un certain « anti-libéralisme » consiste à dénoncer dans l’offensive néolibérale une marchandisation du monde et à lui opposer la défense des services publics nationaux pour les uns et des biens publics mondiaux pour les autres. Autant dire que la lutte politique se maintient sur un terrain bien connu où s’affrontent le Marché et l’État. Les « antilibéraux », sans trop le savoir ou sans trop s’en inquiéter, s’installent en fait sur le terrain de l’adversaire lorsqu’ils prennent fait et cause pour la production de services par l’État au nom d’une opposition qui s’est constituée précisément pour faire du marché la règle et de l’État l’exception. Ce travers est aussi pénalisant que l’aveuglement volontaire à l’égard des pratiques bureaucratiques étatiques au prétexte qu’il ne faudrait pas faire le « jeu du marché ». On sait pourtant que ce genre de raisonnement a coûté historiquement aux « forces de progrès » : un discrédit durable. Sortir du capitalisme néolibéral, c’est aussi sortir de ce double jeu du Marché et de l’État c’est définir une politique qui ne confondrait plus l’opposition à la marchandisation et la promotion de l’administration bureaucratique. Cette tâche est aujourd’hui d’autant plus nécessaire que le néolibéralisme montre tous les jours que le Marché et l’État désignent, non des entités indépendantes engagées dans un « face à face » planétaire pour la suprématie, mais des processus profondément enchevêtrés et des logiques étroitement imbriquées.
Pour oeuvrer à la définition de cette politique, on peut s’appuyer sur la problématique de l’association, de la solidarité, de la mutualité, qui a nourri toute la réflexion du mouvement ouvrier au cours de son histoire 1.
1 Cf. Philippe Chanial, La délicate essence du socialisme, L’association, l’individu & la République, Au bord de l’eau, 2009.
Aujourd’hui, cette problématique semble trouver un nouveau souffle et peut-être de nouveaux fondements dans la résurgence de la thématique du commun. Rien n’est joué cependant, tant l’emprise de la doctrine économique dominante tend à s’exercer sur ceux qui, aujourd’hui, tentent de penser la question des « biens » communs.
La question des services et des biens publics « Défendre les services publics » est une tâche politique nécessaire pour endiguer autant que possible les politiques de privatisation directe ou indirecte que les gouvernements successifs mènent depuis au moins trois décennies. On ne mettra donc pas ici sur le même plan les administrations publiques et les entreprises privées, tant du point de vue de leurs logiques d’action que du point de vue de leurs résultats. Il va sans dire que la production de services non marchands permet des avantages collectifs qu’il convient de défendre contre l’extension de l’accumulation du capital. Avec la poste, l’hôpital, l’école, il en va des liens sociaux, de la qualité de la vie, du bien-être, de la liberté de pensée. Mais il faudrait aussi interroger les limites de cette « défense des services publics » et se demander si, à demeurer sur le terrain de cette opposition du marché et de l’État, du bien privé et du bien public, on ne se condamne pas à une éternelle et stérile position défensive. Plus encore, il faudrait se demander si, en défendant l’État contre le Marché, on n’oublie pas un peu trop que l’État est aujourd’hui en train de se transformer profondément en entreprise selon les canons de la gouvernance du « corporate state ». La question est par conséquent de savoir de quel principe se soutient la défense de ces « services » : s’agit-il de les défendre au nom de l’Etat « impartial » et « redistributeur » ou bien au nom d’une certaine idée du lien social que l’action de l’Etat entrepreneurial tend à remettre en cause ? Il convient ainsi de remarquer que les « antilibéraux » qui dénoncent l’emprise des processus marchands emploient bien trop souvent le langage même de leurs adversaires et, plus encore que leur langage, leur mode de raisonnement, relève très fréquemment de l’économie publique la plus traditionnelle. Pour le dire vite, tout se passe comme si pour combattre un « ultralibéralisme » supposé vouloir tout privatiser, la seule ligne de défense résidait dans l’argument économique qui distingue les types de biens selon leurs caractéristiques intrinsèques. La seule « originalité » de la position, présentée parfois comme d’une extrême « radicalité », consisterait dès lors à étendre la problématique et la gestion des biens publics à l’échelle mondiale, ce qui ne veut rien dire d’autre que l’appel à la création d’un État mondial.
Il faut rappeler ici que la théorie des biens publics qui fonde une telle revendication n’est jamais qu’une partie d’une doctrine générale des biens économiques pour laquelle la plupart des biens doivent être produits pour des marchés concurrentiels. Ce sont leurs qualités propres, techniques et économiques, qui les destinent comme naturellement au marché 2. De la même manière, il existe des biens qui sont comme naturellement voués à être des biens publics. Comme l’indique la doctrine aujourd’hui en vigueur, les biens privés sont exclusifs et rivaux 3. Un bien est dit exclusif lorsque son détenteur ou son producteur peut empêcher par l’exercice du droit de propriété sur ce bien l’accès à toute personne qui refuse de l’acheter au prix qu’il en exige. Un bien est rival lorsque son achat ou son utilisation exclut toute consommation par une autre personne. On en déduit donc qu’un bien non exclusif est un bien qui ne peut être réservé par son détenteur à ceux qui sont prêts à payer et qu’un bien non rival est un bien ou un service qui peut être consommé ou utilisé par un grand nombre de personnes sans coût de production supplémentaire car la consommation de l’une ne diminue en rien la quantité disponible pour les autres.
Ce sont ces caractéristiques économiques et techniques qui justifient l’intervention de l’Etat selon les thèses classiques de Richard Musgrave et de Paul Samuelson formulées dans les années 1950 4. Selon Richard Musgrave, l’une des fonctions de l’État est de veiller à l’allocation optimale des ressources économiques, ce qui l’oblige à produire les biens qui ne pourraient pas être produits par le marché du fait de leurs particularités. D’où précisément l’appellation qu’on peut leur donner de biens publics. Mais observons bien le raisonnement qui est tenu. C’est parce que certains biens sont en quelque sorte défectueux ou déficitaires au regard de la norme qu’ils doivent être produits par le gouvernement. Un bien public est donc déterminé négativement. Quel est son défaut, quelle est sa déficience ? C’est que l’on ne peut individualiser suffisamment ses bénéficiaires, c’est qu’il bénéficie à un ensemble non divisible d’individus. Lorsque le bien par contre peut être divisé et faire l’objet d’une consommation individuelle sans effets externes, on a alors affaire à un bien qui peut et qui doit être produit sur un marché concurrentiel.
L’économie des biens publics est ainsi dans une relation de miroir avec celle des biens privés, comme le souligne avec pertinence Luc Weber. On n’entrera pas ici dans la discussion pour savoir si ces caractéristiques spécifiques suffisent à justifier l’intervention publique. Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une

2 Les distinctions économiques sont sur ce point des héritages du droit civil romain et de sa division des biens selon leur nature.
3 Cf. pour un exposé de la doctrine Luc Weber, L’Etat acteur économique, Economica, 1997.
4 Cf. Richard Musgrave, The Theory of Public Finance, 1959, et sa présentation canonique par Paul Samuelson, in L’économique, I, Armand Colin, 1982, p. 224.
Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une nature spéciale mais que cela ne rendait pas nécessaire pour autant leur production par l’État.
La doctrine de l’Union européenne, pour ne prendre que cet exemple, a renoncé pour sa part à utiliser les vocables de bien ou de service public, préférant employer les termes de « service d’intérêt général », ce qui laisse la place pour une production privée sous contrainte d’un cahier des charges fixé par des autorités publiques.
La renaissance des communs En réalité, cette présentation qui oppose deux types de biens privés et publics, s’est avérée très insuffisante. Si l’on combine comme cela a été fait dans les années 1970 les deux qualités des biens économiques, on distingue quatre types de biens. A côté des biens purement privés (rivaux et exclusifs) comme les doughnuts achetés au supermarché et des biens purement publics (non rivaux et non exclusifs) comme l’éclairage, la défense nationale ou les phares, on rencontre des biens hybrides ou mixtes, à la fois exclusifs et non rivaux, comme les ponts et les autoroutes sur lesquels on peut établir des péages, ou encore des clubs, des spectacles artistiques ou sportifs payants mais dont la consommation individuelle n’est pas diminuée par celle des autres spectateurs. Mais il est encore possible de rencontrer un autre type de biens mixtes qui sont à la fois non exclusifs et rivaux, comme des zones de pêche, des pâturages, des systèmes d’irrigation, c’est-à-dire des biens dont on peut difficilement interdire ou restreindre l’accès, mais qui peuvent faire l’objet d’une exploitation individuelle pour une utilité personnelle. Ce sont ces biens qu’Elinor Ostrom a désignés comme des« common-pool ressources »), c’est-à-dire des mises en commun de ressources qui donnent lieu à une gestion collective pour leur usage et partage.
La rencontre de cette problématique économique avec la mobilisation écologique à partir des années 1980 a donné un relief très particulier à la théorie des « commons » ( que l’on traduit ici par le mot « communs »), comme formes de gestion commune : parmi les ressources communes, on trouve en effet tous les « biens naturels » aujourd’hui menacés de dégradation ou de destruction, comme l’atmosphère, l’eau, les forêts. Un vaste débat s’est noué autour d’un article de Garrett Hardin qui, en 1968, dans la Tragedy of the Commons 5, avait cru pouvoir montrer, à partir de considérations sur la surpopulation, que les terres communales, avant même le mouvement des enclosures, avaient été détruites par la surexploitation auxquelles elles avaient été soumises par des paysans mus par leur seul intérêt égoïste, considérés tous comme des « resquilleurs » ou des « passagers clandestins » : « Freedom in a commons brings ruin to all », concluait Hardin.
5 Science, 13 décembre 1968, disponible en ligne
http://www.sciencemag.org/cgi/content/full/162/3859/1243
Une littérature abondante, d’inspiration néolibérale, a pris appui sur cet argument pour montrer les avantages de la propriété privée et l’inefficacité de la gestion collective en général. L’échec des services publics et des systèmes de protection sociale tenait au fait qu’ils sont la proie des passagers clandestins qui jouissent gratuitement des avantages sans payer et qui ne veulent surtout pas révéler cette jouissance pour ne pas avoir à en supporter le coût. Mais au-delà de cet aspect des choses, l’article de Hardin a réintroduit sans le vouloir la dimension des commons dans la discussion théorique, ce qui n’est pas un mince paradoxe lorsqu’on sait le discrédit de tout ce qui touchait de près ou de loin au « communisme » à cette époque. Mais il l’a fait en niant totalement l’existence de règles coutumières collectives comme condition d’usage des commons, c’est-à-dire en confondant le libre accès à des ressources et l’organisation collective des ressources. A cet égard, le principal apport de l’économie politique des communs est précisément d’être parti de la définition du commun comme forme de gestion collective 6.
Enfin, dans les années 1990, le développement de l’informatique et de l’Internet, a suscité un regain d’intérêt pour des communs d’un nouveau genre, les « communs de la connaissance ».
La connaissance, en un sens très large, est alors conçue comme une « ressource partagée » non seulement entre universitaires et scientifiques mais entre tous les coproducteurs susceptibles d’intervenir sur des réseaux qui peuvent s’élargir indéfiniment. Si Wikipedia est devenu l’exemple le plus visible de ces nouveaux types de ressources, il en existe de multiples formes correspondant à des communautés de coproduction digitale de toutes formes et de toutes tailles. Le mouvement des logiciels libres ou celui des« creative commons » en sont d’autres tout aussi significatifs. Ces communs de la connaissance, qui sont l’objet d’un vif intérêt aux Etats-Unis depuis une dizaine d’années, ont des particularités qui ont été mises en évidence par E.Ostrom et qui les distinguent des communs dits naturels. Alors que les ressources naturelles sont des ressources rares, à la fois non exclusives et rivales, les communs de la connaissance sont des biens non rivaux dont l’utilisation par les uns non seulement ne diminue pas celle des autres, mais a plutôt tendance à l’augmenter.
6 L’ouvrage désormais classique de Jared Diamond, Effondrement, Folio essais, 2009, est symptomatique de la façon dont une certaine écologie entend répondre à l’objection de G.Hardin en se référant aux travaux de E.Ostrom (p.843-844) : on tente de parer à l’argument de la « tragédie des communs » (p. 25 et 663) en mettant l’accent sur l’attitude responsable des « consommateurs » et non sur la co-production de règles. Cette approche révèle ainsi indirectement les limites de ces travaux.
C’est ainsi que progressivement un nouvel objet est apparu dans la littérature anglo-saxonne sous l’appellation de « commons ». Ce terme a été traduit en français tantôt par « biens publics » tantôt par « biens communs ». C’était pour la première traduction commettre une confusion théorique, puisque l’intérêt de la théorie est précisément de faire apparaître à côté des biens publics de nouvelles sortes de biens. Pour la seconde, c’était oublier que les « commons » ne sont pas nécessairement des biens au sens strict du terme, mais plutôt des systèmes de règles régissant des actions collectives, des modes d’existence et d’activité de communautés. C’est pourquoi il vaut sans doute mieux traduire le terme par « communs » pour faire entendre la dimension institutionnelle du concept et le lien étroit de l’ institution et de la pratique des « commons » avec l’existence de communautés non réductibles à un agrégat d’individus intéressés.
Les communs comme institutions Les limites de la nouvelle économie politique des communs à laquelle le nom d’E. Ostrom est désormais attachée tiennent au fait que cette théorie ne s’est pas complètement débarrassée des hypothèses économiques fondamentales qui fondent la théorie des biens publics 7. Elle reste en effet prisonnière du postulat selon lequel la forme de la production des biens dépend des qualités intrinsèques des biens eux-mêmes. De ce point de vue, la réponse que la théorie économique des communs a apportée à la thèse de Garret Hardin reste problématique. Car s’il est une réalité historique dont les économistes doivent tenir compte c’est bien que le mouvement des enclosures ne relève pas de la soudaine prise de conscience par les propriétaires fonciers de la nature de la terre comme bien exclusif et rival mais de la transformation en Angleterre des rapports sociaux à la campagne comme l’ont encore montré récemment les remarquables travaux de Ellen Meiksins Wood 8.
7 On trouve cette typologie dès 1977 in Vincent Ostrom et Elinor Ostrom , « Public Goods and Public Choices”, in E.S Savas, Alternatives for Delivering Public services, Boulder Westview press, 1977.
8 Cf. Ellen Meiksins Wood, L'origine du capitalisme, Une étude approfondie, Lux Humanités, 2009.
En un certain sens, la nouvelle théorie des communs n’est donc qu’un raffinement de la théorie des biens publics des années 1950 qui reconduit les limitations propres à tout économisme. En un certain sens seulement. Car outre le fait qu’elle prend en considération des questions nouvelles réelles et des transformations majeures comme l’environnement ou les technologies de l’information, cette théorie introduit la dimension fondamentale des institutions dans la gestion des communs, en soulignant que ce n’est pas tant la qualité intrinsèque du bien qui peut déterminer sa nature que le système organisé de gestion qui institue une activité comme un commun. Par là, elle répond à l’argument économique dominant selon lequel une économie ne peut fonctionner sans un système de droits bien définis par un contre-argument qui montre qu’un système institutionnel organisant la gestion commune peut être plus efficace dans un certain nombre de domaines que le marché.
Ce qui permet de mettre sur le même plan les « commons » dits naturels et les « commons » de la connaissance, c’est la prise de conscience des différentes menaces qui pèsent sur l’environnement et sur le partage libre des ressources intellectuelles en raison des règles d’usage explicites ou implicites, formelles ou informelles, actuelles ou potentielles, qui les détruisent ou empêchent leur développement. C’est donc la prise de conscience de leur fondamentale vulnérabilité. Ce qu’il y a de commun dans les « commons », si l’on peut ainsi s’exprimer, c’est le caractère destructeur des règles en usage pour l’exploitation des ressources naturelles et des risques de privatisation qui pèsent sur la production de la connaissance. Pour les unes, ce sont les comportements de prédation sans contrôle, favorisés par la compétition, qui sont les principaux dangers car ils épuisent les ressources naturelles.
Pour les autres, ce sont les processus de privatisation et de marchandisation qui menacent la créativité dans le domaine de la connaissance en imposant de « nouvelles enclosures » et en brisant la coproduction des idées et des oeuvres. C’est la « tragédie des anti-communs » selon l’expression du juriste américain Michael Heller à propos de la privatisation de la recherche biomédicale. La théorie des communs de la connaissance est de ce point de vue une réponse à l’expansion de la propriété intellectuelle et à la place qu’elle occupe dans le nouveau capitalisme. Les dangers ne sont évidemment pas les mêmes, mais dans les deux cas, il est besoin d’imposer des règles qui permettent d’instituer et de « gouverner » les communs et d’identifier le groupe qui gère le commun.
Ce qu’il y a donc de commun dans les communs, le point commun de tous les communs, est le fait qu’ils sont toujours utilisés collectivement et gérés par des groupes qui peuvent être de tailles différentes et obéir à des logiques variées 9.
9 Charlotte Hess et Elinor Ostrome (eds.), Understanding Knowledge as a Commons,
Les communs ne sont pas des « choses » qui préexisteraient aux règles, des objets ou des domaines naturels auxquels on appliquerait de surcroît des règles d’usage et de partage, que des relations sociales régies par des règles d’usage, de partage, ou de coproduction de certaines ressources. En un mot, ce sont des institutions qui structurent la gestion commune. Tout l’apport de la nouvelle économie politique des communs réside dans cette insistance sur la nécessité des règles et sur la nature des règles elles-mêmes qui permettent de produire et de reproduire les ressources communes.
Il faut en tirer une conclusion radicale qui va au-delà des formulations souvent équivoques de cette économie : seul l’acte d’instituer les communs fait exister les communs, à rebours d’une ligne de pensée qui fait des communs un donné préexistant qu’il s’agirait de reconnaître et de protéger, ou encore un processus spontané et en expansion qu’il s’agirait de stimuler et de généraliser 10.
Une politique des communs La gestion de la production des ressources communes doit obéir à un certain nombre de principes institutionnels que la théorie cherche à mettre en évidence. Certes, on peut penser qu’il n’y a rien de très original dans les résultats des travaux empiriques qui montrent que les communs auto-organisés requièrent un engagement volontaire, des liens sociaux denses, des normes fortes et claires de réciprocité. On peut même tenir que les concepts utilisés par cette théorie des communs restent insuffisants, cantonnés qu’ils sont à décrire la « gouvernance » collective des ressources partagées. Issus du corpus de l’économie appliquée aux rapports sociaux (capital social, passager clandestin, action collective, etc.), ils peinent à rendre compte des logiques et des normes de l’action qui permettent de faire fonctionner un « commun » et de penser l’articulation entre des ressources et des communautés humaines. On doit néanmoins réfléchir aux implications politiques des conditions nécessaires énoncées par The MIT Press Cambridge, Massachusetts, London, 2007, p. 5.
10 La thèse de Michael Hardt et Toni Negri est précisément que le commun est spontanément produit par l’action de la multitude comme sa propre condition, de telle manière que l’Empire échoue à capturer ce commun continuellement produit (Multitude, La Découverte, 2004).
Dans leur dernier ouvrage, Commonwealth, Belknap Harvard, 2009, les deux auteurs valorisent à juste titre la lutte organisée dans la « Coordination pour la défense de l’eau » à Cochabamba en 2000 en soulignant le fait que, dans cette expérience, le commun est considéré « non comme une ressource naturelle mais comme un produit social » (Ibid., p. 111). Toute la question est de savoir si ce « produit social » relève encore d’une production spontanée.
E.Ostrom et C.Hess pour la gestion des communs à partir de l’examen des situations qui ont réussi ou échoué.
Ce n’est pas qu’il y a une seule bonne manière de conduire les communs transposable partout. Au contraire, il existe une très grande variété de systèmes de gestion. Mais un certain nombre de questions fondamentales doivent être traitées et résolues par le système de règles pour faire exister un commun et le rendre pérenne. Selon ces deux auteurs, le commun doit avoir des limites nettement définies car il convient d’identifier la communauté concernée par le commun ; des règles doivent être bien adaptées aux besoins et conditions locales et conformes aux objectifs ; les individus concernés par ces règles doivent participer régulièrement afin de modifier ces règles ; leur droit à fixer et à modifier ces règles leur est reconnu par les autorité extérieures ; un système d’auto-contrôle du comportement des membres est collectivement fixé, ainsi qu’un système gradué de sanctions ; les membres de la communauté ont accès à un système peu coûteux de résolution des conflits et peuvent compter sur un ensemble d’activités réparties entre eux pour accomplir les différentes fonctions de régulation.
Cette liste des conditions du commun a sans doute à première vue quelque chose de décevant.
Elle permet pourtant de souligner une dimension essentielle, que la théorie économique standard ne permet pas de voir : le lien étroit entre la norme de réciprocité, la gestion démocratique et la participation active dans la production d’un certain nombre de ressources.
C’est qu’un commun ne réunit pas des consommateurs du marché ou des usagers d’une administration extérieurs à la production, ce sont plutôt des coproducteurs qui oeuvrent ensemble à l’édiction de règles ainsi qu’à leur mise en œuvre 11. En ce sens, la problématique des communs ne remet pas seulement en question l’économie des biens privés mais aussi celle des biens publics, qui lui est complémentaire. Entre le marché qui ne connaît que des biens privés et l’État qui ne connaît que des biens publics, il y a des formes d’activité et de production qui relèvent de communautés éminemment productrices, mais que l’économie politique a été radicalement incapable de penser jusqu’à présent.
11 En ce sens, la traduction de commoners par « usagers » qui est retenue par Isabelle Stengers est malheureuse, même si elle s’accompagne de la distinction entre « usager » et « utilisateur » : un commoner est non un usager, mais le gardien en acte d’une intelligence collective, comme elle le montre d’ailleurs elle-même très bien. Cf. Cf. Isabelle Stengers dans Au temps des catastrophes, résister à la barbarie qui vient, Les empêcheurs de penser en rond/La Découverte, 2009.
Plus encore, si l’on suit les résultats des travaux empiriques sur les communs de la connaissance, cette activité de production doit répondre à des conditions sociales et politiques précises. La production économique des ressources y est inséparable de l’engagement civique, elle est étroitement liée au respect des normes de réciprocité, elle suppose des rapports entre égaux et des modes d’élaboration démocratique des règles. L’économie politique des communs renoue ainsi avec les traditions de pensée du socialisme et de la sociologie.
La théorie des communs permet de souligner le caractère construit des communs. Rien ne peut laisser penser, comme les libertariens seraient tentés de le croire au vu de l’expansion de l’Internet, qu’un commun pourrait fonctionner sans règles instituées, qu’il pourrait être considéré comme un objet naturel, que le « libre accès » est synonyme du laisser faire absolu.
Pas de spontanéisme: la réciprocité n’est pas un don inné, pas plus que la démocratie n’est une donnée humaine éternelle. Le commun doit plutôt être pensé comme la construction d’un cadre réglementaire et d’institutions démocratiques qui organisent la réciprocité afin d’éviter les comportements de type « passager clandestin » mis en évidence par Garret Hardin ou la passivité des usagers dépendants des « guichets » de l’État. D’une certaine manière, la théorie des communs est parfaitement contemporaine du néolibéralisme qui pense, accompagne et favorise la création des objets marchands et la construction des marchés par le développement des droits de propriété, des formes de contrats, des modes construits de la concurrence. Elle permet d’envisager, à son tour, mais dans une voie opposée, un constructivisme théorique fondant une politique de construction des communs.

Fonte: http://1libertaire.free.fr/PDardotCLaval22.html

giovedì, settembre 11, 2014

Algoritmi del capitale Matteo Pasquinelli

Algoritmi del capitale

Sta per uscire Algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune (Ombre corte, 2014), a cura di Matteo Pasquinelli. Il libro raccoglie i contributi di Franco Berardi "Bifo", Mercedes Bunz, Nick Dyer-Witheford, Stefano Harney, Christian Marazzi, Antonio Negri, Matteo Pasquinelli, Nick Srnicek, Tiziana Terranova, Carlo Vercellone, Alex Williams.
Essendo un tema molto dibattuto e di grande valore per tutti coloro che seguono la rubrica di cheFare, abbiamo chiesto all'editore, che ringraziamo, il permesso di pubblicare un estratto dell'introduzione, a firma del curatore.




La limousine aveva il pavimento in marmo di Carrara, estratto dalle cave in cui Michelangelo, mezzo millennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata. Guardò Chin, abbandonato sul sedile, perso in divagazioni.
“Quanti anni hai?”
“Ventidue. Cosa? Ventidue...”
“Metti in bocca una gomma e prova a non masticarla. Per
uno della tua età, con le tue doti, c’è una sola cosa al mondo
degna di interesse professionale e intellettuale.
“Che cos’è, Michael?”
“L’interazione tra tecnologia e capitale, la loro inseparabilità.”
Don DeLillo, Cosmopolis


La limousine di un miliardario non ancora trentenne procede lentamente per le strade di New York, tagliando l’orizzonte verticale delle torri del capitale finanziario. Più che la pornografia folkloristica di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, è stato Cosmopolis di Don DeLillo, scritto negli stessi anni del movimento di Seattle e prima del tragico attacco alle Twin Towers, ad averci accompagnato nelle pieghe sofisticate della crisi attuale, nella virtualizzazione della finanza e delle relazioni sociali.

I finestrini insonorizzati della limousine inquadrano, come schermi digitali, i marciapiedi di Manhattan, mentre all’interno altri monitor rimandano silenziosamente agli algoritmi delle fluttuazioni di borsa. In questo racconto ambientato nell’anno 2000 si anticipa già il connubio tra speculatori finanziari e giovani hacker maestri nel software di analisi dei mercati, in particolare quella manipolazione e astrazione del tempo collettivo in prodotti finanziari che tutti abbiamo imparato a conoscere come futures e “derivati”.

L’atmosfera è sospesa e i dialoghi metafisici, ma la limousine si muove goffa nel traffico e goffamente incontra la storia nei corpi di una protesta anticapitalista proprio negli stessi luoghi in cui esploderà, dieci anni più tardi, il movimento Occupy Wall Street. Ma questa odissea orizzontale e lineare sembra appunto solo estremizzare la vertigine dei grattacieli soprastanti, l’abisso rovesciato della proiezione numerica del capitale, l’astrazione di torri bancarie che appaiono architetture svuotate e proiettate fuori da questo mondo e da questo tempo, dove il futuro rincorre se stesso. Non è solo dal tettuccio di una limousine che questo si intravede.

Diversamente dai personaggi di Cosmopolis, la tesi variamente sostenuta dagli autori del presente libro è che capitalismo e sviluppo tecnologico possano essere radicalmente separati e ridisegnati in senso rivoluzionario, che le lotte politiche taglino di traverso la composizione tecnica, che l’astrazione più estrema dell’intelligenza sia un’arma propria della moltitudine e che il futuro debba essere riconquistato come terreno di una visione politica contro il moralismo dell’austerity. Coincidenza vuole che questa raccolta esca a cinquant’anni dalla prima traduzione italiana, nel quarto numero dei “Quaderni Rossi”, nel 1964, del cosiddetto “frammento sulle macchine” di Marx.

Un quarto di secolo fa, Paolo Virno diceva che il capitolo sulle macchine dei Grundrisse, in cui Marx profetizzava la crisi dell’accumulazione di valore a causa dell’egemonia del general intellect, si citava negli anni Sessanta per attaccare la supposta neutralità della scienza nella produzione industriale, negli anni Settanta come critica del socialismo di stato e dell’ideologia del lavoro e finalmente tra gli anni Ottanta e Novanta veniva acquisito come vera e propria incarnazione della tendenza del postfordismo e della società della conoscenza (senza alcuna eruzione conflittuale, veniva fatto notare). Tuttavia il fine di questo volume non è quello di compiere (narcisisticamente) un bilancio della questione techné all’interno dell’operaismo italiano: al contrario, si tratta di riprendere le provocazioni del presente, soprattutto quelle che ci raggiungono da latitudini intellettuali inaspettate e che prendono di mira i baluardi teorici più rassicuranti.


Parafrasando Virno, si potrebbe dire che nel XXI secolo il capitolo sulle macchine dei Grundrisse debba essere riletto e confrontato con un ulteriore stadio di sviluppo: ovvero con il livello di astrazione della cosmopolis finanziaria, logistica, securitaria e digitale. Le stesse tesi del capitalismo cognitivo e del lavoro immateriale devono oggi essere nuovamente sondate per comprendere l’accelerazione globale dell’intelligenza macchinica che gestisce tanto le reti della finanza quanto quelle della logistica, i social media quanto i confini dei flussi migratori, gli apparati di polizia e di intelligence quanto i calcolatori che misurano il cambiamento climatico.

In una battuta, si potrebbe dire che non è sufficiente affermare che il capitalismo di oggi è un capitalismo cognitivo, ovvero che valorizza e organizza la conoscenza e le informazioni prodotte dal lavoro di una moltitudine globale ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica e a un dispositivo digitale (tutti hanno almeno un telefono cellulare). Il capitalismo ha sviluppato forme di intelligenza autonoma e di scala superiore. Si deve dire: il capitale stesso “pensa”.

Un po’ come quando la prospettiva moderna di Leon Battista Alberti nacque portando a Firenze le tecniche di proiezione ottica e astrazione geometrica dei matematici di Baghdad, raddrizzando molti quadri sghembi, aggiungendo una dimensione di profondità all’estetica e aprendo dunque una visione nuova delle spazio collettivo e politico, così sarebbe oggi salutare importare una visione aliena nella filosofia politica (e in particolare nella cosiddetta Italian Theory), per potere vedere i network globali e l’orizzonte tecnologico globale con la profondità e la proiezione di un nuovo paradigma, che faccia emergere e dischiuda uno spazio collettivo e politico più complesso. Si dà oggi un salto di qualità, un passaggio di paradigma, una breccia epistemica che dovrebbe essere riconosciuta da qualunque forma di pensiero. Urge un Machiavelli del nomos tecnologico globale.

Il trontiano punto di vista “di parte” ha bisogno di un nuovo paio di occhiali per osservare la nuova profondità del “tutto” macchinico. Si prendano quattro esempi macroscopici e quattro aree di tensione politica con le quali tutti si devono confrontare, ovvero: il monopolio dell’economia digitale da parte di Google, Facebook e altri social media; le gigantesche reti della distribuzione e della logistica, come Amazon o Walmart; il recente datagate, ovvero lo scandalo che ha coinvolto le agenzie di intelligence americane intorno all’intercettazione e analisi dei metadati delle comunicazioni globali; i sensori, i calcolatori e i modelli attraverso i quali il cosiddetto cambiamento climatico della terra si dice venga registrato, calcolato e previsto. Ognuna di queste infrastrutture tecnologiche sta ridisegnano i confini del nomos politico degli stati tradizionali semplicemente aprendo nuovi spazi ed estendendosi in nuove dimensioni.

Non essendo questa la sede per addentrarci in tutti e quattro i livelli, basti qui tracciare un parallelo tra la questione del cambiamento climatico e gli apparati, le reti e la scala delle tecnologie messe in opera nel piano di sorveglianza PRISM della National Security Agency americana. Quello che è importante sottolineare è la scala di questa ultima operazione: immensi data center, paragonabili a quelli di Google e Facebook, sono stati costruiti dalla NSA al fine di intercettare, archiviare e analizzare il traffico internet e le comunicazioni individuali di mezzo mondo. Ma quel che è più importante è la scala epistemologica, la qualità della informazione e della conoscenza che in questo modo si estrae, analizza e produce. Un ex direttore della CIA lo ha riassunto in modo cinico ma efficace: “Uccidiamo persone sulla base dei metadati”.


L’intercettazione di contenuti e il pedinamento individuale risultano molto meno interessanti ed efficaci della capacità di visione collettiva estratta nei metadati, ovvero nei dati che descrivono la dimensione collettiva (e quindi politica) di altri dati. Dal punto di vista di una epistemologia della scienza, non è arbitrario stabilire un parallelo tra i protocolli usati per l’intercettazione e la “previsione” dei crimini e del terrorismo con quelli usati per la misurazione e la “previsione” delle anomalie del riscaldamento globale. Scettici o meno riguardo al cambiamento climatico, la sua percezione collettiva e quindi politica (perché quella individuale e soggettiva non è un dato scientifico), dipende da una infrastruttura globale di sensori e calcolatori che è al di fuori dalle portata e del controllo di qualunque individuo, comunità o movimento. Solo superpotenze hanno la possibilità di accedere e controllare una tale mole di dati. “Una macchina immensa” – la definisce Paul Edwards nel libro A Vast Machine a proposito delle tecnologie che servono appunto per registrare il cambiamento climatico.

Data questa nuova conformazione del comando imperiale, come si ridefinisce il conflitto? Dove si danno e come si chiamano le lotte? Dove sono le forme di resistenza lungo questo nuovo asse maestro del comando? Ovunque. Non possiamo dire che le lotte contro le condizioni di lavoro della logistica asiatica siano più importanti di quelle degli studenti americani, che le lotte contro la gentrificazione a Berlino siano più importanti di quelle dei migranti in Campania, che quelle contro la corruzione e i nuovi oligopoli della rendita vengano prima di quelle contro l’austerity e contro il debito. Già nel Capitale (riprendendo le note dei Grundrisse), Marx scriveva a proposito di un “asse maestro” della produzione industriale che, separando e continuamente intrecciando potenza intellettuale e potenza manuale, oggi vediamo esteso organicamente a tutta la produzione globale:

“È nella grande industria organizzatasi sul fondamento delle macchine che si verifica la separazione delle facoltà intellettuali [Potenzen] dal processo di produzione dal lavoro manuale, e la trasformazione di queste facoltà in dominio [Mächte] del capitale sul lavoro. L’abilità specifica del singolo operatore-macchina [Maschinen-arbeiter] s’annulla come accessorio assolutamente trascurabile di fronte alla scienza, alle gigantesche forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incorporati nel sistema delle macchine e formano insieme ad esso il potere del master.”

È possibile visualizzare quindi anche un asse comune delle lotte globali? La comprensione di questo automaton tecnologico planetario, che ruota come fosse il vero e proprio asse gravitazionale delle terra, non viene né prima né dopo l’organizzazione politica. Né è parte consustanziale. Contro gli algoritmi del capitale vanno inventate nuove macchine del comune, macchine che intervengano su questo asse maestro della produzione mondiale per organizzare nuove e visionarie forme della politica, e immaginare persino avventure spaziali che, come ben suggerito dall’Afrofuturismo ripreso dagli stessi accelerazionisti, siano capaci di contrastare e sfidare la forza di gravità del capitalismo terrestre.

[…] Con J.G. Ballard dovremmo davvero ripetere che la terra è per noi l’unico e vero “pianeta alieno” da esplorare, come aliena deve essere sempre la nostra stessa intelligenza politica – intelligenza che viene a sfidare il capitale in quanto macchina di altissima astrazione e a rilanciare il comune come macchina di ben più potente astrazione.

FONTE: http://www.doppiozero.com

sabato, luglio 19, 2014

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin
traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti
Questo frammento, databile alla metà del 1921, è tratto da: Walter Benjamin, Sul concetto
di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi 1997. Una nuova e bella traduzione
del solo frammento con testo a fronte è stata pubblicata di recente da Il Melangolo
a cura di Carlo Salzani.


Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente
all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta
un tempo le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo, non
solo di una conformazione condizionata religiosamente, come pensa Weber, bensì di un
fenomeno essenzialmente religioso condurrebbe ancora oggi sulla cattiva strada di una smisurata
polemica universale. Non possiamo chiamare in causa la rete in cui ci troviamo. Più tardi
tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea.
Però tre tratti di questa struttura religiosa sono già al presente riconoscibili. In primo luogo
il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. Tutto in
esso ha significato solo in relazione diretta al culto, esso non conosce alcuna dogmatica
particolare, alcuna teologia. Da questo punto di vista l’utilitarismo assume la sua colorazione
religiosa. A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo:
la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve
et sans merci. Qui non c’è nessun “giorno feriale”, nessun giorno che non sia un giorno di
festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno
dell’adorante. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente,
il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo
sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un’immensa coscienza della
colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa,
bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere
Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. Quest’ultima non
la si deve qui attendere nel culto stesso, e nemmeno nella riforma di questa religione, che
dovrebbe potersi attenere a qualcosa di sicuro in essa, né nel rinnegarla. Inerisce all’essenza
di questo movimento religioso, che è il capitalismo, il perdurare fino alla fine, fino alla
finale, piena colpevolizzazione di Dio, il raggiunto stato di disperazione del mondo che per ora
ancora si spera. In questo risiede lo storicamente inaudito del capitalismo, che la religione non
è più riforma dell’essere, ma la sua distruzione. L’espansione della disperazione a stato religioso
del mondo dal quale si debba attendere la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta.
Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo. Questo passaggio del pianeta
uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine della sua orbita è l’ethos
che costituisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione
capitalistica inizia ad adempierla. Il quarto tratto di essa è che il suo Dio dev’essere
tenuto segreto, ci si può rivolgere a lui solo allo zenit della sua colpevolizzazione. Il culto
viene celebrato davanti a una divinità ancora immatura, ogni idea, ogni pensiero rivoltole
ferisce il mistero della sua maturazione.
La teoria di Freud appartiene anch’essa al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata
in modo totalmente capitalistico. Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia,
ancora da chiarire pienamente, il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio.
II tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di
Nietzsche. L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione,
nella purificazione, nella penitenza bensì nell’incremento apparentemente
costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. Perciò sono inconciliabili l’incremento
e lo sviluppo nel senso del non facit saltum. Il superuomo è l’uomo storico arrivato
senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo. Questo far esplodere il cielo per mezzo di
umano intensificato, che religiosamente è e rimane (anche per Nietzsche) produzione di
colpa, lo ha pregiudicato Nietzsche. E analogamente Marx: il capitalismo che non si converte
diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in quanto tali funzione della
colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo.
Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.
II capitalismo – come dev’esser da dimostrare non solo nel calvinismo, ma nelle restanti direzioni
cristiane ortodosse – in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e
in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.
Confronto tra le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e le banconote di diversi stati
dall’altro.
Lo spirito che parla dell’ornamentio delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto. Sorel Reflexions sur la violence p. 262
Superamento del capitalismo tramite la migrazione Unger Politik und Metaphysik p. 44
Fuchs: struttura della società capitalistica o s.
Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie 2. Bd. 1919/20
Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. 1912)
Vedi innanzitutto la letteratura citata in Schönberg sotto II Landauer: Aufruf zum Sozialismus
p. 144
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza
spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti.
Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice
di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono
nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-
materiale.
Il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è
tramutato nel capitalismo.
Metodologicamente si dovrebbe innanzitutto indagare quali collegamenti con il mito abbia
istituito il denaro nella storia, fino a che dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così tanti
elementi mitici da poter costituire il proprio mito.
Guidrigildo / Thesaurus delle buone opere / compenso che è dovuto al prete. Plutone come
dio della ricchezza.
Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit 1816 p. 56 ss.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura risolutiva, per noi in questa [sua]
qualità al tempo stesso redentiva e omicida, del sapere: il bilancio come il sapere redentivo
e liquidatorio.
Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione il richiamare alla mente che il
paganesimo originario di sicuro ha concepito in primo luogo la religione non come un interesse
“superiore”, “morale” bensì come l’interesse più immediato, pratico, che cioè, in altre parole,
proprio come l’odierno capitalismo, non è stato affatto in chiaro circa la propria natura
“ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità
vedeva un membro certo di essa, proprio nel senso in cui la borghesia odierna lo vede nei
suoi appartenenti non produttivi.

Un commento, oggi di Giorgio Agamben

1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei
cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca
che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà
a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici,
semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo
americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro
in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che
aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno
delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a
partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio
sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di
…” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo
senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe
fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo)
non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un
biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente
autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano,
che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come
è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua
capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel
debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze
del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e
ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste
monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie.
La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento
coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia
Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto
la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il
denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito
che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di
Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da
Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX
e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”).
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione
della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso,
che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della
modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema
e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento
di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione
di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di
festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide
con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione
di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non
espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione
si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale…
e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel
destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza,
ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del
mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i
tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con
esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio
del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso
è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che
comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana
appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa…
è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitali-
smo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma
immediatamente in socialismo”.
3. Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione,
come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che
cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con
questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e
gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a
un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes
pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di
trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco
di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire:
pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode
presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione
che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che
non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il
nostro credito e la nostra parola. Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è
ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione
fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci
alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè,
quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”:
“Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere…
Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides
in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo
riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla
fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi,
da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun
oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief ) – cioè:
nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto
altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire
credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e
gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.
4. Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità
in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile
alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare
– in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria
fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno,
cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è
un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che
“sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli
ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate.
Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo,
prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo
“come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora
immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista,
di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata
annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in
senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un
mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.
5. Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a
vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario
contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali
e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla
luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio
della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno
in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era
naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non
aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta,
al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio
tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo
con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997,
p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale
aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito
dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per
così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione
futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione
capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che
non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso,
sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato
atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento
della religione capitalista: il credito-debito.

FONTE: http://www.lostraniero.net/

lunedì, giugno 30, 2014

Il capitano Misson e la libera colonia di Libertatia

Sui pirati ci sarebbe da scrivere molte cose.
Lasciando perdere le fandonie degli scribacchini di corte, i pirati, a differenza dei corsari, andavano per il mare, creavano comunità, libere ed egualitarie, attaccavano le navi degli stati europei, e il bottino veniva distribuito egualmente tra i componenti della nave. Non facevano prigionieri. Spesso quest'ultimi si associavano ai pirati. E quando sbarcavano in un luogo, non l'occupavano, come si vede nei film da quattro soldi; venivano ospitati dalla comunità locale, con la quale intrecciavano rapporti di amicizia e di collaborazione.
Molti dei pirati, contrariamente al clichè, erano persone curiose e colte. Bellissima l'introduzione dell'autrice francese al libro " La cucina dei bucanieri", casa editrice eleuthera-novembre 2003.
Il "tesoro" che ci hanno lasciato i pirati non sta in fondo al mare, ne' in qualche isola dei tropici, ma nel cuore di ogni uomo e questo tesoro si chiama liberta'... liberta' dalla schiavitu' e odio contro i tiranni.
Il figlio di Pandora
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Non intendiamo offrire questo storia del capitano Misson, del suo equipaggio e della loro libera colonia di Libertatia, come un esempio di Utopia, o come modello per la costruzione di una società líbertaria oggi. Essa è solo il resoconto di un antico tentativo di realizzare una comunità genuinamente libertaria ed egualitaria, una comunità che tentò di vivere secondo i principi di " Libertà, Uguaglianza, Fratenità " circa cento anni prima della Rivoluzione Francese.
Il capitano Misson trascorse la maggior parte della propria vita da adulto come pirata. Ma il suo vascello, che solcava i mari battendo una bandiera con il motto "Libertà", non era l'unico, tra la fine del 17° secolo e l'inizio del 18°'. Le navi pirate di quel tempo erano quasi tutte,vere e proprie repubbliche galleggianti. A bordo, le decisioni venivano prese dall'equipaggio riunito in assemblea, o da un comitato di delegati. Alcune navi pirata dei Caraibi si diedero persino dettagliate costituzioni. Diversamente dai personaggi autoritari di cui si legge nei racconti di avventure, i veri capi pirata avevano il diritto di comando solo durante il combattiemento con le navi avversarie; nelle altre occasioni, era il timoniere a svolgere il ruolo di leader della cominità, fungendo da arbitro in caso di conflitto tra i mebri del'equipaggio. Il bottino preso sulle navi catturate veniva diviso in modo egualitario. Al capitano, di solito, toccava una parte doppia, per aver fisicamente guidato l'attacco, e in certi casi una volta mezza, o una volta e un quarto, andava al timoniere, al capo cannoniere e al carpentiere. Quote fisse venivano anche pagate come indennizzo per le ferite riportate in battaglia. I capitani spietati e dittatoriali, a quel tempo, non stavano sulle navi pirate, ma sui vascelli mercantili o militari. La vita dei marisi "normali" era dura e pericolosa, e la paga scarsa. Gli ufficilai potevano comminare punizioni che includevano la catena, la frusta, e il "giro di chiglia": quest'ultima consisteva nel gettare in mare la vittima, legata a una gomena, e farla passare più volte (a seconda della gravità del "reato" commesso, sotto lo scafo della nave. Era una pena che spesso risultava fatale. Il fatto che presso i pirati non esistesse la ferrea disciplina che regnava sulle altre navi, viene spesso addotto come una delle cause della loro sconfitta. Ma questa è una strana asserzione, poiché i pirati effettivamente sconfitti furono assai pochi: sulle rotte delle Indie orientali, le probabilità di cattura erano meno dell'uno per cento, e su quelle delle Indie occidentali erano praticamente nulle.
L'unica fonte per una storia completa di Misson e del suo equipaggio è la "Storia generale delle scorrerie e dei delitti dei pirati più famosi", scritta dal capitano Charles Johnson. La storia di Misson appare nella seconda edizione ampliata di quest'opera, pubblicata nel 1726. Sfortunatamente, essa è l'unica fonte di informazioni su Misson. Di alcuni pirati citati nella "Storia generale" si parla anche in altri documenti bibliografici, ma non di Misson. A causa di tale mancanza di informazioni sicure, diversi autori negano credito al resoconto di Johnson, come se fosse solo il frutto d'invenzione. Esiste anche chi avanza il sospetto che Charlse Johnson non fosse che uno pseudonimo di Daniel Defoe. Nonostante ciò, comunque, c'è da chiedersi perchè mai, in un catalago esauriente ed autorevole, come la "Storia generale", Johnson avrebbe scelto di includere proprio un personaggio inventato. Non bisogna dimenticare, inoltre, che Johnson scriveva d'avvenimenti molto recenti, riguardanti, in certi casi, persone ancora viventi, le cui imprese vere o presunte potevano essere note ai lettori. Qualche riferimento a Misson, in particolare in relazione alla sua amicizia col pirata americano Tew, è reperibile solo su testi posteriori alla "Storia generale" di Johnson. E' possible che Johnson abbia usato Misson, vero o immaginario che fosse, come veicolo per le sue idee progressiste. Il discorso contro i profittatori della schiavitù, ad esempio, sarebbe stato certamente meno pericoloso se riportato come pronunciato da un pirata, che non scritto in prima persona, tenuto presente che anche la Famiglia Reale aveva un vasto interesse finanziario nella tratta degli schiavi. Johnson stesso dichiarava che il nocciolo della storia proveniva da un manoscritto attributo a Misson medesimo, passato a Johnson da un suo contatto francese; quand'an che ciò fosse vero, però, Johnson non sarebbe stato nè il primo nè l'ultimo storico ad essere incappato in un documento falso. Eppure, leggendo la "Storia generale", Johnson non appare come un ingenuo. A quei tempi, un altro pirata della tradizione popolare era Avery, del quale si diceva che avesse come un re in un'isola del paradiso, piena di tesori e di fanciulle indigine a disposizione. Johnson lo stanò e risultò che era un ubriacone bugiardo e senza un soldo. Allo stesso modo che ad altri eroi popolari, come Robin Hood, anche a Misson sono state accreditate, oltre alle sue imprese, anche quella degli altri, o imprese esagerate o fantastiche. E come nella storia di Robin Hood, anche in quella di Misson sono riconoscibili, al di là dei fatti, le tracce di desideri, di speranze, ed è appunto questo a renderla degna d'interesse; la storia di Misson è un tributo di 250 anni fa all'ideale di una società basata alla cooperazione e sul mutuo appoggio, una società che si prendeva cura degli anziani e degli inabili, era magnanima con i malfattori, e svolgeva le proprie attività senza bisogno di denaro o di polizziotti. Misson (un nom de guerre, quello vero è sconosciuto) nacque in Provenza da ricca e rispettata famiglia. Studiò lettere, logica e matematica, e frequentò per un anno l'Accademia di Angers. Al suo ritorno, a sedici anni, avrebbe voltuo arruolarsi nei Moschettieri, ma il giovane Misson era un appassionato lettore di racconti di viaggi e desiderava viaggiare egli stesso. Così, sfruttando il fatto che un suo parente, il signor di Fourbin, era capitano su di nave militare, la Vicotirie, riuscì a farsi assegnare ad essa come volontario e partì alla volta di Marsiglia per raggiungerla. Ben presto la Vicotire salpò, facendo rotta per il Mediterraneo e Misson si dedicò con entusiamsmo al suo lavoro. Nel tempo libero pagava il nostromo e il carpentiere perchè gli insegnassero i segreti della costruzione e della manutenzione delle navi. Quando la Victorie attraccò a Napoli, Misson ottenne il permesso di recarsi in visita a Roma, un suo particolare desiderio. Restò disgustato dalla decadenza della corte papale e giunse alla conclusione che "la religione serviva solo a tenere sotto controllo la mente dei più deboli". Confessò i suoi dubbi ad un giovane prete domenicano, il quale, con sua grande sorpresa, si dichiarò:" Per quanto mi riguarda, sono stanco di questa farsa, alla prima occasione intendo liberarmi di quest'abito da carnevale". Misson fornì l'occasione, acquistando per lui dei vestiti e conducendolo a bordo della Victoire come volontario. Il prete si chiamava Caraccioli, ed i due sarebbero restati amici per tutta la vita. Raggiunsero la nave a Livorno. Un paio di giorni dopo aver salpato, furono attaccati da due vascelli di pirati Salee. La Victoire ne affondò uno e arrembò l'altro. Misson e Caraccioli parteciparono all'assalto in prima fila, e l'ex prete, in seguito a ciò, venne colpito alla coscia e dovette essere operato.
" Un arrembaggio non è uno scherzo, ragazzo. Tu stai lì con gli altri, sul ponte, e vedi l'altra nave che si avvicina . . . piano piano . . . sempre più vicina ... E ti senti morire ... "Le parole del vecchio timoniere gli tornavano alla mente, ora. Il vascello pirata aveva ridotto la velatura e manovrava per affiancare, mentre la Victoire faceva lo stesso. Gli ufficiali giravano in mezzo agli uomini, dando ordini secchi e consigli. Si capiva che anche loro avevano paura. Voi coi moschetti, più sottò. Controlla l'innesco di quella pistola, marinaio ... " Certe volte te ne stai lì anche un'ora, e più, ad aspettare che venga il momento. E intanto quelli sparano cannonate, e il bersaglio sei tu, ragazzo. Quelli sparano e tu non puoi far niente ... senti le palle che arrivano fischiando e puoi solo sperare che prendano qualcun altro, non te...
Ora si vedevano le lacce dei pirati. Le barbe, i fazzoletti annodati sul capo. Un tipo impennacchiato come un moschettiere stava ritto sulla murata, tenendosi ad una scotta. Doveva essere il capo di combattimento, quello che guidava l'assalto. Erano tanto vicini che Misson potè distinguere gli occhi sbarrati, le labbra strette. Gli ufficiali continuavano a parlare.
- Attenti, uomini! Ci siamo... " Ma il più brutto è quando devi saltare dall'altra parte, ragazzo. Improvvisamente ti sembra di essere solo, ti sembra che nessuno stia saltando con te, e ti dici: cristo, ma solo io devo andare di là a farmi ammazzare? E poi senti qualcuno che ti grida nelle orecchie: arremba, filone, figlio di puttana, arremba, cosa aspetti... e magari ti arriva una pedata nel culo, o una frustata. E allora salti... "
Poco prima che le due navi venissero a contatto, da entrambe le parti cominciarono a volare grappi di varia loggia, per assicurare l'abbordaggio, mentre qualcuno non riusciva a trattenere l'emozione e scaricava le armi verso gli avversari. Accanto a Misson, Caraccioli farfugliava tra i denti, forse una preghiera o forse una litania di bestemmie partenopee. Poi gli ufficiali cominciarono ad urlare come forsennati e la ciurma si mosse. Misson pose un piede sulla murata, prese lo slancio e saltò...
Tornata a Marsiglia, un mese dopo la Victoire venne inviata a La Rochelle, da dove avrebbe dovuto scortare alcuni mercantili in rotta per le Indie occidentali. Ma questi non erano ancora pronti, e Misson e Caraccioli s'imbarcarono sulla Corsara Triunph, per una breve scorribanda nella Manica. Predando i mercantili inglesi, radunarono un cospicuo bottino che vendettero a Brest. I nostri due amici rientrarono sulla Victoire e qualche settimana più tardi fecero vela per le isole di Martinica e Gudalupa. Il lungo viaggio offrì loro molto tempo per discutere. Ritenendo ormai smascherata la chiesa cristiana, Caraccioli volse la sua attenzione verso le assurdità della relgione ebraica e musulmana. Anche altri membri dell'equipaggio presero ad unirsi alle discussioni, e ben presto Caraccioli si trovò ad avere un seguito di proseliti, che vedevano in lui una specie di nuovo profeta insorto a combattere gi abusi della religione. Ma Caraccioli era appena all'inizio : " (...) quando ebbe sperimentato gli effetti della sua polemica antireligiosa,si rivolse contro i governi, e mostrò allora come ogni uomo sia nato libero e abbia diritto al proprio sostentamento al pari dell'aria che respira (...) e come le grandi disparità tra uomo e uomo, alcuni viventi nel lusso e altri nell'indegenza più totale, siano esse dovute soltanto all'avarizia e all'ambizione di una parte e alla pusillamine acquiescenza dell'altra". Caraccioli si pronunciò contro la pena di morte e dichiarò che bisognava rinunciare al diritto di uccidere, eccetto che "in difesa del nostro diritto materiale, cioè il diritto a godere di quanto è necessario per il nostro sostentamento". Quindi parlò a Misson dell'idea di "mettermi per conto proprio", un'idea che andava a genio anche a molti dell'equipaggio.
Matthieu Le Tond faceva il timoniere da quasi vent'anni, ed era in mare da sempre. Aveva visto, come egli stesso diceva, tutto quanto un uomo può vedere e ben più di ciò che può sopportare. Questo lo aveva fornito, col passare del tempo, di un pessimo carattere, nonchè della convinzione che fosse suo dovere farlo apparire, se possibile, anche peggiore. Viveva dunque eternamente preoccupato che qualcuno potesse farsi di lui l'idea di un vecchio mite e bonario (il che, peraltro, assai difficilmente avrebbe potuto verificarsi) e si proteggeva da una simile eventualità coprendo di sanguinose contumelie tutti coloro che gli rivolgevano la parola, con un turpiloquio ricco e fantasioso come un esercizio di retorica. La vita di mare con le sue asprezze, gli forniva frequenti occasioni di esibizione e ciò lo teneva tranquillo, per così dire. Ma quando Misson e Caraccioli cominciarono a rendere pubbliche le proprie discussioni, e a coinvolgere in esse l'equipaggio, si trovò ben presto in grande imbarazzo. Il suo "stile" gli avrebbe imposto di mandare pittorescamente al diavolo quei due giovanotti che parlavano in modo forbito ed elegante, in particolare quell'italiano con la sua ridicola pronuncia. Eppure, quello che dicevano gli sembrava giusto, e non poteva trattenersi dal trovarsi d'accordo con loro e ammirare come sapevano ribattere alle contestazioni e chiudere la bocca anche agli ufficiali, quelle rare volte che intervenivano. E avrebbe voluto dar loro manforte, specie quando parlavano male dei preti, di cui ricordava ancora le botte che gli davano all'orfanotrofio. Ma non poteva tradire il suo "stile", e quindi si limitava a tacere. Era un silenzio, sofferto e contrastato, però. E la sera, quando in qualche angolo della coperta si formava il solito crocchio, e la discussione pian piano prendeva l'avvio, cogliendo spunto da una riflessione, o da un commento al fatto della giornata, e subito si animava mentre il commento andava allargandosi in considerazioni più generati ed impegnative, e i nomi fatidici (libertà, uguaglianza, governo . . .) cominciavano ad es-sere pronunciati, si poteva vedere la sua ombra solitaria sedere in disparte, là dove credeva di non essere notato, ad ascoltare, grugnendo fra sè e sè...
Incrociando al largo della Martinica, la Victoire intercettò una cannoniera inglese da quaranta pezzi, la Winchelsea.Le navi vennero a battaglia,e alla prima bordata del vascello britannico, il capitano, il secondo e i tre luogotenenti della Victoire restarono uccisi. Il timoniere, unico rimasto dello staff di comando, avrebbe voluto arrendersi, ma Misson e Caraccioli riorganizzarono l'equipaggio e per tre ore continuarono il combattimento. Improvvisamente, per qualche sconosciuto motivo, a bordo della Winchelsea ci fu una tremenda esplosione, e la nave in pochi minuti affondò. Dalla Victoire vennero calate alcune scialuppe, ma si recuperò un unico sopravvissuto, il luogotenente Franklin, che morì due giorni dopo per le ferite riportate. L'equipaggio della Victoire si trovò, di colpo, ad avere in mano il controllo della nave. Caraccioli parlò agli uomini, evocando gli inizi della fortuna di Maometto e di Dario, ma non c'era bisogno della sua capacità persuasiva perché tutti si rendessero conto della potenzialità di quella situazione. Misson annunciò la sua intenzione di condurre una vita di libertà, e molti dell'equipaggio lo invitarono ad eccettare il ruolo di capitano. Egli si disse d'accordo, a patto che coloro che non intendevano seguire il suo destino fossero sbarcati in qualche località civilizzata. Nessuno volle avvalersi di questa possibilità. Venne quindi eletto un "consiglio di vascello", formato da Caraccioli in qualità di luogotenente, dal mastro d'istruzione come secondo e da Jean Besace come terzo. Il timoniere Matthieu Le Tondu e il capo-cannoniere vennero nominati rappresentanti dell'equipaggio in seno al consiglio. Il nuovo consiglio si riunì subito nel quadrato, per decidere la rotta da seguire. Tutti furono d'accordo che la costa spagnola era con tutta probabilità la direzione più conveniente. Mattieu Le Tondu pose il problema della scelta della bandiera e ne suggerì una nera come la più terrificante. Ma Caraccioli obbiettò: essi non erano pirati, ma vigili guardiani dei diritti e delle libertà popolari, quindi una bandiera bianca con la parola "Libertà " nel centro sarebbe stata assai più adatta. Il consiglio accettò. Il tendone dei quadrato era stato arrotolato, in modo da permetere all'equipaggio di ascoltare lo svolgersi della riunione. A questo punto, i marinai levarono tutti insieme il grido: "Libertà!". Le proprietà degli ufficiali deceduti vennero portate sul ponte. Chi aveva bisogno di vestiti ne ebbe di nuovi, e il denaro fu posto in un forziere comune, ben chiuso con un lucchetto di cui ogni membro del consiglio aveva la chiave. Misson prese dal quadrato tutta l'argenteria della mensa ufficiali e la depose nel forziere, ma l'equipaggio insistette che la tenesse per uso proprio. Egli si rivolse allora alla comunità della nave e la invitò, in nome dell'amore fraterno a "bandire tutte le liti personali e i malcontenti. Stavano liberandosi dal giogo della tirannia ... ed egli sperava che nessuno avrebbe seguito l'esempio dei tiranni, e avrebbe volto le spalle alla giustizia; perchè quando la giustizia viene calpestata, la miseria, la confusione e la sfiducia a reciproca seguono naturalmente". Misson avvertì i marinai che avrebbero trovato ben pochi amici nel mondo. Disse che la maggioranza degli suoi viveva in schiavitù, e da ciò la loro volontà "era spezzata", rendendoli incapaci di pensieri generosi. "Essi danzano alla musica delle loro catene, e darebbero a questo prode equipaggio l'infame appellativo di pirati, e riterrebbero meritorio partecipare alla sua distruzione". La ciurma della Victoire contava duecento braccia abili e trentacinque uomini malati o feriti. Al largo di S. Cristoforo catturarono una corvetta inglese: da essa presero due barilotti di rhum e sei sacchi di zucchero,quindi la lasciarono andare. Il capitano della corvetta, Thomas Butler, riconobbe di non aver mai incontrato, prima d'allora, un nemico così onesto.
Dopo alcune avventure di minor conto, tra cui il tentativo, fallito, di una nave corsara di prendere la Victoire, i pirati della libertà riuscirono a catturare un vascello olandese. Giunti a Cartagena, Misson e Caraccioli si travestirono da ufficiali della marina francese, presentandosi come Fourbin e il suo primo ufficiale, e poterono vendere il bottino e sbarcare i prigionieri. Il governatore, tal Don Giovanni de La Zerda, restò così favorevolmente impressionato dai due, che, conclusi gli affari, chiese loro un piccolo favore: avrebbe gradito che la Victoire si recasse a Porto Bello per scortare il St. Joseph, un galeone da settanta cannoni, lì ancorato. L'ingenuo funzionario era preoccupato per l'incolumita' del suo carico, che consisteva in 800.000 pezzi da otto e un cospicuo quantitativo di oro in lingotti.
La Victoire partì per prendere contatto con il St. Joseph, ma giunse a Porto Bello che questo aveva già salpato da due giorni. Lo scafo della Victoire era incrostato e ciò rallentava l'andatura e rendeva difficile tenere la rotta. Le tiepide acque dei Caraibi, infatti, favorivano la crescita di alghe sulla parte immersa delle navi, nonchè di molluschi come il "taredo", che si attaccano allo scafo corrodendo il legno. Per tali ragioni, le navi dovevano essere ricarenate da tre a sei volte all'anno, il che implicava tirare in secco le imbarcazioni, raschiare lo scafo e sostituire le parti danneggiate del fasciame. Le navi migliori avevano lo scafo ricoperto di piombo, o rame, ma i pirati dovevano accontentarsi di calafatare la carena con una miscela di catrame, sego e zolfo. Non avendo accesso a bacini di carenaggio, i pirati usavano tirare a riva le navi, e le inclinavano prima su un fianco, poi sull'altro, per mezzo di gomene assicurate agli alberi vicini. A volte riuscivano a fare soltanto un carenaggio parziale, quando erano di fretta.
Nelle condizioni in cui era, la Victoire aveva scarse probabilità di intercettare il St. Joseph, così i pirati abbandonarono la caccia e si diressero verso una baia chiusa. Qui, spostando i cannoni alternativamente dall'uno e dall'altro lato della nave, riuscirono ad inclinarla in modo da esporre la maggior parte dello scafo, raschiandolo e catramandolo meglio che potevano, ma senza che fosse possibile, però, eseguire un carenaggio completo della chiglia.
Il vascello era ora in grado di riprendere il mare, e il consiglio si riunì per decidere la rotta da seguire. Misson e Caraccioli insistevano per dirigere verso la costa africana, mentre gli altri erano per il New England, sostenendo che la Victoire non poteva comunque affrontare una traversata atlantica. Poichè il consiglio non riusciva ad esprimere un parere unanime, fu indetta un'assemblea generale dell'intera comunità della nave: la scelta fu per l'Africa. Dopo una traversata senza inconvenienti, in prossimità della Costa D'oro i pirati si imbatterono nel Nieuwstadt, un vascello schiavista di nazionalità olandese. Lo presero dopo una battaglia di due ore e mezzo. La nave aveva appena incominciato la tratta, e aveva a bordo soltanto diciassette schiavi. Misson li fece liberare dalle catene e diede loro dei vestiti presi dall'equipaggiamento degli olandesi. Quindi proclamò all'equipaggio che "nessun uomo aveva potere sulla libertà altrui, e il fatto che coloro che vantavano una più illuminata conoscenza della divinità vendevano gli uomini al pari delle bestie, provava che la loro religione ero solo un inganno ipocrita ". Dal canto suo, "egli non aveva sottratto il suo collo al giogo della schiavitù e reclamato la sua libertà, per poi rendere schiavi altri uomini". Ogni ex-schiavo venne affidato ad un gruppo di marinai della Victoire, in modo da rendere più agevole l'apprendimento della lingua e delle attività necessarie alla conduzione della nave. Lo scopo, evidentemente, era di favorire l'inserimento dei nuovi venuti in seno all'equipaggio. Dopo la traversata dell'Atlantico, la Victoire era nuovamente in pessima stato: "Essa era sempre più incrostata di alghe e conchiglie, e navigava quindi con difficoltà, sicchè i pirati risalirono per un tratto il fiume Lagos, e quivi la tirarono in secco, onde sostituire con legname nuovo le parti più malandate del fasciame e carenare lo scafo". Poi carenarono anche il vascello olandese e si diressero a sud. Durante il viaggio, Misson, si trovò costretto a riunire l'assemblea della nave per tenere all'equipaggio un discorso sul turpiloquio e l'ubriachezza. Gli olandesi prigionieri stavano trasmettendo cattive abitudini ai francesi, e ciò aveva ripercussioni sul morale generale. Al largo dell'Angola, i pirati presero un'altra imbarcazione olandese, che portava un carico di tessuti. Con esso, i velai della Victoire poterono rivestire decentemente gli uomini, poichè "tutto l'equipaggio aveva ormai gli abiti a brandelli. In totale, Misson aveva ora novanta prigionieri, che lasciò sul Nieuwstadt con viveri sufficienti per raggiungere un insediamento olandese lungo la costa. Undici olandesi scelsero di rimanere sulla Victoire. A nord di Table Bay la Victoire venne attaccata da una cannoniera inglese della sua stessa classe (quaranta pezzi). Con un'audace manovra, Misson l'abbordò e la prese.
- Le andiamo incontro sul filo del vento !- disse il veccbio timoniere con strana esultanza. - Signor Le Tondu, siete pazzo! - ribattè Misson - La Victoire non può andare di bolina come un catter. Ce la metteremo per cappello ... Per cappello ci metteremo i vostri coglioni di menagramo, signor Misson! Preparate gli uomini per l'arrembaggio e non venite ad insegnarmi come si fa a navigare!
Piccato, Misson tacque, mentre il timoniere dava mano alla barra. La prua continuò a spostarsi, cercando la rotta, e in un attimo il vento aveva riempito le vele con tutta la sua gagliardia. La Victoire si inclinò di lato per rovesciarsi, tanto che il mare parve sul punto di ottrepassare la murata di sottovento per venire in coperta a inghiottire l'equipaggio nelle sue liquide fauci. Ma la nave prese a filare sulle onde, e sembrava un enorme castello incantato spinto dalla magia di mille demoni, che gemevano straziati dal fasciame in tensione, stridevano dalle sartie, ululavano, prigionieri nel ventre gonfio delle vele. E sopra quelli inferno di suoni laceranti si levò la voce di Le Tondu, aspra e tonante insieme, a rassicurare gli uomini ammutoliti con orgoglio della propria abilità di navigatore:
- Non temete marinai, figli di uno squalo! Fidatevi dei vostro nocchiero che vi porta a spasso per il mare! Mezz'ora quasi, durò la lotta bolina della Victoire. Il vascello inglese tentò un traverso per sottrarsi all'appuntamento con i pirati, ma questi viaggiavano a velocità quasi doppia, e gli furono addosso quando non aveva allargato nemmeno di un miglio. Poco prima di giungere a tiro dei cannoni, Matthieu Le Tondu virò, puntando dritto contro gli avversati, prua contro prua, in rotta di collisione. In quel modo, nessuna delle due navi poteva, sparare: il timoniere stava evitando uno scontro a fuoco e manovrava per l'arrembaggio. All'ultimo momento, Le Tondu virò di nuovo. La prua della Victoire si spostò, evitò quella della nave inglese, strisciò contro il bordo di questa, affiancandola e frenandola col proprio slancio. - Io ho fatto la mia parte, Misson! Ora tocca a te, ragazzo! Misson stava ritto sulla murata in equilibrio tra le sartie, una pistola in una mano, una sciabola da carpentiere nell'altra. - All'arrembaggio! - Mentre saltava, sentì l'urto degli uomini che lo seguivano...
Quasi tutti i marinai inglesi, tranne gli ufficiali, passarono dalla sua parte. Caraccioli fu posto a capo del vascello catturato, ribattezzatò Bijoux, e la ciurma elesse i suoi ufficiali. In seguito, le due navi fecero vela per l'isola di Johanna, a nord del Madagascar. Questa era un approdo comune per le imbarcazioni che e facevano rotta per le Indie, grazie alla possibilità di ricchi rifornimenti d'acqua potabile e frutta anti scorbuto, nonché della natura amichevole dei nativi. I pirati stabilirono buone relazioni con gli indigeni e li aiutarono a difendere l'isola da un tentativo di invasasione da parte dei vicini dell'isola Mobilian. Durante la loro permanenza, molti dei marinai, compresi Misson e Caraccioli, scelsero una compagna tra le fanciulle del posto, delle quali, dopo tanti mesi di navigazione, non si poteva fare a meno di apprezzare la bellezza e la spontaneità.
Le ragazze danzavano languide, alla luce rosseggiante dei falò. Sorridenti ed esplicite, e pur candide, ammiccavano agli uomini senza vergogna, tendendo loro le mani, ancheggiando invitanti di fronte ai più timidi. Anche i maschi, i padri, i fratelli, ridevano: osservavano divertiti l'intrecciarsi delle schermaglie, commentavano con grandi sghignazzi l'intraprendenza delle loro donne e il comico imbarazzo dei bianchi, si davano di gomito additando le coppie che andavano a concludere la festa nel fitto della boscaglia.
Dov'erano finiti, i tristi amori dei marinai a terra? I vicoli puzzolenti degli angiporti, i rapidi amplessi al piano superiore di infami taverne, con i compagni ubriachi che aspettavano il loro turno fuori della porta? Dov'era l'alito pesante delle meretrici, la frustante passività di quelle carni sfatte, di quelgi occhi assenti, di quelle dita strette sulla moneta appena consegnata? E i ruffiani con i loro randelli, pronti a intervenire se ti attardavi oltre la tariffa, dov'erano andati? Tutto sparito, tutto dimenticato. L'abbiezione, lo squallore, la violenza dei congressi carnali offerti dalla "civiltà", sembravano, ed erano, lontani centinaia di miglia. Unica traccia di essi, non restava che l'attonito stupore con cui gli uomini con cui gli uomini accoglievano ora l'ebrezza purificatrice di quella pagana sensualità, la felice meraviglia di fronte a quel donarsi gratuito e spontaneo, di fronte alla bellezza e alla gioia che per la prima volta vedevano far corona all'amore. E questo temperava la foia, che in altre occasioni sarebbe scoppiata selvaggia, condita dall'astinenza e dalle privazioni della vita sul mare, e dava loro una sorta di scontrosa gentilezza che esaltava le fanciulle indigene.
Matthieu Le Tondu, dopo una resistenza di circostanza, accettò la corte di una bruna bellezza che seppe conquistarlo accarezzandogli maliziosamente la pelata. Si alzò, e prese parte alle danze fra gli applausi dei compagni. Un vecchio indigeno sdentato, quasi un suo sosia malgascio, lo apostrofò con gesti che alludevano evidentemente alla qualità delle prestazioni che l'età gli consentiva. Il vecchio navigatore stava per rispondere come suo solito, con qualche sequenza di sconcezze, ma la ragazza scoppiò in una risata squillante, lo prese per mano e, prima che potesse profferir parola, lo trascinò via, tra gli alberi ...
Usando Johanna come base, Misson corse la zona in cerca di prede. Intercettò un battello portoghese, e, nonostante fosse la metà della Victoire, fu necessario un lungo e sanguinoso combattimento, prima di poterlo prendere. Portava un carico di polvere d'oro pari ad un valore di un quarto di milione di sterline. Un ricco bottino, che costò però un alto prezzo in vite umane: trenta morti e ventisette feriti, compreso Caraccioli, al quale si dovette amputare la gamba destra. Mentre Caraccioli stava a Johanna a rimettersi dalle ferite, Misson salpò nuovamente con la Victoire. Diresse verso il Madagascar, e costeggiò quest'isola da sud a nord, fino alla punta estrema di essa, quindi volse indietro la prua. A nord di Diego Suarez, scoprì una baia, e all'interno di essa individuò un porto ampio e sicuro, con acqua potabile in abbondanza. Gettata l'ancora, sbarcò e poté constatare che "la terra era buona, l'aria salubre, e la zona pianeggiante". Disse ai suoi uomini che quello era un luogo eccellente per un rifugio e che era sua intenzione costruirvi una piccola città fortificata, con docks per le navi, dove dove essi avrebbero potuto trovare asilo qunado l'eta' e le ferite li avessero resi inabili ad andare per mare,un posto tutto per loro dove avrebbero potuto godere i frutti della loro fatica e aspettare la morte serennamente.
Ritornato a Johanna, Misson espose il suo piano agli equipaggi delle due navi e ottenne la loro approvazione. Inoltre, la regina dell'isola, in cambio della promessa di venire in soccorso a Johanna in caso di attacco, gli offrì trecento uomini per aiutarlo a costruire la nuova base. L'unica condizione posta era che gli uomini tornassero a Johanna entro quattro mesi. l pirati chiamarono la loro nuova patria Libertatia, e a se stessi diedero l'appellativo di Liberi, rinunciando a definirsi Inglesi, Francesi, Olandesi o Africani. Per prima cosa, costruirono due forti, uno per ogni lato dei porto. Questi erano armati con quaranta cannoni, presi alla nave portoghese. Poi si diedero a costruire case e magazzini. Un gruppo andò in missione nell'interno, per stringere rapporti amichevoli con i nativi e scambiare doni. Quando i lavori erano ormai avviati, Misson spinse la Victoire fino alla costa di Zanzibar e intercettò un'altra nave portoghese che portava un carico d'oro. La Victoire viaggiava con armamento ed equipaggio ridotti, cosicché Misson, comprendendo di aver addentato un boccone troppo grosso, tentò di sganciarsi. Ma il vascello portoghese insegui la Victoire e attaccò battaglia. Lo scontro durò quattro ore: alla fine, i pirati riuscirono ad abbordare la nave e a prenderla. I marinai portoghesi vennero rinchiusi sottocoperta e, con l' indispensabile di equipaggio, la preda seguì la Victoire a Libertatia. In vista del Madagascar, incrociarono una corvetta che inalberava una bandiera nera su cui era dipinto, in bianco, un braccio che brandiva una scimitarra. Era il veliero del pirata Thomas Tew. Le due navi si affiancarono, e i francesi si recarono in visita a conoscere i "colleghi" americani. Dopo qualche discussione, Tew e i suoi uomini decisero di accompagnare la Victoire a Libertatia.
Tew sembrava uscito da un racconto d'osteria. Portava un cappello a tesa larga, ornato con penne d'albatros e di pappagallo, piantato alla brava su di una massa di riccioli che avevano raramente conosciuto il sapone. Addosso aveva un giustacuore di marocchina ricamata, con una fusciacca rossa alla vita, tanto alta e stretta da sembrare una specie di busto femminile, e sotto un paio di brache da gran signore, di seta rilucente, tutte sbuffi e pizzi, frutto evidentemente di qualcbe recentissima ruberia, perchè apparivano nuove come appena uscite dalla bottega del sarto. Era armato fino ai denti. Oltre a due mazzagatti infilati nella fascia, ben quattro pistole di notevoli proporzioni gli pendevano dalla cintura, appese per la dragona, e al collo teneva una vera collezione di fiaschette da innesco, cariche predosate, loading blocks all'uso americano e altre piriche attrezzature.
Parlava forte, con frequenti risate e grandi pacche sulle spalle dell'interlocutore. A Misson, all'inizio, non piacque. Gli sembrava la rappresentazione di ciò che lui non voleva essere, il pirata tipico così come lo dipingono i capitani in pensione nei loro resoconti, quello che a sentirlo descrivere viene voglia di impiccarlo all'albero di maestra. E Tew, con la sua ostentata tracotanza, col suo repertorio di inutili millanterie (" Puoi contarci, uomo! ", " So quel che dico, fratello! " ... ) suscitava a volte desideri di quel genere. Ma i suoi uomini lo trattavano con affettuosa condiscendenza, e di tanto in tanto lo motteggiavano, ed egli faceva lo stesso nei loro confronti, con cameratesca familiarità, più che una banda di pirati, quell'equipaggio sembrava la brigata di amici reduci da una via crucis per le taverne. Eppure tutti portavano sulle carni i segni di aspre battaglie. Tew stesso recava una ferita ancor fresca sul braccio, rabberciata alla meglio con una pezza. Misson cominciò a pensare che, sotto quell'improbabile costume variopinto, poteva esserci un buon compagno. Disse Caracciolí: "Sti americani... sonò nu poco strunzi, ma sò guaglioni 'e core . . .
L'ideale di una libera colonia come quella che Misson stava costruendo, non era nuovo per questi pirati. Poco tempo prima, dall'equipaggio di Tew si era staccato un nucleo di ventitrè uomini, compreso il timoniere, che erano andati, anch'essi ad impiantare una loro comunità sulla costa malgascia, non distante da Libertatia.
Quando la piccola flotta giunse in porto, Tew sparò una salva di nove colpi di cannone, come saluto, e il primo forte rispose allo stesso modo. Il loro arrivò però, poneva a Libertatia un problema. Essi avevano adesso centonovanta prigionieri portoghesi, di fronte a una popolazione della comunità di soli duecento uomini, a parte gli isolani di Johanna. Circa settanta dei prigionieri portoghesi si unirono ai Liberi, dopo un discorso di Caraccioli (che Johnson descrive come un uomo che aveva "l'arte della persuasione"). Il resto venne adibito alla costruzione di un nuovo dock, mezzo miglio sotto l'imboccatura del porto. Essi erano tenuti isolati in quell'area, e Libertatia non aveva comunicazione con loro, come precauzione nel caso si fossero resi conto della forza del proprio numero e si fossero ribellati. Tra le due comunità stava il Bijoux, di sentinella.
Col passare del tempo i pirati divennero agricoltori, seminando mais, grano ed altre piante di cui avevano trovato le sementi a bordo dei vascelli catturati. I campi erano coltivati in comune e "non c'erano recinti di alcun genere a segnare le proprietà di ciascuno". Venne il momento che gli uomini di Johanna dovettero tornare alla propria isola, secondo gli accordi. Ciò poneva un nuovo problema: mandar fuori una nave con equipaggio ridotto significava rischiare di perderla, e, d'altro canto, equipaggiarla completamente significava sguarnire Libertatia e rischiare che i prigionieri portoghesi si prendessero la città. Misson propose di consegnare l'ultimo vascello catturato ai prigionieri, e lasciarli liberi. Tew e Caraccioli si opposero, sostenendo che in tal modo l'esistenza della loro base sarebbe divenuta ben presto di dominio pubblico, e sarebbero stati attaccati. Come al solito, venne indetta un'assemblea per decidere: venne accettata la proposta di Misson, non essendovi altra alternativa se non massacrare tutti i prigionieri. Misson parlò a costoro, dicendo che si rendeva conto che dare loro la libertà avrebbe avuto come conseguenza l'aggressione di Libertatia, non appena la sua ubicazione fosse stata resa nota. Ma, aggiunse, "egli non faceva guerra agli oppressi, bensì agli oppressori". Si interessò dei problemi di ciascuno e, nei limiti del possibile, fornì loro aiuto. In cambio, chiese che ognuno giurasse solennemente che non si sarebbe mai arruolato per combattere contro Libertatia. La nave, privata dei cannoni, fu approvvigionata per un viaggio fino alla costa di Zanzibar, e partì. Qualche giorno dopo, giunse in visita una cinquantina di indigeni delle tribù locali, per commerciare bestiame e schiavi. Vennero intavolate trattative e gli schiavi che poterono essere affrancati "furono immediatamente forniti di abiti e posti sotto la protezione dei bianchi che, con ogni dimostrazione possibile, si sforzarono di far loro comprendere quanto fossero avversi ad ogni forma di schiavitù".
Risolto il problema dei prigionieri portoghesi, il Biioux poté riportare a casa gli uomini di Johanna. Ci vollero tre viaggi, per completare l'operazione. Alcuni membri dell'equipaggio di Misson, che erano rimasti colà, approfittarono dell'ultimo viaggio per trasferirsi a Libertatia con le proprie donne e bambini. Dopo il loro ritorno, Misson e Ceraccioli si diedero da fare per portate a termine la costruzione dei docks, mentre Tew partiva col Bíjoux per un raid alla volta della costa della Guinea.
Subito a nord dei Capo di Buona Speranza, Tew prese una galea delle Indie occidentali olandesi e trovò, a bordo una grande quantità di corone inglesi. Queste furono "destinate al tesoro comune, poiché a Libertatia di nessun servizio era il denaro, ogni cosa essendo in comune". Al largo della costa dell'Angola, poi, venne catturata, una nave schiavista, con duecentoquaranta tra uomini, donne e bambini, rinchiusi sottocoperta. I marinai africani del Bijoux, che a suo tempo erano anch'essi stati fatti schiavi su quella costa, scoprirono fra essi molti parenti ed amici. Dando a Tew ampie garanzie della loro buona condotta, gli africani liberarono i prigionieri dalle catene e li accolsero a condividere le glorie della loro nuova vita.
A Libertatia, dopo il completamento del nuovo dock, venne iniziata la costruzione di due corvette da ottanta tonnellate, armate ciascuna con otto cannoni, che vennero battezzate rispettivamente Gioventù e Libertà. Dovevano servire per una spedizione incaricata di compilare una carta nautica dell'isola del Madagascar, con l'indicazione delle coste, dei lidi, delle secche e delle fosse, nonché come naviscuola per l'addestramento degli schiavi liberati.
I tentativi di insegnare agli africani un pò di francese, finirono per produrre una specie di utile esperanto, una sorta di lingua-franca fatta di una mescolanza di vocaboli africani, francesi, inglesi, olandesi, portoghesi, ed anche alcune parole malgasce che provenivano dalle sei famiglie indigene che erano entrate a far parte della comunità. Le due corvette, con ufficiali eletti da equipaggio misto, composto di bianchi e neri in parti uguali, cominciarono il loro giro d'esplorazione intorno all'isola. Occorsero quattro mesi per completare il tutto, e il mastro d'istruzione poté compilare delle carte assai dettagliate. Molti degli ex-schiavi africani erano divenuti ormai pratici di navigazione. Così, Misson e Tew, con due navi, andarono bordeggiando lungo la costa araba. Qui, ben presto, intercettarono un vascello del Gran Mogol, un enorme veliero con centodieci cannoni e millecinquecento persone a bordo tra marinai e pellegrini in viaggio verso la Mecca.
A dispetto della stazza, la nave oppose una debole resistenza, poiché l'equipaggio non poteva agevolmente manovrare a causa della folla di gente e bagagli che ingombrava il ponte. I due battelli pirata la affiancarono e si apprestarono ad arrembarla. I difensori spararono una scarica con armi di piccolo calibro, senza usare i cannoni, e poi si arresero, senz'altra resistenza.
Si decise di tenere il vascello e di portarlo a Libertatia. I cannoni sarebbero stati utili e inoltre si poteva procedere con maggiore cura alla ricerca degli oggetti preziosi che spesso gli Indiani nascondevano nelle intercapedini dello scafo e tra la zavorra. I passeggeri e l'equipaggio furono sbarcati tra Ain e Aden, a un tiro di schioppo dalla civiltà. Durante lo sbarco dei passeggeri, ci fu un incidente che, visto a posteriori, può essere interpretato come un primo sintomo della perdita dell'influenza di Misson sullo sviluppo di Libertatia come comunità libertaria. L'equipaggio pirata, infatti, volle tenere con sé un centinaio di ragazze di età tra i dodici e i diciotto anni, per portarle a Libertatia come "mogli" per i celibi. Misson si oppose fieramente a ciò, e riunì l'assemblea per discutere il problema, ma si trovò in minorenza. La nave indiana era un vero e proprio mostro ligneo, e si rivelò assai lenta e pesante durante la navigazione verso il Madagascar. In una tempesta, poco mancò che venisse perduta. Una volta a Libertatia, venne demolita con cura, recuperando tutto "il sartiame, il legno, le viti, i chiodi, i gangi, lecatene e le altre attrezzature in ferro". I centodieci cannoni vennero installati in due batterie, su ciascun lato dell'imboccatura del porto.
A quell'epoca, i coloni avevano un buon quantitativo di terra coltivata, e circa trecento bestie comprate dai commercianti indigeni. I docks erano finiti e la prima nave messa m cantiere fu la Victoire. Essa infatti era ormai vecchia e inadatta a lunghi viaggi; venne perciò demolita, e ricostruita con lo stesso nome. La nuova Victoire si preparava a far vela verso la Guinea, quando una delle corvette entrò nella baia. L'equipaggio africano era in grande agitazione. Gli uomini dissero che, mentre erano in viaggio d'addestramento, avevano incrociato cinque grosse navi che dirigevano verso Libertatia. A giudicare dall'aspetto, erano vascelli portoghesi, con cinquanta pezzi ciascuno e traboccanti di uomini armati. Era arrivato il momento dell'inevitabile aggressione. L'intera colonia di Libertatia corse a posti di combattimento, mentre le cinque navi puntavano verso il porto, alzando i colori portoghesi. I due forti non erano efficenti come sperato. I loro cannoni riuscirono ad aprire una gran falla in una delle imbarcazioni, ma le altre veleggiarono indenni. Una volta dentro il porto, i portoghesi erano convinti di aver ormai raggiunto il proprio scopo, e si apprestarono a calare le scialuppe, piene di uomini armati, per procedere all'occupazione della colonia. Ma avevano fatto male i conti: una pioggia di cannonate si abbatté su di loro, da ogni parte. Sparavano contemporaneamente le batterie a terra, i due forti, le due corvette, la Victoire e il Bijoux. Due navi colarono a picco, le altre volsero la prua e cercarono di sottrarsi a quell'inferno. Fortunatamente per loro, i portoghesi erano arrivati, poco prima del cambio della marea e "guadagnarono l'uscita assai più rapidamente di quanto non avessero impiegato per entrare".
Il Bijoux e la Victoire si gettarono all'inseguimento. La nave fallata rimaneva indietro e fu ben presto raggiunta dai pirati, mentre gli altri vascelli l'abbandonavano al suo destino. L'equipaggio si difese fieramente, ma alla fine chiese quartiere, che venne concesso. Disgraziatamente, tra i prigionieri portoghesi i pirati scovarono due degli uomini che erano stati, a suo tempo, rilasciati da Alisson sulla parola che non si sarebbero arruolati contro Libertatia. Costoro ebbero un pubblico processo per "spergiuro e ingratitudine": Misson e Caraccioli chiesero una punizione corporale, ma Tew insistette perché fossero impiccati, sostenendo che il delitto di cui si erano macchiati richiedeva una pena esemplare. Le sue argomentazioni riuscirono a convincere anche Caraccioli, il quale si rivolse al popolo di Libertatia, dando atto a Misson della sua generosità nei confronti dei malfattori ma rilevando, altresì che "non avvi regola che non ammetta eccezioni". Al termine del discorso, la folla rumoreggiò, gridando che "l'impiccagione era pena lieve per quei ribaldi". Vennero appesi ai pennoni dei due forti. Il sogno libertario di Misson cominciava a svanire. Nel tentativo di dirimere una contesa tra il proprio equipaggio e quello di Tew, si trovò coinvolto in una sfida a duello con Tew stesso, che venne evitata in extremis dal conciliatorio intervento di Caraccioli. Questi suggerì, al fine di impedire che tali inconvenienti avessero a ripetersi in futuro, che si istituisse un governo formale, il quale avrebbe provveduto ad emanare "leggi giuste ". Il giorno dopo, il problema dell'istituzione di un governo venne sottoposto all'assemblea dell'intera comunità riunita. Johnson descrive Caraccioli come dotato di "un'argomentazione persuasiva ed insinuante". Il risultato fu che tutti convenirono sulla necessità di eleggere un Presidente e un governo, nonché di ripartire in parti uguali tra i membri di Libertatia il tesoro comune e il bestiame. La terra avrebbe potuto essere cintata e sarebbe diventata proprietà privata di colui che la cintava. Fu costruita una Sala del Parlamento, in legno, e la prima riunione durò ben dieci giorni e promulgò un notevole numero di leggi. Misson venne eletto Presidente, con diritto al titolo di Suprema Eccellenza. Tew fu nominato Ammiraglio della Flotta e Caraccioli Segretario di Stato.
Bestiame e tesoro fuorono divisi. Gli appezzamenti di terreno vennero cintati. Coloro che recitavano più terra di quanto fossero in grado di coltivare da soli, ora potevano, e col beneplacito della legge, assumere altri membri di Libertatia come lavoranti. Nel giro di un mese dall'attacco portoghese, la "libera colonia" aveva istituito la pena capitale, la moneta, la proprietà privata e il lavoro salariato.
Libertatia, comunque, aveva bisogno di altre braccia per mantenere la propria economia agricola e sopperire alle necessità della flotta. Sulla costa era ancora in vita la comunità fondata, come si è visto, dal timoniere di Tew con una ventina di uomini. Tew decise di recarsi colà in visita, per indurre i partecipanti ad unirsi a Libertatia. Il parlamento, però, si pronunciò contro un invito indiscriminato, e, rinnegando le proprie origini in nome della neo-acquisita rispettabilità, dichiarò che coloro che seguivano il vecchio timoniere erano "d'indole sediziosa, e avrebbero potuto contagiare gli altri con uno spirito di disordine". Tew ricevette istruzioni di accettare soltanto quelli seriamente intenzionati ad unirsi a Libertatia e per i quali avrebbe potuto garantire, sul suo onore, che si sarebbero comportati degnamente.Tew salpò con la Victoire, e dopo qualche giorno di navigazione gettò l'ancora di fronte al luogo dove si erano stabiliti gli ex-membri della sua durma. Issò un'insegna e sparò una salva, ma non ottenne risposta. Allora sbarcò,con una scialuppa, e finalmente incontrò due uomini, che lo condussero al loro insediamento nei boschi. Tew parlò ai suoi antichi compagni, invitandoli a tornare con lui a Libertatia e spiegando i vantaggi che avrebbe portato. Il vecchio timoniere non ebbe difficoltà ad ammettere che la cosa avrebbe portato grandi vantaggi a Libertatia, ma disse che questi non lo sarebbero stati altrettanto per sé ed i suoi compagni, dal momento che "essi godevano colà di tutto quanto abbisognavano per la loro esistenza, ed erano liberi e indipendenti da chiunque". E aggiunse significativamente che "sarebbe invero una follia assoggettarsi nuovamente ad un governo il quale, per quanto mite, esercita pur sempre un'imperio sui governati". Il gruppo, infatti, si era dato una forma di governo molto semplice, consistente unicamente in un Governatore che restava in carica tre mesi ed era scelto a sorte. Il potere di tale Governatore si limitava ad una funzione di arbitraggio nelle questioni d'ordinaria amministrazione. La "lotteria" per l'elezione era aperta ad ogni membro che non avesse ancora avuto la carica: "con un simile sistema ognuno avrebbe ottenuto, prima o poi, l'opportunità di esercitare il supremo comando". Ciò, era ritenuto preferibile ad un'elezione vera e propria, poiché in tal modo "venivano evitati i problemi delle operazioni di voto e di scrutinio, nonché l'insorgere di divisioni e partite tra i membri della colonia, ed era quindi possibile mantenere tra essi quell'armonia inseparabile dall'unità". Gli excompagni di Tew, comunque, erano consapevoli della propria posizione nei confronti del mondo esterno. Non erano una colonia ufficialmente riconosciuta, e quindi non potevano dedicarsi ad attività commerciali legali, a causa delle sanzioni che colpivano chi prestava aiuto ai pirati. Inoltre, appunto perché pirati potevano essere impunemente aggrediti da ogni vascello militare che si fosse trovato a passare da quelle parti, qualunque fosse la sua nazionalità, o da qualche nave di avventurieri. A questo proposito, il timoniere disse che essi erano disponibili a che qualche rappresentanza inglese, dall'America o dall'Europa, impiantasse lì una colonia, purificandoli dall'odioso status di pirati. Ma su ciò non si facevano illusioni. "è buffo, pensare che finiremo per cacciarci in guai più grandi di noi", concluse il timoniere.
Tew fece ritorno sulla Víctoire, e il giorno dopo si recò nuovamente dai suoi antichi compagni portando rum e brandy. Mentre stavano "facendo fuori" un gamellone di punch, scoppiò improvvisamente un uragano. Tew segnalò da riva che voleva tornare a bordo, ma il mare era troppo agitato perché si potesse rischiare di mettere in acqua una barca. L'uragano aumentò di intensità, colpendo in pieno la Victoire ancorata al largo. Da terra, Tew e gli altri non poterono far altro che stare a guardare, impotenti, come la nave cercava di trarsi d'impiccio. Due ore, durò la lotta disperata contro l'infuriare deli ormeggi, fu spinta contro gli scogli e colò a picco con tutto l'equipaggio.
Tew non poteva più tornare a Libertatia, ora, e fu costretto ad accettare l'ospitalità dei suoi ex-marinai. Di lì a tre mesi, venne avvistata al largo una grossa imbarcazione che sembrava il Bijoux, ma questa ignorò i fuochi accesi in segnalazione e proseguì per la sua strada. Un mese più tardi, giunto di buon'ora sulla spiaggia, Tew trovò due corvette ancorate a breve distanza del litorale: erano la Gioventù e la Libertà. Venne a riva una scialuppa. A bordo c'era Misson, e la gioia del ritrovamento fu rapidamente cancellata dalle notizie che questi recava. In piena notte, senza la minima provocazione, due folti drappelli di indigeni avevano attaccato Libertatia, sguarnita di uomini poiché sia la Victoire, che il Bijoux erano per mare. Caraccioli aveva radunato i pochi rimasti per una estrema resistenza, ma era stato massacrato. Gli indigeni avevano invaso la città uccidendo tutti quelli che incontravano, uomini, donne o bambini che fossero. Misson, con quarantasei scampati, e quel poco che avevano potuto portare con sé, era riuscito a raggiungere le due corvette e prendere il largo. Libertatia era perduta. Tew suggerì di far vela per l'America, dove Misson non era conosciuto e poteva ricostruirsi un'esistenza pacifica, e l'idea piacque al timoniere, che sperava di poter ottenere in quel modo una concessione per la fondazione di una colonia ufficialmente riconosciuta. Ma Misson, dopo il fallimento di Libertatia, aveva perso ogni entusiasmo. Così, decise di tornare in Europa per visitare in segreto la sua famiglia e ritirarsi dal mondo. Quanto restava del suo sogno di libertà, tesoro e uomini, venne diviso tra le due corvette. I più scelsero di stare con Tew.
I pirati attesero una settimana, nella speranza che il Bijoux tornasse, ma inutilmente. Allora partirono verso la costa della Guinea, dove forse anche il Bijoux si era diretto e avrebbero potuto incontrarlo. Durante il viaggio, le due navi furono sorprese da un uragano: l'imbarcazione di Misson naufragò e colò a picco, senza che gli altri potessero fare alcunché per aiutarla. Non ci furono superstiti. Tew fece rotta per l'isola di Santa Maria, al largo della costa malgascia, dove l'ex-pirata Adam Baldridge aveva impiantato un centro commerciale. Al riparo del forte di Baldridge, la corvetta (iscritta col nome di Amity, il vecchio nome dell'imbarcazione di Tew) venne carenata e preparata per una traversata atlantica. Secondo i registri di Baldridge, l'Amity lasciò Santa Maria nel dicembre 1693. Arrivò all'isola di Rodi nell'aprile 1694.
Tew se ne stette tranquillo per parecchi anni, ma i suoi vecchi compagni continuavano ad assillarlo, proponendogli di fare un ultimo viaggio. Alla fine non seppe resistere, comprò una piccola corvetta e riprese il mare. Durante una battaglia contro una nave del Gran Mogol, nel Mar Rosso, fu colpito in pieno da una palla di cannone e morì di lì a poco.
(Traduzione di Gisetta De Amici)
Tratto da Volontà n. 2 del 1986