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giovedì, luglio 17, 2014

Jacques Camatte S O M M O S S A

S O M M O S S A




« Ma non scoppiano forse tutte le sommosse, senza eccezione, nel disperato isolamento dell’uomo dalla comunità (Gemeinwesen)? »

                                              Karl Marx, 1844




Sì, tutte le sommosse, le ribellioni, i disordini[1], i sollevamenti, le insurrezioni, le rivoluzioni, da migliaia di anni senza mai, durante tutto questo tempo, giungere a ritrovare la Gemeinwesen, a ritrovare la continuità. Tale è per me la constatazione a proposito di ciò che è avvenuto in Francia, e posso aggiungere: ripetizione coatta dell’impossibilità di uscire dall’esclusione, dall’isolamento, dal rinchiudersi, dalla repressione.

Dato che noi non ci aspettiamo niente da questo mondo[2], non dobbiamo cercare quale possa essere il significato dei disordini che hanno colpito le periferie di diverse città in Francia nel novembre 2005. Una tale ricerca sarebbe espressione di un’ermeneutica rivoluzionaria unita al tentativo di prevedere l’eventualità di ciò che veniva chiamato «ripresa rivoluzionaria», oppure il prolungamento di una fase di controrivoluzione. Un tale approccio agli avvenimenti rivelava la dipendenza in cui ci si trovava in rapporto al divenire della società-comunità del capitale; dipendenza che non poteva che rafforzare la speciosi-ontosi. Questo tipo di ermeneutica non era propria dei rivoluzionari, la si ritrovava presso tutti quelli che tentavano di trovare, in seno ad un dato avvenimento, un senso, un significato che permettesse in qualche modo di scongiurare un divenire temuto, in una parola la catastrofe.

Cercare dei segni per fondare un senso, un significato, denota l’incertezza verso il mondo, l’angoscia a causa di una minaccia inconscia. La rottura con la dipendenza implica una dinamica dell’affermazione in cui coloro che si distanziano da questo mondo cercano di vivere un’altra realtà. Da quel momento essi agiscono e non si limitano a reagire.

Aggiungiamo che la messa in gioco effettiva di queste due ermeneutiche ha contribuito (e contribuisce) in definitiva al recupero di quanto aveva potuto minacciare la società presente.

Per esporre ciò richiamo, anzitutto, i temi fondamentali del mio cammino: il processo rivoluzione è finito, necessità di abbandonare questo mondo, necessità di intraprendere un cammino di liberazione-emergenza, scacco della dinamica di uscita dalla natura, scacco delle diverse coperture, come lo è in modo lampante il capitale, dispiegamento dell’ontosi-speciosi, il reale è inaccessibile.

Il processo rivoluzione è finito e la dinamica del lottare contro un potere che domina e tende a strutturare la società è parimenti finita, a motivo della percezione del meccanismo infernale che ha bisogno di oppressori e di oppressi per potersi realizzare. Inoltre il desiderio di liberazione non è appannaggio di un gruppo di uomini e di donne che costituiscono la maggioranza della popolazione, i dominati, ma esiste anche in quelli che dominano e formano la minoranza. Diciamo che essi rappresentano il polo della dominazione in seno al meccanismo infernale. Da qui è importante percepire come una potente dinamica di liberazione-emergenza può prendere ampiezza senza che si abbia un processo rivoluzione concepito e vissuto fino a poco fa come quello per eccellenza della liberazione. Dico prendere ampiezza perché questo processo è già avviato da molto tempo e diviene più manifesto da due secoli ma zavorrato, e quindi inibito dalla dinamica rivoluzionaria.

È un divenire in cui non vi sono nemici, nessuna violenza sotto qualsiasi forma, né riconciliazione che mascheri gli orrori commessi. È un divenire in cui si impone una immensa indagine sulle modalità di realizzazione di questi orrori che derivano dalla repressione sociale, parentale.

A partire da qui io posso rapportarmi a ciò che avviene ed è avvenuto in Francia. Si tratta di constatare e non di interpretare, come ho detto in precedenza. E ciò che si constata, nell’immediato, è una manifestazione di violenza in cui uomini e donne ripetono quello che hanno subito individualmente nel corso della loro ontogenesi (allargando un poco i limiti del concetto biologico) e collettivamente nel corso dei millenni. In precedenza si è potuta constatare anche una oscillazione tra un mettere in derelizione con delle misure repressive che pesano sulle possibilità di sopravvivenza (ribasso dei sussidi, soppressione di diverse garanzie) e delle misure riformiste che si sforzano in qualche modo di medicare delle ferite. Le sommosse esplodono in seguito a un ritorno verso la derelizione, che induce a porsi la questione di sapere perché la dinamica riformista non può essere mantenuta. La risposta è evidente. Si manifesta la ripetizione coatta di un punto di vista positivo, attivo; i repressori hanno bisogno di ricollocare i repressi nella situazione di derelizione in cui essi stessi furono posti e di cui essi hanno rimosso la sofferenza che ne fu indotta, dal che deriva il loro oblio di una tale situazione. Sommosse simili si sono prodotte in precedenza in Gran Bretagna così come negli Stati Uniti. Per ciò che riguarda i giovani, il fenomeno è ricorrente dal 1956 (Stoccolma).

Ma se non c’è da interpretare c’è la necessità di tenere conto dei fenomeni in tutta la loro dimensione storica che attraversa la società-comunità attuale. Un primo esempio è quello dell’assimilazione, soprattutto in Francia, poi dell’integrazione un po’ ovunque nel mondo. In effetti la mondializzazione di cui si parla tanto si attua nel fatto che molte città hanno una popolazione mondializzata. In un articolo di Le Monde del 10 novembre 2005 riguardante la città di Francoforte, si indica che “questa città tedesca in cui risiede il 27,4% di stranieri originari di 169 paesi, conduce delle politiche attive a favore dell’integrazione e dell’alloggiamento”. Si constata che dalla metà del secolo scorso l’assimilazione ha dovuto più o meno essere abbandonata per lasciare il posto all’integrazione, il che fa sì che, per esempio negli USA, lo spagnolo diventi la seconda lingua del paese. Ma questo fallimento dell’assimilazione si accompagna ad un irrigidimento, in seno a diversi raggruppamenti, sull’identità e quindi ad un aumento delle tensioni. In seguito a tutto ciò si va verso la perdita sempre maggiore della concretezza e al fatto che ogni uomo, ogni donna, è definito(a), determinato(a) solo giuridicamente, dallo Stato. Dato che quest’ultimo tende a divenire evanescente, ciò aumenta l’insicurezza di coloro che sono integrati. Questa insecurizzazione, in altri contesti, è stata vista bene da Hannah Arendt nel suo studio sul totalitarismo.

  Legato a questo fenomeno è da vedere quello del rapporto con l’Islam. E qui bisogna ripartire dalla sua origine. Si può essere abbastanza d’accordo con Dante nel considerare che Maometto provocò uno scisma in seno ad un immenso spazio sociale corrispondente all’incirca a quello occupato dall’impero romano e dominato dal cristianesimo. Tuttavia, la coazione a ripetere fa sì che nel corso del divenire dell’Islam si avvii un recupero di ciò che era stato prodotto in precedenza in seno al modo di produzione schiavista, recupero della filosofia e di ciò che è chiamato “scienza”. È quello che i cattolici avevano operato con la filosofia, e che operarono, ulteriormente, durante il Rinascimento, per ciò che riguarda la “scienza”. La soluzione di Maometto consistette nell’integrare il movimento del valore, nel limitarlo. Tuttavia, nel tempo si impose una certa regressione di questo movimento con la riaffermazione di un’unità superiore tramite la formazione dei diversi imperi musulmani. L’Occidente uscì dal suo impasse passando al modo di produzione capitalista. Con ciò, sorpassò l’area islamica e pervenne a minacciarla totalmente. Ciò che si imporrebbe quindi ai musulmani è di operare alla maniera di Maometto una integrazione del capitale al fine di salvare l’Umma. Ma il capitale, essendo pervenuto alla comunità materiale, essendosi autonomizzato, non può essere integrato. Di conseguenza i musulmani devono “fare” con il capitale, come si vede d’altronde dall’attività dei diversi gruppi islamici. In altri termini il capitale ha provocato una riunificazione dell’area che era stata frammentata dallo scisma, ma tutte le tensioni accumulate nel corso del tempo si sono mantenute, e aggravate.

Questa riunificazione risulta da una sorta di convergenza tra l’area occidentale, produttrice del capitale, e l’area musulmana. In effetti al livello del paese in cui il modo di produzione capitalista si è più sviluppato, si impone in maniera irrimediabile non più una nazione, come in Europa, ma una unione che è una forma di comunità tendente ad integrare ogni sorta di etnie, ma in cui, simultaneamente, le determinazioni etniche tendono ad essere negate (frenare, inceppare il comunitarismo) e, perciò, la comunità tende ad essere astratta e dispotica, definendosi come despota il capitale. Tuttavia, in rapporto alla sua morte potenziale, la necessità di un’unione superiore trascendente si ripresenta ampiamente alla superficie. Di conseguenza l’area occidentale rappresentata dagli USA e l’area musulmana rappresentata dai paesi del Medio Oriente presentano ciascuna una comunità e un’unità superiore trascendente, che occorre riattivare potentemente (dato mistico) per assicurarne la salvezza. A partire da qui si può percepire che sorge la coazione a ritornare a ciò che esisteva prima della frattura. Perciò la presenza, in particolare, degli statunitensi in Iraq pone termine ad un ciclo storico. Gli europei, bloccati dagli arabi e dai mongoli nella loro espansione verso est, li aggirarono e scoprirono l’America. A partire dal momento in cui si completò il loro inserimento in questo nuovo continente, essi ripresero, all’inizio del XIX secolo, ad opporsi ai popoli di area musulmana attaccandosi ai paesi africani, poi ai paesi arabi, soprattutto quelli del Medio Oriente, all’inizio del XX secolo e, alla fine di questo secolo, l’intervento occidentale prende la svolta decisiva di cui noi vediamo al giorno d’oggi lo sviluppo considerevole[3].

Il problema dell’integrazione della Turchia all’Unione Europea (anche qui la nazione tende ad essere soppiantata dall’unione) si presenta come un caso particolare, esemplare, della relazione dell’area occidentale con l’area musulmana. Prima dell’Islam, questo paese partecipò pienamente alla formazione di ciò che sarà chiamato l’Occidente. Si può risalire agli Ittiti, ai Mittani, ma insisterò sull’importanza della Lidia nella genesi del movimento del valore nella sua dimensione orizzontale, della Frigia e, evidentemente di città come Mileto in rapporto al dispiegarsi della filosofia. Si può aggiungere l’importanza del movimento cristiano, per esempio i Cappadoci, ma anche le diverse correnti eretiche, gnostiche. Quindi, il desiderio della Turchia di entrare nella comunità europea, non partecipa di un desiderio di riunirsi ad un’unità perduta, ad una dinamica abbandonata?

Questo di certo non gioca direttamente sul comportamento dei francesi di origine musulmana, come del resto su quello degli altri francesi, ma ciò interviene, non fosse altro che a causa delle paure, e del fenomeno inconscio dell’attivazione della minaccia, di cui i rapporti tra musulmani e occidentali sono i supporti.

È opportuno tener conto anche della tendenza, già segnalata, all’evanescenza dello Stato, ciò che faciliterà un ritorno a quello che i giuristi e i filosofi descrivevano con il nome di stato di natura. E qui abbiamo una grande contraddizione con l’altra tendenza che è quella di assicurare tutto. La contraddizione mostra di essere nello stesso tempo convergenza. Convergenza perché questo segnala che siamo nell’insicurezza totale, quella che i filosofi e i giuristi si rappresentavano, e che noi dobbiamo costantemente assicurarci, rassicurarci. Lo Stato aveva tanta più importanza per il fatto che con il suo ruolo repressivo esso partecipava ampiamente al meccanismo infernale, e che con i suoi interventi riformisti, conciliatori (conciliazione e armonizzazione tra le classi) esso operava come un palliativo a questo meccanismo, esprimendo l’utopia di potergli sfuggire. Ciò si è fortemente affermato nel secolo scorso con lo Stato-Provvidenza.

Più in profondità si manifesta il fenomeno di regressione-degenerazione della specie. La regressione vuol dire che ognuno di noi tende a rivivere i traumi originali e con questo tende a ritornare bambino, neonato, o embrione[4]. Ciò agisce anche per quanto riguarda la specie. Così possiamo citare come esempi: l’estendersi dell’obesità (l’individuo diviene un bambinone che desidera essere accudito dalla mamma), l’AIDS che segnala la situazione di derelizione, l’assenza di difesa, di protezione, ma anche i disordini dentari con la perdita dei denti del giudizio, il loro impianto difettoso, il restringimento della mandibola, il suo avanzare o arretrare in rapporto al mascellare superiore, i disturbi a livello respiratorio che possono essere legati a tutto questo, mentre le alterazioni dell’occlusione possono ostacolare la realizzazione della stazione verticale. Tutto ciò colpisce sempre più persone. Ma non è cosa recente. Weston A. Price, nel suo libro Nutrition and physical degeneration, uscito nel 1938 e riportante studi che risalivano a vent’anni prima, parla di tutti questi malanni dentari, e menziona l’ortodonzia. Egli mostra che tutti questi disordini sono legati alla perdita di un modo di vita tradizionale, e in particolare all’adozione dell’alimentazione occidentale. Egli accorda quindi molta importanza alla nutrizione. Ma a mio avviso occulta totalmente il trauma provocato dal contatto con la civiltà occidentale. E qui ritroviamo i rivoltosi, figli e figlie di uomini e di donne che facevano parte di un mondo diverso da quello occidentale. W. Price insiste su un rapporto tra questi fenomeni di degenerazione e l’aumento della delinquenza … Ma la delinquenza è una forma primaria, immediatista, di sommossa, che esprime il non poter sfuggire alla ripetizione coatta. Io penso che la regressione sia solo un punto di partenza per lo sviluppo di una degenerazione che si presenta come un possibile.

Lo sviluppo della tecnica permette ampiamente di poter regredire. Dobbiamo affrontare tutto questo con un giro a lato. Secondo Julian Jaynes i nostri antenati udivano delle voci. Egli basa questa affermazione sullo studio della letteratura greca, della bibbia, dei testi sumeri, delle psicosi e facendo appello alla psicologia sperimentale. Quello che mi interessa si trova collegato con il tema fondamentale che stiamo esponendo nel nostro testo: la repressione che induce dominazione e dipendenza.

« Noi siamo degli esseri coscienti. Cerchiamo di comprendere la natura umana. L’ipotesi paradossale alla quale siamo pervenuti  nel capitolo precedente è che, a un dato momento, la natura umana si era divisa in due: una parte che comandava, chiamata dio, e una parte che obbediva, chiamata uomo. Nessuna delle due era cosciente. Il che ci è quasi incomprensibile[5]».

Gli uomini udivano delle voci, che essi hanno interpretato come le voci degli dei. J. Jaynes opera un avvicinamento con quello che accade negli schizofrenici. « Le voci, nella schizofrenia, intrattengono ogni sorta di relazioni con il paziente. » «Molto spesso esse criticano i pensieri e le azioni del malato. A volte, esse gli proibiscono di fare proprio ciò che egli stava per intraprendere.» «Se abbiamo ragione di supporre che le allucinazioni degli schizofrenici assomigliano ai comandi degli dei dell’Antichità, dovrebbe quindi esserci una fonte psicologica comune, nei due casi. Si tratta semplicemente, a mio avviso, dello stress[6] ». Lo stress era in relazione con gli scontri tra gruppi umani, con la repressione e con la manifestazione inconscia dell’antica minaccia vissuta dalla specie, che determinò la sua uscita dalla natura. Per superare lo stato di inferiorità in cui gli uomini e le donne si trovavano, essi fecero appello alla sovranatura e ad un dato momento inventarono gli déi, operatori della repressione (vale a dire l’imposizione di un divenire fuori natura), ma anche della salvezza. Il fatto che essi udissero delle voci provenienti dall’esterno significava che non vi era ancora stata interiorizzazione e quindi nessuna formazione di una coscienza.

Ciò posto, qual è il rapporto tra le voci udite dai nostri antenati e quelle che ascoltiamo quando ci colleghiamo ad una stazione radio, quando afferriamo un telefono? Cosa succede in seguito, quando, con la televisione, l’emittente della voce diviene visibile? La televisione diviene un sostituto della coscienza? Ma le cose divengono ancora più spettacolari, strane con i telefoni mobili. Uomini e donne possono udire delle voci (dialogare con l’invisibile), parlare a queste voci, senza rischiare di passare per matti, matte[7]. Ancor più con dei telefoni più sofisticati, essi ed esse possono vedere i portatori di tali voci, e il telefono mobile diventa la metafora della coscienza, se non è la coscienza. Inoltre, constato l’impossibilità in cui uomini e donne si trovano, di vivere l’immediato; è necessario che essi, che esse siano connessi(e) costantemente a qualche cosa, se no è la depressione. Bisogna che essi, che esse, dicano il loro vissuto o le loro preoccupazioni. Essi, esse sono attaccati(e), legati(e) a qualcosa. Con la possibilità di connettersi a Internet, c’è anche il tentativo di ritrovare la continuità con il tutto. Con il telefono mobile, l’individuo si pensa reperibile, non evanescente, al modo in cui, secondo J. Jaynes, ciò si imponeva per i nostri antenati con la voce degli déi.

Gli uomini e le donne vorrebbero udire di nuovo le voci per essere aiutati; registrare il discorso repressivo, non essendo più sufficienti la coscienza e la rimozione per compiere il loro processo di vita. Ma allo stesso modo non tendono a ritrovare dei comportamenti perduti come parlare camminando, essendo la marcia e la parola complementari, significando tutti e due una progressione. Certamente altri fattori intervengono in ciò che causa « l’essenzialità » del telefono mobile. Il desiderio di controllare l’altro, per esempio, e con ciò di mantenere la repressione. Non si può nascondere neppure la dimensione di droga. Molti assumono delle droghe per ascoltare delle voci, il che ci riporta a J. Jaynes. « Ascoltare è in effetti una forma di obbedienza. Così, queste due parole che provengono dalla medesima radice sono probabilmente la stessa parola, all’origine. È vero in greco, in latino, in ebraico, in francese, in tedesco, in russo e anche in inglese, dove la parola « obbedire » viene dal latino « obbedire », che è un composto di « ob + audire », cioè udire stando davanti a qualcuno[8]. Quindi ripetizione coatta della dipendenza determinata dalla derelizione subita originariamente. La negatività dell’ascolto si rivela bene nel fenomeno del brusìo[9]. Uomini e donne ascoltano delle voci che suggeriscono loro … l’utilizzazione del telefono mobile per amplificare il fenomeno di propagazione.

Di conseguenza anche un ascolto profondo in cui l’ascoltatore recepisce al meglio ciò che il parlante enuncia, senza giudicare né interpretare, può essere ancora un supporto di messa in dipendenza. Piuttosto che ascoltare, conviene quindi essere in continuità.

Infine, per concludere provvisoriamente e succintamente questo tema: il martellamento, sul piano tanto uditivo quanto visuale, effettuato dai pubblicitari sostituisce, ugualmente, il tormento che i nostri antenati, secondo J. Jaynes, subivano da parte delle voci.

Rimane da posizionarsi rispetto a questi avvenimenti. Ciò non comporta obbligatoriamente la necessità di intervenire, poiché l’intervento ha spesso la dimensione della repressione. Il mondo così com’è mi è stato imposto da quando sono comparso. Io non ne sono minimamente responsabile. Ho deciso di abbandonarlo perché mi è estraneo. Ho involontariamente contribuito al suo mantenimento e forse al suo divenire nella misura in cui la mia opposizione in rapporto ad una prospettiva rivoluzionaria ha potuto rafforzarlo. Ma ho voluto evitare ogni tipo di ripetizione coatta; di conseguenza abbandonare questo mondo ha implicato: ritrovare la mia naturalità che fu bloccata a causa della repressione parentale e sociale; facilitare la rigenerazione della natura; testimoniare di questa dinamica di uscita dal mondo. Gli avvenimenti in corso obbligano ad apportare delle precisazioni e delle integrazioni.

Per questo, occorre intraprendere ora un’altra investigazione teorica di maggiore ampiezza tanto sul piano storico quanto sul piano delle aree geo-sociali, interrogandoci sul comportamento degli uomini e delle donne da millenni. Essi stanno in un conflitto che presenta delle fasi esplosive come le guerre in cui si afferma l’hybris, la dimensione maniacale, e delle fasi di tregua, di pausa, che caratterizzano la pace, aventi una dimensione depressiva. Il conflitto è possibile solo se si ha percezione di nemici, di minaccia, solo se ciò che non è sé ma altro, diviene supporto per essere vissuto come nemico. Homo sapiens si fonda attraverso il rifiuto della natura percepita come minacciosa, il che ha un fondamento per il fatto del rischio di estinzione che la specie corse. Un tale rifiuto comporta la repressione della naturalità (designata da certuni come ciò che è selvaggio) in ogni uomo e in ogni donna.

Alla base di tutto si trova la percezione del nemico, voglio dire con questo l’affermazione di un vissuto in cui quest’ultimo non solo opera ma è determinante, sul piano dell’individuo come del gruppo, dell’etnia, della nazione, della specie. Il nemico può essere un vissuto reale o fantasmatico! In ogni caso esso è necessario, poiché è il totalmente altro (das ganze Anderes, la sua dimensione mistica), lo sconosciuto. Egli lo è perché la dinamica specio-ontosica fa sì che si esista a partire da un rifiuto, da una negazione. Ora, l’esistenza del nemico deriva dalla repressione parentale. Ogni nemico concreto o fantasmatico è in effetti il supporto per significare il nemico fondamentale, originario, l’essere naturale, la naturalità. Noi siamo fondati sulla repressione della nostra naturalità, posta come la nemica, l’ostacolo per acceder all’essere domesticato, che si pone fuori dalla natura. Inversamente, noi siamo portati a interpretare il nostro essere naturale come il nemico della madre, del padre che ci deve far accedere alla cultura, all’extra-natura, al fine di comprendere perché siamo rifiutati, il che sta a fondamento dell’irrazionalità. Noi siamo nemici di … e siamo colpevoli. Si esce dallo stadio in cui si è rifiutati interiorizzando il nemico. Egli è in noi. La guerra è l’esteriorizzazione amplificata di questo conflitto interno il cui supporto fondamentale, con il quale esso è in continuità, è la lotta della specie contro la natura. Distruggere un nemico sarebbe togliere la colpevolezza, disfarsene.

« Tentare di immaginare una guerra senza figurarsi preliminarmente un nemico: è impossibile. Che l’obiettivo sia una preda, una vittima sacrificale, uno spirito maligno o un oggetto del desiderio, è l’idea di nemico che mobilita l’energia. La figura del nemico alimenta le passioni della paura, dell’odio, della collera, del desiderio di vendetta, della furia distruttrice o della concupiscenza, fornendo quel surplus di energia compressa che rende il campo di battaglia possibile. (…) Il nemico è la levatrice della guerra[10] ».

« Se la guerra si origina nello Stato, lo Stato esordisce con la creazione di un nemico[11]».

La guerra, come la schiavitù, è permanente. James Hillman si pone la seguente domanda: « Se la guerra è normale, lo è perché essa è radicata nella natura umana, o perché è essenziale per la società? Essa è al fondo l’espressione dell’aggressività e dell’istinto di autoconservazione degli esseri umani, oppure è un prolungamento del comportamento gregario, dai cacciatori fino ai razziatori e, per finire, fino alle coalizioni di uomini nei paesi lontani?[12] ».

Ed egli afferma: « Può darsi che, davvero, si venga al mondo sapendo già tutto, guerra inclusa, non perché si possiede un istinto bellicoso, ma perché esiste nella nostra anima la conoscenza del cosmo, e la guerra è uno dei fondamenti del cosmo[13]».

A proposito della schiavitù, Viviana Pâques scrive: « Quasi tutte le società hanno conosciuto la schiavitù. Non osiamo sopprimere questo “quasi” perché non sappiamo bene, laddove la schiavitù non è attestata da qualche parte, se si tratta davvero di una assenza o di una lacuna nella nostra documentazione.[14]». In effetti, dalle precisazioni che ella porta in seguito, risulta chiaramente che il concetto di messa in schiavitù, che implica la perdita della libertà e il fatto di divenire possesso di qualcun altro, esiste da sempre. Ciò mi sembra molto verosimile per il fatto stesso che in diverse lingue una medesima parola indica il bambino e lo schiavo. Il bambino è schiavo, egli è spossessato della sua naturalità e dipende dagli esseri che lo hanno represso. Egli è condannato a lavorare per diventare un essere adattato a un mondo che diviene sempre più estraneo alla natura, un essere domesticato. Da qui l’ambiguità e il carattere contraddittorio del lavoro, soprattutto quando è posto come elemento essenziale di una dinamica di liberazione. Aggiungiamo che la maggior parte dei concetti come nemico, lavoro, ecc., sono gravati della confusione iniziale nella quale noi fummo posti.

Guerra e schiavitù, che sono in stretta relazione, derivano dalla dinamica della repressione. Messa in schiavitù, infantilizzazione, domesticazione e dinamica di liberazione, transizione all’indipendenza e alla maturità si alternano, come si alternano guerra e pace, e così anche mania e depressione.

Ritorniamo al concetto di nemico che ha per supporto iniziale tutto ciò che fa ostacolo a uno sviluppo dato, che sia per l’individuo o per la specie, da cui le sue diverse figure: avversario (challenger), oppositore, contraddittore, ecc. Per il fatto stesso della sua genesi, esso racchiude confusione e violenza. La prima appare nell’ambiguità della designazione del supporto: sono io (fondante l’odio di sé) o l’altro? In effetti, in generale, si impone una coesistenza dei due, ciò che comporta un desiderio di separarli, di rivelare chi è quello vero, da cui lo sbocciare della violenza[15]. Grazie alla guerra si perviene ad afferrare il vero nemico, a conoscerlo; si esce dall’ambiguità, dall’indecisione, dalla procrastinazione; da una forma irrigidita di incoazione[16] a vivere, e si accede ad un’autenticità[17], rinforzata dal fatto che i compagni d’arme subiscono lo stesso fenomeno, mentre l’imminenza del pericolo costringe ad uscire da tutti i blocchi, permettendo di oltrepassare il sé. Da qui si può accedere al sacrificio (ripetizione di quello della propria naturalità), al dono di sé. La guerra dà luogo a grandi sofferenze e alla loro esaltazione. Ora, la sofferenza appare agli uomini e alle donne come necessaria per accedere a se stessi, secondo l’adagio: « non si conosce nulla fintanto che non si è sofferto ». Di conseguenza, tanto dal punto di vista di sé quanto dell’altro (il nemico) la guerra è l’iniziatrice per eccellenza.

Il nemico è l’estraneo, l’altro che rimette in causa (come lo fu per il fatto della non accettazione della nostra naturalità[18]). Egli sorge dall’effettuazione della rottura di continuità di cui realizza una antropomorfosi e la sua epifania. « Infine anche quando la mia soggettività si lega in seno ad un’amicizia, a un matrimonio, alla paternità o alla maternità, o in un giuramento, l’Altro permane esterno, definito come non-me[19] ».

Me e sé esprimono la discontinuità che permane in noi, un ripiego, una diffidenza, eufemismo della paura, la paura dell’ignoto, dell’imprevisto, della spontaneità. Ora, davanti al pericolo, l’individuo la può ritrovare; da qui una delle ragioni, secondo J. Hillman, del « terribile amore per la guerra ».

Sorto dalla discontinuità, l’altro, il nemico, colui che sorprende, è un supporto per il numen. La guerra permette di rivivere pienamente il momento mistico originale che perdura intero in ognuno sotto forma di impronta. Abbiamo già evocato l’oltrepassamento del sé che è come un andare al di là per attingere il numen, integrarlo o fondersi in esso, e che partecipa della dinamica della trascendenza (un tentativo di ristabilire la continuità), dell’appartenenza, a quella del sacrificio e del dono d sé.

La guerra appare come ciò che affascina e fa paura, shock and awe, come ricorda J. Hillman; essa suscita il sublime che partecipa pienamente della mistica. « Il sublime concepito in quanto coincidenza stupefacente del funesto e del bello in un istante unico ed esaltante, è venuto dalla natura, dalla terra[20] ». Per parlare del sublime gli ossimori si impongono, come quando si tratta di esprimere il mistico che pure necessita delle contraddizioni, della sovrapposizione degli stati, dell’irrazionale. Non è questo il luogo per esplicitare questi temi. Voglio solamente sottolineare un dato essenziale che può spiegare una causa del conflitto in Medio Oriente. Grazie alla mistica l’individuo cerca di andare al di là della rottura, vale a dire di pervenire al momento che precede la sua effettuazione, al fine di uscire dall’imprigionamento, dal mistero. Il « totalmente altro » ci rinchiude in noi stessi, ci blocca, instaurando il possibile di una violenza allo scopo di uscirne.

La dimensione mistica di questo conflitto[21] è un supporto per la specie per giungere, per così dire, alla fase della sua concezione, quando essa si separò dalla natura e si fondò nel divenire di erranza nel quale essa tenta vanamente di cogliersi.

Durante il momento mistico originale, regnano la confusione, la violenza, la depressione, la collera. Detto altrimenti, il conflitto e la depressione sono inerenti al divenire di Homo sapiens. Ciò fa parte del contenuto della speciosi. Alain Ehrenberg ne La fatigue d’être soi – Dépression et société[22], indica due modalità di interpretazione dei disordini psichici, quella di P. Janet centrata sul « deficit » e quella di S. Freud centrata sul « conflitto ». Tuttavia nella realtà non si verifica una manifestazione esclusiva. È perché non può più farsi carico del conflitto che l’individuo incontra la depressione (ciò che d’altronde esprime un rivissuto). Inoltre egli può uscire dalla depressione attraverso la violenza, quindi attraverso il conflitto. « La fatica di essere sé » si trova in rapporto con l’impossibilità di assumere una programmazione che tenda a dare all’individuo una consistenza che è in totale rottura con la sua naturalità. Egli non può più effettuare il lavoro di domesticazione. Il fatto che nella vita corrente la depressione sembra avere il sopravvento sul conflitto segnala la fine dei ricoprimenti e la tendenza sempre più netta all’imporsi del momento mistico, il quale riporta alla violenza originaria per uscire dal blocco, per rifiutare un avvenuto, andare al di là di ciò che ossessiona, affascina, fa paura.

Da millenni, attraverso i miti e la storia, il conflitto, la guerra, sembrano essere permanenti. Ne è causa fondamentale la repressione che pone ogni essere in divenire in conflitto più o meno intenso con ciò che lo reprime. F. Renggli, nel suo studio dei miti mesopotamici, sostiene che essi esprimono le lotte al momento della nascita, per nascere, per esistere, per uscire da un blocco. Si ritrova questo nei miti greci come nelle epopee indiane del Ramayana o del Mahabharata, piene di episodi guerrieri come, per esempio, nei films o nella serie dei Dragon Balls. La specie resta bloccata.

La guerra, così come la rivoluzione, manifesta la forma più estrema del conflitto che si mostra onnipresente nel processo di vita di Homo sapiens[23], potendosi vivere e concepire natura e cosmo solo attraverso di lui. Lotte tra etnie, tra razze, tra classi, lotta per la vita accoppiata alla selezione naturale (dinamica della grazia), lotte in seno allo sport[24], ai giochi, ai concorsi, in seno all’economia, nella passione, a cui si possono aggiungere i saccheggi, i rapimenti, le prese in ostaggio (variante della messa in schiavitù) etc., possono illustrare la nostra affermazione.

La modalità del nostro posizionarci ora si rivela. Noi non abbiamo da dire agli uomini e alle donne ciò che devono fare, e neanche augurarci che essi lo facciano; sarebbe repressione. Ma noi possiamo esporre come le cose dovrebbero andare in funzione del nostro cammino di liberazione-emergenza. Ricordando la constatazione del permanere del meccanismo infernale delle ripetizioni coatte con l’accentuarsi della repressione, e quindi con l’insostenibilità della miseria e delle sofferenze delle popolazioni sempre più numerose che vivono la separazione fondamentale e insopportabile di fronte alla comunità (come già segnalato nel 1968 con il volantino a proposito degli avvenimenti di allora) è giusto dire che bisogna essere portati ad abbandonare la dinamica dell’inimicizia. Anche i repressori cercano di liberarsene, di ritrovare la loro naturalità. Essi lo effettuano riattualizzando ciò che hanno subito e riattualizzando un mondo in cui ci sono dei nemici. Quindi io considero, come è stato già indicato, che non bisogna più pensare che vi siano dei nemici – altrimenti si ratifica il meccanismo infernale – ma che si è in presenza di uomini e di donne che operano in definitiva nella stessa dinamica determinata da questo meccanismo. Ciò implica di aprirsi alla repressione che è realizzata da coloro che giocano il ruolo di repressori, non per accettarla ma per eliminare un supporto. In effetti il rispetto del loro ordine non incepperà assolutamente il fenomeno di dissoluzione che essi vogliono scongiurare, per paura di una minaccia inconscia, ma essi non potranno servirsi di uomini e di donne, posti al di fuori della loro sfera, come supporti di colpevolizzazione che gli permettano di occultare, nascondere tutto.

Attualmente con la repressione essi pensano di poter eliminare la minaccia che li travaglia inconsciamente. Noi non dobbiamo, con il nostro comportamento, attivare quest’ultima e lanciarli ancor più nel rimetterla in gioco.

La specie è in costante ansietà, attraversata da emozioni molto antiche. Si può dire che essa si trovi in uno stato di perpetua sommossa, per il fatto di essersi edificata nel rifiuto e perché il suo pensiero è un pensiero repressivo. Essa non può vivere l’immediato del suo mondo, della natura, del cosmo, perché inconsciamente vi percepisce una minaccia che deve instancabilmente vincere. Al suo livello come a quello dell’individuo, se non diveniamo coscienti dei traumi iniziali e non comprendiamo che ogni minaccia è scomparsa (anche se essa può imporsi in modo imprevisto noi abbiamo la capacità di sfuggirle) e che non abbiamo nemici, noi siamo condannati a rivivere forzatamente i grandi cicli di sommossa-depressione. Ritrovando la continuità e la partecipazione, i punti di riferimento non sono più assolutamente necessari; di conseguenza amico e nemico non hanno più ragione d’essere, allo stesso modo che guerra (mania) pace (depressione).



Jacques CAMATTE

Dicembre 2005


Traduzione di Marco IANNUCCI


[1]    I disordini possono designare anche un insieme di sintomi di una malattia, la quale può avere disordine come sinonimo: «La ricerca di strutture soggiacenti è abbandonata, e la parola malattia sostituita da quella di disordine (desorder)». Alain Ehrenberg, La fatigue d’être soi – Dépression et société, Ed. Odile Jacob, poches, Paris, 2000. La specie umana vive nel conflitto e si percepisce attraverso il conflitto.
[2]    «Da questo mondo gravido di catastrofi non c’è da aspettarsi nulla, neppure il verificarsi di una di queste. (…) che il rifiuto dell’attesa implica la completa comprensione intellettuale-corporea dell’impossibilità di realizzare una qualsiasi cosa in questo mondo.» Contre toute attente, 1978, Invariance, série III, n° 5-6, p. 123. [Trad. italiana in Il disvelamento, Milano: La Pietra 1978, pagg. 113-115].
[3] Non mi nascondo l’intervento degli occidentali in Asia, in particolare in India e in Indonesia, e nell’area che era sotto l’influenza cinese, dalla Birmania al Vietnam attuale. Tuttavia, anche qui, lo scontro fu in gran parte con l’area musulmana.
[4] A questo proposito si vedano, tra l’altro, i lavori di Anne Dambricourt-Malassé, di Rosine Chandebois, in particolare L’embryon cet inconnu, Ediz. L’Age d’Homme, Losanna, 2004. Possiamo aggiungere i teorici della psico-storia.
[5] Julian Jaynes, La naissance de la conscience dans l’effondrement de l’esprit (titolo inglese: The origin of consciousness in the breakdown of the bicameral mind, 1976), Ed, PUF, Parigi, 1994, p. 103.
[6] Idem, alle successive pp. 108, 110, e 114. Ancora due citazioni complementari «La funzione degli déi consisteva essenzialmente nel dirigere e organizzare l’azione in situazioni nuove».
«La mente bicamerale, controllata dagli déi, si è sviluppata come la tappa finale dell’evoluzione del linguaggio. Ed è in questo sviluppo che risiede l’origine della civiltà».
[7] È anche possibile che persone facciano finta di telefonare, al fine di poter «parlare da soli» senza passare per matti.
[8] Julian Jaynes, o.c., p. 117. Secondo il Dictionnaire historique de la langue française, diretto da Alain Rey, obéir viene dal «latino oboedire, propriamente « prestare orecchio a » da cui « essere sottomesso a » … .
[9] Alla base di un brusìo si trova un ritorno del rimosso. Non è quindi impossibile che vi sia percezione di voci.
[10] James Hillman A terribile love of war 2004, che abbiamo letto nella sua traduzione italiana: Un terribile amore per la guerra, Ed. Adelphi, Milano, 2005, p.38.
[11] Idem, p. 39.
[12] Idem, p. 36.
[13] Idem, p. 56. Cfr. anche: « (…) la necessità della guerra è inscritta nel cosmo. » p. 58.
[14] Viviana Pâques, L’homme et l’esclavage, in Histoire des mœurs, t. III, Ed. Gallimard, Parigi, 1991, p. 499.
[15] La dinamica dei kamikaze può essere interpretata come quella di eliminare simultaneamente il nemico esterno e quello interiore.
[16] Azione che è al suo inizio, nel momento in cui l’intenzionalità può essere bloccata dall’indecisione; ciò che, di conseguenza, sospende in qualche modo l’agire.
[17] « L’ipocrisia in America non è un peccato ma una necessità e uno stile » James Hillman, op. cit. p. 239. Questo fa per così dire eco alla citazione di H. Arendt che egli ha fatto a p. 171. « Strappare la maschera di ipocrisia con la quale l’avversario copre il suo volto, rivelare le tortuose macchinazioni e le manipolazioni che gli permettono di dominare senza utilizzare mezzi violenti – vale a dire lanciarsi nell’azione a rischio di essere schiacciato per proclamare la verità – tali sono ancora oggi le più forti motivazioni della violenza così come la vediamo manifestarsi nei campus e nella strada. » Sur la violence in Du mensonge à la violence, Ed. Calmann-Lévy, Presses Pocket, Parigi, p. 165.
Notiamo parimenti la definizione della violenza dovuta allo stesso autore e che James Hillman riporta a p. 170. « (…) la violenza – l’atto compiuto senza ragionare, senza parlare, e senza riflettere sulle conseguenze … ». op. cit. p. 163. Essa designa perfettamente la remontée di ciò che fu subito.
[18] Le citazioni che seguono esplicitano che il bambino è l’estraneo, e che il nemico possiede un doppio supporto. Esse sono tratte da Un étranger à demeure d’Anne Bouchart Godard, in L’enfant, Ed. Gallimard, Folios-Essais, Parigi, 2001. « Alla violenza fatta all’umano con il sorgere di un bambino reale, desiderato e fantasticato da lunga data tuttavia …» p. 253.
« Il bambino con le reazioni individuali e regressive che porta in sé, minaccia l’individuo e la collettività  Essi risponderanno di rimando con la violenza. » p. 257
« Questa “messa a morte” del bambino selvaggio attraverso il neonato reale, nello stesso tempo, permette che una tale messa a morte abbia luogo di nuovo in ogni membro del gruppo. » p. 258
« Il neonato è accolto come estraneo e inquietante a causa della rimozione; i pericoli di cui egli minaccia per proiezione dell’esperienza antica, sono alla dismisura dei fantasmi primari ». p. 262
«Il bambino-dio, a cui appartengono le decisioni di vita e di morte, deificando i suoi genitori è anche l’oggetto estraneo, sconosciuto, che ferisce con le sue differenze, e le sue esigenze senza contropartita ». p. 263.
« In quanto simile e in quanto diverso, il bimbo fa violenza all’adulto ». p. 263.
Le teorie che esaltano il bambino in quanto salvatore, complementari a quella che afferma che egli sceglie i suoi genitori, partecipano anch’esse alla dinamica della repressione.
[19] James Hillman, op. cit., p.194.
[20] J. Hillman, op. cit., p. 146. Il testo consacrato al « sublime » nel Thésaurus de Encyclopædia Universalis, 1968, racchiude diverse notazioni che rivelano bene la sua parentela con il mistico. « (…) l’esperienza emozionale, nella quale il soggetto prova l’inaccessibilità di questo altro attorno al quale si è purtuttavia cristallizzato il campo intero delle sue aspirazioni ». « Ma l’essenza del sublime risiede nello stato di mancanza e di abbandono che esso instaura, al livello dell’intelligenza e della sensibilità. Il sublime crea una rottura per generare uno choc …». « L’incertezza costituisce il luogo di emergenza del sublime; ».
[21] Ho già affrontato questo tema in Gloses en marge d’une réalité VIII. Cfr. sul sito della rivista Invariance.
[22] Questa frase sintetizza bene, a mio avviso, il pensiero dell’autore: « Il depresso non è all’altezza, egli è stanco di dover diventare se stesso. » p. 11. Tuttavia questo « se stesso » non ha niente a che vedere con la sua naturalità, ma con un essere determinato dal divenire sociale. In fondo il lavoro non è più atto a realizzare la domesticazione.
S. Freud non ha teorizzato soltanto il conflitto utilizzando la sua trilogia: es, io, super-io, alla quale è il caso di aggiungere d’altronde l’ideale dell’io, che può corrispondere al « progetto » così in voga attualmente, ma anche l’insufficienza, l’impotenza con il concetto di hilflosigkeit. Inoltre A. Adler può essere considerato del pari come un fondatore della teoria dell’insufficienza, senza ridurlo a questo, dato che il conflitto non può essere fatto scomparire.
[23] È difficile abbandonare il conflitto. « Non è vero che l’unica vittoria durevole consiste giustamente nel vincere il cuore e lo spirito dell’altro? » J. Hillman, op. cit., p. 213. Poiché vincere implica che vi sia lotta.
[24] In cui regna la pratica del doping che permette di oltrepassarsi per divenire più « competitivi [conflittuali]».
[25]

FONTE: http://revueinvariance.pagesperso-orange.fr/

Jacques Camatte AVVENIRE

AVVENIRE


Avvenire è pervenire ad un modo di vita in cui il godimento è possibile, effettivo, grazie a una messa in continuità con tutto il processo di vita, con il cosmo.
Diamo un rapido sguardo a ciò che questo implica.
La manifestazione di ogni uomo, di ogni donna, si opera a partire da un’affermazione che è, in definitiva, un porsi in seno all’eternità. La scomparsa di ogni lotta contro, ridimensiona il campo della negazione così come quello dell’interrogazione.
La scomparsa della minaccia fa sì che si possa accogliere l’imprevisto senza essere rimessi in causa e quindi di stare nell’apertura a ciò che avviene. La meraviglia può essere considerata come la facoltà di percepire l’imprevisto, l’originale, il non ancora avvenuto. Presso gli esseri ontosizzati lo stupore, e perfino lo spavento, le sono spesso legati; è perché genera quasi inevitabilmente l’interrogazione, supporto di sofferenza. Avvenire significa in questo campo godere di ciò che avviene di imprevisto, di spontaneo, perché ciò riempie l’individualità di un contenuto che le conferisce grande pienezza.
I genitori accettano la spontaneità dei loro figli, la loro immediatezza e la loro unicità, ciò che rafforza, negli uni e negli altri, la capacità di aprirsi all’imprevisto. La repressione, che fu una grande fonte di interrogativi, è scomparsa.
L’accettazione della spontaneità implica la capacità di percepire l’evidenza, quindi l’attitudine a vivere la certezza, e non essere più mistificati dai misteri.
Uomini e donne partecipano al cosmo. Essi non si posizionano più in un affrontarsi che sfocia nella dinamica della dominazione e della dipendenza, e nell’esacerbazione di una teorizzazione in funzione di un soggetto e di un oggetto. Se vi è partecipazione, non si pone più dualità, separabilità, località; ci si trova sul modo dell’ascolto e dell’apertura, con l’attitudine sempre rinnovata di comprendere ciò che avviene.
Il modo di manifestarsi non è più dominato dall’adattamento che implica la reazione, ma da un agire che ha la dimensione della creazione.
In virtù dell’apertura, il processo di conoscenza si caratterizza per un pensiero irradiante, essudato di tutta l’individualità-gemeinwesen, che è atta a percepire sia l’immediato dell’avvenuto (imprevisto) sia ciò che è accessibile solo in seguito ad un intenso processo riflessivo. Essa permette di essere presenti a tutti i livelli del reale e di sormontare ostacoli e difficoltà.
La messa in continuità induce la possibilità di amare affermando il suo potere, la sua potenza di vita, fonte di gioia, di godimento e di pienezza. Vivere è muoversi nell’essere-avere godimento e pienezza.

martedì, marzo 11, 2014

Jacques Camatte Errranza dell'umanità. Coscienza repressiva. Comunismo

 Invariance anno XI serie II n 3 dicembre 1973

Il capitale, al momento del suo dominio reale sulla società, si è costituito in comunità materiale e arriva a superare il valore e la leggi del valore, che si ritrovano nel capitale in quanto « superati ». Il capitale realizza questo superamento in due modi: 1) la desustanzializzazione, ovvero la devalorizzazione: la quantità di lavoro incluso nel prodotto-capitale diminuisce enormemente; 2) il rapporto di scambio tende a sparire progressivamente, dapprima nel rapporto salariale, successivamente in tutte le transazioni economiche. Se il capitale originariamente; dipende proprio dal rapporto salariale, abbiamo allora la realizzazione del suo dispotismo, poiché, se c’è valore, è il capitale che lo attribuisce. Il capitale è capitale in processo e questa determinazione è stata da lui ; acquisita con la nascita del capitale fittizio, allorché l’opposizione valorizzazione-devalorizzazione aveva ancora un senso, quando cioè il capitale non aveva ancora superato realmente la legge del valore.
Il capitale in processo è il capitale in costante movimento che capitalizza tutto, ovvero che assimila tutto e tutto riduce ad essere sua propria sostanza. Una volta pervenuto all’autonomia, esso è la « forma reificata » in movimento. Acquista un’immaterialità e rinnova il proprio essere—vasto metabolismo che ingloba gli antichi scambi o li riduce a scambi di tipo biologico—risucchiando alla totalità degli uomini, nelle loro molteplici attività attuali per quanto parcellari esse siano, quel che essi esteriorizzano: ed ecco perché il capitale spinge gli uomini a dispiegare le più vaste e differenziate attività. È l’umanità nel suo insieme che

è sfruttata, così che risulta più che mai aberrante l’espressione: sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Il capitale, al suo livello più compiuto, è rappresentazione e le possibilità di pervenirvi consistono, da una parte, nella sua antropomorfizzazione, che è contemporaneamente una capitalizzazione degli uomini (fatto che non esclude un movimento antagonistico, dal momento che il capitale costringe gli uomini a essere umani); dall’altra, nel superamento del vecchio equivalente generale—l’oro— dal momento che il capitale La bisogno di una rappresentazione ideale, senza una sostanza che creerebbe inibizioni allo sviluppo del suo processo. L’oro, pure se non è ancora completamente demonetizzato, non potrà più giocare un ruolo di misura, di termine di riferimento. È l’attività umana capitalizzata che è divenuta misura del capitale, fino al punto che questa stessa dipendenza allontana da un rapporto immediato col valore, così da far sparire completamente la sua legge, come appunto viene verificandosi. Questo presuppone l’integrazione degli uomini nel processo del capitale e l'integrazione del capitale nel cervello degli uomini.
| Il capitale rappresentazione si realizza attraverso e a conclusione del seguente movimento storico: autonomizzazione del valore di scambio, espropriazione degli uomini, riduzione dell’attività umana a lavoro, e riduzione di quest’ultimo a lavoro astratto. Tale movimento si effettua nel corso della crescita del capitale che nasce sulla base della legge del valore. Nell’autonomizzazione del capitale attraverso l’addomesticamento degli esseri umani, l’uomo, dopo assere stato analizzato-dissecato-parcel-lizzato, viene ricostruito dal capitale in funzione del suo processo: la frattura senso-cervello ha permesso di trasformare quest’ultimo in un qualsiasi ordinatore che è possibile programmare secondo le leggi del capitale. Proprio a causa delle loro capacità cerebrali, gli esseri umani vengono non soltanto assoggettati ma diventano schiavi consenzienti del capitale: infatti, la cosa che può apparire più paradossale è che lo stesso capitale reintroduce la soggettività che era stata liquidata nel corso del divenire del valore di scambio che lo aveva costituito. Ogni attività dell’uomo è sfruttata dal capitale, tanto che la frase di Marx: « Aggiungendo un valore nuovo all’antico, il lavoro conserva ed eterniz-za il capitale » {Grundrisse), può essere ripresa a questo modo: ogni attività dell’uomo eternizza il capitale.
Con il capitale rappresentazione si verifica un superamento della vec-lia contraddizione monopolio-concorrenza: ogni quantum di capitale tende a diventare totalità e la concorrenza è operante tra i diversi dive-

nire alla totalità. L’unificazione della produzione e della circolazione è una necessità e l’antica opposizione valore d’uso-valore di scambio non ha più ragione d’essere. Inoltre il consumo è sì un’utilizzazione dei prodotti materiali, ma è soprattutto un’utilizzazione di rappresentazioni che strutturano sempre meglio gli esseri umani in quanto esseri del capitale e che rinnovano quest’ultimo in quanto rappresentazione generalizzata.
I prezzi non hanno più la stessa funzione che avevano nel periodo di dominazione formale, dove essi erano rappresentazione del valore: ora non sono altro che indici-riferimento delle rappresentazioni del capitale. La gratuità dei prodotti non è cosa impossibile: il capitale può attribuire a ciascun individuo, programmato nell’insieme del sistema capitalistico, una certa quantità di questi prodotti. Tale quantità sarebbe in funzione dell’attività richiesta, imposta a questo individuo, e si tratterebbe di un dispotismo più potente di quello attuale. Gli uomini arriverebbero a rimpiangere il denaro che « accordava » loro libertà di accesso alla diversità dei prodotti.
Nel corso del suo sviluppo, il capitale ha sempre avuto la tendenza di negare le classi, e questo è stato finalmente realizzato grazie alla generalizzazione del salariato e alla formazione—quale stadio di transizione—di ciò che abbiamo chiamato classe universale: insieme di uomini1 e di donne proletarizzati, insieme di schiavi del capitale. Quest’ultimo infatti realizza il suo pieno dominio mistificando in un primo tempo le rivendicazioni del proletariato classico. Il proletariato ha potuto essere dominato in quanto lavoratore produttivo. Ma a questo modo—esercitando, cioè, il capitale il proprio dominio per mezzo del lavoro—, si verificava la scomparsa delle classi, poiché il capitalista in quanto personaggio veniva contemporaneamente eliminato. Da qui una convergenza con il modo di produzione asiatico (mpa). In seno a quest’ultimo, le classi non poterono mai autonomizzarsi, in seno al modo di produzione capitalistico (mpc), esse vengono riassorbite. In seguito alla trasformazione del rapporto di produzione—il salariato—in un rapporto coercitivo e statalistico, lo stato diveniva contemporaneamente la società; nello stesso tempo, lo stato si trasformava in una semplice impresa-racket caratterizzata dal ruolo di mediatore fra le diverse bande del capitale.
La società borghese è stata distrutta e abbiamo il dispotismo del capitale. I conflitti di classe sono stati rimpiazzati dalla lotta tra bande-organizzazioni, che esprimono altrettante modalità d’essere del capitale. In seguito al dominio della rappresentazione, ogni organizzazione che pretende di opporsi al capitale ne viene riassorbita: viene fagocitata.
È la fine reale della democrazia: non è più possibile affermare che ci sia una classe che rappresenta l’umanità futura, e, a maggior ragione, nessun partito o nessun gruppo possono rappresentarla: la qual cosa implica che non può più esserci alcuna delega di potere.
Che il capitale sia rappresentazione e che si perpetui perché esso è tale nella testa di ciascun essere umano (interiorizzazione di ciò che era stato esteriorizzato), appare crudamente nella pubblicità. Quello pubblicitario è il discorso del capitale ': qui tutto è possibile, ogni normalità è scomparsa. La pubblicità è l’organizzazione del rovesciamento del presente al fine di imporre un futuro apparentemente diverso.
« Affrontiamo ora il problema di permettere all’americano medio di sentirsi morale quando flirta, e anche quando spende o compra una seconda o una terza vettura. Uno dei problemi fondamentali di questa prosperità è di dare alla gente la sensazione e la giustificazione di gioirne, di mostrare che fare della loro vita un piacere è morale e non immorale. Questo permesso dato al consumatore di gioire liberamente della vita, la dimostrazione del suo diritto a circondarsi di prodotti che arricchiscono la sua esistenza e gli fanno piacere deve essere uno dei temi principali di ogni pubblicità e di ogni progetto destinato a promuovere le vendite » (Dichter, citato da Baudrillart in Le système des objects, pp. 218-219).
Paradossalmente la dissoluzione della coscienza che si può percepire attraverso manifestazioni come quelle del mlf (Movimento di Liberazione della Donna) del fhar (Fronte Omosessuale di Azione Rivoluzionaria), dell’antipsichiatria (possibili, d’altra parte soltanto dopo l’opera di Freud, quella di Reich, e dopo il movimento femminista dell’inizio di questo secolo) non corrisponde al contemporaneo manifestarsi di una coscienza rivoluzionaria, ma testimonia soltanto della fine della società borghese fondata sul valore, su una misura fissa, che si rifletteva a tutti I i livelli della vita degli uomini. Era il momento in cui l’equivalente generale si contrapponeva alla circolazione, poiché abbandonandovisi si sarebbe perduto. Lo stato doveva costringere tutti i soggetti a rispettare questa normalità fondata sulla misura che costituiva la scala di valori della società. La legge del valore imprigionava gli uomini, li costringeva all’interno di stereotipie, fissava il loro modo di essere. Il più alto sviluppo della morale si esprimeva nell’imperativo categorico di Kant. Il capitale, con l’assorbire l’equivalente generale, col divenire rappresentazione di se stesso, toglie le interdizioni e gli schemi rigidi. Dopodiché gli uomini vengono fissati al suo movimento che può dispiegarsi a partire dall’uomo normale o anormale, morale o immorale.
Oggi assistiamo alla scomparsa dell’uomo finito, limitato, vale a dire dell’uomo individuale della società borghese: da qui, l’appassionata esigenza, vieppiù impetuosa, dell’essere umano liberato, vale a dire dell’essere che è ad un tempo uomo sociale e Gemeinwesen. Ma, ripetiamolo, per il momento è il capitale che ricompone l’uomo e gli dà forma e materialità: la sua comunità gli viene restituita sotto la forma del lavoratore collettivo e la sua individualità consiste nell’essere oggetto d’uso del capitale. Poiché quest’ultimo è un indefinito, consente all’uomo di accedere a un al di là della « finitudine » attraverso l’instaurarsi di un processo di appropriazione mai realizzato, rinnovando a ogni istante l’illusione di una dilatazione totale.
L’uomo, plasmato a immagine del capitale, non considera nessun momento come se fosse definitivo, ma come momento di un divenire senza fine. >|È il godimento concesso (octroyé) ma sempre impossibile. L’uomo è divenuto spettatore (voyeur) sensibile-passivo, il capitale essere sensibile-sovrasensibile. La vita dell’uomo non è più un processo ma un fenomeno lineare. Risucchiato com’è dal movimento del capitale, l’uomo non può più ritrovarsi « presso di sé », e questo risucchio crea in lui un vuoto, un’assenza che deve ogni volta riempire di rappresentazioni-capitale. In senso più generale, il capitale in processo assicura il suo dominio proprio col trasformare ogni processo in fenomeno lineare. Esso tende, a questo modo, a rompere il movimento della natura, il che porta alla distruzione di quest’ultima. Nella misura in cui tale distruzione può avere conseguenze nefaste per il proprio processo, il capitale è portato ad adattarsi alla natura: l’anti-inquinamento.
Quel che Hegel aveva intuito, l’autonomizzazione del non-vivente, trionfa. È la morte nella vita che Nietzsche aveva percepito, Rainer Maria Rilke cantato, Freud quasi istituzionalizzato (l’istinto di morte), che Dada ha esibito attraverso una forma artistica ironica e che i « fascisti » hanno esaltato: « Viva la morte ». Il nuovo movimento femminista statunitense lo ha individuato assai bene:
« L’uomo ama la morte. Essa lo eccita sessualmente, e poiché tutto è già morto in lui, egli non aspira che a morire » (Valérie Solanas,Scum, Ed. Olympia, Paris, 1971; tr. it., Edizioni delle donne, A & A, Roma 1976).
L’autonomizzazione della forma contagia tutti gli aspetti della vita dominata dal capitale. Ogni conoscenza è valida solo se è formalizzata, se è privata del contenuto. Il sapere assoluto è la tautologia realizzata e quel che si dispiega su ogni conoscenza è la forma della morte. Il sistema delle scienze è la sua sistematizzazione e l’epistemologia ne costituisce la ridondanza.
Nel corso del suo dominio reale, il capitale ha realizzato un run away (come dicono i cibernetici), una fuga in avanti (échàppement) 2.

 Esso non è più controllato dagli uomini, i quali, prima, seppure passi»: vamente, sotto forma di proletari, potevano opporglisi come un limite. Allo stesso modo, il capitale si è liberato dei limiti naturali. Tuttavia esso li ritrova alla fine di un certo numero di processi di produzione (considerati nel tempo): aumento del numero degli esseri umani, distruzione della natura, inquinamento, ecc. Ma ciò non costituisce, teorica-f mente, una barriera che il capitale non possa superare. In realtà, al dii fuori della distruzione diretta dell’umanità—ipotesi che non si può nascondere—, esistono tre possibilità di divenire del mpc:
—    l’automazione completa: utopia meccanicista; l’uomo diventa una semplice appendice del sistema automatizzato, ma conserva ancora un i ruolo di esecutore;
—    una mutazione dell’uomo, o, assai meglio, un cambiamento della
specie: conseguimento di un essere totalmente programmabile che ab*| bia perduto le caratteristiche della specie Homo sapiens. In tal caso : non sarebbe necessaria un’automazione: un simile essere addomesticato alla perfezione potrà fare qualsiasi cosa;   
—    una follia generalizzata: il capitale si pone    al livello    degli    uosl
mini e realizza sulla base dei loro limiti attuali tutto quel che essi vo- ; gliono (il normale o l’anormale). Ma sarà impossibile per l’uomo ritrovarsi, essendo il godimento costantemente rimandato: l’uomo viene trascinato nel run aioay del capitale e lo perpetua 3.
Il risultato alla fine è identico: il blocco dell’evoluzione dell’uomo che si verifica più o meno rapidamente a seconda dei casi. Questi di' venire sono delle astrazioni-limite: in realtà essi tendono a svilupparsi simultaneamente e in maniera contraddittoria.    Per mantenere il    suo ;
processo indefinito, il capitale—come abbiamo    già    detto—è    costretto
a suscitare l’attività degli uomini, a esaltare la loro creatività, ecc. Inol-tre, per assicurare la propria eternizzazione il capitale deve realizzare. assai rapidamente tutto questo: ha luogo, così, una concentrazione del tempo e dello spazio, legata alla diminuzione delle risorse naturali (che il surrogato dei prodotti sintetici non può annullare) e all’accrescimento demenziale della popolazione umana, che è causa della scomparsa di numerose forme di vita.

Si comprende a questo modo che la rivendicazione del lavoro o della | sua abolizione si collocano ancora nella problematica del capitale. L’una | e l’altra esigenza non escono dal quadro del suo divenire e allo stesso | modo la generalizzazione illimitata del desiderio diviene movimento t isomorfo all’indefinito del capitale.
Non c’è e non può esserci una decadenza del mpc. C’è stata certo I la disintegrazione della società borghese, che tuttavia non ci ha dato il : comunismo. O meglio: possiamo dire che c’è stata una certa affermazione di quest’ultimo, ma in opposizione alla società borghese, non in oppo-I sizione al capitale, per la semplice ragione che non c’è stata la percezione del suo échappement, che si è realizzato in pieno solo coi movimenti del (fascismo, del nazismo, del fronte popolare, del new-deal, ecc..., cioè coi movimenti di transizione dal dominio formale al dominio reale. Questo comunismo credeva di affermarsi attraverso la socializzazione di tutte le attività degli uomini e dunque attraverso la distruzione della proprietà privata, ma si trattava in realtà del momento in cui il capitale accedeva alla comunità materiale.
Se ha luogo una decadenza del mpc, essa coincide con la fase di rivoluzione effettiva contro il capitale. Per il momento da circa un secolo a questa parte c’è stata una decadenza degli uomini, decadenza legata al loro addomesticamento da parte del capitale: da qui, l’incapacità in cui si è trovato alla fine il proletariato di realizzare l’emancipazione dell’umanità. C’è sempre uno sviluppo delle forze produttive, ma sono le forze produttive del capitale.
« La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio » {Il Capitale, i, 2, tr. it., cit., pp. 219-220).
Stando così le cose, non ha alcun senso affermare che le forze produttive dell’umanità hanno cessato di svilupparsi e che il mpc ha cominciato la sua decadenza. La questione riflette semplicemente l’incapacità da parte dei diversi teorici di riconoscere Véchappement del capitale e di comprendere per questa via il comunismo e la rivoluzione comunista. D’altra parte si può dire che, paradossalmente, Marx ha spiegato, de-'} scritto, la decomposizione della società borghese e indicato le condizioni di sviluppo del mpc, una società in cui le forze produttive potrebbero svilupparsi liberamente: spesso infatti quel che egli ha presentato come cosa che doveva essere realizzata dal comunismo, è stata realizzata dal capitale.

 Marx ha esposto una dialettica dello sviluppo delle forze produttive 4, ritenendo d’altra parte che l’emancipazione umana dipendesse dal loro pieno slancio: la rivoluzione comunista—e dunque la fine del doveva prodursi allorché quest’ultimo non sarebbe stato più « così ampio » da contenerle. Tuttavia Marx è rimasto impigliato in un’ambiguità: da una parte pensa che l’uomo è un ostacolo per il capitale, perché quest’ultimo se ne libera distruggendolo, dato che ne impedisce lo sviluppo in quanto forza produttiva; e ammette, in certi casi, che il capitale può sottrarsi alle costrizioni umane. Da qui, Marx è portato a no-stulare un’autonegazione del capitale. Essa contiene il momento delle crisi che vengono da lui individuate sia come momento di ristrutturazione del capitale (rigenerazione che implica la distruzione dei prodotti che inibiscono il processo totale e il che significa pure che il mpc deve scomparire), sia come momento effettivo della sua distruzione.
In altri termini, per quanto fornisca gli elementi necessari alla comprensione del dominio reale del capitale sulla società, Marx non è stato in grado di produrne il concetto, non è giunto a riconoscere Yéchappe-ment del capitale. Così per lui l’oro resta una barriera contro la quale il capitale deve necessariamente andare ad urtare, la contraddizione va- { lorizzazione-devalorizzazione è determinante, la spoliazione e l’estraneazione dei proletari potrebbero costituire un ostacolo al divenire del capitale.
« Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione (commercio) che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro)... » [prima di continuare la citazione, occorre sottolineare fino a qual punto siano in ritardo coloro che proclamano che il capitale attualmente non sviluppa altro che forze distruttrici. È assai chiaro che per Marx (nel 1847)il capitale è distruzione: sarà, questa, una sua affermazione costante] «... e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in "Virtù della considerazione della posizione di (questa) classe » (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, cfr. in Opere complete, v, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 37).
La grande speranza di Marx, come di tutti i rivoluzionari della sua Època, è il proletariato: è la classe che attraverso la lotta per la sua emancipazione libera l’umanità. L’opera di Marx è contemporaneamente .legazione del mpc e spiegazione del ruolo del proletariato al suo interno. Ecco perché teoria del valore e teoria del proletariato sono legate, per quanto non in maniera diretta:
« La precedente applicazione della teoria di Ricardo, la quale mostra ai lavoratori come la totalità della produzione sociale, cioè il loro prodotto, appartiene a loro in quanto sono essi i soli effettivi produttori, conduce direttamente al comuniSmo. Ma essa è—come Marx afferma nel passo sopracitato—formalmente falsa dal punto di vista economico, poiché è una semplice applicazione della morale all’economia. Secondo le leggi dell’economia borghese, la maggior parte del prodotto non appartiene ai lavoratori che lo hanno creato. Se ora diciamo: è ingiusto, ciò non deve essere, ebbene, questo non ha nulla a che vedere con l’economia. Noi ci limitiamo ad affermare che quel fatto economico è in contraddizione col nostro senso morale. Per questo Marx non ha mai fondato su questi fatti le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica progressivamente sotto i nostri occhi, delle forme di produzione capitalistiche» (Engels, «Prefazione a Miseria della filosofia », in Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 13).
|| Marx, come ha spesso ricordato Bordiga, non ha sviluppato una filosofia dello sfruttamento. Ma allora come verrà distrutto il mpc, in che consiste questa « rovina » (qui Engels nel 1884 dà ragione a coloro che ora parlano di decadenza del mpc)? La cosa non viene precisata. Sem-rebbe, quindi, che il proletariato venga conservato in quanto classe issaria alla distruzione effettiva e alla esecuzione definitiva del mpc; «fé è sottinteso che esso sarà costretto a farlo.

 Bernstein aveva colto bene questo aspetto della teoria di Marx e per tale motivo egli si è dedicato soprattutto a dimostrare che non esistevano contraddizioni che spingessero alla dissoluzione (cfr. in particolare « Il movimento della rendita nella società moderna » e « Crisi e possibilità di adattamento » in I presupposti del socialismo e i compiti della social-democrazia). Ma questo lo portava a farsi apologeta della vecchia società borghese che il movimento del capitale stava per distruggere, soprattutto a partire dal 1913. Egli non è dunque in grado di illuminarci in alcun modo sulla situazione attuale.
Nel momento stesso in cui ci ha fornito gli elementi per il superamento della teoria del valore, Marx ci ha pure dato quelli necessari al superamento della teoria del proletariato: le due teorie, collegate, si giustificano reciprocamente. Nei Grundrisse Marx esalta il mpc considerandolo rivoluzionario. Se il proletariato appariva con questa determinazione, investito di questo carattere, è cosa che sta in rapporto col fatto che esso esegue le leggi interne del mpc. E questo—diciamolo subito— non è espresso esplicitamente. Il proletariato è presente nell’analisi: viene postulato che la sua miseria deve necessariamente spingerlo a rivoltarsi, con la distruzione del mpc, esso libera quel che c’è di progressivo in quest’ultimo, cioè la tendenza allo sviluppo delle forze produttive.
Nel Capitale il proletariato non viene più considerato come la classe che rappresenta la dissoluzione della società, come il negativo in azione. Il problema è quello della classe operaia, classe in definitiva più o meno integrata alla società, che attua un riformismo rivoluzionario: lotta per l’aumento del salario, contro il lavoro eccessivo imposto ai bambini e alle donne, lotta per la riduzione della giornata lavorativa.
Alla fine del libro i, Marx spiega che la dinamica che conduce alla espropriazione degli espropriatori e all’aumento della miseria (e qui bisogna guardarsi, come giustamente fece notare Bordiga, dalla riduzione; economicistica di questo concetto) obbligherà il proletariato a sollevarsi contro il capitale.
Nel libro il, così come nella Critica del programma di Gotha, Marx non indica una reale discontinuità tra mpc e comuniSmo. C’è sempre una crescita delle forze produttive. La discontinuità consiste nell’inversione del fine della produzione {dislocata nel tempo in rapporto alla rivoluzione) il quale non deve essere più la ricchezza ma l’uomo stesso. Ma dal momento che non c’è una effettiva discontinuità fondamentale tra mpc e comuniSmo, per trasformare gli uomini è necessaria la volontà. Altrimenti, come invertire il fine? È questo il riformismo di Marx nel suo significato più ampio. La dittatura del proletariato, la fase di transizione (nei Grundrisse invece tale fase è costituita dal mpc, cosa che as-| sume grande importanza per il nostro attuale modo di porre il comuniSmo), rappresentano periodi di riforme tra le quali le più importanti sono costituite dalla riduzione della giornata lavorativa e dall’utilizzazione del buono di lavoro. A questo proposito dobbiamo notare, pur senza potervi insistere, il rapporto stretto che esiste tra riformismo e dittatura.
Il proletariato appariva necessario per collegare lo sviluppo delle forze produttive non più al polo valore, ma al polo umano. Per quanto ci sia in questo il pericolo che il mpc integri il proletariato, la crisi—e di questo abuseranno diversi marxisti—col distruggere la sua riserva lo  ricostituisce nel suo carattere rivoluzionario e il movimento di insurrezione contro il capitale torna ad essere possibile.
Ne risulta che l’opera di Marx appare in gran parte come la vera coscienza del mpc. I borghesi, e sulla loro scia i capitalisti, sulla base delle loro diverse teorie non hanno potuto produrre che una falsa cogl scienza. D’altra parte il mpc ha realizzato il progetto proletario di Marx.
Il  proletariato e i suoi teorici, restando sul piano strettamente marxista, a un certo punto si ritroveranno gli adepti del capitale come concorrenti. E il capitale, una volta giunto alla fase del suo dominio reale, non può che riconoscere l’effettività del movimento e sanzionare la validità dell’opera di Marx, ridotta perlopiù a materialismo storico. Ma quando in Germania, all’inizio di questo secolo, i proletari pensavano che attraverso la loro azione avrebbero distrutto il mpc, non si rendevano conto che in realtà essi tendevano semplicemente ad autogestirlo. La falsa coscienza si impadroniva a sua volta del proletariato.
Il materialismo storico è la santificazione dell’erranza in cui da oltre un secolo è affondata l’umanità: l’accrescimento delle forze produttive è la conditio sine qua non della liberazione. Ora, per definizione ogni aumento quantitativo si colloca nella sfera dell’indefinito, del falso infinito. Chi stabilirà 1’« altezza » delle forze produttive per determinare l’arrivo del grande tramonto? È evidente che per Marx il movimento era duplice e contraddittorio: accrescimento delle forze produttive e miseria del proletariato. Da qui doveva nascere l’urto rivoluzionario. Detto ancora in altri termini: esisteva una contraddizione tra la socializzazione della produzione e l’appropriazione privata.
Il momento che indica che le forze produttive hanno raggiunto il livello necessario perché si possa cambiare il modo di produzione è dunque quello dell’esplosione della crisi del capitalismo. Essa rivelereb- ¡t be l’angustia di quest’ultimo e la sua incapacità a inglobare nuove 3 forze produttive, rendendo manifesto così l’antagonismo tra tali forze i e le forme capitalistiche di produzione. Ora, il capitale—come abbiamo già detto—ha operato un échappement, ha integrato le crisi riuscendo ad assicurare una riserva sociale ai proletari. Per molti non resta : altro che la fuga in avanti: per alcuni le forze produttive non sono ab- : bastanza sviluppate, per altri esse hanno ormai cessato di svilupparsi. I In entrambi i casi il problema si riduce o all’organizzazione dell’avan-1 guardia—il partito—, o al ricorso a forme di pratica immediata che do-1 vrebbero far sorgere la coscienza.

Il divenire nell’erranza è anche un divenire nella mistificazione. Marx jj concepiva quest’ultima come il risultato di un rovesciamento di rap- j porto: a questo modo il capitale, che è il risultato dell’attività dei lavoratori, finisce con l’apparire esso stesso creatore. La mistificazione deriva da fenomeni reali: è la realtà in divenire ad essere mistificatrice. Vi è qualcosa di mistificato che si determina attraverso la lotta: il trionfo del capitale è quello della mistificazione generalizzata. Tuttavia, poiché a causa della sua antropomorfosi la sola realtà effettiva è questa realtà prodotta dalla mistificazione, è necessario vedere il problema in altri termini.
1)    Essendo la mistificazione stabile (nel senso che il capitale ha la tendenza a eternizzarsi) ed essendo una realtà, è vano aspettarsi una demistificazione che ricostituirebbe la verità della situazione anteriore.
2)    A causa d&\Yéchappement del capitale questa mistificazione si presenta come una realtà vera che ha perciò inghiottito la propria mi-1 stificazione divenuta inoperante. E si realizza dunque il dispotismo del capitale.
Considerare la mistificazione quale elemento operante equivarrebbe ad ammettere che gli uomini hanno certi rapporti reali che verrebbero ogni volta mistificati. In realtà la mistificazione ha operato in un mqjjj mento dato divenendo poi realtà. Essa dunque non può più esistere j che in relazione a uno stadio storico passato. Ma questo fatto non elimina l’importanza della sua conoscenza e del suo studio al fine di coni- j prendere il movimento che è approdato allo stadio attuale del mpc ; e di individuarne, nel corso del tempo, i reali protagonisti.
La realtà mistificante-mistificata, così come la realtà anteriore che è I stata mistificata, devono essere entrambe distrutte. D’altra parte la mistificazione non è « visibile » e percettibile se non da coloro che rompono (senza illudersi circa i limiti di questa rottura) con la rappresentazione del capitale. E per giungere a questo, l’opera di Marx ha senza dubbio una grande importanza. Essa presenta una grande debolezza: si tratta del fatto che Marx non arriva a spiegare la mistificazione in tutta ! la sua ampiezza a causa del mancato riconoscimento del fenomeno dell'échappement del capitale.
Prima la rivoluzione poteva realizzarsi in seguito alla eliminazione della mistificazione e il processo rivoluzionario era in qualche modo distruzione di quest’ultima; ora l’uomo è stato assorbito non soltanto nella sua determinazione classista alla quale è stato piegato nel corso dei secoli, ma anche in quanto essere biologico. Dunque, è una totalità che bisogna distruggere collocandosi al di fuori di essa: non ci si può più accontentare di una demistificazione. La rivolta degli uomini minacciati nella loro vita più immediata va al di là della mistificazione: si tratta sin dall’inizio di creare un’altra vita. La questione si pone contemporaneamente tanto al di fuori del vecchio discorso del movimento operaio e della sua vecchia pratica, così come al di fuori della critica che ne è stata fatta, la quale lo tacciava di semplice ideologia (dal momento che l’uomo stesso veniva considerato come un semplice precipitato ideologico).
La mistificazione non opera in un senso soltanto, cioè soltanto sulla società capitalistica. La teoria che la spiega non sfugge affatto alla sua influenza. La teoria marxista elevata al rango di coscienza del proletariato è infatti una nuova figura della coscienza: la coscienza repressiva. Occorre qui indicare qualcuno dei suoi caratteri lasciando da parte l’interrogativo circa il fatto di sapere se, storicamente, ogni forma di coscienza non sia stata repressiva.
L’oggetto della coscienza repressiva è il proprio fine che essa crede j ti di dominare. Poiché c’è uno scarto tra questo fine e la realtà immediata, 1 essa diventa teologica e raffina se stessa sulle differenze tra program-ma minimo o immediato e programma massimo, futuro, mediato. Ma più I il cammino del suo effettuarsi diventa lungo, più essa stessa si erige H in quanto fine e si reifica sotto la forma dell’organizzazione, diventa 1 incarnazione del fine.
Tutto il suo sforzo consiste nel far quadrare la realtà con il suo i concetto: deriva da qui tutta la sofistica a proposito del dislivello tra 1; momenti oggettivi e momenti soggettivi. Essa esiste e, tuttavia, non può

essere. Naturalmente, è per la sua incapacità a essere che deve negare e disprezzare quel che tende a manifestarsi, a essere...
Detto in altri termini: essa esiste, ma ha bisogno di certi fenomeni: e avvenimenti per essere effettiva. Trattandosi di un prodotto del passato, viene contestata da ogni avvenimento attuale: non può dunque esistere che in polemica con la realtà. Essa si costituisce come confutazione di tutto, né può persistere che cristallizzandosi nella sua forma e divenendo vieppiù totalitaria. Per essere operante, deve essere organizzata: come mistica del partito, dei consigli, che rappresentano altrettante concezioni della coscienza dispotica.
Ogni movimento immediato che non riconosca questa coscienza (e ogni racket politico pretende di essere il luogo autentico della coscienza) viene condannato. La condanna si riveste di giustificazione: carattere prematuro, impazienza di chi si è ribellato, mancanza di maturità, provocazione della classe al potere; e il tutto è completato dalle litanie sul carattere piccolo-borghese degli eterni anarchici, sull’utopismo degli intellettuali e dei giovani. La lotta è reale solo se riattualizza la coscienza di classe, e molti arrivano addirittura ad augurarsi la guerra perché tale coscienza possa finalmente ingenerarsi.
La teoria si è trasformata in coscienza repressiva e il proletariato è divenuto un mito. Non certo nella sua realtà, dal momento che in tutti i paesi in cui abbiamo soltanto un dominio formale del capitale questo proletariato esiste e costituisce la maggioranza della popolazione, e dal momento che anche nei paesi caratterizzati dalla presenza del dominio reale un gran numero di uomini e di donne si trova ancora nella situazione dei proletari del xix secolo, si tratta dei lavoratori stranieri, ecc. Ma il proletariato è divenuto un mito in quanto agente rivoluzionario, classe che deve liberare l’umanità intera e mettere a nudo, pertanto, le contraddizioni economiche e sociali. L’attività di ciascun partito e di ciascun gruppo è organizzata intorno a questo mito. Esso è all’origine di tutto: tutto comincia con la comparsa di questa classe, che se non viene definita come la sola classe rivoluzionaria che abbia operato nella storia, certo viene definita come la più rivoluzionaria. Quel che è accaduto prima viene valutato in rapporto alla nascita di questa classe e gli avvenimenti anteriori diventano secondari rispetto a quelli vissuti o determinati dal proletariato. Esso è un indice di riferimento morale. Si è salvati se si è proletari, e se non lo si è bisogna espiare la colpa di una nascita non proletaria: cosa che si compie attraverso pratiche diverse sino ad arrivare agli stages (tirocinio) in fabbrica. Ogni gruppo ha una identità rivoluzionaria solo quando è in grado di esibire uno o più « autentici » proletari: la presenza dell’uomo dalle mani callose è la garanzia, il certificato di autenticità rivoluzionaria. Il contenuto del programma sostenuto dal gruppo, la sua teoria o le sue stesse azioni, non hanno nessuna importanza: la sola cosa che conti è la presenza o l’assenza del proio. Il mito coltiva e riproduce l’antagonismo fra lavoratori intellettuali e lavoratori manuali. Molti consigliari hanno un vero culto E dell’antiintellettualismo che funge da teoria e da giustificazione. Essi I possono dire qualsiasi idiozia, ma saranno salvati: sono prolos!

Al modo stesso che, per molti, si cessa di essere rivoluzionari se si lascia il partito, così sarebbe impossibile essere rivoluzionari se non ci si ; rivendica appartenenti al proletariato e se non ci si riveste di virtù rite-; nute proletarie. La controrivoluzione finisce alle frontiere mitiche che | separano il proletariato dal resto del corpus sociale. Ogni azione viene I giustificata in nome del movimento proletario; si agisce non perché si I abbia bisogno di agire sotto l’impulso dell’odio per il capitale, ma perché | il proletariato avrebbe ritrovato la sua base di classe: l’azione e il pensiero si rivelano per interposta persona.
È così che, soprattutto dopo il 1945, il proletariato, quale classe il rivoluzionaria, è sopravvissuto a se stesso grazie al suo mito.
Uno studio storico dei movimenti rivoluzionari metterebbe in evi-denza il carattere limitato di questa classe. Lo stesso Marx rivela bene il suo carattere riformista. In ultima analisi, dal 1848 al 1917-23—dal diritto al lavoro al pieno impiego e all’autogestione da parte delle unioni proletarie—, il proletariato si ribella unicamente restando all’interno del i sistema capitalistico: e ciò tende a smentire le affermazioni fatte da Ì Marx nelle Glosse critiche marginali all’articolo « Il re di Prussia e la j; riforma sociale, vista da un prussiano ». Ma in quel momento il proleta-i; riato si manifestò realmente in quanto classe senza riserve, in quanto ? negazione totale. Fu portato a creare una rottura profonda la quale consente di comprendere quel che può essere la rivoluzione comunista e t dunque il comuniSmo. Marx allora aveva ragione. Ma il mpc, per poter I sussistere, doveva necessariamente annullare la negazione che lo corrode-S va. Il proletariato che era al di fuori della società, come Marx ed Engels f dicono ne L’ideologia tedesca, è vieppiù integrato in essa. Esso si in-| tegra nella misura in cui lotta per la sua sopravvivenza e per rafforzarsi: | più si organizza e più diventa riformista. Arriva, con il partito sociali-I sta tedesco, a formare una contro-società che alla fine viene assorbita nella società del capitale e il movimento negatore del proletariato ha, così, termine 5.
Kautsky, Bernstein, Lenin molto semplicemente hanno riconosciuto la realtà del movimento operaio allorché dichiaravano che bisognava
unirlo al movimento socialista: « Il movimento operaio e il socialismo non sono affatto identici per natura » (Kautsky).
L’affermazione tanto denigrata di Lenin, che il proletariato da solo
non può pervenire altro che a una coscienza tradeunionista, non conferma forse la verità di una classe ormai sottomessa al capitale? In
effetti, non la si può criticare che partendo dalla distinzione fatta da
Marx nella Miseria della filosofia tra classe oggetto del capitale e classe soggetto. Senza scosse rivoluzionarie il proletariato non poteva ridiventare soggetto. Il processo attraverso cui esso ridiventava tale implicava cosi una coscienza esterna, proveniente dal di fuori, che a un dato momento sarebbe stata in grado di incarnarsi nel proletariato. La coscienza che proviene dall’esterno è la forma più reificata ed estraniata della coscienza repressiva! Di conseguenza, non si tratta di riprendere il dibattito per tornare a Marx, ma di riconoscere che il ciclo della classe proletaria è ormai concluso, da una parte perché i suoi obiettivi sono ] stati realizzati, dall’altra perché essa, su scala mondiale, non è più de- ; terminante. Siamo arrivati alla fine del ciclo storico nel corso del quale : l’umanità (soprattutto la parte situata in occidente) si è trasformata in società di classi. Come abbiamo sostenuto, il capitale realizza la ne- j gazione delle classi mediante una mistificazione, nel senso che mantiene in vita gli scontri e i conflitti che si legano in modo caratteristico all’esi- j stenza delle classi. Ma si tratta di una realtà: è il dispotismo del capitale, ij Di questo dobbiamo interessarci ora, e non del passato.
In quasi tutta la socialdemocrazia veniva avvertito il divorzio tra il 1 movimento reale e riformista della classe operaia e il fine socialista. Bernstein affermava che bisognava, in definitiva, adattarsi in modo chiaro e netto, e non in modo ipocrita (alla maniera della maggior parte dei socialisti), nel senso cioè di fare dichiarazioni rivoluzionarie per dissi*! mulare i compromessi6. Parallelamente veniva sempre più avvertita

la difficoltà di definire e delimitare la classe proletaria. Si trattava di una difficoltà tale che fin dall’inizio del secolo quasi tutti i rivoluzionari cercarono di definire la classe attraverso un fenomeno di coscienza: Rosa Luxemburg, Pannekoek, in modo diretto; Lenin, Trotzky, in maniera indiretta attraverso il partito, ecc. La rivoluzione russa rese ancora più urgente la necessità di precisare quel che era la classe proletaria: da qui i tentativi di Korsch e soprattutto di Lukàcs (Storia e coscienza di classe). Più tardi Bordiga affermò che la classe deve essere definita attraverso il modo di produzione che tende a instaurare. Non può dunque essere classe « per sé » che a partire dal momento in cui essa agisce in funzione di questo fine e nella misura in cui riconosce il suo programma, ove questo modo di produzione viene descritto. Essa esiste quando esiste il partito, perché soltanto con quest’ultimo il programma può avere un’effettualità. « Noi abbiamo ancora bisogno di un oggetto, il partito, per prevedere la società comunista » (Bordiga, Riunione di Milano 1960). Nella misura in cui gli uomini e le donne sono in grado di muoversi verso il comuniSmo, come è possibile constatare attualmente nei giovani, ci si rende i conto che non c’è più bisogno dell’oggetto partito.
In conclusione, tanto per i sostenitori del partito quanto per i fau-| tori dei consigli il problema dell’azione si ridurrebbe il più delle volte a ! trovare un mezzo, diretto o indiretto, per rendere il proletariato recetti-j vo alla sua propria coscienza. Perché esso è se stesso soltanto quando la |; sua coscienza lo rende tale.
Così, quel che è crollato tra il 1913 e il 1945 è il riformismo rivolu-f zionario: costruire il socialismo in continuità col mpc, sulla sua base Ì diretta. È la fine di chi si illuse di poter orientare lo slancio delle forze i; produttive in un’altra direzione rispetto a quella che esse avevano pre-I; so. In effetti si può essere d’accordo con Marx nell’affermare che do-§ po il 1848 il comuniSmo era possibile dal momento che, appunto, con l’ir-I ruzione del mpc tutte le limitazioni sociali e naturali erano state spez-I zate, rendendo possibile un libero sviluppo. Ma la mentalità degli uomini e le loro rappresentazioni erano tali che non poterono di fatto concepire né intravedere simile divenire, parassitati com’erano dal movimento millenario del valore, o anche troppo assoggettati alle limitazioni delle loro antiche comunità pervertite per poter intraprendere una nuova strada che consentisse loro di realizzare un’altra comunità. Marx ed Engels stessi, in definitiva, concepirono il mpc quale momento necessario e inevitabile che gli uomini, nella loro totalità, dovevano conoscere e vivere. Soltanto le rivolte dei populisti russi e la loro volontà di non intraprendere la via capitalistica fecero comprendere a Marx il suo errore. Ma non fu sufficiente. A partire dal xix secolo, con la giustificazione della teoria marxista (teoria del proletariato), l’umanità sprofondò pienamente nella sua erranza-, lo sviluppo delle forze produttive.
Se non possiamo più accettare questa teorizzazione di Marx sul ruolo    delle forze produttive, possiamo però essere d’accordo con lui facendo un percorso diverso. Il capitale riduce gli uomini in schiavitù in nome degli uomini stessi, perché il capitale si è antropomorfizzato. È chiaro che si tratta del dominio della morte, poiché è sempre il loro essere divenuto che domina, e che essi contemplano. È un processo che ricomincia sempre daccapo: il capitale penetra il pensiero e la coscienza, e distrugge gli uomini così come erano stati prodotti da secoli di società di classe. La perdita di sostanza degli uomini è la perdita del loro vecchio essere, risucchiato dal capitale. Poiché il processo ha toccato il fondo, il capitale deve ora attaccarsi non più alla dimensione passata dell’umanità, ma alla sua dimensione futura: deve conquistare l’immaginazione. L’uomo viene dunque spogliato e tende a essere ridotto alla sua dimensione biologica. Il fenomeno arriva alle radici. In altri termini, lo sviluppo delle forze produttive si presenta come se fosse stato necessario alla distruzione dei vecchi schemi, dei modi di pensiero, delle rappresentazioni arcaiche che limitavano gli uomini (questa distruzione viene ora interpretata da filosofi come Foucault). Messi in causa j nella loro esistenza puramente biologica, gli esseri umani cominciano a sollevarsi contro il capitale: è partendo da qui che tutto può essere j riconquistato attraverso una creazione generalizzata. Ma questo divenire non è semplice e univoco. Il capitale può ancora trarre profitto dalla creatività degli esseri umani, rapir loro l’immaginazione e risostanzializ-zarsi. Vale a dire che la lotta è di gran momento e conferisce tutta la sua| profondità alPalternativa: comuniSmo o distruzione della specie umana. Né si deve dimenticare che nel corso dell’erranza diversi elementi rivoluzionari cercarono una via d’uscita, che diverse possibilità furono in qualche modo bloccate e che ora esse possono manifestarsi7.
Si deve uscire dall’erranza e distruggere la coscienza repressiva che inibisce il divenire al comuniSmo. A tal fine è essenziale non percepire più quest’ultimo quale prolungamento del mpc e non credere più che basti sopprimere il valore di scambio e far trionfare il valore d’uso, perché come sappiamo questa dicotomia oggi non significa più nulla. D’altra parte essa è ancora legata al valore, e centrata sul principio di utilità e non di produttività. Legata al dominio diretto sugli uomini, è inseparabile dalla proprietà privata.
Il  comuniSmo non è un nuovo modo di produzione 8, ma l’affermazione di una nuova comunità. È dunque una questione di essere, di vita, se non altro perché si verifica uno spostamento fondamentale, dall’attività prodotta all’essere vivente che l’ha prodotta. Se fino a questo momento uomini e donne sono stati alienati da questa produzione, ora intendono non già signoreggiarla ma creare tra di loro nuovi rapporti che determineranno tutt’altra attività.
Il comunismo non è neppure una nuova società 9. Questa nasce con il fenomeno di assoggettamento di alcune etnie da parte di altre o conla formazione delle classi. La società è l’insieme dei rapporti sociali, i quali si costituiscono subito come intermediari a livello dispotico. L’uomo in società è l’uomo schiavo della società.
Col comunismo finisce la divisione del lavoro su cui ha potuto innestarsi il movimento del valore (che esso stimola ed esalta a sua volta), l’edificazione delle classi e delle caste. Il comunismo è innanzitutto unione. Non è dominio sulla natura, ma riconciliazione con essa: la qualcosa implica che essa venga rigenerata. Gli esseri umani non possono più considerarla semplicemente come un oggetto per il loro sviluppo, una cosa utile, ma come un soggetto (non in senso filosofico) affatto separato da essi per il semplice fatto che la natura è in essi. Si verifica una naturalizzazione dell’uomo e un’umanizzazione della natura (Marx), come pure la fine della dialettica soggetto-oggetto.

Ne deriva una distruzione dell’urbanizzazione e la formazione di molteplici comunità ripartite sulla terra; e questo implica la soppressione della monocoltura, altra forma della divisione del lavoro, e una trasformazione completa del sistema delle comunicazioni; i trasporti saranno considerevolmente diminuiti. Il modo di vita comunitario è il solo che possa permettere all’uomo di dominare la sua riproduzione, limitando l’aumento (attualmente demenziale) della popolazione, senza ricorrere a pratiche ignobili: distruggere gli uomini e le donne.
Il dominio di un gruppo umano sull’altro, la società di classi, hanno la loro origine nella sedentarizzazione dell’uomo. Noi viviamo ancora con i miti ingeneratisi al momento di questa fissazione in un luogo qualsiasi della nostra terra-madre: tali il mito del paese natale, il mito dello straniero: miti che soffocano la visione del mondo e che mutilano. È evidente che non si tratterà di tornare per reazione a un nomadismo quale poteva essere praticato dai nostri lontani avi raccoglitori: gli uomini e le donne avranno un nuovo modo di essere al di là del nomadismo e della sedentarietà. Quest’ultima, accompagnata all’inattività fisica, è la fonte principale di quasi tutte le malattie somatiche e psichiche degli esseri umani attuali. Una vita attiva e non fissata risolverà tutte le difficoltà senza medicina e senza psichiatria.
Il passaggio al comunismo implica una trasformazione della tecnica, che non è una cosa neutra, dal momento che è determinata dal modo di produzione. In particolare in occidente i diversi modo di produzione hanno sempre più separato gli uomini dalla tecnica, che in origine non era che una modalità dell’essere umano. Rivendicare una tecnologia dolce significa rivendicare una tecnologia che sia di nuovo quella sorta
di prolungamento dell’umano e non più una cosa autonomizzata al servizio di un essere oppressore 10.
Nel comunismo gli esseri umani non possono più essere definiti come dei semplici utenti: questo sarebbe il comunismo concepito come un paradiso terrestre in cui tutti possono disporre dell’esistente con una tale immediatezza che l’uomo non si distinguerebbe in nulla dalla natura {l’uomo, come osservò Hegel a questo proposito, sarebbe un animale). Nel comunismo gli esseri umani sono creatori, produttori, utenti: il processo totale viene ricostituito a un livello superiore, e questo vale per ogni essere individuale. Ugualmente, nelle relazioni interindividuali l’altro non è più considerato secondo l’utilità, non c’è più nessun comportamento utilitaristico. C’è la riconciliazione dei sessi, i quali, pur restando separati, perderanno le loro differenze e le loro rigide opposizioni prodotte da un antagonismo millenario.
Ecco alcune caratteristiche sufficienti per capire come si può concepire il movimento di accesso alla comunità umana
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Siamo tutti schiavi del capitale e la liberazione comincia nel momento in cui rifiutiamo di percepirci secondo le sue categorie, cioè come proletariato, componenti delle nuove classi medie, capitalisti ecc. Questo rifiuto significa che noi abbiamo anche una percezione dell'altro —nel suo movimento di liberazione—al di fuori di queste categorie. Allora il movimento di riconoscimento degli esseri umani può cominciare. Evidentemente questo non è che l’inizio del movimento di liberazione, sempre esposto d’altra parte al rischio del fallimento. Non rendersene conto significherebbe negare la forza del capitale: si tratta di una dinamica che dobbiamo cogliere. Siamo tutti schiavi e il nostro fine non è quello di diventare padroni, sia pure senza schiavi, ma quello di abolire ogni dialettica servo-padrone. Non si può realizzare questo obiettivo né col costituire delle comunità le quali, nel consueto isolamento, non sono mai di ostacolo al capitale (che può inglobare facilmente in quanto forma di un possibile, in quanto aspetto deviante rispetto alla propria normalità: cosa che favorisce l’assunzione di quest’ultima proprio in quanto tale), né col coltivare il proprio essere individuale in cui, finalmente, si troverebbe l’uomo autentico. In realtà queste modalità devono essere intrecciate: cogliersi in quanto esseri umani, senza rivestirsi di una qualsiasi determinazione, significa già togliersi di dosso la gogna della società di classe: tendere alla comunità è assolutamente necessario e riaffermare l’individualità (soprattutto nella sua forma temporale) significa rifiutare l’addomesticamento. S’intende che in quanto primo momento di ribellione questo è ancora insufficiente, perché l’essere umano è individualità e Gemeinwesen. Esso ha potuto essere ridotto all’inespressività dello stato attuale solo perché è stato spogliato della sua Gemeinwesen, cioè della possibilità che ha ciascun uomo di comprendere in sé l’universale, l’insieme delle relazioni umane che si danno nella totalità del tempo. Le diverse religioni, le filosofie, le diverse teorie non sono che dei surrogati di questa componente essenziale dell’uomo. Poiché il comuniSmo è la morte dell’identico, della ripetizione del medesimo, tutti gli esseri si manifesteranno nella loro diversità; essi affermeranno ciascuno la propria Gemeinwesen. Questo implica che fin da ora si rifiuti il dispotismo di una religione, di una filosofia, di una teoria.
Il rifiuto di essere manipolati da una teoria non significa il rigetto di ogni riflessione teorica. Anzi, il contrario: ma tutto ciò postula l’insufficienza dell’atto teorico. La teoria può rivendicare la riconciliazione senso-cervello, ma resta all’interno dei limiti di questa separazione: quel che bisogna affermare è la vita totale, cioè l’insieme delle manifestazioni l’essere totale unificato. Certo è sempre necessario operare attraverso l’aiuto degli apporti di Marx, per esempio, ma diventa sempre più stupido proclamarsi marxisti. Inoltre—e questo ci riporta a quel che abbiamo detto a proposito della coscienza repressiva—la teoria può diventare un semplice alibi per l’inazione. A parte il fatto che il rifiuto dell’azione può essere ampiamente giustificato, la separazione dalla realtà tuttavia conduce spesso a non saper più cogliere in seguito i fenomeni nuovi che la travagliano. A quel punto la teoria, piuttosto che consentire un’effettiva ripresa di contatto con la realtà, diventa un fattore di separazione e di allontanamento che si traduce alla fine in una posizione falsa, in una caduta fuori dal mondo. Stare a osservare è difficile, soprattutto quando non si vuole ammettere che gli altri possano arrivare alla teoria senza la nostra mediazione personale, quella del nostro gruppo o del nostro partito. Poiché—e su questo punto occorre ancora insistere—la teoria come la coscienza ha bisogno di un’oggettivazione, può verificarsi che la teoria si configuri in forme di racket, anche se (da quando abbiamo denunciato i racket) essa viene prodotta a un livello esclusivamente individuale. La teoria, da parte del soggetto che si pretende rivoluzionario, viene concepita come un dispotismo: tutti la devono riconoscere.
Dopo più di duemila anni di dominio dello spirito sul corpo, è evidente che la teoria è ancora manifestazione di questo dominio.
Quel che diventa determinante è la totalità della vita. Le diverse produzioni anteriori—arte, filosofia, scienza—sono parcellari, e in definitiva testimoniano dei vari momenti della vasta spoliazione degli esseri umani e del tentativo, al tempo stesso, di porvi un rimedio. Non si tratta più di realizzare l’arte o la filosofia (il capitale a suo modo l’ha già fatto), ma di conquistare e di creare un altro mondo, un mondo in cui tutte le potenzialità biologiche della specie possano espandersi. In un movimento così vasto, è inutile volersi presentare quali detentori della verità. Innanzitutto perché la verità, come il valore, implica necessariamente una misura, un tallone (étalon), un equivalente generale, una normalità e dunque uno Stato-, e poi perché la verità non è mai che una verità. L’inflazione storica di questo concetto è parallela alla distruzione sempre più profonda degli esseri umani. Non si può proporre che una via diversa in cui il gesto e la parola, l’immaginazione e tutta la sensibilità degli esseri umani non saranno più incatenati: una via in cui si realizzerà l’unione del cervello e del senso, la sola che possa eliminare ogni fissazione della follia. È evidente che questo può essere conquistato soltanto con la distruzione del mpc. Soltanto l’umanità intera, vista nel tempo, si pone in termini antagonistici nei confronti del capitale. Ma essa deve subire un profondo rivoluzionamento per essere all’altezza di questo compito: e questo processo è in atto con la produzione di rivoluzionari.
La comparsa della rivoluzione in tutti i domini della nostra vita, spesso porta alcune persone a privilegiare lo spazio in cui ne hanno avvertito l’insorgenza.
La rivoluzione non parte da un punto qualsiasi del nostro essere, né dal corpo, né dallo spazio, né dal tempo. Perché la nostra rivoluzione —in quanto tende a ricostituire la comunità— è necessaria a partire dal momento in cui sono state distrutte le antiche comunità. La riduzione più pericolosa fu senza dubbio quella che riconduceva la rivoluzione comunista a uno sconvolgimento che avrebbe dovuto risolvere soltanto le contraddizioni ingenerate dal mpc. La rivoluzione comunista infatti deve risolvere tutte le vecchie contraddizioni delle società di classe inglobate nel capitale, tutte le contraddizioni sorte fra comunità più o meno primitive e movimento del valore di scambio e che sono attualmente inglobate nel movimento del capitale (Asia e soprattutto Africa): oltre a ciò, il movimento rivoluzionario è rivoluzione della natura, accesso al pensiero, alla padronanza dell’essere attraverso la possibilità di utilizzazione dei centri prefrontali11 che si è concordi nel riconoscere quali supporti della immaginazione. La rivoluzione ha una dimensione biologica e dunque cosmica, considerando il nostro universo limitato (sistema solare). Cosmica anche nel senso delle antiche filosofie e delle mistiche. Questo significa che questa rivoluzione non è soltanto l’oggetto di una passione della nostra epoca, ma anche di quella di milioni di uomini, partendo dai nostri lontani predecessori che si ribellarono al movimento del valore di scambio che concepivano come una fatalità, e passando attraverso Marx, attraverso Bordiga, i quali, nella loro dimensione profetica, testimoniarono di questa passione inestinguibile volta a fondare una nuova comunità, una comunità umana. Pretendere di situare la rivoluzione è come volerle fissare un determinato livello. Saint-Just affermava che la rivoluzione potrà concludersi soltanto con la felicità, mostrando così che è improprio definire gli uomini sulla base dei dati puramente storicomateriali di una data epoca. L’uomo non è mai un puro esser-ci. Non può essere che in un superamento, e non già essere semplicemente ciò che deve essere superato (Nietzsche). Strutturalmente e biologicamente parlando, l’uomo è superamento perché è un essere iperpotente. Detto in altri termini, gli esseri umani sono esploratori del possibile, che non si accontentano di ciò che è immediatamente realizzabile, soprattutto se questo viene loro imposto. Essi perdono questa passione, questa sete di creazione (che cos’è infatti l’inventariare il possibile se non invenzione?), quando sono avviliti, estraniati, tagliati via dalla loro Gemeinwesen, e dunque mutilati e ridotti a semplici individui. Non è che col dominio reale del mpc che l’uomo viene davvero svuotato.
Tutte le rivoluzioni della specie (Bordiga) sono rivoluzioni che tendono a procedere al di là del presente, al di là di ciò che lo sviluppo delle forze produttive può consentire. Questo al di là del possibile costituisce la vera continuità tra le generazioni umane, così come la prospettiva del comuniSmo concepito come distruzione delle classi, dello scambio, del valore, costituisce la continuità tra i diversi rivoluzionari: è quanto, sulla scia di Marx, abbiamo chiamato il partito storico12.
La lotta contro questa riduzione dell’ampiezza della rivoluzione è già una lotta rivoluzionaria. Il lettore non dovrà stupirsi se per sostenerla facciamo appello ad autori classicamente etichettati come religiosi, mistici ecc. Quel che ci interessa è la riappropriazione di una Gemeinwesen (di cui fanno parte anche gli esseri passati) che può veramente realizzarsi soltanto attraverso l’unificazione della specie: e tale unificazione può essere concepita soltanto avvertendo nel corso del tempo l’aspirazione, il desiderio, la passione e la volontà di comunità. L’essere umano può essere contemporaneamente Gemeinwesen solo se l’umanità vive in comunità. Da quando ha avuto luogo la disgregazione, è esistita la necessità di ricomporre l’unità. La cosa in occidente avvenne in maniera mediata e coercitiva: l’individuo fu definito dallo stato, il sapere divenne uno strumento di gerarchizzazione e di giustificazione dell’ordine stabilito, si entrava nel circolo vizioso pratica-teoria.
La rivoluzione comunista è una rivoluzione totale. Rivoluzione biologica, sessuale, sociale, economica, sono soltanto delle determinazioni particolari: privilegiarne una significa mutilare la rivoluzione, la quale può essere tale solo in quanto è tutto.
Non si può percepire la rivoluzione comunista se non cogliendola attraverso la storia degli uomini e attraverso la loro paleontologia, così come attraverso quella di tutti gli esseri viventi. A questo modo ci si rende conto che se questa rivoluzione è necessaria già da molto tempo, essa è realizzabile soltanto oggi. Prima era possibile, ma non ineluttabile. Esistevano ancora altre vie « umane », nel senso che tali vie consentivano ancora uno sviluppo umano, e in particolare esse permettevano l’esteriorizzazione delle forze umane. Oggi quasi tutto è stato esteriorizzato ed estorto dal capitale che traccia distintamente l’altra via, al di fuori della rivoluzione comunista: la negazione totale degli esseri umani. Bisogna dunque comprendere il nostro mondo attuale, vale a dire il dispotismo del capitale e il movimento di ribellione che si è lanciato contro di esso. Questo atto di comprensione, che si realizza non solo in forma intellettuale ma anche attraverso i sensi (la ribellione è in gran parte ribellione del corpo), non può compiersi che rigettando l’erranza e la coscienza repressiva.

Osservazioni a proposito di un cammino

Fin dall’inizio abbiamo insistito sul carattere aclassista e comunitario della rivoluzione comunista e del movimento che vi tende, cercando di superare il quadro ristretto di una teoria classista. Dalla sinistra comunista d’Italia il partito non fu concepito come un gruppo immediato, limitato nello spazio e nel tempo, né soprattutto chiuso alle diverse correnti presenti in seno al proletariato dopo la sua comparsa nella storia; si trattava di una concezione non racketista, anche se inevitabilmente doveva subirne il peso e soccombervi. Ecco perché in concordanza con Bordiga—per indicare che la teoria non doveva essere attribuita ad alcun individuo, al fine di poter situare in modo rigoroso una impersonalità concepita di fatto come una somma di personalità, e dunque derivante da apporti individuali, per essere compatibile con la rivoluzione anonima guidata da nessun grande uomo o messia—abbiamo parlato di teoria del proletariato, ultima classe della storia.
Avvertendo tuttavia la contraddizione classista-aclassista, dopo il 1961 13 abbiamo affermato che il partito doveva essere il partito-comunità (Gemeinwesen). La questione centrale della comunità fu ripresa altrove nel corso dello studio sul movimento operaio francese. Ne II capitolo VI inedito del Capitale e l’opera economica di Karl Marx15, mostriamo quella che a nostro avviso è la dimensione più totale e totalizzante dell’opera di Marx, quando la si legga alla luce del problema della comunità e del movimento del valore. Lo stesso Capitale appare come parte incompiuta di un’opera ancora più vasta che è possibile ricostruire nel suo progetto totale, partendo dai manoscritti pubblicati da alcuni anni a questa parte. Si può constatare così che non è possibile comprendere il capitale nelle sue determinazioni storiche se ci si limita ai due o tre secoli che ci precedono. Il primo libro del Capitale fornisce tanto uno studio sull’origine in occidente di questo modo di produzione, quanto indicazioni fondamentali relativamente al suo accesso al dominio reale nel processo di produzione e a quello formale sulla società, così come pure indicazioni sul suo divenire. Il movimento di mistificazione inerente al divenire del valore di scambio comincia assai prima del mpc e il suo compimento non viene descritto da Marx, sebbene ne abbia tracciato un abbozzo. D’altra parte ci si rende conto che con il credito, con il capitale fittizio, il capitale può dominare la totalità dell’attività umana e che a questo riguardo non è più soltanto il proletariato, cioè la classe che produce il plusvalore, ad essere essenziale per esso, ma l’insieme dell’umanità. Da qui la ripresa da parte nostra dell’espressione di Marx, la classe universale, per designare l’ampliamento in questione. Tuttavia la rottura attualmente posta dalla rivendicazione rivoluzionaria ed espri-mentesi in una più accentuata radicalità—non si tratta cioè di migliorare la vita mettendo a profitto gli apporti del capitale, ma di rovesciare tutto—ci ha portato a individuare l’ambiguità presente in Marx tra la sua posizione di rivoluzionario radicale assunta nelle opere della « giovinezza » e in quelle inedite, e ciò che abbiamo chiamato il suo riformismo rivoluzionario. Infine, una riflessione sempre più appassionata intorno alle stesse basi della rottura radicale che viene realizzandosi e intorno all’oppressione sempre più intensa del capitale ci ha portato a delimitare la dimensione biologica della rivoluzione, non semplicemente sul piano marcusiano—peraltro assai importante in rapporto alla necessità di una nuova sensibilità—, ma su un piano paleontologico.
Da allora ci siamo trovati ad aver sviluppato una serie di pensieri e di posizioni di Marx in maniera più o meno autonoma, e siamo venuti perdendo progressivamente una coerenza che non poteva essere salvata se non a prezzo di un bricolage che rischiava di esaurire presto i suoi artifici. Avremmo potuto sviluppare dunque certi aspetti particolari, ma, nella misura in cui tutta l’opera di Marx oppone resistenza a una sua traduzione nella realtà attuale, era necessario, sempre in relazione a un’analisi del mondo moderno, condurre una nuova indagine sul nostro proprio cammino e sulla nostra lotta.
In qualche modo abbiamo sistematizzato l’opera di Marx che ha valore per quanto riguarda il dominio formale del capitale sulla società, e abbiamo evidenziato tutti gli elementi che consentono di definire il dominio reale: e tuttavia ci siamo impigliati nella sua ambiguità, nel senso che non siamo stati in grado di spiegare esaurientemente Pautonomiz-zazione del capitale. Questo spiega perché ne II capitolo VI inedito del Capitale e l’opera economica di Karl Marx, così come ne La rivoluzione comunista. Tesi di lavoro, ci siamo riferiti al suo riformismo rivoluzionario, sviluppando una concezione del comunismo che era possibile solo sulla base del dominio formale del capitale. Da qui il dislivello, lo squilibrio della nostra posizione teorica: un’affermazione assai radicale per quanto riguarda il capitale (il suo costituirsi in comunità materiale, la scomparsa delle classi) combinata con una posizione conservatrice legata al mantenimento dello schema classista, il quale ci impediva di riconoscere pienamente 1 'échappement del capitale e di cogliere il comunismo nei termini in cui ci si presenta ora.
Ma, attenzione. Questo non vuol dire che si devono abbandonare alcune categorie (classe universale, capitale fittizio) per il fatto che sono caratteristiche di momenti storici particolari. Le abbandoniamo in quanto categorie inattuali e inadatte a caratterizzare il divenire presente del capitale. Il capitale fittizio è insufficiente per designare il modo in cui il capitale si manifesta, poiché il concetto non esprime l’autonomizza-zione totale a cui quest’ultimo è pervenuto: esso consente soltanto di render conto della sua immaterialità attraverso cui tutto il proprio antico essere si riordina. La classe universale può spiegare un momento dato del movimento oggettivo degli uomini dominati dal capitale, ma non può esprimere il modo secondo cui, oggi, gli uomini vengono definiti da quest’ultimo. Vale a dire, il modo che condiziona la loro impossibilità di raggrupparsi se non attraverso la costituzione di racket, di percepirsi in insiemi di vasta ampiezza quali potevano essere le classi, e dunque la perdita di determinazioni e la spoliazione di un universo di classe in cui l’individuo poteva ancora sentirsi sicuro. La perdita dell’identitàdi classe è stata percepita come una disgrazia tanto da parte di coloro che hanno subito il fenomeno quanto da parte di coloro che lo hanno constatato. Diversi autori, Marcuse e Thalheimer 17 tra gli altri, sostennero che il fascismo fu un movimento di declassati, e in realtà, all’inizio del secolo, il movimento del capitale aboliva i limiti tra le classi, distruggendo il loro sostrato materiale. Non potendo più riconoscersi nella comunità limitata ma rassicurante della classe, gli individui si sono abbandonati a corpo morto nel movimento che prometteva loro la formazione di una Volksgemeinschaft, di una comunità popolare: cosa di cui la maggior parte degli autori mostra di rammaricarsi. Ma invece di desiderare la riaffermazione di una classe rivoluzionaria e invece di discutere sull’illusione di una comunità in seno al capitale, avrebbero dovuto comprendere positivamente la completa scomparsa delle classi e la formazione della comunità umana grazie alla distruzione del mpc.
Abbiamo voluto operare all’interno dell’opera di Marx, e in questo senso siamo d’accordo con Kostas Axelos:
« Prima di intraprendere la critica di Marx e prima di tentare di superarlo, bisogna comprendere quel che dice. Il dialogo col suo pensiero e il confronto del suo pensiero con la realtà storica mondiale presuppongono una lunga meditazione rispetto a tutto ciò che è e che si fa. Perché la realtà non si lascia separare così agevolmente dall’idea, né la teoria dalla pratica » (Marx penseur de la technique, ed. de Minuit, p. 302; tr. it. Marx pensatore della tecnica, Sugar, Milano 1963, p. 399).
Come regola generale indicheremo i diversi autori che hanno esaminato prima di noi alcuni problemi che affronteremo nel corso del nostro cammino di superamento, non tanto in vista di un recupero o di una polemica, né per esprimere un giudizio di valore, quanto piuttosto per testimoniare di un tentativo multiplo, di uno sforzo frequentemente ripreso di percepire il movimento attuale nella sua dimensione reale.
Col prendere seriamente questo tentativo ed evitando di barare quando le difficoltà portano a mettere brutalmente in dubbio qualcosa che sembrava essere assai stabile, si finisce, sulla base stessa dei chiarimenti teorici di Marx, col mettere inevitabilmente in causa lo schema classico della rivoluzione secondo cui questa può prodursi soltanto se il proletariato si solleva contro la società del capitale.
Nei precedenti numeri di Invariance, si è tentato di colmare il ritardo teorico concepito come effetto di una cattiva comprensione dell’opera di Marx e di una sua parziale utilizzazione. La ripresa del suo comportamento teorico ci ha permesso di colmare effettivamente questo iato, anche se la cosa non ci ha consentito di sollevarci al livello della nostra epoca. Per la qual cosa bisogna comprendere le contraddizioni che le sono proprie, e questo significa pure comprendere quelle di Marx, considerato nella sua totalità.

maggio 1973

1 Cfr. il libro di D. Verres, Le discours du capitalisme, ed. L’Herne. Elementi in-| teressanti si trovano anche nelle opere di Baudrillart, Le système des objets e Pour | une critique de l’économie politique du signe, Ed. Gallimard. (Cfr. la tr. it. presso Bompiani, 1972 e Mazzotta, 1976).

2 Abbiamo affrontato lo studio dell’autonomizzazione del capitale ne Le VI cha-pitre inédit du Capital et Voeuvre économique de Marx (1966); tr. it. Il capitale totale. Il capitolo VI inedito del Capitale e l’opera economica di Marx, Dedalo, Bari 1976, tr. it. di Giovanni Dettori e a cura di Nicomede Folar (Domenico Feria), in particolare nelle note che abbiamo aggiunto nel 1972.
Ritorneremo più ampiamente su questo argomento in un prossimo articolo, appoggiandoci da una parte a Marx, per mostrare che egli ha posto il fenomeno senza riconoscerlo nella sua totalità, e dall’altra facendo un’analisi del mpc attuale. Questo ci porterà a ritornare pure sulla definizione del lavoro, sul suo ruolo ecc., nel divenire dell’umanità. Tale argomento è stato già affrontato da Gerard Brulé nell’articolo apparso nel n. 2, u serie di Invariance, « Le travail, le travail productif et les mythes de la classe ouvrière et de la classe moyenne » (Il lavoro, il lavoro produttivo e i miti della classe operaia e della classe media).
Si può dire globalmente che il concetto di lavoro è riduttivo: esso non ingloba che una parte dell’attività umana, ma la rivendicazione della sua abolizione arriva a distruggere il resto di questa attività, cosa che costituisce un’esigenza utopistica del capitale. La rivendicazione comunista si pone sul piano della vita umana, di cui l’attività rappresenta ancora una modalità d’espressione. L’amore, la meditazione, la fantasia, il gioco e tante altre manifestazioni degli esseri umani vengono estro-messe dal campo della vita allorché si acconsente a rinchiuderle nel concetto di lavoro. Inoltre, la definizione di Marx secondo la quale il lavoro è un’attività che trasforma la natura o la materia a questo o a quel fine, mostra che il concetto di natura non può più essere ormai accettato tale e quale. In periodo di dominio del capitale, l’uomo non è più in contatto con la natura (soprattutto nel corso del suo lavoro): tra questa e l’uomo c’è il capitale, o meglio: il capitale diventa natura.
Nelle cosiddette opere « filosofiche », invece, Marx pone in maniera netta l’attività totale dell’uomo e afferma che il comuniSmo non può tradursi semplicemente nella liberazione del lavoro. Questa posizione non verrà meno del tutto nel resto della sua opera e sopravviverà accanto a quella « riformistica rivoluzionaria » contenuta nel Capitale. Per i marxisti, in seguito, la questione si è semplificata: essi hanno puramente e semplicemente esaltato il lavoro. In Trotzky, per esempio, non c’è più traccia del complesso discorso di Marx, ma ostentazione del discorso dell’addomesticamento, del discorso del capitale: « Tutta la storia dell’umanità è storia

dell’organizzazione e dell’educazione dell’uomo sociale al lavoro, al fine di ottem da lui una produttività più alta» (Terrorisme et Communisme, 10/18, Paris 1963; p. 218).

3 Questo divenire è esaltato e descritto molto bene da Alvin Toffler, Le choc du futur, Ed. Denoel-Gonthier.

 4 Questo esige uno studio dettagliato che verrà a comprendere, d’altra parte, J quello indicato nella nota 2. Nell’articolo che segue abbiamo sfiorato l’argomento, perché la nostra intenzione era quella di fornire già da ora i primi risultati cui : siamo pervenuti. Vedremo in particolare in quale momento si situa questa decadenza dell’umanità, in che modo si è espressa ecc. Indicheremo d’altra parte il lega*; ; me stretto che esiste tra il movimento del valore e la dialettica compresa quella che compare nel discorso marxiano sulle forze produttive. La fine del movimento cltì ? valore e di quello del capitale implica la fine di un modo di rappresentazione, distruggendo l’autonomizzazione di quest’ultima. La dialettica marxiana in particolare verrà del tutto superata.

5    Questo prova l’impossibilità di conservare un discorso e un comportamento!« classista e di conservare la fondamentale tesi aclassista della necessaria autonegazion|jl del proletariato.

6    Cfr. a questo proposito il libro di H. Mueller, del 1892, Der Klassenkampf der deutscben Sozialdemokratie, Verlagskooperative, Heidelberg-Frankfurt-Hanno>i,p
I ver-Berlin, 1969 (La lotta di classe nella socialdemocrazia tedesca), il quale ci H mostra chiaramente la dualità-duplicità di uomini come Bebel, che era a destra li. sulla tribuna parlamentare e gauchiste nelle riunioni operaie, e che affermava, da un lato, che occorreva aspettare ancora molto tempo prima di poter realizzare i K principi del socialismo, proclamando, dall’altro lato, il prossimo avvento dello stesso socialismo. Questo libro è interessante anche perché vi si trovano posizioni Biche saranno più tardi quelle del kapd (Partito comunista operaio tedesco).

7 Nella storia non c’è una irreversibiltà assoluta. Possibilità che si sono manifestate migliaia o centinaia di anni fa non sono scomparse per sempre. La storia non è un Moloch divoratore di possibilità e che condanna il divenire umano a una spoliazione inevitabile e irrimediabile. La storia, in tal caso, non sarebbe che una giustificazione del divenuto, cosa a cui molti vogliono ridurla facendone il peggiore dei despoti.
La filosofia di Hegel con la sua dialettica del superamento (Aufhebung), e dunque del superamento che nega e conserva al tempo stesso, costituì un tentativo di salvare quel che gli uomini avevano prodotto nelle epoche precedenti. Hegel è stato obnubilato da una problematica della perdita della realtà, della molteplicità di manifestazioni e di possibilità, ecc., donde l’importanza che in lui acquista il ricordo (cfr. in particolare il capitolo su « Il sapere assoluto » de La fenomenologia dello spirito).
Il movimento del capitale, invece, abolisce il ricordo delle fasi precedenti (mistificazione e magia), così come la memoria delle fasi dell’umanità, al fine di porsi proprio per ciò che esso è al livello più sviluppato del suo essere, e cioè una « forma reificata» (cfr. Marx-Engels, Werke, t. 26, 3). («Profitto, interesse e l’econo-nomia volgare » in Storia delle teorie economiche, in, Einaudi, Torino 1958, pp. 473-525).

8 Il concetto di modo di produzione non è veramente valido che nel modo di produzione capitalistico, così come il concetto di classe non è veramente operante-operativo che nella società borghese. Uno studio più attento su tale questione verrà fatto in rapporto ai problemi indicati nelle precedenti note 2 e 4. In Marx il concetto di produzione è più o meno ricco di determinazioni, che si impoveriscono allorché si passa dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e dall’Ideologia tedesca al Capitale. La cosa sta in stretta relazione tanto con il concetto di natura quanto con una certa concezione dell’uomo. Vale a dire che abbiamo a che fare con un « dato » complesso che non è possibile prendere in esame se non in rapporto all’esistenza delle comunità comuniste iniziali e alla loro dissoluzione. La separazione dell’uomo dalla sua Gemeinwesen è certamente una spoliazione. L’uomo lavoratore è colui che ha perduto un buon numero di determinazioni che formavano un tutto quando egli era unito alla propria comunità.

C’è un reale processo di espropriazione degli uomini: chi non capisce questo, di fatto non capisce che cos’è il capitale. L’uomo è stato ridotto a un essere inespressivo, per la perdita dei suoi sensi e per la riduzione della sua attività a un lavoro quantificato. L’uomo divenuto essere astratto è avido di musiche che abbiano conservato ancora una sensualità ancestrale: da qui la voga del jazz e delle musiche sud-americane. L’uomo che ha subito una riduzione, per entrare in relazione con il mondo esterno, dispone soltanto di un elemento, la sessualità, che tende a riempire il vuoto dei sensi. Da qui, effettivamente, una pansessualità o, più esattamente, una pansessualizzazione dell’essere, che Freud ha interpretato come carattere invariante degli uomini, laddove non si tratta che del risultato della loro mutilazione. Che cosa può rappresentare l’inconscio se non la vita affettivo-sensoriale dell’uomo represso dal capitale? Poiché l’uomo deve essere addomesticato, piegato a una razionalità che egli deve interiorizzare, questa razionalità è quella del processo di produzione del capitale. Una volta realizzato quest’ultimo, l’uomo viene spossessato di questa vita sensoriale repressa, che diviene oggetto di conoscenza, sapere, e che in quanto tale è capitalizzabile. Divenuto oggetto di commercio, l’inconscio fatto a fette viene venduto al dettaglio sul mercato del sapere. L’inconscio non è sempre esistito: già adesso esiste solo come componente del discorso del capitale, come avviene, peraltro, nel caso delle perversioni umane. Ridotto all’ine-spressività assoluta, l’uomo tende a diventare del tutto paragonabile alla particella elementare studiata dalla fisica nucleare in cui si possono trovare i fondamenti della psicologia dell’uomo capitalizzato, mosso dal campo del capitale.

9 È pure scorretto parlare di società primitiva, come preciseremo nell’affrontare di nuovo le comunità primitive. A questo proposito, se è vero che l’opera di Marx è insufficiente per spiegare la loro esistenza e il loro sviluppo, così come la loro dissoluzione, è falso dire che essa pecca di eurocentrismo, ovvero di illuminismo, e che soffre degli stessi errori della teoria borghese. La maggior parte di coloro che affermano questo non hanno capito la questione della comunità in Marx e riducono la sua opera a un semplice materialismo storico. Quel che in Marx è assente è uno studio dettagliato sul modo in cui nelle comunità primitive sorge 1’« economia » e ne provoca la dissoluzione. Infine aggiungiamo che è ancor più inesatto parlare di società capitalistica. Ritorneremo anche su questo punto.


10 Nelle comunità primitive, gli esseri umani dominavano la tecnica. In occidente, nella società antica, la tecnica tende ad autonomizzarsi: e proprio di questo avevano paura gli antichi. La tecnica impone all’uomo di copiare la natura, e anche se in seguito egli può trovare un modo di procedere che in questa non è presente, è assoggettato tuttavia r un dover-fare, a un saper-fare, a un ordine in qualche modo naturale, così che sembra perdere ogni capacità di libera creazione (cfr. a questo proposito le osservazioni di J.P. Vernant, Mytbe et pensée chez les grecs, Ed. Maspero, Paris 1965. Tr. it. Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino 1970). Allorché gli uomini non hanno più paura della tecnica e accettano di svilupparla, si assiste contemporaneamente alla loro riconciliazione con l’arte che, sul finire della società schiavista, era stata svalutata. Questo si verifica nel corso del Rinascimento, quando i suoi filosofi poterono definire l’uomo come un essere che si fa (cfr. Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento di Ernst Cassirer, che cita Cusano, Bovillus, Pico della Mirandola, Ficino, ecc.). Ma lo sviluppo della tecnica non ha ricondotto l’uomo alla natura: tale sviluppo ha finito con l’espropriare l’uomo e col distruggere la natura. L’uomo perde progressivamente la facoltà di creazione. In questo senso, la paura degli antichi non era vana!
Così, a partire dai filosofi del Rinascimento, passando per Descartes ed Hegel, fino a Marx, l’uomo è stato definito attraverso la tecnica (l’uomo è un fabbricante di utensili, affermava Franklin) e attraverso la produzione. Superare Marx vuol dite riesaminare il « fenomeno umano » partendo dalla dissoluzione delle comunità primitive fino ai nostri giorni, e ripensare le opere dei filosofi e degli economisti da Aristotele a Marx per poter capire meglio come si siano percepiti gli uomini nel periodo in cui domina prima il valore e quindi il capitale, e come in rapporto a tutto questo possiamo concepire l’umanità e quindi il comunismo, essendo noi giunti alla fine del fenomeno valore.