"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post
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giovedì, settembre 11, 2014
giovedì, settembre 27, 2012
Tra postoperaismo e neoanarchia Carlo Formenti
Carlo Formenti
La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità, daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi. Prima, proverò a evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti anticapitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario; transizione alla società postcapitalista; uso della violenza per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario, di evidenziare le differenze fra anarchici e postoperaisti che, a mio parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine, cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso posto-peraista su quello anarchico.
La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Comune è il timore che un processo rivoluzionario egemonizzato da gerarchie professionali possa dare vita a strutture di dominio ancora più oppressive di quelle dello Stato borghese, analogo è l’impegno a creare istituzioni di democrazia diretta e partecipativa che esorcizzino il rischio (anche se persistono differenze nelle motivazioni: ideali e «di principio» quelle anarchiche, analitico scientifiche quelle degli intellettuali autonomi, che considerano la forma partito obsoleta rispetto alla nuova composizione di classe). Ciò detto, è indubbio che gli anarchici abbiano lavorato più concretamente per mettere in pratica le proprie idee. Ispirati alle descrizioni antropologiche delle civiltà precapitalistiche e alla pratica femminista, i modelli elaborati da Graeber e altri hanno di fatto egemonizzato (ma a loro non piacerebbe il termine!) la recente cultura di movimento (dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street): rifiuto di leader designati e permanenti; ricerca del consenso attraverso il confronto e la mediazione (non si vota per non provocare frustrazione nelle minoranze); privilegiare i piccoli gruppi autonomi e autorganizzati (comuni) dove è più facile applicare il principio di orizzontalità; visione «spontaneista» della diffusione dei movimenti (una volta sperimentate le pratiche di azione diretta, le persone le imitano spontaneamente, diffondendole per via virale). Su questi punti c’è totale convergenza con i neosituazionisti (che mettono però l’accento sulla produzione di «eventi» simbolici, in grado di accelerare i processi di «contaminazione»). I postoperaisti si accodano a loro volta anche se, troppo sofisticati per condividere certe ingenuità, lasciano trasparire qualche imbarazzo, come quando Franco Berardi scrive che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, che è già nelle cose», per poi smentire parzialmente questa professione di fede spontaneista, allorché aggiunge che si tratta di suscitare la coscienza dei precari cognitivi e organizzare la loro collaborazione politica (perché suscitare e organizzare, se l’insurrezione è nelle cose?)
La convergenza si fa più evidente nelle due aree tematiche, strettamente interconnesse, del ruolo rivoluzionario dell’immaginazione e della transizione al postcapitalismo. Per Graeber, la riscoperta dello slogan sessantottino sull’immaginazione al potere si ammanta di accenti ottimistici che sarebbe eufemistico definire sfrenati. Nei suoi lavori leggiamo frasi di questo tenore: «L’affermazione che un altro mondo è possibile è un atto di fede»; «L’ottimismo è un imperativo morale»; «Il neoliberismo è un piano politico per annientare l’immaginazione»; «Il movimento contro la globalizzazione si è dissolto perché non ha saputo riconoscere le sue vittorie», «Ci sono buone ragioni per credere che il capitalismo, nel giro di una generazione, non esisterà più». All’ultima professione di fede fanno eco due affermazioni di Franco Berardi, secondo cui «La situazione sembra volgere verso il crollo», e «Il capitalismo entra nella sua fase agonica»; mentre lo stesso Bifo rilancia il tema della centralità della guerra degli immaginari scrivendo a sua volta che «Il collasso europeo non è provocato da una crisi economica e finanziaria ma da una crisi dell’immaginazione sociale».
Nessuno mette in dubbio che il progetto neoliberista si fondi (anche ma non solo) sullo sforzo, finora coronato da successo, di annientare, non la fede, ma anche la più tenue speranza che un altro mondo sia possibile (un classicissimo esempio di egemonia gramsciana!), ma ciò non giustifica il giudizio secondo cui il terreno decisivo dello scontro di classe sarebbe oggi quello dell’immaginazione. L’idea che il capitalismo sia arrivato alla fine, motivata dal comportamento «folle» dei governi che affrontano la crisi con politiche che ne aggravano le cause, non tiene conto del fatto che ciò, nella storia del capitalismo, si è ripetuto innumerevoli volte, dalla grande crisi della seconda metà dell’Ottocento a quella del 1929. L’intera storia del capitale è punteggiata da simili catastrofi e follie, ma il «crollo» vagheggiato non è mai arrivato, né basta spostarne le cause dalla caduta del saggio del profitto al collasso dell’immaginazione per realizzare il sogno. D’altro canto, la «immaginarizzazione» (o se si preferisce la «culturalizzazione») dello scontro finale è l’inevitabile pendant della rimozione del problema della transizione, comune a tutte le correnti rivoluzionarie di cui ci stiamo qui occupando. In altri interventi ho sottolineato l’interesse relativo che Negri e altri teorici postoperaisti manifestano per il tema della transizione, in quanto convinti che, nell’era del capitalismo postfordista e digitale, la socializzazione dal basso, sostanzialmente spontanea e autonoma, delle forze produttive sia arrivata a un punto tale da ridurre il problema a una sorta di gestione imprenditoriale alternativa della ricchezza da parte delle moltitudini. Analogamente, Graeber rifiuta l’idea di un «cataclisma rivoluzionario» che abbia come obiettivo immediato il rovesciamento dei governi. L’azione rivoluzionaria viene piuttosto descritta come un processo graduale di creazione dal basso di forme alternative di organizzazione sociale, un insieme di pratiche ed esperienze che consentirebbero al nuovo di crescere negli interstizi del vecchio (esperienze come quelle della crisi argentina e del movimento zapatista vengono citate a esempio di tale processo, e descritte come «tessere» di un mosaico globale in via di composizione).
Insomma, la rivoluzione come proliferazione delle comuni e delle loro interconnessioni reciproche. Un modello che consente oltretutto di bypassare la spinosa questione dell’uso (o del rifiuto) della violenza come strumento rivoluzionario. Pur avendo posizioni assai articolate (dal pacifismo radicale, di principio, alla giustificazione dello scontro militare sotto certe condizioni) tutte le componenti di cui ci stiamo qui occupando condividono infatti il presupposto (del resto incontestabile) secondo cui, oggi, qualsiasi scontro frontale contro le forze professionali della repressione sarebbe destinato alla sconfitta. Dunque le tesi di Graeber in merito sia alla convergenza, sia alla complementarietà fra discorsi anarchici e autonomi sembrano trovare sostanziale conferma. Resta però da sciogliere un nodo decisivo, messo in luce dallo stesso Graeber: la vera, irriducibile differenza fra discorso anarchico e discorso neomarxista, consiste nel fatto che il primo è soprattutto un discorso etico sulla pratica, mentre il secondo è un discorso teorico sulla strategia. Condivido pienamente e credo sia questo il motivo per cui oggi i postoperaisti sembrano in qualche modo muoversi «a rimorchio» delle pratiche di movimento anarchiche, nella misura in cui il loro discorso teorico, come cercherò di dimostrare nell’ultima parte di questo intervento, contiene alcune aporie di fondo che impediscono di formulare un progetto politico coerente.
Gli anarchici danno scarso o nessun peso all’analisi della composizione di classe: per loro il soggetto rivoluzionario coincide, in ultima istanza, con le persone, i singoli individui che si associano liberamente in comunità fondate su legami di affinità. L’intero impianto del discorso operaista e postoperaista, viceversa, si fonda proprio sull’analisi della composizione di classe, la cui finalità consiste nell’identificare, in ogni situazione storica determinata, le modalità con cui la composizione tecnica (operaio professionale, operaio massa, tecnici, lavoratori della conoscenza, ecc.) si converte in composizione politica (quali strati di classe incarnano il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e quali altri – non sempre sono gli stessi! – mettono in atto le forme di lotta più avanzate). Questa tradizione, inaugurata negli anni Sessanta con l’identificazione dell’operaio massa quale nuovo soggetto antagonista in alternativa all’operaio professionale, e proseguita con lo slittamento dell’attenzione sull’operaio sociale, dopo che la ristrutturazione capitalistica aveva neutralizzato la grande fabbrica fordista come luogo dell’antagonismo, sembrava essersi definitivamente incagliata con la ipostatizzazione metafisica della «moltitudine». La lettura «biopolitica» della relazione antagonistica fra capitalismo immateriale e pura vita, messa al centro del processo di creazione di valore, al di fuori di ogni relazione «fabbrichista» fra capitale e lavoro, ha segnato probabilmente il punto di massima convergenza fra discorso postoperaista e discorso anarchico (spontaneista, individualista e populista). Da qualche tempo, tuttavia, messa fra parentesi – pur senza riflessioni autocritiche – la categoria di moltitudine, l’analisi sembra avere rimesso al centro dell’attenzione la classe, come certificato da un articolo apparso sul numero di maggio di «alfabeta2» (n. 19, Per una politica della composizione) a firma collettiva Uninomade.
In questo testo alcune interessanti novità convivono con la «vulgata» delle precedenti elaborazioni. Partiamo dalle prime. In primo luogo si afferma che il nodo politico fondamentale consiste oggi nel mancato incontro fra working poors, ciò che resta della classe operaia tradizionale, lavoratori della conoscenza e classi medie declassate. Dopodiché si aggiunge che tale nodo non può essere affrontato attraverso una «politica delle alleanze», ma solo attraverso una «politica della composizione». Infine, e questa mi pare la novità più significativa, si riconosce che tale composizione non si dà naturalmente, nemmeno quando esistano interessi comuni, ma che la si può realizzare solo attraverso un «lavoro militante». Qui ci sarebbero tutti gli elementi per una svolta strategica; sennonché queste aperture appaiono neutralizzate dalla volontà di difendere a tutti i costi il «paradigma» consolidato nei precedenti vent’anni. Il cui punto più debole, a parere di chi scrive, coincide con l’ostinata identificazione (clamoroso esempio di confusione fra composizione tecnica e composizione politica!) del soggetto antagonista con il lavoro cognitivo.
Negli anni Novanta, fino alla crisi del 2001, abbiamo condiviso tutti (compreso chi scrive) questa convinzione. Insistervi oggi, dopo dieci anni di ristrutturazione in salsa 2.0, significa tuttavia commettere un errore analogo a quello di chi, dopo la crisi degli anni Settanta, continuava a scommettere sul ruolo strategico dell’operaio massa. È un errore condito da una serie di quelli che suonano ormai come luoghi comuni. Per esempio, l’idea che l’evoluzione tecnologica abbia creato le condizioni per «il divenire autonomo di cooperazione sociale, conoscenza e linguaggio come mezzi di produzione incorporati nel lavoro vivo»; laddove basta leggere il bell’articolo di Franco Piperno sul numero di giugno di «Alfabeta2» (Dall’ora locale all’ora globale) per capire che quelle tecnologie incorporano anche e soprattutto formidabili modelli di disciplinamento e dominio del lavoro morto sul lavoro vivo (taylorismo digitale), in modo non molto diverso da quanto faceva il «vecchio» capitale fisso. E ancora: da un lato si riconosce che il lavoratore cognitivo in rete è isolato e incapace di solidarietà (Bifo), che ha creduto di poter soddisfare tramite il lavoro bisogni di gratificazione personale, di sentirsi utile e creativo, al punto da configurare «un patto implicito fra nuova composizione del lavoro e capitale» (Uninomade, Per una politica della composizione, cit.), che ci siamo assuefatti a farci pagare non per quanto facciamo ma per quello che siamo (per la nostra padronanza dei codici sociali, talento relazionale, aspetto esteriore, ecc.) in un’orgia di identificazione totale con la mission e la vision aziendali; dall’altro lato non se ne traggono le conseguenze. Si ammette, per esempio, che la Apple non può fare a meno di Foxconn, per precisare subito dopo che questo «non mette in discussione il nuovo paradigma» (ma per quale oscura ragione, se non per miopia eurocentrica, qualche decina di migliaia di nerd angloamericani dovrebbero incarnare il punto più alto della composizione di classe rispetto a due miliardi di operai cinesi, indiani e latino-americani?!).
Discorsi che appaiono paradossalmente egemonizzati dall’ideologia dei guru della New Economy, con i loro vaneggiamenti sulla smaterializzazione/virtualizzazione del mondo, quasi a voler dare credito all’esistenza di quel soggetto impersonale che i media borghesi chiamano «i mercati». Non a caso, Bifo scrive che la classe finanziaria non ha un volto riconoscibile ma agisce come uno sciame, un pulviscolo impersonale guidato da una volontà inconsapevole. Ma è davvero così? Che il mercato funzioni in modo «anarchico» ce lo aveva già spiegato Marx, il quale ci aveva però anche spiegato che la classe capitalistica non è una semplice astrazione matematica, un algoritmo. La borghesia non è morta, come spesso si dice, se mai ha cambiato pelle, come fa di secolo in secolo, secondo la lezione degli storici dei lunghi cicli (da Braudel a Wallerstein e Arrighi). Dietro ai mercati ci sono sempre state e sempre ci saranno persone in carne ed ossa, dai vecchi padroni delle ferriere, ai manager stile Marchionne, a mostri come quello descritto nell’ultimo film di Cronenberg, Cosmopolis. Mostri che non «crollano» da soli, per quanto catastrofiche possano essere le crisi innescate dalla loro follia, ma possono essere esorcizzati solo da un progetto politico organizzato. Il che ci riporta al tema del confronto fra anarchici e postoperaisti, e alla necessità di dare corpo al termine «politica della composizione», evitando che resti l’ennesima categoria astratta.
Ironizzando sulla «tristezza del postoperaismo» (è il titolo di un capitolo del suo libro La rivoluzione che viene), Graeber prende in giro le arzigogolate astrazioni (con particolare riferimento alla «biopolitica») di questa scuola teorica. Sotto certi aspetti si tratta di giudizi ingenerosi, visto che altrove lo stesso Graeber ammette di avervi attinto molte idee (a partire dal tema del rifiuto del lavoro) ma, occorre ammettere, non del tutto infondati. In particolare, trovano giustificazione nel «moto pendolare» che le aporie messe in luce poco sopra sembrano imprimere al discorso postoperaista: da un lato, l’idea secondo cui oggi esisterebbe una «intellettualità di massa» che svuota di senso ogni pretesa di leadership da parte di avanguardie intellettuali e politiche «esterne» al movimento, sembrerebbe neutralizzare qualsiasi differenza con il discorso anarchico, configurando una sostanziale convergenza di obiettivi, forme di lotta e modelli organizzativi; dall’altro lato, dietro certe «sofisticazioni» teoriche, si intravedono riflessioni che vanno in tutt’altra direzione, giustificando la diffidenza anarchica nei confronti di una irriducibile anima «leninista» aleggiante nel discorso postoperaista. Personalmente, ritengo che esistano fondate ragioni per esplicitare e chiarire i temi che citavo prima in riferimento al documento di Uninomade: se è vero, e io sono convinto sia vero, che una politica della composizione non emerge naturalmente e spontaneamente dai movimenti, ma può essere solo il frutto di un lavoro militante, è arrivato il momento di smetterla di civettare con lo spontaneismo di maniera e l’illusione di rovesciare il capitalismo federando piccoli gruppi di affinità che praticano una orizzontalità politically correct. La discussione su organizzazione politica, strategie di lotta e scenari della transizione è ri-aperta.
La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità, daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi. Prima, proverò a evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti anticapitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario; transizione alla società postcapitalista; uso della violenza per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario, di evidenziare le differenze fra anarchici e postoperaisti che, a mio parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine, cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso posto-peraista su quello anarchico.
La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Comune è il timore che un processo rivoluzionario egemonizzato da gerarchie professionali possa dare vita a strutture di dominio ancora più oppressive di quelle dello Stato borghese, analogo è l’impegno a creare istituzioni di democrazia diretta e partecipativa che esorcizzino il rischio (anche se persistono differenze nelle motivazioni: ideali e «di principio» quelle anarchiche, analitico scientifiche quelle degli intellettuali autonomi, che considerano la forma partito obsoleta rispetto alla nuova composizione di classe). Ciò detto, è indubbio che gli anarchici abbiano lavorato più concretamente per mettere in pratica le proprie idee. Ispirati alle descrizioni antropologiche delle civiltà precapitalistiche e alla pratica femminista, i modelli elaborati da Graeber e altri hanno di fatto egemonizzato (ma a loro non piacerebbe il termine!) la recente cultura di movimento (dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street): rifiuto di leader designati e permanenti; ricerca del consenso attraverso il confronto e la mediazione (non si vota per non provocare frustrazione nelle minoranze); privilegiare i piccoli gruppi autonomi e autorganizzati (comuni) dove è più facile applicare il principio di orizzontalità; visione «spontaneista» della diffusione dei movimenti (una volta sperimentate le pratiche di azione diretta, le persone le imitano spontaneamente, diffondendole per via virale). Su questi punti c’è totale convergenza con i neosituazionisti (che mettono però l’accento sulla produzione di «eventi» simbolici, in grado di accelerare i processi di «contaminazione»). I postoperaisti si accodano a loro volta anche se, troppo sofisticati per condividere certe ingenuità, lasciano trasparire qualche imbarazzo, come quando Franco Berardi scrive che «il nostro compito non è organizzare l’insurrezione, che è già nelle cose», per poi smentire parzialmente questa professione di fede spontaneista, allorché aggiunge che si tratta di suscitare la coscienza dei precari cognitivi e organizzare la loro collaborazione politica (perché suscitare e organizzare, se l’insurrezione è nelle cose?)
La convergenza si fa più evidente nelle due aree tematiche, strettamente interconnesse, del ruolo rivoluzionario dell’immaginazione e della transizione al postcapitalismo. Per Graeber, la riscoperta dello slogan sessantottino sull’immaginazione al potere si ammanta di accenti ottimistici che sarebbe eufemistico definire sfrenati. Nei suoi lavori leggiamo frasi di questo tenore: «L’affermazione che un altro mondo è possibile è un atto di fede»; «L’ottimismo è un imperativo morale»; «Il neoliberismo è un piano politico per annientare l’immaginazione»; «Il movimento contro la globalizzazione si è dissolto perché non ha saputo riconoscere le sue vittorie», «Ci sono buone ragioni per credere che il capitalismo, nel giro di una generazione, non esisterà più». All’ultima professione di fede fanno eco due affermazioni di Franco Berardi, secondo cui «La situazione sembra volgere verso il crollo», e «Il capitalismo entra nella sua fase agonica»; mentre lo stesso Bifo rilancia il tema della centralità della guerra degli immaginari scrivendo a sua volta che «Il collasso europeo non è provocato da una crisi economica e finanziaria ma da una crisi dell’immaginazione sociale».
Nessuno mette in dubbio che il progetto neoliberista si fondi (anche ma non solo) sullo sforzo, finora coronato da successo, di annientare, non la fede, ma anche la più tenue speranza che un altro mondo sia possibile (un classicissimo esempio di egemonia gramsciana!), ma ciò non giustifica il giudizio secondo cui il terreno decisivo dello scontro di classe sarebbe oggi quello dell’immaginazione. L’idea che il capitalismo sia arrivato alla fine, motivata dal comportamento «folle» dei governi che affrontano la crisi con politiche che ne aggravano le cause, non tiene conto del fatto che ciò, nella storia del capitalismo, si è ripetuto innumerevoli volte, dalla grande crisi della seconda metà dell’Ottocento a quella del 1929. L’intera storia del capitale è punteggiata da simili catastrofi e follie, ma il «crollo» vagheggiato non è mai arrivato, né basta spostarne le cause dalla caduta del saggio del profitto al collasso dell’immaginazione per realizzare il sogno. D’altro canto, la «immaginarizzazione» (o se si preferisce la «culturalizzazione») dello scontro finale è l’inevitabile pendant della rimozione del problema della transizione, comune a tutte le correnti rivoluzionarie di cui ci stiamo qui occupando. In altri interventi ho sottolineato l’interesse relativo che Negri e altri teorici postoperaisti manifestano per il tema della transizione, in quanto convinti che, nell’era del capitalismo postfordista e digitale, la socializzazione dal basso, sostanzialmente spontanea e autonoma, delle forze produttive sia arrivata a un punto tale da ridurre il problema a una sorta di gestione imprenditoriale alternativa della ricchezza da parte delle moltitudini. Analogamente, Graeber rifiuta l’idea di un «cataclisma rivoluzionario» che abbia come obiettivo immediato il rovesciamento dei governi. L’azione rivoluzionaria viene piuttosto descritta come un processo graduale di creazione dal basso di forme alternative di organizzazione sociale, un insieme di pratiche ed esperienze che consentirebbero al nuovo di crescere negli interstizi del vecchio (esperienze come quelle della crisi argentina e del movimento zapatista vengono citate a esempio di tale processo, e descritte come «tessere» di un mosaico globale in via di composizione).
Insomma, la rivoluzione come proliferazione delle comuni e delle loro interconnessioni reciproche. Un modello che consente oltretutto di bypassare la spinosa questione dell’uso (o del rifiuto) della violenza come strumento rivoluzionario. Pur avendo posizioni assai articolate (dal pacifismo radicale, di principio, alla giustificazione dello scontro militare sotto certe condizioni) tutte le componenti di cui ci stiamo qui occupando condividono infatti il presupposto (del resto incontestabile) secondo cui, oggi, qualsiasi scontro frontale contro le forze professionali della repressione sarebbe destinato alla sconfitta. Dunque le tesi di Graeber in merito sia alla convergenza, sia alla complementarietà fra discorsi anarchici e autonomi sembrano trovare sostanziale conferma. Resta però da sciogliere un nodo decisivo, messo in luce dallo stesso Graeber: la vera, irriducibile differenza fra discorso anarchico e discorso neomarxista, consiste nel fatto che il primo è soprattutto un discorso etico sulla pratica, mentre il secondo è un discorso teorico sulla strategia. Condivido pienamente e credo sia questo il motivo per cui oggi i postoperaisti sembrano in qualche modo muoversi «a rimorchio» delle pratiche di movimento anarchiche, nella misura in cui il loro discorso teorico, come cercherò di dimostrare nell’ultima parte di questo intervento, contiene alcune aporie di fondo che impediscono di formulare un progetto politico coerente.
Gli anarchici danno scarso o nessun peso all’analisi della composizione di classe: per loro il soggetto rivoluzionario coincide, in ultima istanza, con le persone, i singoli individui che si associano liberamente in comunità fondate su legami di affinità. L’intero impianto del discorso operaista e postoperaista, viceversa, si fonda proprio sull’analisi della composizione di classe, la cui finalità consiste nell’identificare, in ogni situazione storica determinata, le modalità con cui la composizione tecnica (operaio professionale, operaio massa, tecnici, lavoratori della conoscenza, ecc.) si converte in composizione politica (quali strati di classe incarnano il punto più alto della contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e quali altri – non sempre sono gli stessi! – mettono in atto le forme di lotta più avanzate). Questa tradizione, inaugurata negli anni Sessanta con l’identificazione dell’operaio massa quale nuovo soggetto antagonista in alternativa all’operaio professionale, e proseguita con lo slittamento dell’attenzione sull’operaio sociale, dopo che la ristrutturazione capitalistica aveva neutralizzato la grande fabbrica fordista come luogo dell’antagonismo, sembrava essersi definitivamente incagliata con la ipostatizzazione metafisica della «moltitudine». La lettura «biopolitica» della relazione antagonistica fra capitalismo immateriale e pura vita, messa al centro del processo di creazione di valore, al di fuori di ogni relazione «fabbrichista» fra capitale e lavoro, ha segnato probabilmente il punto di massima convergenza fra discorso postoperaista e discorso anarchico (spontaneista, individualista e populista). Da qualche tempo, tuttavia, messa fra parentesi – pur senza riflessioni autocritiche – la categoria di moltitudine, l’analisi sembra avere rimesso al centro dell’attenzione la classe, come certificato da un articolo apparso sul numero di maggio di «alfabeta2» (n. 19, Per una politica della composizione) a firma collettiva Uninomade.
In questo testo alcune interessanti novità convivono con la «vulgata» delle precedenti elaborazioni. Partiamo dalle prime. In primo luogo si afferma che il nodo politico fondamentale consiste oggi nel mancato incontro fra working poors, ciò che resta della classe operaia tradizionale, lavoratori della conoscenza e classi medie declassate. Dopodiché si aggiunge che tale nodo non può essere affrontato attraverso una «politica delle alleanze», ma solo attraverso una «politica della composizione». Infine, e questa mi pare la novità più significativa, si riconosce che tale composizione non si dà naturalmente, nemmeno quando esistano interessi comuni, ma che la si può realizzare solo attraverso un «lavoro militante». Qui ci sarebbero tutti gli elementi per una svolta strategica; sennonché queste aperture appaiono neutralizzate dalla volontà di difendere a tutti i costi il «paradigma» consolidato nei precedenti vent’anni. Il cui punto più debole, a parere di chi scrive, coincide con l’ostinata identificazione (clamoroso esempio di confusione fra composizione tecnica e composizione politica!) del soggetto antagonista con il lavoro cognitivo.
Negli anni Novanta, fino alla crisi del 2001, abbiamo condiviso tutti (compreso chi scrive) questa convinzione. Insistervi oggi, dopo dieci anni di ristrutturazione in salsa 2.0, significa tuttavia commettere un errore analogo a quello di chi, dopo la crisi degli anni Settanta, continuava a scommettere sul ruolo strategico dell’operaio massa. È un errore condito da una serie di quelli che suonano ormai come luoghi comuni. Per esempio, l’idea che l’evoluzione tecnologica abbia creato le condizioni per «il divenire autonomo di cooperazione sociale, conoscenza e linguaggio come mezzi di produzione incorporati nel lavoro vivo»; laddove basta leggere il bell’articolo di Franco Piperno sul numero di giugno di «Alfabeta2» (Dall’ora locale all’ora globale) per capire che quelle tecnologie incorporano anche e soprattutto formidabili modelli di disciplinamento e dominio del lavoro morto sul lavoro vivo (taylorismo digitale), in modo non molto diverso da quanto faceva il «vecchio» capitale fisso. E ancora: da un lato si riconosce che il lavoratore cognitivo in rete è isolato e incapace di solidarietà (Bifo), che ha creduto di poter soddisfare tramite il lavoro bisogni di gratificazione personale, di sentirsi utile e creativo, al punto da configurare «un patto implicito fra nuova composizione del lavoro e capitale» (Uninomade, Per una politica della composizione, cit.), che ci siamo assuefatti a farci pagare non per quanto facciamo ma per quello che siamo (per la nostra padronanza dei codici sociali, talento relazionale, aspetto esteriore, ecc.) in un’orgia di identificazione totale con la mission e la vision aziendali; dall’altro lato non se ne traggono le conseguenze. Si ammette, per esempio, che la Apple non può fare a meno di Foxconn, per precisare subito dopo che questo «non mette in discussione il nuovo paradigma» (ma per quale oscura ragione, se non per miopia eurocentrica, qualche decina di migliaia di nerd angloamericani dovrebbero incarnare il punto più alto della composizione di classe rispetto a due miliardi di operai cinesi, indiani e latino-americani?!).
Discorsi che appaiono paradossalmente egemonizzati dall’ideologia dei guru della New Economy, con i loro vaneggiamenti sulla smaterializzazione/virtualizzazione del mondo, quasi a voler dare credito all’esistenza di quel soggetto impersonale che i media borghesi chiamano «i mercati». Non a caso, Bifo scrive che la classe finanziaria non ha un volto riconoscibile ma agisce come uno sciame, un pulviscolo impersonale guidato da una volontà inconsapevole. Ma è davvero così? Che il mercato funzioni in modo «anarchico» ce lo aveva già spiegato Marx, il quale ci aveva però anche spiegato che la classe capitalistica non è una semplice astrazione matematica, un algoritmo. La borghesia non è morta, come spesso si dice, se mai ha cambiato pelle, come fa di secolo in secolo, secondo la lezione degli storici dei lunghi cicli (da Braudel a Wallerstein e Arrighi). Dietro ai mercati ci sono sempre state e sempre ci saranno persone in carne ed ossa, dai vecchi padroni delle ferriere, ai manager stile Marchionne, a mostri come quello descritto nell’ultimo film di Cronenberg, Cosmopolis. Mostri che non «crollano» da soli, per quanto catastrofiche possano essere le crisi innescate dalla loro follia, ma possono essere esorcizzati solo da un progetto politico organizzato. Il che ci riporta al tema del confronto fra anarchici e postoperaisti, e alla necessità di dare corpo al termine «politica della composizione», evitando che resti l’ennesima categoria astratta.
Ironizzando sulla «tristezza del postoperaismo» (è il titolo di un capitolo del suo libro La rivoluzione che viene), Graeber prende in giro le arzigogolate astrazioni (con particolare riferimento alla «biopolitica») di questa scuola teorica. Sotto certi aspetti si tratta di giudizi ingenerosi, visto che altrove lo stesso Graeber ammette di avervi attinto molte idee (a partire dal tema del rifiuto del lavoro) ma, occorre ammettere, non del tutto infondati. In particolare, trovano giustificazione nel «moto pendolare» che le aporie messe in luce poco sopra sembrano imprimere al discorso postoperaista: da un lato, l’idea secondo cui oggi esisterebbe una «intellettualità di massa» che svuota di senso ogni pretesa di leadership da parte di avanguardie intellettuali e politiche «esterne» al movimento, sembrerebbe neutralizzare qualsiasi differenza con il discorso anarchico, configurando una sostanziale convergenza di obiettivi, forme di lotta e modelli organizzativi; dall’altro lato, dietro certe «sofisticazioni» teoriche, si intravedono riflessioni che vanno in tutt’altra direzione, giustificando la diffidenza anarchica nei confronti di una irriducibile anima «leninista» aleggiante nel discorso postoperaista. Personalmente, ritengo che esistano fondate ragioni per esplicitare e chiarire i temi che citavo prima in riferimento al documento di Uninomade: se è vero, e io sono convinto sia vero, che una politica della composizione non emerge naturalmente e spontaneamente dai movimenti, ma può essere solo il frutto di un lavoro militante, è arrivato il momento di smetterla di civettare con lo spontaneismo di maniera e l’illusione di rovesciare il capitalismo federando piccoli gruppi di affinità che praticano una orizzontalità politically correct. La discussione su organizzazione politica, strategie di lotta e scenari della transizione è ri-aperta.
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mercoledì, agosto 01, 2012
Toni Negri Michel Hardt Calibano si ermancipa dalla dialettica
Calibano si emancipa dalla dialettica
Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I resoconti sui sacrifici umani consumati dagli amerindi servirono come prova per legittimare le follie e le crudeltà degli spagnoli allo stesso modo in cui, più tardi, furono utilizzate le descrizioni delle atrocità dei cannibali in Africa. La caccia, i processi e i roghi delle streghe che si verificarono in gran parte dell’Europa e in America nel XVI e nel XVII secolo costituiscono altri esempi di forze dell’antimodernità cacciate nell’inferno dell’irrazionalità e della superstizione da cui minacciano la religione e la ragione. La caccia alle streghe si era diffusa nelle aree dove la lotta dei contadini era stata particolarmente violenta e colpiva le donne che avevano contrastato con più determinazione il colonialismo, il comando capitalistico e il dominio patriarcale.
Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I molte difficoltà con i propri mostri che cerca di scacciare in ogni modo come delle mere illusioni, degli autoinganni di un’immaginazione sovreccitata: «Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri» scrive Marx. «Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie per poter negare l’esistenza dei mostri.»531 mostri sono reali. Faremmo bene ad aprire gli occhi e a sturarci le orecchie per capire quello che hanno da dirci sulla modernità.
Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno cercato di affrontare i mostri dell’antimodemità - l’irrazionalismo, il mito, il dominio e la barbarie - e di riportarli all’interno di una relazione dialettica con l’illuminismo. «Non abbiamo il minimo dubbio» così scrivevano «ed è la nostra petizione di principio, che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque.»54 Essi videro nella modernità un intreccio inestricabile con il suo contrario che avrebbe condotto ineluttabilmente all’autodistruzione della ragione. Horkheimer e Adorno, scrivendo dal loro esilio negli Stati Uniti agli inizi degli anni Quaranta, stavano cercando di capire le ragioni del trionfo del nazismo in Germania e le origini della miscela di barbarie e di razionalità che lo caratterizzava. Si resero così conto che i nazisti non rappresentavano un’anomalia, ma un sintomo della natura stessa deila modernità. Anche i proletari erano soggetti alla medesima dialettica, i progetti di emancipazione e razionalizzazione sociale risultavano ugualmente funzionali alla creazione di un mondo totalmente amministrato. Per Horkheimer e Adorno non c’era all’orizzonte alcuna
prospettiva di risoluzione di questa dialettica, ma solo un’interminabile frustrazione degli ideali della modernità sino all’ineluttabile degradazione nel loro opposto. Alla fine, invece di veder realizzata una nuova condizione dell’umanità, ci ritroviamo ricacciati in un nuovo baratro di barbarie.
Gli argomenti di Horkheimer e di Adorno sono straordinariamente importanti per la loro capacità di abbandonare una volta per tutte la linea del ideologismo modernista che aveva caratterizzato la storia del marxismo. A nostro parere, tuttavia, nel loro tentativo di dare una forma dialettica al rapporto tra modernità e antimodernità hanno commesso due errori. In primo luogo, nelle loro analisi essi tendono a omogeneizzare le forze dell’antimodernità. Alcune espressioni dell’antimodernità, come il nazismo, erano delle forze demoniache che si proponevano di schiavizzare intere popolazioni, altre sfidarono le strutture della gerarchia e della sovranità esprimendo delle figure di incontenibile libertà. Il secondo errore consiste nell’aver chiuso questa relazione nella dialettica. In questo modo, Horkheimer e Adorno hanno messo in scena l’antimodemità come una forza che fronteggia la modernità opponendosi a essa o agendo come una contraddizione. In tal senso, la dialettica, da principio di movimento, costringe la relazione tra modernità e antimodernità in uno stallo. In tal senso, Horkheimer e Adorno non vedono alcuna via d’uscita all’eterna oscillazione tra gli opposti in cui è costretta la sorte dell’umanità. A nostro avviso, il problema dipende sostanzialmente dall’incapacità di discernere le differenze all’interno delle figure dell’antimodernità. Le più potenti tra queste forze, quelle che ci interessano maggiormente, non sono in una relazione specularmente negativa con la modernità, bensì si muovono su traiettorie trasversali. Da ciò non si deve concludere che esse si oppongono a tutto ciò che è moderno o razionale, ma che sono impegnate a creare nuove forme di razionalità e nuove forme di liberazione. Occorre svincolarsi dal circolo vizioso creato dalla dialettica di Horkheimer e Adorno Per poter vedere in che misura i mostri creativi e felici dell’antimodernità, i mostri della liberazione, eccedono il dominio della moderata e per rendersi conto in che misura il loro stesso essere è indicati-Vo di una prospettiva alternativa.
Un modo per emanciparsi dalla dialettica è osservare la relazione
essa sottende dal punto di vista dei mostri della modernità. Caligano, il mostro deforme della Tempesta, è un potente esempio del nativo colonizzato nelle sembianze di un mostro terribile e minac-
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.
L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.
L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
espressiva della potenza selvaggia ed eccessiva dell’immaginazione. Se riduciamo la pluralità delle figure dell’antimodemità a una piatta dialettica di opposte identità perdiamo completamente le potenzialità liberatorie della loro mostruosa immaginazione.60
E vero, e continua a esserlo, che sono esistite e continuano a esistere delle forze dell’antimodernità che non hanno nulla di liberatorio. Horkheimer e Adorno hanno perciò ragione quando vedono nel progetto nazista un’antimodernità reazionaria. La stessa aberrazione la vediamo in opera nei tanti fenomeni di pulizia etnica, nei deliri supre-matisti del Ku Klux Klan, e nelle allucinazioni di dominio dei neoconservatori americani. Il fattore antimoderno di questi fenomeni è costituito dal tentativo di rompere la relazione che è a fondamento della modernità per liberare il dominatore dalla necessità di dover avere a che fare con il dominato. Le teorie della sovranità, da Donoso Cortés a Cari Schmitt, sono antimoderne nella misura in cui si ripropongono di rompere la relazione della modernità e di porre fine ai conflitti che la caratterizzano per liberare il sovrano. La cosiddetta autonomia della politica proposta da queste teorie è l’autonomia dei dominatori dai dominati, finalmente liberi dalle sfide e dalle resistenze degli assoggettati. Questo sogno è ovviamente un’illusione dato che i dominatori non potrebbero sopravvivere senza i soggiogati, come ebbe modo di riconoscere Prospero, così come il capitale non potrebbe sopravvivere senza quei noiosi operai! Il fatto che sia un’illusione non toglie che essa continui ancora oggi a provocare terribili tragedie. I mostri sono la stoffa di cui sono fatti gli incubi.
Quanto detto assegna ancora due compiti alla nostra analisi delle forze dell’antimodernità. Il primo è quello di stare bene attenti a distinguere, da un lato, le declinazioni reazionarie dell’antimodernità con cui si cerca di rompere la relazione che sta alla base della modernità per liberare la sovranità, dall’altro, le declinazioni libertarie dell’antimodernità che sfidano e sovvertono le gerarchie con la resistenza per espandere la libertà dei subordinati. Il secondo compito è quello di riconoscere che la resistenza e la libertà eccedono sistematicamente i rapporti di dominio e non possono essere recuperate da una dialettica con i poteri della modernità. I mostri possiedono la chiave di nuovi poteri creativi che oltrepassano l’opposizione tra modernità e antimodernità.
Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I resoconti sui sacrifici umani consumati dagli amerindi servirono come prova per legittimare le follie e le crudeltà degli spagnoli allo stesso modo in cui, più tardi, furono utilizzate le descrizioni delle atrocità dei cannibali in Africa. La caccia, i processi e i roghi delle streghe che si verificarono in gran parte dell’Europa e in America nel XVI e nel XVII secolo costituiscono altri esempi di forze dell’antimodernità cacciate nell’inferno dell’irrazionalità e della superstizione da cui minacciano la religione e la ragione. La caccia alle streghe si era diffusa nelle aree dove la lotta dei contadini era stata particolarmente violenta e colpiva le donne che avevano contrastato con più determinazione il colonialismo, il comando capitalistico e il dominio patriarcale.
Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radicali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley, i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze dell’antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro potenza e per legittimare il dominio su di loro. I molte difficoltà con i propri mostri che cerca di scacciare in ogni modo come delle mere illusioni, degli autoinganni di un’immaginazione sovreccitata: «Perseo usava un manto di nebbia per inseguire i mostri» scrive Marx. «Noi ci tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie per poter negare l’esistenza dei mostri.»531 mostri sono reali. Faremmo bene ad aprire gli occhi e a sturarci le orecchie per capire quello che hanno da dirci sulla modernità.
Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno cercato di affrontare i mostri dell’antimodemità - l’irrazionalismo, il mito, il dominio e la barbarie - e di riportarli all’interno di una relazione dialettica con l’illuminismo. «Non abbiamo il minimo dubbio» così scrivevano «ed è la nostra petizione di principio, che la libertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque.»54 Essi videro nella modernità un intreccio inestricabile con il suo contrario che avrebbe condotto ineluttabilmente all’autodistruzione della ragione. Horkheimer e Adorno, scrivendo dal loro esilio negli Stati Uniti agli inizi degli anni Quaranta, stavano cercando di capire le ragioni del trionfo del nazismo in Germania e le origini della miscela di barbarie e di razionalità che lo caratterizzava. Si resero così conto che i nazisti non rappresentavano un’anomalia, ma un sintomo della natura stessa deila modernità. Anche i proletari erano soggetti alla medesima dialettica, i progetti di emancipazione e razionalizzazione sociale risultavano ugualmente funzionali alla creazione di un mondo totalmente amministrato. Per Horkheimer e Adorno non c’era all’orizzonte alcuna
prospettiva di risoluzione di questa dialettica, ma solo un’interminabile frustrazione degli ideali della modernità sino all’ineluttabile degradazione nel loro opposto. Alla fine, invece di veder realizzata una nuova condizione dell’umanità, ci ritroviamo ricacciati in un nuovo baratro di barbarie.
Gli argomenti di Horkheimer e di Adorno sono straordinariamente importanti per la loro capacità di abbandonare una volta per tutte la linea del ideologismo modernista che aveva caratterizzato la storia del marxismo. A nostro parere, tuttavia, nel loro tentativo di dare una forma dialettica al rapporto tra modernità e antimodernità hanno commesso due errori. In primo luogo, nelle loro analisi essi tendono a omogeneizzare le forze dell’antimodernità. Alcune espressioni dell’antimodernità, come il nazismo, erano delle forze demoniache che si proponevano di schiavizzare intere popolazioni, altre sfidarono le strutture della gerarchia e della sovranità esprimendo delle figure di incontenibile libertà. Il secondo errore consiste nell’aver chiuso questa relazione nella dialettica. In questo modo, Horkheimer e Adorno hanno messo in scena l’antimodemità come una forza che fronteggia la modernità opponendosi a essa o agendo come una contraddizione. In tal senso, la dialettica, da principio di movimento, costringe la relazione tra modernità e antimodernità in uno stallo. In tal senso, Horkheimer e Adorno non vedono alcuna via d’uscita all’eterna oscillazione tra gli opposti in cui è costretta la sorte dell’umanità. A nostro avviso, il problema dipende sostanzialmente dall’incapacità di discernere le differenze all’interno delle figure dell’antimodernità. Le più potenti tra queste forze, quelle che ci interessano maggiormente, non sono in una relazione specularmente negativa con la modernità, bensì si muovono su traiettorie trasversali. Da ciò non si deve concludere che esse si oppongono a tutto ciò che è moderno o razionale, ma che sono impegnate a creare nuove forme di razionalità e nuove forme di liberazione. Occorre svincolarsi dal circolo vizioso creato dalla dialettica di Horkheimer e Adorno Per poter vedere in che misura i mostri creativi e felici dell’antimodernità, i mostri della liberazione, eccedono il dominio della moderata e per rendersi conto in che misura il loro stesso essere è indicati-Vo di una prospettiva alternativa.
Un modo per emanciparsi dalla dialettica è osservare la relazione
essa sottende dal punto di vista dei mostri della modernità. Caligano, il mostro deforme della Tempesta, è un potente esempio del nativo colonizzato nelle sembianze di un mostro terribile e minac-
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.
L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del colonizzatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo desiderio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli può far saltare le catene della dialettica.
L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del razzismo e della paura dell’alterità, mette ulteriormente in evidenza la potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’amico Peter Bal-ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza risponde all’amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali esperienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsuto brasiliano che io non avevo mai visto».38 La prima cosa da osservare a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spinoza dell’esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste. Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomenti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.39 Se ci limitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento perdiamo di vista l’aspetto più interessante del mostro di Spinoza dato che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza, l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza materiale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far crescere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’immaginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i libiti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasiliano, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
espressiva della potenza selvaggia ed eccessiva dell’immaginazione. Se riduciamo la pluralità delle figure dell’antimodemità a una piatta dialettica di opposte identità perdiamo completamente le potenzialità liberatorie della loro mostruosa immaginazione.60
E vero, e continua a esserlo, che sono esistite e continuano a esistere delle forze dell’antimodernità che non hanno nulla di liberatorio. Horkheimer e Adorno hanno perciò ragione quando vedono nel progetto nazista un’antimodernità reazionaria. La stessa aberrazione la vediamo in opera nei tanti fenomeni di pulizia etnica, nei deliri supre-matisti del Ku Klux Klan, e nelle allucinazioni di dominio dei neoconservatori americani. Il fattore antimoderno di questi fenomeni è costituito dal tentativo di rompere la relazione che è a fondamento della modernità per liberare il dominatore dalla necessità di dover avere a che fare con il dominato. Le teorie della sovranità, da Donoso Cortés a Cari Schmitt, sono antimoderne nella misura in cui si ripropongono di rompere la relazione della modernità e di porre fine ai conflitti che la caratterizzano per liberare il sovrano. La cosiddetta autonomia della politica proposta da queste teorie è l’autonomia dei dominatori dai dominati, finalmente liberi dalle sfide e dalle resistenze degli assoggettati. Questo sogno è ovviamente un’illusione dato che i dominatori non potrebbero sopravvivere senza i soggiogati, come ebbe modo di riconoscere Prospero, così come il capitale non potrebbe sopravvivere senza quei noiosi operai! Il fatto che sia un’illusione non toglie che essa continui ancora oggi a provocare terribili tragedie. I mostri sono la stoffa di cui sono fatti gli incubi.
Quanto detto assegna ancora due compiti alla nostra analisi delle forze dell’antimodernità. Il primo è quello di stare bene attenti a distinguere, da un lato, le declinazioni reazionarie dell’antimodernità con cui si cerca di rompere la relazione che sta alla base della modernità per liberare la sovranità, dall’altro, le declinazioni libertarie dell’antimodernità che sfidano e sovvertono le gerarchie con la resistenza per espandere la libertà dei subordinati. Il secondo compito è quello di riconoscere che la resistenza e la libertà eccedono sistematicamente i rapporti di dominio e non possono essere recuperate da una dialettica con i poteri della modernità. I mostri possiedono la chiave di nuovi poteri creativi che oltrepassano l’opposizione tra modernità e antimodernità.
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mercoledì, luglio 25, 2012
Toni Negri Comunismo e Socialismo
Comunismo è invece radicalissima democrazia economica-politica e speranza di libertà.
Il Comunismo come Marx insegna nasce direttamente dall'antagonismo di classe, dal rifiuto del lavoro e della sua organizzazione.
E' su questa contraddizione e su questa alternativa fra la Luxemburg e Lenin, fra una concezione del comunismo come democrazia costituente delle masse o, di contro come dittatura del proletariato che si origina la crisi della gestione del potere socialista.
La distinzione del concetto di Socialismo da quello di Comunismo era conoscenza banale per il vecchio militante:
Il Socialismo era il regime economico politico nel quale a ciascuno era dato in relazione al proprio lavoro,
IL Comunismo era il sistema nel quale a ciascuno era dato in relazione ai propri bisogni.
Socialismo e Comunismo rappresentavano due stadi diversi del percorso rivoluzionario il primo caratterizzato dalla socializzazione dei beni di produzione , il secondo caratterizzato dall'estinzione dello Stato e dalla spontaneità della gestione dell'economia e del potere.
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