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sabato, marzo 21, 2015

Yanis Varoufakis Confessioni di un marxista irregolare

Insieme a Alexis Tsipras l’economista Yanis Varoufakis è diventato in pochi giorni il volto più noto del governo di Syriza.  Vi proponiamo la traduzione integrale di Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea. Il testo originale lo trovate qui. 
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Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea

di Yanis Varoufakis 

Nel maggio 2013 ho avuto il piacere di trattare quest’argomento durante il sesto Subversive Festival di Zagabria. Solo ora sono riuscito a metterlo per iscritto e ad espanderlo per quanto riguarda alcuni aspetti significativi.
  1. 1. Introduzione. Una confessione radicale
Nel 2008, il capitalismo ha subito la sua seconda grande contrazione a livello mondiale, causando una reazione a catena che ha sprofondato l’Europa in una spirale recessiva che sta tuttora minacciando gli europei con un vortice di depressione permanente, cinismo, disintegrazione e misantropia.
Negli scorsi tre anni, mi è capitato di esprimermi sul momento difficile dell’Europa di fronte a platee estremamente variegate. Migliaia di dimostranti anti-austerity a Piazza Syntagma ad Atene, staff della Federal Reserve di New York, europarlamentari dei Verdi al Parlamento Europeo, analisti della Bloomberg a Londra e New York, studenti nei sobborghi degradati di Atene e New York, la Camera dei Comuni di Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, proprietari di fondi comuni d’investimento a Manhattan e a Londra, la lista è lunga tanto quanto la progressiva ritirata dei leader europei da principi umanisti, e la ragione di tali interventi continua a persistere. Nonostante l’eterogeneità delle platee, il messaggio è stato sempre uno: l’attuale crisi europea non è solamente una minaccia per i lavoratori, per gli spossessati, per i banchieri, per gruppi particolari, classi sociali o persino nazioni. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una seria minaccia alla civiltà così come noi oggi la conosciamo.
Se la mia prognosi è corretta, e la crisi europea non è solamente un’altra caduta ciclica che verrà presto superata nel momento in cui i tassi di profitto aumenteranno in seguito all’inevitabile caduta dei salari, la questione all’ordine del giorno per i pensatori radicali è questa: dovremmo accogliere questo stallo totale del capitalismo europeo come un’opportunità per rimpiazzarlo con un sistema migliore? O dovremmo esserne talmente preoccupati da intraprendere una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta in questi tre anni è stata chiara, e la sua sostanza è stata male interpretata dalla summenzionata lista di diverse platee che ho tentato di influenzare. La crisi europea è, per come la vedo, gravida non di potenziali alternative progressiste, ma di forze radicalmente regressive che avrebbero la capacità di causare un bagno di sangue umanitario estinguendo la speranza di qualsiasi azione progressista per generazioni a venire.
A causa di tale teoria, da voci radicali in buona fede, sono stato accusato di “disfattismo”: un menscevico fuori tempo massimo che si batte senza sosta a favore di analisi il cui scopo sarebbe quello di salvare un sistema socio-economico europeo indifendibile. Un sistema che rappresenta tutto quello che un radicale dovrebbe condannare e combattere: un’Unione Europea anti-democratica, irreversibilmente neoliberista, altamente irrazionale, transnazionale, che ha possibilità praticamente nulle di evolvere in una comunità sinceramente umanista in cui le nazioni europee possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, mi fa male. E mi fa male perché contiene più di una parte di verità.
Infatti, condivido la visione di questa Unione Europea come un’istituzione fondamentalmente anti-democratica e irrazionale che sta conducendo i popoli europei verso un sentiero di misantropia, conflitto e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica che io mi sto battendo su un’agenda che si basa sul presupposto che la sinistra era, e rimanga, sconfitta in pieno. E così si, in questo senso, mi sento costretto ad accondiscendere al fatto che vorrei che i miei obiettivi fossero di un altro tipo; vorrei molto più promuovere un programma la cui ragion d’essere sia la sostituzione del capitalismo europeo con un differente sistema più razionale – piuttosto che sforzarsi solamente per stabilizzare il capitalismo europeo che fa a pugni con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto, forse può essere pertinente introdurre una seconda confessione: confessare che… le confessioni tendono sempre ad essere egocentriche. In effetti, le confessioni sono sempre molto simili a quel che John Von Neumann una volta disse parlando di Robert Oppenheimer dopo aver sentito dire che il suo ex direttore nel Manhattan Project si era trasformato in un attivista contro il nucleare e aveva confessato di sentirsi in colpa per il suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di John Von Neumann furono: “Sta confessando il peccato per rivendicarne la gloria”.
Grazie al cielo, non sono Oppenheimer e, di conseguenza, non sarà difficile evitare di rivendicare vari peccati come tentativo di auto-promozione ma, piuttosto, come una finestra da cui dare un’occhiata alle mie visioni di un capitalismo europeo ossessionato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui esplosione, malgrado i suoi molti mali, dovrebbe essere evitata ad ogni costo. È una confessione con cui convincere i radicali del fatto che siamo chiamati ad una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo allo scopo di guadagnare il tempo di cui c’è bisogno per formulare l’alternativa.

  1. 2. Perché sono un marxista?
Quando scelsi il tema della mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi, intenzionalmente, un argomento altamente matematico e un tema nel quale il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, più tardi, intrapresi la carriera accademica, come professore in dipartimenti mainstream di Economia, il contratto implicito tra me e i dipartimenti che mi offrivano di tenere le lezioni era che avrei trattato quegli argomenti di teoria economica che non lasciavano spazio a Marx. Alla fine degli anni Ottanta, a mia insaputa, fui assunto all’Università di Sidney in modo da far fuori un altro candidato di sinistra. Poi, dopo il mio ritorno in Grecia nel 2000, unii i miei sforzi a quelli di George Papandreou, cercando di rimuovere il rischio del ritorno al potere di una risorgente destra ostinata a far tornare la Grecia in un atteggiamento di xenofobia (sia per quanto riguardava la politica interna, con un giro di vite contro i lavoratori migranti, sia in questioni di politica estera). Così come tutto il mondo sa ora, il partito del signor Papandreou non solo fallì nel combattere la xenofobia ma, invece, promosse le più virulenti politiche macroeconomiche liberiste comandate dai cosiddetti piani di salvataggio dell’Eurozona, causando involontariamente il ritorno dei nazisti per le strade di Atene. Nonostante io avessi rassegnato le mie dimissioni come consigliere del signor Papadreou all’inizio del 2006, e fossi divenuto uno dei critici più insistenti del governo durante la sua pessima gestione dell’implosione greca post-2009, i miei interventi nel dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la Modesta proposta per risolvere la crisi dell’Euro, della quale sono co-autore e per la quale mi sono battuto) non contenevano la minima traccia di marxismo.
In virtù di questo lungo sentiero attraverso le università e i dibattiti politici in Europa, uno potrebbe essere sorpreso dal vedermi tirar fuori il proverbiale segreto dal cassetto dichiarandomi marxista. Tali affermazioni non mi giungono naturali. Vorrei poter evitare le etero-definizioni (ovvero l’essere definiti in base al metodo e alla visione del mondo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano, humiano, sarei naturalmente predisposto a dire che non sono nessuna di queste cose; che ho trascorso il mio tempo cercando di diventare l’ape di Francis Bacon: una creatura che raccoglie il nettare da milioni di fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di personale, un qualcosa che è debitore di ogni singolo fiore ma che non è definito da nessuno di essi preso singolarmente. Ma, ahimè, questo sarebbe falso, e dunque non un buon metodo per iniziare una…confessione.
A dire il vero, Karl Marx è stato responsabile nel formare la mia prospettiva del mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia al giorno d’oggi. Non è qualcosa di cui parlerei volentieri molto nella buona società odierna perché la sola menzione della parola che inizia con M estingue ogni interesse della platea. Ma è una cosa che non ho mai nemmeno negato. In effetti, dopo alcuni anni trascorsi ad indirizzarmi a platee con le quali non condividevo il retroterra ideologico, è sorto recentemente in me un bisogno di parlare candidamente dell’influenza di Marx sul mio pensiero. Per spiegare il perché, il perché essere un marxista impenitente, penso che sia importante resistergli con ardore su molti argomenti. Essere, in altre parole, eretici nel proprio marxismo.
Se la mia carriera accademica ha largamente ignorato Marx, e i miei attuali consigli politici sono impossibili da descrivere come marxisti, allora perché tirar fuori ora il mio marxismo? La risposta è semplice: persino le mie visioni economiche non-marxiste sono guidate da un assetto mentale pesantemente influenzato da Marx. Ho sempre pensato che un teorico sociale radicale possa sfidare il pensiero economico dominante in due modi diversi: uno è attraverso la strada della critica immanente. Accettare gli assiomi dominanti e quindi esporne le contraddizioni interne. Dire: “Non contesto i tuoi presupposti, ma ecco perché le tue conclusioni non derivano logicamente da quelli”. Questo era, infatti, il metodo usato da Marx per minare il sistema dell’economia politica britannica. Marx accettò ogni singolo assioma di Adam Smith e David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto delle loro assunzioni, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda strada che un teorico radicale può perseguire è, ovviamente, quella della costruzione di teorie alternative a quelle dell’establishment, sperando che esse verranno prese sul serio (che è ciò che gli economisti marxisti del tardo XX secolo stanno facendo).
Il mio parere su questa doppia alternativa è sempre stato che i poteri in carica non sono mai perturbati da teorie che partono da assunti diversi dai propri. Nessun economista dell’establishment presterà mai attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano in questi giorni. L’unica cosa che può destabilizzare e sfidare seriamente gli economistimainstream neoclassici è la dimostrazione dell’inconsistenza dei loro propri modelli. È per questa ragione che, fin dall’inizio, ho scelto di penetrare nelle viscere della teoria neoclassica e di non spendere quasi nessuna energia nel tentativo di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di capitalismo. Le mie ragioni, lo ammetto, erano piuttosto…marxiste[1].
Quando spinto a commentare il mondo in cui viviamo, in quanto contrario all’ideologia dominante sul funzionamento dell’economia globale, non avevo alternative che tornare alla tradizione marxista che aveva forgiato il mio pensiero sin da quando mio padre, metallurgista, aveva impresso in me, quando ero ancora bambino, l’importanza dei cambiamenti tecnologici e delle innovazioni nel processo storico. Come, per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro velocizzò la storia; come la scoperta dell’acciaio accelerò il tempo storico dieci volte; e come le tecnologie informatiche basate sul silicio sono discontinuità storiche e socio-economiche di primaria importanza.
Questo trionfo costante della ragione umana sulla natura e sui mezzi tecnologici, che serve anche periodicamente ad esporre l’arretratezza delle nostre sovrastrutture sociali e delle nostre relazioni, è una prospettiva insostituibile che devo a Marx. Il suo materialismo storico fu rinforzato nel modo più interessante e inaspettato. Chiunque abbia guardato l’episodio di Star Trek Voyager intitolato “In un batter d’occhio”, riconoscerà una meravigliosa raffigurazione in quarantacinque minuti del materialismo storico al lavoro: un’impressionante narrazione del processo per cui lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi tecnologici che costantemente mettono in discussione la superstizione e creano impulsi storici che, in maniera non lineare, generano nuove fasi della civilizzazione.
Il mio primo incontro con i testi di Marx avvenne molto presto nella mia vita, come risultato degli strani tempi in cui mi ritrovai a crescere, con la Grecia intenta ad uscire dall’incubo della dittatura neofascista del 1967-1974. Quel che attirò la mia attenzione fu l’insuperabile, affascinante dono di Marx nel ritrarre la storia umana come un’opera teatrale, in cui la dannazione umana è riscattata da una reale possibilità di salvezza e da una spiritualità autentica. Leggendo frasi quali…
“la moderna società borghese con le sue condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, una società che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate”. (Il Manifesto del Partito Comunista, 1848)
…sembrava quasi di presenziare a un incontro fra, da una parte, Faust e il Dottor Frankestein, e dall’altra, Adam Smith e David Ricardo, nella creazione di una narrativa popolata da figure (lavoratori, capitalisti, funzionari, scienziati), che erano gli attori drammatici della Storia, agenti che combattevano per imbrigliare la ragione e la scienza allo scopo di rendere più forte l’umanità mentre, contrariamente alle loro intenzioni, scatenavano forze infernali che usurpavano e sovvertivano la loro libertà e la loro umanità.
Questa prospettiva dialettica, in cui ogni cosa genera il suo opposto, e l’occhio acuto con cui Marx individuava il potenziale per il cambiamento nelle strutture sociali apparentemente più fisse e immutabili, mi aiutò a cogliere le grandi contraddizioni dell’epoca capitalista. Dissolveva il paradosso di un’età che generava le condizioni di benessere più notevoli e, nello stesso istante, la povertà più nera. Oggi, volgendosi alla crisi europea, alla crisi di realizzazione americana, alla stagnazione di lungo termine del capitalismo giapponese, quasi tutti i commentatori non riescono a cogliere il processo dialettico che si svolge sotto il loro naso. Riconoscono la montagna di debiti e le perdite delle banche, ma dimenticano l’altro lato della medaglia, la sua antitesi: la montagna di risparmi inattivi che sono congelati dalla paura e che dunque non si convertono in investimenti produttivi. Un’attenzione marxista alle opposizioni binarie li avrebbe aiutati ad aprire gli occhi…
Una delle ragioni principali per cui l’opinione dominante non riesce a fare i conti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la tensione dialettica della produzione congiunta di debiti e surplus, di crescita e disoccupazione, di benessere e povertà, di spiritualità e depravazione, per non dire di bene e male, di nuove forme di piacere e di schiavitù, di libertà e sottomissione: di questo calderone di opposizioni binarie che gli scritti drammatici di Marx ci indicavano come le risorse dell’ingegno della Storia.
Fin dalle mie prime riflessioni come economista, giungendo ad oggi, mi è sempre parso chiaro come Marx abbia compiuto una scoperta che sarebbe dovuta rimanere il punto centrale di ogni utile analisi del capitalismo. Questa scoperta era, ovviamente, quella di un’altra opposizione binaria intrinseca al lavoro umano. Questo è dotato di due nature differenti: 1) lavoro come creazione di valore (respiro vitale), attività che non può mai essere specificata o quantificata in anticipo (e per cui impossibile da mercificare) e, 2) lavoro come quantità (numero di ore di lavoro), utilizzato per la vendita e trasformato in un prezzo. Ciò è quel che contraddistingue il lavoro da altre risorse produttive come l’elettricità: la sua duplice, contraddittoria natura. Una differenza-contraddizione che gli economisti politici dimenticavano di fare prima di Marx, e che gli economisti mainstream rifiutano fermamente di accettare tutt’oggi.
Sia l’elettricità che il lavoro possono essere pensati come merci. Tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. I datori di lavoro usano tutta la loro ingegnosità, e quella dei loro manager delle risorse umane, per quantificare, misurare e omogeneizzare il lavoro. Allo stesso tempo i potenziali impiegati si dannano l’anima in un tentativo ansioso di mercificare il loro potere lavorativo, scrivendo e riscrivendo i loro curricula per ritrarsi come fornitori di unità di lavoro quantificabili. E questo è il problema! Perché se lavoratori e datori di lavoro riuscissero a mercificare completamente il lavoro, il capitalismo morirebbe. Questa è una prospettiva senza la quale la tendenza del capitalismo di generare crisi cicliche non potrà mai venire pienamente compresa, una prospettiva alla quale nessuno, senza una conoscenza di base del pensiero di Marx, avrà mai accesso.

  1. 3. La fantascienza diventa documentario
In un grande classico, il film del 1953 L’invasione degli ultracorpi, gli alieni non ci attaccano frontalmente, a differenza, ad esempio, di quel che accade in La guerra dei mondi di H.G. Wells. Piuttosto, gli umani sono attaccati dall’interno, fino a che non rimane nulla della loro anima e delle loro emozioni. I loro corpi sono tutto ciò che rimane, come gusci che una volta contenevano una libera volontà e che ora lavorano, attraversano meccanicamente la vita quotidiana, e funzionano da simulacri umani “liberati” dall’aleatoria capricciosità della natura umana. Questo processo è equivalente alla trasformazione necessaria a trasformare il lavoro umano in una fonte di energia non differente dai semi, dall’elettricità, in effetti dai robot. Parlando in termini moderni, è quel che sarebbe accaduto se il lavoro umano fosse diventato perfettamente riducibile a capitale umano e dunque adatto ad essere inserito nei rozzi modelli economici.
Provate a pensarci, ogni singola teoria economica non marxista che tratta gli impulsi produttivi umani e non-umani come se fossero intercambiabili, quantità qualitativamente equivalenti, adotta il presupposto che la de-umanizzazione del lavoro umano sia completa. Ma se tale processo giungesse mai ad essere completo, il risultato sarebbe la fine del capitalismo inteso come sistema capace di creare e distribuire valore. Innanzitutto, una società di simulacri de-umanizzati, o automi, assomiglierebbe ad un orologio meccanico pieno di ingranaggi e molle, ognuno con la sua propria funzione, e che nel complesso producono un “bene”: la misurazione del tempo. Ma se questa società contenesse nient’altro che automi, la misurazione del tempo non sarebbe un “bene”. Sarebbe un “prodotto”, certamente, ma perché mai un “bene”? Senza esseri umani reali a sperimentare il funzionamento dell’orologio, non potrebbero esserci cose come “beni” o “mali”. Una “società” di automi sarebbe, così come gli orologi meccanici o dei circuiti integrati, piena di ingranaggi funzionanti, dimostrando una funzione, una funzione che però non potrebbe venire descritta né in termini morali, né di valore.
Dunque, per ricapitolare, se il capitale dovesse mai riuscire nel quantificare, e dunque nel mercificare completamente, il lavoro, così come prova a fare in ogni momento, lo prosciugherebbe anche di quell’indeterministica, recalcitrante libertà umana che permette la generazione del lavoro. La brillante rivelazione di Marx riguardo l’essenza più profonda delle crisi capitaliste era precisamente questa: maggiore sarà il successo del capitalismo nel convertire il lavoro in una merce, minore sarà il valore che ogni unità genererà, minore il profitto e, infine, più vicina la prossima odiosa recessione sistemica dell’economia. Il ritratto della libertà umana intesa come categoria economica è un aspetto unico del pensiero di Marx, rendendo possibile una peculiare e astute interpretazione drammatica e analitica della propensione del capitalismo a piombare nella recessione, persino nella depressione, a partire dalle fasi più sfrenate di crescita.
Quando Marx scriveva che il lavoro era il fuoco vivente che dava forma alle cose, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava fornendo il più grande contributo che ogni economista abbia mai dato alla nostra comprensione della profonda contraddizione sepolta dentro il DNA del capitalismo. Quando ritraeva il capitale come “una forza cui dobbiamo sottometterci…che sviluppa un’energia cosmopolita, universale, che oltrepassa ogni limite e rompe ogni legame, e si pone come unica regola, unica universalità, solo limite e solo legame”[2], stava evidenziando la realtà per cui il lavoro può essere comprato tramite capitale liquido (denaro), nella sua forma di merce, ma porta sempre dentro di sé un desiderio ostile al capitalista compratore. Ma Marx non stava solamente facendo un’affermazione psicologica, filosofica o politica. Stava, piuttosto, fornendo una ragguardevole analisi del perché nel momento in cui il lavoro (inteso come attività non quantificabile) si spoglia di tale ostilità, diviene sterile, incapace di produrre valore.
In un momento in cui i neoliberisti hanno invischiato la maggior parte delle persone nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando incessantemente l’ideologia del miglioramento della produttività del lavoro allo scopo di aumentare la competitività e creare così “crescita” e così via, le analisi di Marx offrono un potente antidoto. Il capitale non potrà mai vincere nella sua lotta per trasformare il lavoro in una risorsa infinitamente elastica e meccanizzata senza distruggere sé stesso. Questo è ciò che né i neoliberisti né i keynesiani comprenderanno mai! “Se l’intera classe dei salariati venisse annichilita dai macchinari” scriveva Marx, “quanto terribile sarebbe ciò per il capitale che, senza lavoro salariato, cesserebbe di essere quello che è”[3]Quanto più il capitale si avvicina alla sua vittoria finale sul lavoro, tanto più la nostra società si fa somigliante a quella di un altro film di fantascienza. Un film che era stato presagito proprio da Karl Marx: Matrix.
Ciò che è unico in Matrix è che, in esso, la ribellione dei nostri manufatti non è un semplice caso di uccisione del padre creatore. A differenza della Cosa di Frankestein, che aggredisce irrazionalmente gli esseri umani a causa della sua assoluta angoscia esistenziale, o delle macchine della serie diTerminator, che vogliono solamente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in Matrixl’emergente impero delle macchine vuole conservare l’esistenza umana per i propri fini: mantenerci in vita in quanto risorsa primaria. L’Homo sapiens, nonostante abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza precedenti nell’infliggere orrori indicibili ai nostri consanguinei, non avrebbe mai potuto neppure immaginare il ruolo spregevole che le macchine ci assegnano in Matrix: bloccati in apparecchiature che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci sottopongono ad alimentazione forzata con una miscela di sostanze nutrienti nauseabonde volte a intensificare la produzione di calore.
Ad ogni modo, ben presto le macchine scoprono che gli umani non durano a lungo una volta che il loro spirito è spezzato e la loro libertà infranta. Il nostro curioso bisogno di libertà minaccia l’efficacia dei loro impianti a energia umana. Così, le macchine ci imprigionano in quella che Marx avrebbe chiamato “falsa coscienza”. Non instillano nei nostri corpi solamente sostanze nutrienti, ma anche le illusioni che il nostro spirito brama. Ingegnosamente, attaccano degli elettrodi ai nostri crani con i quali percepiscono, direttamente nel nostro cervello, la vita virtuale, ma profondamente realistica che, come umani, vorremmo vivere. Mentre i nostri corpi sono brutalmente attaccati ai loro generatori di potenza, alimentandoli con l’elettricità scaturita dal calore dei nostri corpi, il software delle macchine noto come Matrix riempie le nostre menti con visioni di una vita immaginaria, illusoria, ma verosimile e “normale”. In questo modo i nostri corpi, ignari della realtà, possono vivere per decenni, tutto a vantaggio delle macchine che possono così generare l’energia bastante per sostenere la loro nuova civiltà. L’oblio dell’umanità costituisce così un fattore cruciale per la produzione dell’economia di Matrix.
“Le macchine hanno acquisito il dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti”[4], così Marx descriveva l’ascesa delle macchine, un incrocio fra un’antica tragedia greca e una shakespeariana che si svolgeva sullo sfondo di una rivoluzione industriale in cui i pochi possedevano le macchine e i molti le facevano lavorare. Il punto centrale di Marx era che, nell’universo del capitale, siamo già trans-umani. Matrix non è futurologia. È parte della nostra realtà già da un pezzo! È il miglior documentario possibile sulla nostra era o, per essere precisi, sulla tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle caratteristiche che gli impediscono di diventare pienamente flessibile, perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il suo ruolo è stato quello di fornirci l’opzione della pillola rossa[5]; una possibilità per guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni dell’ideologia borghese, la squallida realtà di un sistema che produce crisi e deprivazione ogni giorno, intenzionalmente e non certo per caso.
Leggete qualsiasi manuale di management, qualsiasi articolo in qualsiasi rivista accademica di economia, qualsiasi documento prodotto dall’Unione Europea sull’istruzione, sulla scuola, sull’università, i programmi di innalzamento della produttività, sulla competitività eccetera. Capirete immediatamente che stiamo già vivendo nella nostra versione di Matrix. Gli inesorabili sforzi del capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infestato tutti questi documenti, che sponsorizzano una società in cui le persone aspirino a divenire automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica è la trasformazione del lavoro umano in una versione di energia termica che permetta alle macchine maggiori margini di funzionamento e la costruzione di altre macchine che, tragicamente, mancheranno di ogni capacità di generare…valore.
In questo senso, la nostra Matrix può essere solo provvisoria poiché più si avvicina alla perfetta versione del film più probabile è lo scatenamento di una crisi di dimensioni catastrofiche, e, con il precipitare dei valori economici, il sopraggiungere di una Grande Recessione, e il ruolo delle macchine è rovesciato quando gli investimenti in esse divengono negativi. Da questa prospettiva marxiana, tornando nuovamente al film, il gruppo di uomini liberati nel cuore della società delle macchine (che guidano la risorgenza degli esseri umani) simbolizza la resistenza umana al diventare capitale umano; l’irriducibile ostilità intrinseca nei confronti della quantificazione che rimane insita nei cuori e nelle menti persino di coloro che spendono tutte le loro energie nel cercare di mercificarsi per conto dei propri datori di lavoro. L’ironia deliziosa in tutto ciò è che proprio quest’ostilità che il capitale tenta di sradicare nel lavoro è proprio ciò che rende il lavoro capace di produrre valore e permette al capitale di accumularsi.

  1. 4. Cos’ha fatto Marx per noi?
In un’occasione Paul Samuelson denigrò Marx chiamandolo un seguace minore di Ricardo. Quasi ogni scuola di pensiero, compresi alcuni economisti progressisti, vorrebbe far finta che, nonostante Marx sia stato una figura carismatica, molto poco, se non niente del tutto, dei sui contributi rimanga rilevante al giorno d’oggi. Mi sia consentito di dissentire.
Oltre all’aver individuato il dramma fondamentale della dinamica capitalista (vedere la precedente sezione), Marx mi ha fornito gli strumenti con cui divenire immune dalla propaganda tossica dei nemici neoliberisti della vera libertà e razionalità. Ad esempio, l’idea che la ricchezza sia prodotta privatamente e quindi fatta oggetto di appropriazione da parte di uno stato quasi illegittimo attraverso la tassazione è un’idea cui è facile soccombere se non si è fatti i conti con l’acuta osservazione di Marx per cui è vero esattamente il contrario: la ricchezza è prodotta collettivamente e quindi fatta oggetto di appropriazione privata attraverso le relazioni sociali di produzione e i diritti di proprietà che si basano, per la loro riproduzione, quasi esclusivamente sulla falsa coscienza. Vale lo stesso per il concetto di “autonomia” che suona così bene nel nostro mondo “postmoderno”. Anch’essa è prodotta collettivamente, attraverso la dialettica del mutuo riconoscimento, e quindi fatta oggetto di privatizzazione. Se solo Marx fosse stato preso sul serio (dai marxisti prima ancora che dai suoi detrattori, deve essere detto), molta dell’aria fritta prodottasi nella storia degli annali degli studi culturali sarebbe stata evitata.
Phil Mirowski ha recentemente[6] sottolineato, in maniera piuttosto convincente, il successo dei neoliberisti nel convincere vasti strati di persone che il mercato non sia solamente un mezzo utile, ma anche un inalienabile fine in sé. Che mentre l’azione collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai capaci di fare la cosa giusta, le operazioni senza restrizioni dell’interesse privato decentralizzato generano una sorta di laica provvidenza divina che garantisce la produzione non solo dei risultati voluti, ma anche dei desideri, dell’indole, dell’etica voluta perfino. Il miglior esempio della grossolanità neoliberista è ovviamente, il dibattito sul cambiamento climatico e su cosa fare per fermarlo. I neoliberisti si sono affrettati ad argomentare che, se proprio si deve fare qualcosa, è necessario che questo qualcosa prenda la forma di una sorta di mercato degli “scarti” (come, ad esempio, un mercato di scambio delle emissioni) poiché solamente i mercati sanno come valutare appropriatamente i beni e gli scarti. Per capire sia perché una tale soluzione sia destinata a fallire sia, cosa più importante, da dove giunge la motivazione di certe soluzioni, è sufficiente acquisire un minimo di familiarità con la logica di accumulazione del capitale sottolineata da Marx e che Michal Kalecki ha adattato ad un mondo governato da oligopoli connessi tra loro.
Nel XX secolo i due movimenti politici che affondavano le loro radici nel pensiero di Marx erano i partiti comunisti e quelli socialdemocratici. Entrambi, in aggiunta ai loro altri errori (e persino crimini) fallirono, a loro danno, nel seguire la guida di Marx su una questione cruciale: invece di imbracciare libertà e razionalità come loro parole d’ordine e concetti organizzativi, optarono per uguaglianza e giustizia, lasciando la libertà al campo dei neoliberisti. Marx era irremovibile: il problema del capitalismo non è la sua ingiustizia, ma la sua irrazionalità, perché condanna intere generazioni alla miseria e alla disoccupazione e trasforma persino i capitalisti stessi in automi oppressi dall’angoscia, resi schiavi dalle macchine che nominalmente possiedono, costretti a vivere nella perenne paura di cessare di essere capitalisti, a meno di non riuscire a mercificare completamente gli altri umani in modo da sottoporli più efficientemente al servizio dell’accumulazione di capitale.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è solo perché schiavizza tutti alla maniera di Matrix, siano essi lavoratori o capitalisti; sperpera risorse naturali ed umane; produce in seria infelicità, schiavitù e crisi dalla stessa catena produttiva che genera notevoli innovazioni e benessere mai visto prima. Avendo fallito nell’accennare ad una critica del capitalismo in termini di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva fondamentale, la socialdemocrazia e la sinistra in generale ha permesso ai neoliberisti di usurpare il testimone della libertà e di ottenere un trionfo decisivo sul campo culturale e ideologico[7].
Rimanendo sulla questione del trionfo neoliberista, forse la sua dimensione più significativa è quella del cosiddetto “deficit democratico”. Fiumi di lacrime di coccodrillo sono stati versati sul declino delle nostre grandi democrazia negli scorsi tre decenni di finanziarizzazione e globalizzazione. Marx avrebbe deriso fragorosamente e a lungo coloro che sembrano sorpresi, o turbati, dal “deficit democratico”. Quale era il grande obiettivo del liberalismo del XIX secolo? Era, così come Marx non si stancò mai di far notare, la separazione della sfera economica da quella politica e il confino della politica nella seconda, lasciando la sfera economica al capitale. Ciò che stiamo osservando oggi non è altro che lo splendido successo del liberalismo nell’ottenere quest’obiettivo a lungo perseguito. Date un’occhiata al Sudafrica odierno, più di vent’anni dopo che Mandela è stato liberato e che la sfera politica ha abbracciato, finalmente, l’intera popolazione. La difficile situazione dell’ANC è stata quella per cui per poter dominare la sfera politica doveva accettare l’impotenza su quella economica. E se la pensate in un’altra maniera, vi suggerisco di parlare con le decine di minatori uccisi a colpi di fucile dalle guardie armate pagate dai loro padroni dopo che avevano osato chiedere un aumento di paga.

  1. 5. Perché eretico? I due errori imperdonabili di Marx
Avendo spiegato perché devo ogni comprensione del nostro mondo sociale che io possa avere principalmente a Karl Marx, voglio ora spiegare perché sono terribilmente arrabbiato con lui. In altre parole, vorrei sottolineare come mai sono per scelta un marxista eretico, dissenziente. Questi errori sono importanti in questo contesto perché ostacolano l’efficacia della sinistra nell’organizzarsi contro la misantropia, in particolar modo in Europa.
Il primo errore di Marx, che suggerisco sia dovuto a un’omissione, è il fatto che egli sia stato insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Ha fallito nel dedicare una riflessione sufficiente, e nel mantenere un silenzio giudizioso, sull’impatto delle sue stesse teorie sul mondo riguardo al quale stava teorizzando. La sua teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi discepoli, persone con una capacità di comprensione di queste potenti idee migliori di quella del lavoratore medio, potessero utilizzare il potere dato loro per abusare dei propri compagni, per costruire la loro personale base di potere, per guadagnare posizioni di influenza, per approfittare di studenti impressionabili eccetera?
Per fornire un secondo esempio, sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo, a tempo debito, a compiere una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e università costruite per gli scopi dei liberali. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica, rivelatasi in un primo tempo con una serie di invasioni, diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico. Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista) verso di esso sarebbe cresciuta sempre più.
Il secondo errore di Marx, quello che considero di commissione, è peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli (i cosiddetti ‘schemi di riproduzione’). Questo è stato il peggior servizio che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo stesso sistema teoretico. L’uomo che ci ha insegnato a considerare la libertà umana un concetto economico fondamentale, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è stato lo stessa persona che ha finito con il dilettarsi con semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano, ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la sua morte, gli economisti marxisti hanno sprecato intere carriere indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal funzionanti”. Immersi completamente in dibattiti irrilevanti sul problema della trasformazione e sul cosa fare in proposito, sono diventati alla fine una specie pressoché estinta, mentre la devastante furia neoliberista distruggeva ogni dissenso sul suo sentiero.
Come ha potuto Marx illudersi così? Perché non ha capito che nessuna verità sul capitalismo può venir fuori da qualsivoglia modello matematico per quanto brillante possa essere il modellista? Non aveva forse gli strumenti intellettuali necessari a comprendere che la dinamica capitalista viene fuori da quella parte non quantificabile del lavoro umano, ovvero da una variabile che non può mai venire definita matematicamente? Ovviamente li aveva, poiché li aveva forgiati lui stesso! No, la ragione del suo errore è un po’ più sinistra: proprio come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito (e che continuano a dominare i dipartimenti di Economia oggigiorno), egli bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.
Se ho ragione, Marx sapeva quel che stava facendo. Capiva, o aveva la capacità di capire, che una teoria comprensiva del valore non poteva essere contenuta in un modello matematico della crescita, di un’economia capitalista dinamica. Era, non ho dubbi in proposito, consapevole del fatto che una corretta teoria economica doveva rispettare il detto di Hegel per cui “le regole su ciò che è indeterminato sono esse stesse indeterminate”. In termini economici questo significa riconoscere che il potere del mercato, e quindi la capacità di ottenere profitto, dei capitalisti non è necessariamente riducibile alla loro capacità di estrarre lavoro dai loro salariati; che alcuni capitalisti possono estrarre di più da un bacino dato di manodopera o da una data comunità di consumatori per ragioni che sono esterne alla teoria economica.
Ma, ahimè, questo riconoscimento sarebbe equivalso all’ammettere che le sue ‘leggi’ non erano immutabili. Avrebbe dovuto riconoscere nei confronti delle voci a lui avverse nel movimento sindacale che la sua teoria era indeterminata e, quindi, che le sue affermazioni non potevano essere in maniera ultimativa e non ambigua corrette, ma piuttosto perennemente provvisorie. Ma Marx provava un irrefrenabile impulso a domare persone come Citizen Weston[8] che osava preoccuparsi del fatto che un innalzamento dei salari (acquisito attraverso azioni di sciopero) avrebbe potuto rivelarsi una vittoria di Pirro se i capitalisti avessero di conseguenza alzato i prezzi. Invece di limitarsi a argomentare contro persone come Weston, Marx era determinato a provare con precisione matematica che esse avessero torto e che fossero non scientifiche, volgari, non degne di una serie attenzione.
Questi erano i tempi in cui Marx aveva capito, e confessato, di aver sbagliato sul versante del determinismo. Una volta passato alla stesura del terzo volume del Capitale aveva capito che, persino una minima variazione (ad esempio l’ammettere differenti gradi di intensità del capitale in differenti settori) avrebbe confutato la sua argomentazione contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio monopolio sulla verità che passò sopra la questione, in maniera stupefacente ma troppo brusca, imponendo per legge l’assioma che avrebbe, alla fine, difeso la sua dimostrazione originale; quello che avrebbe inferto il colpo fatale a Citizen Weston. Strani sono i rituali della fatuità e tristi sono quando portati avanti da menti eccezionali, quali Karl Marx e un numero considerevole di suoi discepoli del XX secolo.
Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la “parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Si rivelò, alla fine, responsabile di una gran quantità di errori e, ancora di più, di autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista.

  1. 6. L’idea radicale del signor Keynes
Keynes era un nemico della sinistra. Amava il sistema di classe che l’aveva generato, non voleva avere nulla a che fare (personalmente) con la marmaglia delle classi inferiori, e lavorava duramente e diligentemente allo scopo di produrre idee che avrebbero permesso al capitalismo di sopravvivere contro la sua stessa propensione verso potenziali pulsioni di morte. Spirito libero, aperto di mente, pensatore liberale e borghese, Keynes aveva il raro dono di non tirarsi indietro da sfide ai suoi stessi presupposti. Nel bel mezzo della Grande Depressione, fu abbastanza felice di liberarsi dalla tradizione di Marshall che costituiva la sua eredità. Notando che più la disoccupazione cresceva più bassi divenivano i salari, e che gli investimenti rifiutavano di aumentare persino dopo un lungo periodo di tassi zero di interesse, fu pronto a strappare il “libro di testo” e a riconsiderare i destini del capitalismo.
La sua revisione radicale doveva iniziare da qualche parte. Iniziò quando Keynes ruppe i ranghi dei suoi colleghi facendo l’impensabile: riprendendo il dibattito tra David Ricardo e Thomas Malthus e prendendo le parti dell’ecclesiastico. In maniera tutt’altro che ambigua, durante la Grande Depressione, scrisse: “Se solo Malthus, piuttosto che Ricardo, fosse stato il capostipite di tutti gli economisti del XIX secolo, che posto più saggio e più ricco sarebbe il mondo oggi!”[9] Con quest’affermazione provocatoria, Keynes non stava adottando né  la posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici né le sue visioni teologiche sul potere redentore della sofferenza[10]. Piuttosto, Keynes abbracciava lo scetticismo di Malthus per quanto riguardava a) l’opportunità di ricercare una teoria del valore che fosse compatibile con la complessità e la dinamicità del capitalismo e b) la convinzione di Ricardo, che più tardi condivise anche Marx, che una persistente depressione sia incompatibile con il capitalismo.
Perché Keynes non converse in direzione della posizione di Marx, che dopotutto era stato il primo economista politico a spiegare le crisi come costitutive del processo capitalistico? Perché la Grande Depressione non era come le altre crisi del tipo che Marx aveva descritto così bene. Nel primo volume delCapitale Marx racconta la storia di cicliche recessioni redentrici dovute alla doppia natura del lavoro e che generano periodi di crescita che contengono in sé l’ennesimo crollo che, a sua volta, causa la successiva ripresa, e così via. Ma non c’era nulla di redentore nella Grande Depressione. La crisi degli anni Trenta era semplicemente questo: una crisi che si comportava come un equilibrio statico – uno stato economico che sembrava perfettamente capace di perpetuarsi, con la ripresa anticipata che rifiutava testardamente di apparire all’orizzonte persino dopo che i tassi di profitto risalirono in risposta al collasso dei salari e dei tassi d’interesse.
Il cuore della scoperta di Keynes sul capitalismo era duplice: A) era un sistema intrinsecamente indeterminato, che presentava quella che gli economisti di oggi chiamerebbero un’infinità di equilibri multipli, alcuni dei quali erano coerenti con la disoccupazione endemica di massa, e B) sarebbe potuto precipitare in uno di questi terribili equilibri in un batter d’occhio, in maniera imprevedibile senza ragione alcuna, solamente a causa del timore di una porzione significativa di capitalisti per un tale evento.
Per dirla semplicemente, ciò significa che, riguardo alla predizione delle depressioni e del loro superamento da parte delle forze del mercato, “che ci venga un colpo se ne possiamo sapere qualcosa!”. Significa che non abbiamo nessun modo per sapere ciò che il capitalismo farà l’indomani persino quando, nel presente, sembra rinforzarsi sempre più. Che potrebbe benissimo precipitare all’improvviso e rifiutarsi di alzarsi nuovamente. La nozione degli “spiriti animali” di Keynes rappresentò un’idea estremamente radicale, in grado di catturare la radicale indeterminazione del cuore del meccanismo capitalista. Un’idea introdotta per la prima volta da Marx, con le sue analisi sulla natura dialettica del lavoro, ma che, nel processo di scrittura del Capitale, abbandonò in modo da stabilire i suoi teoremi come prove matematiche e indiscutibili. Di tutti i passaggi della Teoria Generale di Keynes questa idea, quella della capricciosità autodistruttiva del capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per radicalizzare nuovamente il marxismo.

  1. 7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Mi trasferii in Inghilterra per frequentare l’università nel settembre 1978, più o meno sei mesi prima della vittoria della signora Thatcher che cambiò per sempre il Regno Unito. La visione della disintegrazione del governo laburista, sepolto sotto il peso del suo programma socialdemocratico degenerato, mi condusse a un errore fatale: il pensare che forse la vittoria della signora Thatcher sarebbe stata una buona cosa, perché avrebbe apportato alla classe media e alla classe operaia britannica il breve e violento shock necessario a rinvigorire le politiche progressiste, dando alla sinistra una chance di ripensare le proprie posizioni e di creare un’agenda nuova, radicale, per un nuovo genere di efficaci politiche progressiste.
Persino quando la disoccupazione raddoppiò e quindi triplicò, sotto l’effetto dei radicali interventi neoliberisti della signora Thatcher, continuai a nutrire la speranza che Lenin avesse ragione: “le cose devono peggiorare perché possano migliorare”. Mentre l’esistenza si faceva più dura, e, per molti, più breve, realizzai di essere tragicamente in errore: le cose potevano peggiorare in perpetuo, senza migliorare mai. La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la diminuzione degli standard di vita della maggioranza, la diffusione della povertà in ogni angolo del paese potessero condurre, automaticamente, ad una rinascita della sinistra era appunto solo questo: speranza!
La realtà si stava rivelando, invece, tragicamente differente. A ogni giro di vite della recessione, la sinistra si ripiegava sempre più su se stessa, meno capace di produrre una convincente agenda progressista e, nel frattempo, la classe operaia si divideva fra coloro che venivano emarginati dalla società e coloro che venivano cooptati del nuovo assetto neoliberista. Il concetto per cui un peggioramento delle condizioni oggettive avrebbe in qualche modo dato vita a condizioni soggettive tali per cui da esse sarebbe sorta una nuova rivoluzione politica era assolutamente fasullo. Tutto ciò che venne fuori dal thatcherismo furono trafficoni, finanziarizzazione estrema, il trionfo dei supermercati sui negozi di quartiere, la feticizzazione della casa e… Tony Blair.
Invece di radicalizzare la società britannica, la  recessione così attentamente pianificata dal governo della signora Thatcher,  come parte della sua guerra di classe contro il lavoro organizzato e contro le pubbliche istituzioni di sicurezza sociale e redistribuzione che erano state fondate subito dopo la guerra, distrusse permanentemente la possibilità stessa di politiche radicali e progressiste nel Regno Unito. Infatti, rese inconcepibile la stessa nozione di valori che trascendessero ciò che il mercato determinava come “giusto” prezzo.
L’amara lezione che mi impartì la signora Thatcher sulla capacità di una recessione di lungo termine di minare le politiche progressiste e di instillare la misantropia nelle fibre della società, è una lezione che porto con me nel mezzo dell’odierna crisi europea. È, infatti, ciò che determina più di ogni altra cosa la mia posizione in relazione alla crisi dell’Euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero in maniera quasi esclusiva in questi ultimi anni. Ed è la ragione per cui sono felice di confessare il peccato che mi viene attribuito dai critici radicali della mia posizione “menscevica” sull’Eurozona: il peccato di scegliere di non proporre programmi politici radicali al fine di sfruttare la crisi dell’Euro come un’opportunità per rovesciare il capitalismo europeo, di smantellare l’odiosa Eurozona e di colpire al cuore l’Unione Europea dei cartelli economici e dei banchieri corrotti.
Si, mi farebbe piacere porre una tale agenda radicale come prioritaria. Ma, no, non sono pronto a commettere lo stesso errore due volte. Che vantaggi abbiamo ottenuto nel Regno Unito nei primi anni Ottanta nel promuovere un programma di cambiamento socialista che la società britannica disprezzava mentre cadeva a capofitto nella trappola neoliberista della signora Thatcher? Nessuno. Che bene ne deriverebbe oggi dal predicare lo smantellamento dell’Eurozona, dell’Unione Europea stessa, quando il capitalismo europeo sta facendo tutto il possibile per smantellare l’Eurozona, l’Unione Europea, se stesso persino?
Un’uscita greca, portoghese o italiana dall’Eurozona si trasformerebbe ben presto in una frammentazione del capitalismo europeo, producendo una regione in forte recessione a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto dell’Europa giacerebbe in una palude senza scampo di stagnazione economica e inflazione. Chi pensate trarrebbe profitto da questa situazione? Una sinistra progressista, risorgente dalle ceneri delle pubbliche istituzioni europee come una fenice? O i nazisti di Alba Dorata, i neofascisti vari, gli xenofobi e i maneggioni? Non ho assolutamente dubbi in proposito. Non sono pronto a spingere per la realizzazione di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se questo significa che è compito nostro, dei marxisti eretici, salvare il capitalismo europeo da se stesso, così sia. Non per amore o apprezzamento del capitalismo europeo, dell’Eurozona, di Bruxelles o della Banca Centrale Europea, ma solo perché vogliamo minimizzare i superflui tributi umani a questa crisi; le innumerevoli vite le cui prospettive sarebbero ulteriormente distrutte senza un qualsiasi beneficio per le future generazioni in Europa.

  1. 8. Conclusione: quale è il compito dei marxisti?
Le élite europee si stanno comportando oggi come una sventurata compagnia di leader incompetenti che non capisce nulla né della natura della crisi cui sta presiedendo né delle sue implicazioni per il loro stesso destino – per non parlare di quello del futuro della civiltà europea. Spinti dai loro istinti atavici, i leader europei stanno scegliendo di saccheggiare le ricchezze in diminuzione dei poveri e degli sfruttati allo scopo di turare le voragini provocate dai loro banchieri falliti, rifiutando di accettare l’impossibilità del tentativo. Dopo aver creato un’unione monetaria che A) ha rimosso dalla macroeconomia europea tutti i possibili strumenti in grado di attutire gli shock e B) ha assicurato che, all’arrivo dello shock, questo sarebbe diventato di enormi proporzioni, si stanno prodigando nel negare la realtà, sperando, irrazionalmente, in qualche miracolo provocato dagli dei dopo il sacrificio di un numero sufficiente di vite umane sull’altare dell’austerità e della competizione.
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino, Lisbona, Madrid; a ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea o della Commissione Europea sulla prossima fase dell’austerity che dovrà essere messa in pratica da Parigi o da Roma, tornano in mente le parole di Bertolt Brecht: “la forza bruta è passata di moda. Perché mandare sicari prezzolati quando gli ufficiali giudiziari possono fare lo stesso lavoro?”. Il punto è: come resistergli?
Sempre consapevole della colpa collettiva della sinistra per il feudalesimo industriale cui abbiamo condannato per decenni milioni di persone in nome di…politiche progressiste, vorrei nonostante questo formulare un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro grandi differenze, esse hanno una cosa in comune: l’uniforme linea di partito che scorre senza soluzione di continuità dal vertice (il Politburo o la Commissione) alla base (ogni giovane ministro di ogni Stato membro, o ogni commissario di infima importanza, che ripete a pappagallo le stesse futilità). Sia l’apparato dell’Unione Sovietica che quello dell’Unione Europea condividono una determinazione da setta religiosa ad accettare i fatti solamente se concordi con le profezie e i loro testi sacri. Il signor Olli Rehn, ad esempio, che è il membro della Commissione Europea responsabile delle questioni economiche e finanziarie, recentemente ha avuto l’audacia di accusare il Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato alcuni errori nel calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’Eurozona perché una tale rivelazione “minava la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni”. Neppure Leonid Breznev avrebbe osato fare pubblicamente una tale dichiarazione!
Con le élite europee allo sbando, volte a negare la realtà con le teste sotto la sabbia come gli struzzi, la sinistra deve ammettere che, semplicemente, non siamo pronti a colmare il baratro che un capitalismo europeo al collasso aprirà con un sistema socialista funzionante, capace di creare benessere condiviso per le masse. Il nostro obiettivo deve quindi essere duplice: portare avanti un’analisi del corrente stato delle cose che i non-marxisti, ossia gli europei sedotti in buona fede dalle sirene del neoliberismo, possano trovare condivisibile. E dar seguito a questa solida analisi con proposte per stabilizzare l’Europa – per porre fine alla spirale recessiva che, alla fine, rinforzerà solamente gli intolleranti e incuberà le uova dei serpenti. Ironicamente, noi che aborriamo l’Eurozona abbiamo l’obbligo morale di salvarla!
Questo è quello che abbiamo cercato di fare con la nostraModesta proposta[11]Indirizzandoci a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi speculativi, l’idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice interesse: un interesse nel porre fine al circolo vizioso tra austerità e crisi, tra stati in bancarotta e banche in bancarotta; un circolo vizioso che danneggia tanto il capitalismo quanto ogni programma progressista in grado di rimpiazzarlo. Questa è la ragione per cui difendo i miei tentativi per arruolare alla causa della Modesta proposta gente come i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, membri conservatori del Parlamento inglese, finanzieri che sono preoccupati dalla tragica situazione dell’Europa.
Il lettore mi concederà di concludere con due confessioni finali. Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale lo scopo del programma per stabilizzare il sistema che propongo, non pretendo comunque di esserne entusiasta. Questo è quel che dobbiamo fare, spinti dalle circostanze odierne, ma mi dispiace dover dire che probabilmente non farò in tempo a vedere adottato un programma più radicale. Infine, una confessione di natura più strettamente personale: io so di correre il rischio di alleviare, surrettiziamente, la tristezza dell’abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso della mia esistenza indulgendo nel sentimento di essere diventato “gradevole” agli occhi degli appartenenti ai circoli della “buona società”. Il senso di soddisfazione personale nell’essere onorato dai ricchi e dai potenti ha iniziato, di tanto in tanto, a farsi strada in me. Ed è una sensazione assolutamente brutta, non radicale, che sa quasi di corruzione.
Il mio nadir personale è arrivato in un aeroporto. Un gruppo danaroso mi aveva invitato a tenere un discorso di apertura sulla crisi europea e aveva sborsato la considerevole somma necessaria a comprarmi un biglietto aereo in prima classe. Sulla strada del ritorno verso casa, stanco e reduce già da diversi voli, mi stavo facendo strada attraverso la lunga fila di passeggeri della classe economica per raggiungere il mio gated’imbarco. Improvvisamente realizzai, con notevole orrore, quanto facile fosse per la mia mente venire infettata da questa sensazione di essere “autorizzato” a sorpassare la massa. Capii quanto facile fosse per me dimenticare quel che il mio pensiero di sinistra aveva sempre saputo: che nulla riesce a riprodursi meglio di un falso senso di potere. Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per stabilizzare l’Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati, di gettare alle ortiche il nostro radicalismo in cambio della piacevole sensazione di essere “arrivati” nei corridoi del potere.
Confessioni radicali, come quella che ho appena tentato di fare, sono forse l’unico antidoto programmatico agli scivoloni ideologici che minacciano di trasformarci in ingranaggi del sistema. Se dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale, con i neoliberisti che, nonostante questo, sono contrari a quella che chiamano la dittatura delle banche fallite, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma riuscirono a migliorare la loro situazione personale. Il trucco è evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti a aggirare qualsiasi opposizione alla loro cattiveria autodistruttiva ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio mentre cerchiamo di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso. Confessioni radicali possono essere utili nel mantenere questo difficile equilibrio. Dopotutto, il marxismo umanista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.


[1] Come esempio delle ricerche che sono venute fuori, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[2] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[3] Marx in “Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sulla Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849[diffuso come conferenza nel 1847]. Rivisto con un’introduzione di Friedrich Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York, Labor New Company, 1902.
[4] Vedere Karl Marx (1844, 1969), Manoscritti economico-filosofici.
[5] Verso l’inizio di Matrix, un guerrigliero urbano che aveva appena aiutato Thomas Anderson, detto Neo, a fuggire da alcuni agenti in borghese, gli offre una scelta cruciale fra due pillole. Se prenderà la pillola blu, tornerà a letto e si sveglierà al mattino pensando che l’intera vicenda sia stata un incubo prima di tornare alla sua vita “normale”. Se invece opterà per la pillola rossa, apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In un trionfo dell’incauta curiosità sulla tentazione del semplice piacere, Neo rigetta la prospettiva di beata ignoranza offerta dalla pillola blu, optando invece per la crudele realtà promessa dalla rossa.
[6] Vedere Mirowski (2013).
[7] Per approfondire quest’argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998).
[8] Vedere Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, in cui Marx stesso racconta il suo dibattito con Citizen Weston.
[9] Vedere il suo saggio su Malthus, “Robert Malthus: il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in John Maynard Keynes (1972). The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London, Macmillan. La citazione appare alle pagine 100-101. Pubblicato originariamente in Essays in Biography, 1933.
[10] Malthus deve la sua fama alla previsione per la quale la crescita della popolazione sarebbe avvenuta più velocemente di quella delle risorse del pianeta, nonostante I nostri migliori sforzi, e che quindi la fame costituisce un indispensabile meccanismo di equilibrio. In quanto uomo di Chiesa, spiegò ciò come parte del disegno divino: la sofferenza delle masse, le pance turgide dei bambini ridotti allo stremo dalla fame, e i volti esausti delle madri piangenti erano un’opportunità data da Dio agli umani per abbracciare il bene e combattere il male.
[11] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K. Galbraith, A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0

BIBLIOGRAFIA
Keynes, J.M. (1933,1972). “Robert Malthus: The First of the Cambridge Economists,” penned in 1933, in The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London: Macmillan.
Marx, K, (1865,1969). “Wages, Prices and Profit’ in Value, Price and Profit, New York: International Co. (edizione itliana Salario, prezzo e profitto disponibile on line)
Marx, K. (1844,1969). Economic and Philosophical Manuscripts, in Marx/Engels Selected Works, Moscow, USSR: Progress Publishers (edizione italiana disponibile on line)
Marx, K. (1849,1902). “Wage-Labour and Capital”, first published in the Neue Rheinische Zeitung, April 5-8 and 11, 1849. [Delivered as lectures in 1847] Edited with an introduction by Friedrich Engels in 1891. Translated by Harriet E. Lothrop, New York: Labor News Company (edizione italiana di Lavoro salariato e capitale disponibile on line)
Marx, K. (1972). Capital: Vol. I-III. London: Lawrence and Wishart
Mirowski, P. (2013). Never Let a Good Crisis Go To Waste: How Neoliberalism survived the financial meltdown, London and New York: Verso
Varoufakis Y. (2013). Economics Indeterminacy: A personal encounter with the economists’ peculiar nemesis, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y. (1991). Rational Conflict, Oxford: Blackwell
Varoufakis, Y. (1998). Foundations of Economics: A beginner’s companion, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y., J. Halevi and N. Theocarakis (2011). Modern Political Economics: Making sense of the post-2008 world, London and New York: Routledge
Varoufakis, S. Holland and J.K. Galbraith (2013). A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
[traduzione a cura di Federico Vernarelli e Maurizio Acerbo]

fonte: Sandwiches di realtà
fonte: http://www.rifondazione.it

venerdì, marzo 13, 2015

Ernst Lohoff La crisi della teoria della rivoluzione

di Ernst Lohoff
1. La crisi della teoria della rivoluzione 

Alla società borghese moderna riesce ogni giorno più difficile assicurare la propria riproduzione. A partire dal rapporto del Club of Rome nei primi anni settanta, si è andata largamente diffondendo, anche nella coscienza quotidiana, la consapevolezza che la società mondiale presenti tendenze suicide. Il continuo arrivo di notizie funeste nei campi dell’ecologia, dell’economia e della politica alimentano in permanenza una diffusa sensazione di crisi, che da tempo non è più centrata sul solo aspetto ecologico. Ma nonostante l’accumulazione di oggettivi sintomi di crisi, la società borghese sembra più salda che mai dal suo lato “soggettivo”. Le ex-opposizioni radicali si dimostrano prive di concetti e di idee di fronte ai reali problemi del nostro tempo e hanno rinunciato a tutte le loro aspirazioni. Con la loro mancanza di idee e di organizzazioni, esse non costituiscono più una sfida, ma forniscono al contrario un’ulteriore legittimazione per continuare lo statu quo. Di fronte al fallimento del pensiero antagonistico, l’attuale società borghese ha a sua disposizione un argomento molto forte: tutti riconoscono che non vi sono alternative a essa. L’opposizione fondamentalista perde ogni lustro e si riduce a moraleggiare e a lanciare accuse, degenerando in una posizione contemplativa e brontolona, mentre i modernizzatori e i riformisti continuano ciechi il loro povero mestiere.
Il nucleo di questo insieme ideologico è la miseria del pensiero marxista. La lunga crisi del marxismo è finita con la sua bancarotta completa. Lo sfacelo non colpisce però tutti gli elementi della teoria marxiana allo stesso modo. La bancarotta del marxismo consiste in prima linea nel misero fallimento della sua pretesa rivoluzionaria, quella di voler trascendere i rapporti borghesi. Mentre Marx, in quanto teorico dello sviluppo capitalistico, riceve ancora ogni tanto delle lodi postume anche dai suoi avversari per la sua lungimiranza analitica, la sua visione di un superamento del modo di produzione borghese viene considerata da tempo il più morto di tutti i cani. I giornalisti di terza pagina e altri sciacalli non debbono oggi aver remore di attingere alle idee di Marx con la stessa disinvoltura con cui hanno sfruttato in altre occasioni Aristotele, San Tommaso o gli illuministi francesi. La sua teoria dell’”alienazione” può essere considerata buona per tutte le stagioni. Solo una cosa è assolutamente esclusa in questi riferimenti a Marx – una prospettiva rivoluzionaria, post-borghese. Chi porta avanti l’idea marxiana di un possibile superamento della società capitalistica commette un imperdonabile passo falso e si rende ridicolo, ponendosi al di fuori di ogni “discorso razionale” e screditandosi con questa “speranza escatologica”, indipendentemente dai motivi che adduce per proclamare la fine possibile della società borghese. Anche alle orecchie della sinistra suona assai oscuro il discorso sul “carattere transitorio del modo di produzione capitalistico”. La futura storia dell’umanità sembra legata, almeno per un lungo periodo, alla forma borghese, la cui eliminazione viene identificata inevitabilmente con il passaggio alla barbarie pura.
Questo paradigma non è limitato agli apologeti di destra e di sinistra della società borghese, ma si riproduce anche là dove la teoria mantiene la sua punta critica e intende negarsi al consenso tacito con lo statu quo vigente. Quella parte minoritaria del marxismo attuale, che non ha fatto la pace con l’ordine esistente, svicola però “adornianamente” davanti alla possibilità di pensare qualcosa come la rivoluzione. Nella corrente ispirata alla Teoria critica, l’insistenza coerente sulla critica radicale coincide con l’abbandono di ogni speranza in una prospettiva rivoluzionaria che trascenda la socializzazione negativa. Il superamento del dominio borghese è per loro tanto necessario quanto impossibile. Tale quintessenza si è pietrificata in un paradigma. Di regola, la fusione di critica e pessimismo non viene nemmeno motivata o argomentata, ma costituisce il tacito presupposto di ogni sforzo analitico. Naturalmente non c’è regola senza eccezione. Nel nostro caso, essa si chiama soprattutto Stefan Breuer. Nel suo libro La crisi della teoria della rivoluzione, egli cerca di motivare in modo autonomo ed esplicito il nesso tra la critica radicale e il deciso rifiuto di tutte le “illusioni rivoluzionaristiche”. Questo tentativo merita attenzione, perché forma un piacevole contrasto con la ripetizione vuota di paradigmi della teoria critica, su cui normalmente si riposano intellettualmente gli apologeti della classica Scuola di Francoforte che hanno perso ogni speranza nella prospettiva rivoluzionaria.
Nella sua discussione della teoria di Marx, Breuer evidenzia due filoni teorici diametralmente opposti che esistono l’uno accanto all’altro nell’opera del maestro. Da una parte, Marx dimostra nella sua critica del feticismo che il dominio della forma-valore lascia spazio solo per una soggettività costituita dal capitale e totalmente sottoposta ad esso, mentre dall’altra sostiene una teoria della rivoluzione del tutto separata da questa impostazione e che ricorre invece all’”ontologia del lavoro”. Scrive Breuer: “Mentre – per riprendere una distinzione della vecchia interpretazione di Hegel – il Marx «esoterico» ha svelato, con un radicalismo insuperato, la natura astratta e repressiva della socializzazione borghese che ha violentemente eliminato tutte le forme di vita, di rapporti e di produzione che non le corrispondevano – poiché essa non era altro che la «sottomissione completa dell’individualità alle condizioni sociali che prendono la forma di forze oggettive, anzi di cose soprannaturali» -, il Marx «essoterico» era incline a revocare la sua affermazione secondo cui la socializzazione della produzione nel modo di produzione capitalistico non poteva essere altro che socializzazione astratta”.
Per poter salvare il proletariato come soggetto rivoluzionario, e quindi la prospettiva rivoluzionaria in quanto tale, Marx abbandona, nelle sue considerazioni sulla teoria della rivoluzione, il livello di riflessione raggiunto nella critica dell’economia politica, proprio come fanno i suoi epigoni. Egli tratta invece il proletariato come una potenza intimamente estranea al capitale, cui è sottomesso solo esteriormente: “Per poter conservare nonostante tutto le sue speranze rivoluzionarie, fondandole allo stesso tempo su processi oggettivi … Marx ha indietreggiato di fronte alle conseguenze della propria teoria e ha fatto della forma specificamente capitalistica del lavoro un punto d’Archimede situato al di là di ogni determinazione della forma, un punto da cui si poteva condurre la critica del modo di produzione capitalistico e la cui esistenza garantiva la possibilità della nascita di un soggetto nuovo e veramente umano”.
Secondo Breuer, Marx poteva farsi l’illusione di una prospettiva trans-borghese solo perché nella sua teoria della rivoluzione egli tratta il lavoro come un’opposizione ontologica al capitale e presuppone che il lavoro nel suo nucleo non venga inficiato dal dominio del capitale. Ma l’analisi della forma-valore, decifrata da Marx nella sua critica dell’economia politica come forma basilare della socializzazione borghese, toglie la base proprio a questo modo di vedere. Il trionfo del valore, anticipato da Marx, spezza l’indipendenza dei produttori immediati e degrada i lavoratori ad appendici del sistema delle macchine. Il fiero produttore indipendente diventa una rotella dell’ingranaggio capitalistico e può comportarsi solo come parte del capitale variabile, cioè in quanto integrato nel processo di valorizzazione. In queste condizioni, l’interesse proletario non contiene più nessuna potenza rivoluzionaria. La conclusione è che la rivoluzione comunista, se mai è stata teoricamente possibile, lo è stata durante il passaggio storico dalla sussunzione formale a quella reale. Ma quest’occasione è stata persa, e così, con il compimento della reale sussunzione del lavoro al capitale, l’universo capitalistico si chiude e diventa una totalità negativa, non più superabile. Lo scandaloso rapporto capitalistico si eternizza universalizzandosi. Diventa invincibile facendo della classe operaia una parte integrante del suo meccanismo. L’autonomizzazione del valore, che diventa il soggetto automatico della società, costituisce nell’interpretazione di Breuer il garante della stabilità della forma borghese. La teoria marxiana della rivoluzione, la speranza in una fine del rapporto capitalistico, è agli occhi di Breuer ormai solo un corpo estraneo, incompatibile con tutto il contenuto principale della critica dell’economia politica.

venerdì, febbraio 27, 2015

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination


       In this ambitious book, Moishe Postone undertakes a fundamental reinterpretation of Marx's mature critical theory. He calls into question many of the presuppositions of traditional Marxist analyses and offers new interpretations of Marx's central arguments. These interpretations lead him to a very different analysis of the nature and problems of capitalism and provide the basis for a critique of "actually existing socialism." According to this new interpretation, Marx identifies the central core of the capitalist system with an impersonal form of social domination generated by labor itself and not simply with market mechanisms and private property. Proletarian labor and the industrial production process are characterized as expressions of domination rather than as means of human emancipation. This reformulation relates the form of economic growth and the structure of social labor in modern society to the alienation and domination at the heart of capitalism. It provides the foundation for a critical social theory that is more adequate to late twentieth-century capitalism.

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giovedì, febbraio 19, 2015

Moishe Postone: Per una teoria critica del presente

Quello che non dobbiamo fare

da una conversazione di Silvia Lòpez con Moishe Postone

imm045Silvia Lòpez: La prima serie di domande ha a che fare con la "Neue Marx Lektüre". Il tuo libro, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato recentemente tradotto in spagnolo, nel 2006, e ha ricevuto molta attenzione. Però, a livello europeo, in generale, la discussione circa una nuova lettura di Marx si è sviluppata a partire dagli anni sessanta. Si potrebbe collocare il tuo lavoro in relazione a questa nuova lettura, soprattutto in rapporto ad alcuni tuoi contemporanei, come Michael Heinrich o l'ultimo Robert Kurz? In che misura consideri il tuo contributo diverso dal loro, e che cosa lo differenzia? Quali sono state le circostanze sociopolitiche concrete che ti hanno portato a leggere e a teorizzare un nuovo Marx?
Moishe Postone: Quando incappai in Marx per la prima volta, erano gli anni sessanta, rimasi molto impressionato dal giovane Marx, il Marx della teoria dell'alienazione. La sua successiva critica dell'economia politica mi sembrava disperatamente vittoriana, un pamphlet positivista contro lo sfruttamento dei lavoratori. Come molte persone, compresi molti marxisti, pensavo che Marx avesse elaborato conseguentemente la critica dell'economia politica classica per dimostrare l'esistenza e la centralità dello sfruttamento.
E, sebbene simpatizzassi politicamente con un tale proposito, mi sembrava troppo limitato per spiegare in maniera ricca e completa i problemi centrali della società contemporanea. Credevo che l'opera del giovane Marx offrisse un modello di critica più opportuno, però, non avendo compreso totalmente la sua teoria dell'alienazione, lo consideravo soprattutto un critico culturale. In questo senso, Marx mi appariva un critico culturale come altri; la differenza stava nel fatto che era progressista, mentre molti degli altri erano conservatori. Quello che cambiò fondamentalmente la mia comprensione e che si rivelò essere una svolta dal punto di vista concettuale, fu la mia scoperta dei Grundrisse, Quello che mi colpì particolarmente furono le famose sezioni del manoscritto che dicevano chiaramente che, per Marx, la categoria del valore è una categoria storicamente specifica. Per me questo aveva delle implicazioni enormi. Era una chiave per capire il Marx maturo, una leva per mezzo della quale ho cercato di liberare dalle sue catene la comprensione tradizionale di Marx. La mia conclusione è stata che la teoria di Marx era completamente diversa dalla lettura che ne aveva fatto il marxismo tradizionale. Per esempio, l'idea che il valore è storicamente specifico significava che il superamento del capitalismo non voleva dire la realizzazione del valore, come sosteneva molta gente. Molti concepivano il valore alla maniera della sinistra ricardiana, ossia, come una categoria che dimostra che la classe lavoratrice è l'unica fonte di creazione della ricchezza sociale (e qui la ricchezza viene intesa in forma trans-storica). Di conseguenza, una società giusta sarebbe quella in cui la ricchezza sociale apparterrebbe alla classe che la produce. Tale società rappresenterebbe la realizzazione del valore. Tuttavia, l'affermazione marxiana per cui il superamento del capitalismo richiederebbe l'abolizione del valore non solo implica che la questione fondamentale non si trova al livello della remunerazione dei lavoratori per quello che producono, sebbene la questione oggi torni certamente a ricoprire una certa importanza, ma implica anche che tanto meno si tratta di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. I Grundrisse indicano che, per Marx, il post-capitalismo è post-proletario. Questo, tuttavia, fa sì che il rapporto fra riforma e rivoluzione diventi ancora più problematico. Non può essere visto come un rapporto fra le riforme che cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori dentro il capitalismo ed una rivoluzione che mira a rovesciare il capitalismo abolendo la borghesia. Ma piuttosto, l'abolizione del capitalismo richiede, come condicio sine qua non, l'abolizione del lavoro proletario. La riforma, pertanto, deve perseguire quest'obiettivo. E questo apre nuovi modi di intendere la nostra situazione storica attuale, compreso l'emergere di movimenti post-proletari. Tuttavia, ciò pone anche serie difficoltà politiche e concettuali, dal momento che non c'è una continuità lineare fra la difesa degli interessi dei lavoratori ed il superamento del capitalismo. La questione dell'auto-abolizione del proletariato è stata storicamente messa all'ordine del giorno; tuttavia, allo stesso tempo, vengono erose le conquiste fatte dai lavoratori negli ultimi 150 anni.
(...)

S.L.: Possiamo tornare agli anni sessanta e all'inizio dei settanta, alla tua scoperta dei Grundrisse e alle tue riflessioni sul valore?
M.P.: La mia intenzione era quella di contribuire alla ricostituzione di una teoria critica della modernità capitalista. Permettimi un commento a margine sulla questione della modernità: in questo senso non mi trovo d'accordo con quelli come Michael Heinrich, e concordo molto di più con Lukács, Adorno e Horkheimer. Il capitalismo non è solamente un modo di produzione, inteso in senso stretto, ma è ciò che struttura una forma di vita cui a volte ci riferiamo come modernità, e questa strutturazione avviene tanto nella sua dimensione soggettiva quanto in quella oggettiva. Habermas non sembra comprenderlo. Sembra che consideri la comunicazione intersoggettiva nella modernità come qualcosa che si fondi su sé stessa, mentre nelle società pre-capitaliste detta comunicazione sarebbe strutturalmente determinata dalle forme politiche e religiose. Come dire, Habermas rileva la configurazione sociale delle strutture comunicative quando si verificano in forma palese, come avviene nelle società pre-capitaliste, ma si dimentica della brillante analisi di Marx quando si accorge che, nel capitalismo, la forma di costituzione sociale funziona in modo che quello che si costituisce socialmente, per esempio l'individuo, non appare come sociale, ma piuttosto come "naturale", come qualcosa che si fonda su sé stessa e che è apparentemente decontestualizzata. Ossia, Habermas non stima che ciò che caratterizza la contestualizzazione capitalista sia proprio l'apparenza di essere decontestualizzato. In tal senso la comprensione habermasiana della razionalità comunicativa cade preda di una forma feticcio. E credo che anche Heinrich consideri la critica dell'economia politica in modo troppo limitato, come se fosse riferita unicamente alla produzione e all'economia. Perde di vista la dimensione soggettiva e culturale delle categorie. Credo che ciò sia insufficiente ed insoddisfacente. Non è il tipo di teoria di cui abbiamo bisogno.

S.L.: Sì. In un certo senso è come un ritorno a prima di Lukàcs, il quale stava già cercando di leggere Marx a partire da una certa nozione di modernità. E cosa succede con altri come Robert Kurz? Negli ultimi dieci anni ha proposto una critica del valore che presenta delle evidenti somiglianze con la tua, per lo meno a livello teorico. Cosa pensi del suo contributo? Oggi, nei gruppi Exit! e Krisis, ci sono una serie di autori che hanno seguito i suoi passi.
M.P.: Penso che la morte prematura di Kurz sia una grave perdita. Quando ci siamo incontrati per la prima volta con il grupo Krisis, non sapevo niente di loro, e non credo che loro sapessero qualcosa di me. E, tuttavia, i nostri lavori avevano delle forti coincidenze, soprattutto per quel che riguarda la critica del valore e la critica del lavoro. Non sono completamente d'accordo con il modo in cui Kurz pone l'idea della crisi, affermando che, o uno crede che il capitalismo crollerà, oppure crede che potrà continuare all'infinito. Non condivido questo punto di vista, che mi sembra fortemente dicotomico. Credo anche che il mio lavoro sia più aperto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, di quanto lo sia il lavoro di Kurz, e che si occupi più di queste cose.

S.L.: Potresti svilupparlo un po' di più?
M.P.: Sì, non credo che l'interesse di Kurz fosse tanto di capire i cambiamenti nelle soggettività che si producono insieme ai cambiamenti nel capitale stesso. Ho cercato di elaborare questo, nei miei lavori sull'antisemitismo, cercando di sviluppare una teoria non-funzionalista di questa visione del mondo, in modo diverso da come lo fa la maggior parte delle cosiddette teorie materialiste della soggettività. La mia analisi si relaziona assai di più alle forme feticistiche. Non sono sicuro che il gruppo Krisis, o Krisis ed Exit!, si occupino tanto di questioni di soggettività e feticismo come faccio io, ma forse sono ingiusto nel dire questo. Certamente, fra tutte le nuove letture di Marx, il suo lavoro è quello che ha più parallelismi e somiglianze con il mio.

S.L.: Per me, come latino-americana, quando ho scoperto il tuo lavoro e quello di Kurz, la cosa più suggestiva è stata che eravate arrivati, in modo indipendente, a conclusioni simili circa il valore in Marx. Questo confermava una rigorosa lettura dell'ultimo Marx in riferimento al valore. Il marxismo ortodosso non poteva contribuire ad una tale comprensione. Forse la questione non sta tanto nel fatto che queste letture di Marx, fatte dalla Germania, non si interessino tanto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, ma piuttosto che la loro teoria di sviluppa ad un tale livello di astrazione che c'è appena spazio per elaborare una teoria critica della società.
M.P.: Non ne sono sicuro. C'è stato un periodo, poco dopo che ho lasciato la Germania, durante il quale avevo una percezione molto precisa di quello che stava succedendo lì, ma oggi non ne sono sicuro. Quello che potrebbe accadere è che, nella sinistra tedesca, molti di coloro che sono interessati alla soggettività sono rimasti seguaci ortodossi della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno. E credo che, come me, i membri di Krisis e di Exit! pensino che la comprensione della critica dell'economia politica da parte di Adorno, per quanto fosse ricca, non andava abbastanza lontano. Perciò potrebbe essere che, dentro il contesto specificamente tedesco, abbiano deciso di rimanere ai margini della questione della soggettività. dal momento che i seguaci più ortodossi di Adorno si sono concentrati su quello.
(...)

S.L.: ... rispetto al tentativo di gettare le basi di una teoria critica della società. Come concili il tuo lavoro rigoroso su Marx con lo sviluppo di una teoria critica della società oggi?
M.P.: Deduco dalle tue parole che quanto ho detto prima potrebbe essere stato male interpretato. Apprezzo enormemente i brillanti sforzi di persone come Lukàcs e Adorno, con tutte le differenze che li separano dall'interpretare la soggettività come intrinsecamente unita all'oggettività sociale, facendo coincidere soggettività ed oggettività come due dimensioni della medesima cosa, che non possono essere comprese a partire dal modello base/sovrastruttura, ed ancor meno in termini di interesse. Per dirlo in altre parole, per loro teoria critica della cultura e teoria critica della società erano intrinsecamente relazionate, e credo che questa sia una comprensione enormemente valida che non dobbiamo perdere. Per quel che riguarda Foucault, non ho mai capito perché la gente creda che Foucault avesse una teoria della soggettività: non c'è soggettività reale in Foucault. Inoltre, Foucault non poteva dare teoricamente conto delle possibilità della sua teoria. Cioè, come lo strutturalismo, il post-strutturalismo fallisce sulla questione dell'auto-riflessività. Naturalmente, chiunque sottoscriva le sue posizioni negherà che questa sia una questione rilevante, però, nella mia opinione, l'assenza di auto-riflessività rende incoerente una teoria. Credo sia una vergogna che il post-strutturalismo si sia tanto diffuso in Germania. In Francia, almeno, si poteva dire che il marxismo dominante era quello del Partito Comunista Francese, che era possibilmente il partito più ortodosso dell'Occidente. E, a quanto io ne sappia, è lì che Foucault incontra Marx.
(...)
M.P.: Prima hai menzionato qualcosa su cui mi piacerebbe tornare, ma prima voglio affrontare alcune delle questioni relative alla soggettività, Foucault e Adorno. Dicevi che Foucault era incapace di spiegare il cambiamento storico. Credo che la questione della storia sia uno degli aspetti più contraddittori dal punto di vista formativo del pensiero di Foucault. Da un lato, Foucault afferma che la storia è contingente, e perciò usa la parola genealogia. Tuttavia scrive un libro dietro l'altro indicando trasformazioni potenti che avvengono più o meno nello stesso momento, all'inizio dell'Età moderna europea. E, ciò nonostante, non problematizza le trasformazioni che descrive. Quindi quello che dice di fare e quello che fa sono due cose molto diverse. Per me, uno degli argomenti centrali dell'analisi di Marx è quello che distingue veramente il capitalismo e che ha una dinamica storica intrinseca. Questa è una delle ragioni per cui non sono d'accordo con chi si concentra troppo sulla sfera della circolazione, cosa che possibilmente fa anche Heinrich. Poiché così si perde di vista il carattere non-teleologico, complesso e direzionale della dinamica capitalista. Marx, nelle sue opere della maturità, interpreta non solo il valore ed il lavoro, ma la stessa storia, come cosa storicamente specifica, nel senso che questa è dotata di una dinamica direzionale intrinseca. Se la storia, intesa come tale dinamica concreta, è una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, non può essere applicata alla specie umana come un tutto, o a tutte le società, ma solamente al capitalismo. Però questo significa che non si può dare per scontata questa dinamica e, partendo da qui, dirimere questioni a proposito del libero arbitrio e del determinismo: questi sono solamente argomenti teologici vestiti con i panni del linguaggio moderno dell'agenzia e della struttura. Piuttosto, la prima domanda dovrebbe essere come spieghiamo, come fondiamo la straordinaria dinamica del capitale, una dinamica che genera una traiettoria complessa. Mi sembra che il post-strutturalismo non può neanche avvicinarsi a trattare simili questioni.

S.L.: In effetti, il post-strutturalismo non elabora una teoria del capitalismo, ma piuttosto delle descrizioni strutturali del funzionamento delle diverse istituzioni, che sia la prigione o il manicomio, che controllano e dominano la popolazione, ma non spiega queste strutture sociali o istituzioni in relazione alla realtà di base del capitalismo in ciascun momento specifico: questo sembra che intervenga in differenti momenti della storia, però non c'è una teoria del perché questo avvenga o che cosa si deve.
M.P.: Infatti. E ciò è dovuto in parte al fatto che le teorie del capitalismo restano implicitamente intese come teorie dello sfruttamento, teorie della proprietà e teorie della distribuzione diseguale del potere e della ricchezza. E la dinamica storica del capitalismo viene vista come un assunto metafisico proveniente dalla filosofia, di Hegel, ma non è realmente parte della teoria.

S.L.: Questo è un assunto molto interessante. Prima hai menzionato il tema della ricchezza. Comprendo perfettamente la distinzione fra ricchezza e valore, ma mi domando quale nozione di prassi politica si propone alla luce di questa teoria, in un momento in cui si continua a creare ricchezza e la ricchezza viene distribuita in forma diseguale. Questo non toglie importanza alla distinzione teorica fra ricchezza e valore, ma le tue riflessioni teoriche hanno implicazioni per la comprensione della prassi politica. Cosa puoi dire in proposito?
M.P.: Si tratta di una domanda enorme che si riferisce ad un problema enorme. Mi piacerebbe poter dare una risposta chiara, ma temo di non averla. Però qui, di nuovo, c'è una sovrapposizione fra il mio approccio e quello di Kurz. Se torniamo indietro di quarant'anni, una delle ipotesi inespresse di molti movimenti identitari dell'epoca, centrati intorno alle questioni della razza e del genere, era che il tipo di crescita economica che aveva caratterizzato i decenni dopo la guerra sarebbe continuata. Usando una metafora assai comune negli Stati Uniti, la torta da dividersi cresceva, e i diversi gruppi reclamavano la loro parte. Queste domande non erano solo economiche e, in tal senso, oggettive, ma erano anche soggettive: si trattava di gruppi che reclamavano riconoscimento. Credo che uno dei modi per comprendere le continue crisi degli ultimi quarant'anni è che non è così chiaro che il lavoro salariato sia in aumento. Questo ha modificato gli effetti e le conseguenze per molti movimenti identitari, che si vedono coinvolti in lotte per una torta che non sta crescendo e che, a volte, perfino diminuisce. C'è chi crede che il lavoro salariato continui ad espandersi in altri luoghi, come per esempio la Cina, l'India o il Bangladesh, che i posti di lavoro siano stati semplicemente dislocati in altri luoghi. In parte è così. Tuttavia, la mia interpretazione è che il cambiamento tecnologico abbia svolto un ruolo molto più importante e che, anche in Cina, il lavoro salariato è stato livellato. L'epoca dell'accumulazione che implicava la continua espansione del lavoro proletario potrebbe essere arrivata alla sua fine. E non disponiamo di un immaginario adeguato per confrontarci con una tale situazione - nel senso di idee su come potrebbe essere una società post-capitalista, oppure un senso della politica adeguato a muoverci in quella direzione. Prima, essere socialista era concettualmente semplice, dal momento che l'obiettivo sembrava relativamente chiaro: se si aboliva la proprietà privata e si faceva una pianificazione razionale dell'economia, il risultato sarebbe stata una società migliore. E si pensava che una classe operaia radicalizzata avrebbe lottato per un tale obiettivo. Il dibattito si concentrava sulla natura dei rapporti di potere esistente e su come motivare i lavoratori per incamminarsi sulla strada del socialismo. Se è vero che oggi la società capitalista sta entrando in crisi perché sono state erose le sue basi che poggiavano sul lavoro proletario, questo ci pone davanti a problemi molto diversi. E si pone la questione di cosa significhi vivere in una società che non è più basata sul lavoro. Usando un'analogia storica non troppo buona, la differenza fra il proletariato romano ed il proletariato moderno poteva essere sottolineata dicendo che il proletariato moderno era una classe lavoratrice, mentre il proletariato romano doveva arrangiarsi per conto proprio e la pace sociale veniva garantita mediante "Panem et circenses". In un certo qual modo stiamo entrando in una fase storica in cui il proletariato si sta avvicinando più al modello romano, dove il lavoro superfluo viene ridefinito strutturalmente come popolazione superflua. Il precariato ne è un esempio; credo che le gigantesche popolazioni delle baraccopoli, in gran parte del mondo, ne siano un altro esempio. Forse, un antropologo che studia le persone che sopravvivono a malapena, raccogliendo la spazzatura nelle discariche di Rio, può mostrarci come questa gente riesca a sopravvivere, e come questo abbia un suo proprio sistema significante. Però credo che tutto ciò trascuri la grande questione della crisi della società del lavoro, per la quale non abbiamo delle risposte.

S.L.: Sì, credo che circa un abitante del pianeta su tre viva in slum e baraccopoli, ossia, in comunità marginali ...
M.P.: Mi sorprende che la cifra sia così bassa. Mi sarei aspettato una percentuale ben maggiore.

S.L.: Si tratta di popolazione eccedente che non può essere incorporata nel processo produttivo, anche se gli antropologhi hanno modo di collegare queste popolazioni. Voglio dire che, soprattutto in Brasile, le connessioni fra le favelas e la città sono dinamiche. La gente vive nelle favelas, ma lavora come personale di servizio nell'industria alberghiera, così le economie sono organizzate in modo particolare ...
M.P.: E' vero. Tuttavia, la situazione non assomiglia a quella che si venne a creare in Europa durante le fasi precedenti al capitalismo, quando la popolazione rurale eccedente emigrava in altri paesi o veniva assorbita dal settore manifatturiero in espansione. Certo, oggi abbiamo emigrazioni di massa, ma di tipo molto diverso. Penso che le reazioni xenofobe nei confronti degli emigranti, così comuni nelle metropoli, non sono solo un segno del fatto che la popolazione sia irrimediabilmente razzista, ma che, fra l'altro, sia anche un segno del fatto che si sente minacciata poiché il tipo di espansione che prevaleva prima non esiste più.

S.L.: Quest'espansione non esiste, se guardiamo alle cifre della disoccupazione in Spagna, per esempio, vediamo che quasi il 45% della popolazione fra i 18 e 1 25 anni è disoccupata ...
M.P.: Sì, il numero dei disoccupati in Spagna è incredibile.

S.L.: ... oppure un 23% di disoccupazione generale fra i lavoratori adulti. Un aspetto centrale della crisi riguarda il come questa popolazione possa reincorporarsi nell'economia di mercato. Se osserviamo le cifre delle diverse economie europee, inclusa la Germania, possiamo vedere un processo di disciplinamento attraverso il quale si abitua la popolazione a percepire salari di mille euro al mese o di accettare di lavorare per i programmi del governo tedesco alla tariffa di un euro l'ora, mentre si percepisce anche l'indennità di disoccupazione, per esempio. Si tratta di forme di impoverimento di una popolazione che non può più essere incorporata come forza lavoro, come quando si dava crescita. Se guardiamo alla popolazione europea in generale, non solo in termini di analisi macroeconomica della situazione, si può pensare che la situazione in Europa sia una sorta di piccolo laboratorio il quale sembra confermare la tua analisi del capitalismo, nel senso che il valore non può continuare ad essere valorizzato come lo era prima.
M.P.: A quel livello, sicuramente. Ad un livello superficiale, la situazione si complica per la peculiare struttura europea che combina sovranità nazionale e moneta comune. Ma, in fondo, credo che tu abbia ragione. E anche se i giornali, almeno negli Stati Uniti, parlano solo di un nord prospero e di un sud in declino, la crisi c'è anche in Germania, per esempio per la classe media. In Germania, i tagli sono cominciati da decenni, nell'istruzione. Il settore dell'istruzione si era ampliato enormemente alla fine degli anni sessanta, come era accaduto anche in Francia, e con la crisi iniziata negli anni settanta si smise di finanziarlo. Questa è stata una delle prime cose che hanno tagliato per poter continuare a finanziare altri programmi sociali. Ma negli ultimi anni il cambiamento è stato ancora più austero; ci sono molti tedeschi che stanno affrontando un periodo di penuria, cosa che era impensabile solo fino ad una generazione fa.

S.L.: Infatti, vengono privatizzati i piani pensionistici, di modo che nessuno avrà soldi a sufficienza; in Germania non esiste salario minimo, solo alcuni settori industriali hanno qualcosa del genere, per il resto tutto quanto viene negoziato, così questa specie di disciplina neoliberista che oggi la Troika sta imponendo in molti paesi, ha avuto inizio in Germania dieci anni fa. Si tratta di un paese che è già stato sottomesso a queste politiche, cosa che ci riporta a quanto si diceva prima a proposito della politica e dell'economia in Europa, alla sovranità nazionale in un momento in cui in Europa la politica è sottomessa all'economia. I governi, in termini strettamente formali, non rappresentano più la volontà popolare, nei termini della loro definizione di democrazia, ma rappresentano gli interessi del capitale finanziario e, negli ultimi mesi, la crisi - che si è verificata rispetto alla Banca Centrale Europea e all'acquisto di obbligazioni, discutendo se dovevano essere convertiti in buoni generali europei che collettivizzassero il debito - rivela che in Europa non stiamo solo assistendo ad una crisi economica, ma ad una crisi politica nella quale si stano erodendo completamente i modelli di democrazia sociale e politica che l'Europa ha avuto negli ultimi sessant'anni.
M.P.: Sono d'accordo con te. Tuttavia, credo che uno dei problemi è dovuto al fatto che la configurazione del capitale basata sul primato della politica si è rivelata una semplice fase dentro il capitalismo, e non una soluzione riformista a lungo termine. Questa fase di primato della politica è durata assai più in Europa che in qualsiasi altro luogo, ma dubito che si possa tornare a quella configurazione del capitalismo. Al suo apice, tale configurazione era legata ad una forte organizzazione nazionale delle economie, interconnesse fra loro a livello internazionale. Oggi, invece, il capitale è sempre più sovranazionale, piuttosto che internazionale. Sta sopra il livello dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione, come unità socio-economica e politica, si è trasformato e, come unità nazionale, è entrato in declino da decenni, almeno così è avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Questa crisi sta colpendo ora tutta l'Europa in forma sempre più evidente. L'Europa ci ha messo di più ad essere colpita perché qui la socialdemocrazia era molto più forte. Ma anche la socialdemocrazia era già stata minata, in modo meno esplicito di quanto mostrassero i programmi della Tatcher e di Reagan. Solo che ora la crisi appare essere globale e l'Europa sembra bloccata in doppio disastro, tanto politico quanto economico. L'unico modo in cui i paesi europei possono effettivamente operare su scala globale, è l'Unione Europea. Le unità nazionali come la Francia, la Germania e l'Olanda si rivelano sempre più inefficacemente piccole su scala mondiale - ancor più che durante il periodo della Guerra Fredda. E con tutto ciò, la politica europea in questi momenti sembra incapace di muoversi, sia in avanti che indietro.
(...)

S.L.: Questo ci porta ancora una volta alla sussunzione della politica nell'economia, in cui gli Stati sono al servizio degli interessi del capitale finanziario e smettono di rappresentare le loro popolazioni, convertendosi in rappresentanti politici degli interessi del capitale.
M.P.: Sono d'accordo, però una delle tante questioni con cui la sinistra di oggi deve confrontarsi è la scomparsa della sintesi fordista-keynesiana nei paesi occidentali e la fine delle economie di controllo verticale nei paesi dell'Est. Per qualche tempo, poteva sembrare che gli Stati fossero arrivati ad essere gli Stati delle loro popolazioni. Ma dobbiamo capire meglio quali erano i limiti di questa configurazione, perché non credo che possiamo tornare ad essa. Gran parte della letteratura degli anni cinquanta e sessanta affermava che i problemi di base della società e dell'economia erano stati risolti, o erano in via di risoluzione: sembrava che si fosse trovata la chiave per farlo. I paesi occidentali e i paesi comunisti rispondevano in maniera differente a questi problemi, ma entrambi erano sicuri di aver dato la risposta. Se non comprendiamo la crisi degli anni settanta, che ha eroso questa configurazione tanto ad Est come in Occidente, non possiamo comprendere quali sono oggi le nostre opzioni. Penso che non si possa tornare ad una situazione come quella degli Stati Uniti nei decenni dopo Roosvelt o alla Spagna come avrebbe potuto essere dopo Franco, o alla Germania socialdemocratica. Ma non sono un profeta, mi limito a segnalare che abbiamo bisogno di più lavoro teorico-politico.

S.L.: Non credi che dovremmo ripensare gli approcci di alcune teorie materialiste dello Stato, come quella di Poulantzas, per esempio, che cercavano di riconcepire lo Stato, non solo come una serie di istituzioni autonome rispetto alla società, ma come una sorta di relazione sociale?
M.P.: Sì, ma credo che, retrospettivamente, ci sono cose che possiamo vedere con maggior chiarezza che negli anni settanta. Nelle risposte a lungo termine, da parte degli Stati, alla crisi dei Settanta, è risultato chiaro che bisognava scegliere fra accumulazione del capitale e benessere sociale delle popolazioni, scelsero l'accumulazione del capitale, perché il contrario avrebbe portato al collasso. Credo che dobbiamo continuare a ripensare il rapporto fra il capitale e lo Stato. Quel che gli anni settanta ci hanno dimostrato è che lo Stato non è un'entità indipendente.

S.L.: Però, anche se non sei un profeta, quali forme di immaginazione e di prassi politica ti spetti e desideri? Su quale forma politica scommetteresti?
M.P.: Ad essere onesto, non scommetterei su nessuna. Però è importante che ci siano molte piccole iniziative differenti che cercano risposte diverse, poiché è a partire dalle iniziative delle persone che possiamo vedere quale funziona meglio, contro quali limiti ci scontriamo, ecc.. Solo così possiamo farci un'idea di fino a dove possiamo arrivare. Una possibilità - e so che questo suona molto tradizionale - è che, anche se c'è una crisi della società del lavoro, possiamo solo delineare i contorni delle possibilità future per mezzo di organizzazioni che intendano contrastare, o per lo meno diminuire, le enorme discrepanze presenti nelle condizioni lavorative, la regolamentazione del lavoro e la sua remunerazione a livello globale. Paesi come la Cina e il Vietnam, luoghi come il Bangladesh, si sono convertiti in immense fabbriche di vestiti per il consumo occidentale, fabbriche dove imperano condizioni di lavoro terribili. E qui vediamo come ideologie che possono aver avuto una dimensione progressista fino ad una generazione fa, si sono convertite in qualcosa di sempre più reazionario. Alcune élite del Terzo Mondo hanno utilizzato l'esistenza, nella sua specificità culturale, per giustificare la repressione politica e raggiungere livelli estremi di sfruttamento. Forse le mie dichiarazioni, o quelle di Robert Kurz, a proposito della fine della società del lavoro sono corrette, ma potremo saperlo solamente attraverso il lavoro che organizza sé stesso. Negli anni novanta, negli Stati Uniti, abbiamo assistito ad un promettente primo passo in questa direzione con il movimento contro il lavoro schiavista, l'anti-sweatshop movement, che fece conoscere le condizioni di lavoro nel Terzo Mondo. Per esempio, resero pubbliche le condizioni che regnavano in fabbriche situate in Indonesia o in Vietnam, le quali producevano scarpe sportive per la Nike. Il movimento evitò di cadere nelle dicotomie proprie della Guerra Fredda, come sarebbe avvenuto se avesse segnalato che le condizioni in Indonesia erano cattive ed avesse ignorato, o giustificato, quelle del Vietnam. Credo che si debba cercare di recuperare una forma di internazionalismo che si è perso a partire dalla prima guerra mondiale. Il supposto recupero dell'internazionalismo nella Terza Internazionale era ideologico: lì, l'internazionalismo significa porsi dalla parte di uno degli schieramenti, che è in realtà cosa ben diversa. Uno degli schieramenti finì per essere immune a qualsiasi critica, e la cosa ebbe effetti disastrosi per la politica e per il pensiero critico. Credo che oggi ci siano forme di anti-imperialismo che riprendano queste abitudini e che si sono convertite in ideologie per la legittimazione di regimi repressivi e movimenti reazionari. Queste forme di anti-imperialismo che diventano reazionarie sono una delle cose che dobbiamo combattere, e dobbiamo combatterle in nome di un internazionalismo progressista. E credo che dobbiamo combatterle nel quadro della capacità di ripensare il lavoro. Non credo che possiamo glorificare la miserabile condizione del precariato, e mi sembra che il modo per cui si cerca di creare nuove comunità non sia la soluzione. Però potrebbe dare una prima idea di come le cose potrebbero essere diverse. Non so come stiano le cose in Spagna, rispetto alle idee della controcultura, ma negli Stati Uniti, almeno negli anni sessanta, insieme al sorgere di una nuova sinistra apertamente politica, c'era anche gente che sperimentava nuove forme di vita. Ma, per la più parte, il loro immaginario consisteva in una forma di vita nuova separata dalla società: non era un modello per il resto della società, né voleva esserlo.

S.L: Credo che l'interessante di questo nuovo immaginario in Spagna sta nel fatto che è differente da quello che c'era nei Sessanta nei paesi cosiddetti industrializzati, come gli Stati Uniti. C'è una coscienza auto-riflessiva sui limiti del lavoro, e questo non perché la gente abbia letto diciamo il Manifesto contro il lavoro, o i tuoi testi, o quelli di Kurz, ma perché credo che la gente in Spagna, ad esempio, può ricorrere alle tradizioni anarchiche e ad altre forme di prassi politica. Oggi in Spagna ci sono comunità di scambio e di moneta alternativa - dozzine di valute alternative che funzionano in piccole comunità -, banche del tempo dove le persone disoccupate si riuniscono e danno inizio ad una banca delle ore, depositando ore del loro tempo. Cioè a dire, se tu coltivi verdure in un orto, io in cambio posso accudire tuo padre anziano, di modo che tutte le attività siano in condizione di uguaglianza nel processo di interscambio. Non si tratta di comuni private come quelle che ci sono in Germania o negli Stati Uniti, ma che funzionano realmente nel campo del sociale, a livello locale, in piccole cittadine. Si tratta di forme di immaginazione di un mondo senza denaro, un mondo senza lavoro, dovute alle condizioni per cui uno spagnolo su quattro è disoccupato e deve sopravvivere. Queste forme sperimentali di vita, sono oltre il lavoro?
M.P.: Sì. Personalmente, mi aspetto che qualcuno, oltre questi esperimenti, provi anche a pensare a delle opzioni praticabili su scala più ampia. Anche se il mondo rimane diviso in giganteschi blocchi globali, ciò senza dubbio costituisce una possibilità (nel caso che fossimo sull'orlo di una Terza Guerra mondiale), dobbiamo cercare di trovare forme nuove. I tuoi esempi rivelano come, a livello locale, la situazione appaia promettente. Ma il vero problema è come allacciare il locale al globale. Non lo dico come una critica, ma credo che sia una questione che dobbiamo tenere presente.

S.L.: Tornando nuovamente alla riflessione teorica, è passato un po' di tempo da quando il tuo "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato pubblicato in inglese; in Spagna la lettura del tuo libro è cosa più recente. Hai avuto tempo di riflettere sul tuo contributo alla lettura di Marx dalla pubblicazione del tuo libro? Quali credi che siano le sfide teoriche per il futuro, quali sarebbero gli elementi chiave per ricostruire una teoria critica della società basata su questa nuova lettura di Marx?
M.P.: Qualcosa che credo stia già avvenendo, e che verrà accentuata in futuro, è che dobbiamo concentrarci di più sul capitale e meno di cercare di trovare il soggetto rivoluzionario. Il tentativo di individuare un soggetto rivoluzionario dapprima si è concentrato sulla classe lavoratrice e più tardi alcuni lo hanno trasferito alle forme diverse di terzomondismo. Credo che sarebbe importante lasciarci tutto alle spalle e cercare di recuperare un internazionalismo critico, invece delle forme ideologiche attuali di nazionalismo che si dichiarano internazionaliste. Questo nuovo internazionalismo deve cercare di affrontare il capitale globale in modo da riuscire a capire sobriamente lo sviluppo del capitale e le possibilità che questo genera (anche se il capitale inizia a perdere la possibile realizzazione di queste possibilità) invece di limitarsi a demonizzarlo. Credo che sia estremamente importante, poiché sebbene la sinistra sia molto sensibile alla xenofobia, ed è bene che sia così, è assai meno sensibile alle ideologie reazionarie di carattere anti-finanziario, anti-statunitense e antisemite. E queste tre ideologie sono in relazione fra di loro. Penso che siano forme feticiste di opposizione che alla fine indeboliscono la sinistra e la portano ad avvicinarsi a fondersi con movimenti che io considero reazionari. Dovremmo liberarci dalle nostre nozioni politiche inconsce, quali il socialismo in un solo paese, o di un post-colonialismo che si fa passare per internazionalismo, e recuperare una forma di internazionalismo reale che possa affrontare la fine della società del lavoro. Tutto questo è molto modesto da parte mia, perché quello che sto suggerendo è che la teoria ci offre assai bene delle direttive chiare circa quello che non dobbiamo fare, piuttosto che di quello che dobbiamo fare. Ma evitare di fare quello che non dobbiamo fare è già un passo importante in direzione della lotta per quello che dobbiamo fare.
pubblicata sulla rivista Constelaciones n°4. Madrid, dicembre 2012
 
FONTE: http://www.sinistrainrete.info/