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giovedì, luglio 01, 2010

La scommessa è alta! (Riff Raff 1993)

La sinistra che abbiamo conosciuto nel dopoguerra (1945-89) non esiste più. Dal Sessantotto d’altronde essa solo sopravviveva, spesso in forme reazio­narie, talora rabbiosamente repressive, sempre illusorie. Ora, con il 1989, anche la mistificazione è finita e lo zombie si dissolve nel calore dell’alba. In questi anni la trasformazione del paesaggio e della strut­tura sociale, sul ritmo delle lotte che la sinistra nemmeno sospettava, è impe­tuosamente proceduta, fino ad imporre una radicale discontinuità della lotta di classe.

RIFF- RAFF nasce dentro questa discontinuità e dunque oltre la resistenza all’imbecillità, alla corruzione e al tradimento della sinistra, oltre la sacro­santa resistenza del movimento autonomo negli anni Ottanta.

Le persone che si sono associate per produrre RIFF-EIAFF vogliono recupe­rare quella capacità di anticipazione, nell’analisi e nella pratica, che sola può dare al movimento di classe antagonista la qualifica di rivoluzionario. RIFF-RAFF è un luogo aperto: al suo interno la rivista chiama posizioni diverse, nella comunità del progetto, a confrontarsi, a dibattere, a presen­tare esperienze ed utopie.

RIFF-RAFF è un polo in rete: cioè un punto (fra i molti altri, e debbono essere sempre di più…) da cui promana progetto, un punto che vuole confron­tarsi con altri punti progettuali un segmento di cooperazione sociale che vuole farsi “impresa” politica, e tutto questo entro le nuove condizioni che lo sconvolgimento dei rapporti politici mondiali e la radicale trasformazione della composizione di classe hanno determinato.

Tre temi si presentano oggi in prima linea nella discussione di programma dell’autonomia comunista:

A. Una scelta radicale a favore dell’Europa, della sua unità, per il federa­lismo, per l’autonomia e l’indipendenza dei lavoratori europei contro il “nuovo ordine mondiale” – la lotta dunque sul terreno europeo, per l’unità di azione, per la libera circolazione e il meticciaggio dei lavoratori del braccio e della mente, contro il nazionalismo, contro il razzismo, contro il localismo egoista dei bottegai, contro tutte le rinnovate barbarie del capitale, contro le nuove canagliate dei suoi sergenti e contro le nuovissime infamie che stanno uscendo di sotto la coperta dello statalismo.

B. Un progetto di lotta per il reddito uguale a tutti i lavoratori, occupati e non occupati, uomini e donne, giovani e vecchi, malati e sani – un reddito adeguato al fatto di essere cittadini eguali. Una lotta, quindi, per il massimo di libertà di organizzazione nella vita, nel lavoro, nell’unità di lavoro e vita, per il diritto al sapere e alla formazione continua, – contro le gerarchie, le esclusioni, il comando autoritario. Un uso offensivo della mobilità e della fles­sibilità contro il dominio capitalistico, soprattutto quand’esso sia disciplinato alla maniera “socialista” welfarista, nazional-populista.

C. L’esercizio dell’autonomia sociale …….… per la riappropriazione degli spazi pubblici……. Una lotta che ponga le basi di una vera imprenditorialità sociale, auto valorizzazione verso il comunismo, governo dal basso dei lavoratori.

La prima è che la situazione nella quale viviamo impone il rilancio della progettazione comunista come risposta alla riapertura della possibilità rivo­luzionaria. Ieri, prefigurare il futuro era demenziale o mistificatorio: ogni progetto proposto alla lotta di massa per la radicale trasformazione dell’esi­stente si sarebbe infranta fra Scilla e Cariddi, fra Washington e Mosca, pari­menti predisposte alla repressione di ogni esperienza di rottura. Costretto in questo blocco il movimento rivoluzionario poteva solo destabilizzare e destrutturare il nemico. Con realismo lo ha fatto. Nei quasi quarant’anni che ci dividono dal 1956 ungherese e dal XX Congresso del PCUS, nell’Eu­ropa Orientale, come in quella Occidentale, la classe operaia e il movimento rivoluzionario hanno di volta in volta scelto il rifiuto o l’insurrezione, il sabo­taggio o l’esodo. E in Italia? Genova e Reggio Emilia nel 1960, Piazza Statuto nel 1962, il 67-69 nelle fabbriche e nelle Università di tutt’Italia, e poi l’immensa quantità di scontro politico e di rifiuto del comando negli anni Settanta: in questi anni solo l’insurrezione ha fatto politica e mantenuto la libertà. Di fronte a noi, insediati su un trono inattaccabile, difeso dal “vecchio ordine mondiale”, gli stragisti, i ladri, i corruttori, gli utili idioti, gli ideologi “forti’ o “deboli”, i magistrati e i poliziotti, i giornalisti e i servi della Prima Repubblica fondata sul (lo sfruttamento del) lavoro – quell’infame repubblica che ora, indecorosa, finalmente si estingue. Tutto ciò è finito. Le condizioni storiche che erano un limite, si presentano oggi come possibilità: il desiderio può, per qualche tempo finche nuovi baluardi non siano ricostruiti, presentarsi sulla scena per dirsi nella sua libertà. Finalmente oggi, un cammino costruttivo, un progetto positivo, un’a­zione affermativa sono possibili, anche se difficili. I temi del programma dell’autonomia comunista debbono tramutarsi subito in azioni affermative.

La seconda ragione per la quale riteniamo fondamentale riaprire la discus­sione sul programma risiede nel fatto che un nuovo soggetto si presenta tendenzialmente come centro della composizione sociale e politica del prole­tariato. Marx l’aveva individuato con scientifica lungimiranza: è l’intellettualità-massa. Che il valore della produzione si formi sul limite sul quale l’immaterialità del lavoro vivo diviene cooperazione sociale, comunicazione, linguaggio, non è ormai più che una banalità. Che nelle fabbriche il ruolo dell’operaio ristrutturato in quanto gestore degli automatismi complessi, sia centrale, e che la sua attività sia creativa, che la sua anima sia messa al lavoro, -anche questo lo sappiamo bene. Che infine il taylorismo (come organizzazione del lavoro), il fordismo (come gestione del salario) ed il keyne­sismo (come forma adeguata dell’organizzazione capitalistica della regola­zione macroeconomica), siano definitivamente superati, anche questo è sotto gli occhi di tutti. In questo scombussolamento, le teorie dell’innovazione capi­talistica evitano tuttavia di ricordare un paio di cose. La prima è che questo superamento è stato perseguito, voluto, strappata, dalla lotta contro il lavoro dell’operaio massa. In secondo luogo, che il soggetto operaio, l’attore sociale, l’intellettuale-massa che questo processo determina, sono soggetti­vità potenti. Sia produttivamente che politicamente. E l’una cosa è dentro l’altra. Non si produce che con l’anima. Non si fa politica che attraverso il lavoro. Una volta il capitale arrivava prima, precostituiva le condizioni della produzione, si esponeva, rischiava, razionalizzava. Oggi di tutto questo l’ope­raio intellettuale e cooperativo del post-fordismo non ha più bisogno. La capacità imprenditoriale precede la funzione capitalista. Il capitalista è un parassita, é un rentier: guadagna senza lavorare, guadagna sfruttando quello che già esiste e che non ha più bisogno di padrone, né di mediatore, né di razionalizzatore dell’attività collettiva.

La nuova soggettività è l’altissima produttività di questa cooperazione auto­noma e indipendente, direttamente impiantata nella struttura antropologica del nuovo proletariato.

Anche in questa prospettiva di lungo periodo, quello della seconda rivolu­zione industriale, quello caratterizzato dalla categoria marxiana della “grande industria” e dalla sua evoluzione, è terminato. Dunque, il Sessan­totto non porta solo una nuova organizzazione del lavoro e una nuova conse­guente organizzazione della società e dello Stato: esso porta anche una nuova soggettività -una nuova soggettività che nei vent’anni fra il 68 e l’89 ha fatto le sue prove e oggi si propone come centro di una riarticolazione poli­tica completa della lotta sul potere e sulla distribuzione della ricchezza sociale.

La terza ragione per la quale oggi ci sembra possibile presentare una piatta­forma di discussione aperta e costruttiva è del tutto politica: consiste cioè nell’ipotesi che dal convergere della riapertura della possibilità di trasforma­zione e dell’emergenza del nuovo soggetto proletario siano costruite condi­zioni per una nuova progettualità. Oggi, nel movimento reale, in Italia come in tutt’Europa, noi tuttavia ci troviamo davanti a situazioni ricche di un’al­tissima complessità e di una grande frammentazione. Entro queste difficoltà noi non crediamo che l’organizzazione possa nascere, come Minerva dalla testa di Giove, – bell’e fatta! Se essa potrà prodursi, nascerà da un processo, largo e continuo, che giochi su tutte le possibilità di azione affermativa che l’attuale situazione permette e che si arricchisca di tutti i punti della coope­razione militante sul terreno sociale.

Il primo, fondamentale passaggio consiste dunque nell’attivare una rete costitutiva di nuova soggettività politica.

RIFF-RAFF produce soggettività, proposte e ipotesi, militanza e utopie, alla stessa stregua di tutti, all’interno della rete. Sarà possibile costruire un polo interattivo? Sarà possibile far coincidere un nuovo reticolo di relazioni politiche e comunicative con l’urgenza dell’occasione trasformativa, con l’emergenza del nuovo soggetto produttivo, con la cooperazione attiva di tutti i gruppi cooperanti in rete? Non lo sappiamo, ma è certo che la scommessa è alta. Perché, come sempre, a noi non interessano esperienze artigianali o piccole sperimentazioni: sono le leggi della produzione, della ripartizione della ricchezza, della regolazione sociale che ci proponiamo di ricostruire fuori dallo sfruttamento. O, meglio, sono nuovi linguaggi e nuove passioni etiche che vogliamo costruire ex novo, oggi, -macchine cognitive e gioia di vivere- imprese che solo della masse liberate possono permettersi di immagi­nare e di condurre.

REPUBBLICA COSTITUENTE (Riff Raff 1993) Toni Negri

REPUBBLICA COSTITUENTE (Riff Raff 1993)
Toni Negri

1. "Ad ogni generazione la propria costituzione".

Quando Condorcet si augura che ogni generazione possa produrre la propria costituzione politica, egli da un lato riprende la norma costituzionale della Pennsylvania (che tende a ricondurre la legge costituzionale alla norma ordi¬naria, e prevede un unico metodo per creare principi costituzionali e nuove leggi), da un altro lato anticipa la Costituzione rivoluzionaria del 1793: Un peuple a toujours le droit de revoir, de réformer et de changer sa Constitution. Une generation ne peut assujetter à ses lois les générations futures (art.XXyiII).
Sulla soglia dello sviluppo contemporaneo della società e dello Stato (quali sono determinati dalla rivoluzione, dalla scienza e dal capitalismo) Condor¬cet comprende che ogni blocco precostituito della dinamica produttiva, ogni costrizione delle libertà che vada oltre l'urgenza del presente, necessaria¬mente determinano effetti dispotici. Detto in altri termini: Condorcet comprende che, superato il momento costituente, la fissazione costituzionale diviene un fatto reazionario in una società fondata sullo sviluppo dell'economia e delle libertà. Non saranno dunque la consuetudine, gli "anziani", o un' antica idea d'ordine a legittimare una costituzione. Al contrario, solo la vita che si rinnova può formare una costituzione; può quindi continuamente sottoporla a prova e valutarla, e sempre spingerla verso modificazioni adeguate. Da questo punto di vista la raccomandazione di Condorcet: "ad ogni generazione la sua Costituzione", si collega a quella di Machiavelli che voleva che ogni generazione (per sfuggire alla corruzione del potere ed alla routine dell'Amministrazione) "ritornasse ai principi dello Stato" - un "ritorno" che è un costruire, un insieme di principi, che non è un lascito ma un nuovo radicamento.
Deve la nostra generazione costruire una nuova Costituzione? Se pensiamo alle ragioni con le quali i vecchi costituenti motivavano l'urgenza di mettersi al lavoro di rinnovamento, non possiamo che riconoscerne presenti oggi l'intera panoplia. Mai la corruzione della vita politica ed amministrativa è giunta a tal punto, mai la crisi di rappresentanza è stata tanto forte, mai la disillusione democratica tanto radicale. Quando si dice "crisi del politico", si dice in realtà che lo Stato democratico non funziona più, che anzi si corrompe irreversibilmente in tutti i suoi principi ed organi: la divisione dei poteri e i principi di garanzia, i singoli poteri uno ad uno e le regole di rappresentanza, la dinamica unitaria dei poteri e le funzioni di legalità, di efficacia e di legittimità amministrativa. Se c'è una "fine della storia" da salutare, essa consiste certamente nella fine della dialettica costituzionale cui il Liberalismo e lo stato della maturità capitalistica ci avevano legato. Più concretamente. A partire dagli anni '30, nei paesi dell'Occidente capitalistico aveva cominciato a vigere un sistema costituzionale, quello che si è chiamato la "costituzione fordista", o la costituzione laborista del Welfare State, che è ora in crisi. Le ragioni di questa crisi sono del tutto evidenti quando si ponga occhio al mutamento dei soggetti che avevano allora concordato sui principi di questa Costituzione: da un lato la borghesia nazionale e dall'altro la classe operaia industriale, organizzata nei sindacati e nei partiti socialisti e comunisti. Il sistema liberal-democratico è stato allora piegato alle esigenze dello sviluppo industriale e della ripartizione del reddito globale fra queste classi. Le costituzioni formali potevano essere più o meno differenti, ma la "costituzione materiale" - la convenzione fondamentale di ripartizione dei poteri e dei contropoteri, del lavoro e del reddito, dei diritti e delle libertà - fu sostanzialmente omogenea. Le borghesie nazionale rinunciarono al fascismo ed ebbero garantito il loro potere di sfruttamento all'interno di un sistema di ripartizione del reddito nazionale che prevedeva - in un quadro di sviluppo continuo - la costruzione del Welfare per la classe operaia nazionale: quest'ultima rinunciava alla rivoluzione. Ora, con la crisi degli anni '60 conclusa nell'evento emblematico del '68, lo Stato a costituzione fordista entra in crisi: i soggetti dell'accordo costituzionale fondamentale sono infatti mutati. Da un lato le differenti borghesie si internazionalizzano, fondano il loro potere sulla trasformazione finanziaria del capitale, si fanno rappresentazioni astratte del potere; dall'altro lato la classe operaia industriale (in seguito alle radicali trasformazioni del modo di produrre: trionfo dell'automazione nel lavoro industriale ed informatizzazione del lavoro sociale) trasforma la propria identità culturale, sociale e politica. Ad una borghesia finanziaria e multinazionale (che non vede le ragioni, per le quali deve sopportare il peso del Welfare nazionale) corrisponde un proletariato socializzato, intellettuale - tanto ricco di nuovi bisogni quanto incapace di continuità con le articolazioni del compromesso fordista. Con l'esaurirsi del "socialismo reale" e l'iscrizione della sua catastrofe nella storia mondiale al termine del 1989, anche i simboli - già ampiamente usurati - dell'indipendenza proletaria nel socialismo sono definitivamente distrutti.
II sistema giuridico - costituzionale basato sul compromesso fordista inner¬vato dall'accordo costituente fra borghesia nazionale e classe operaia industriale, sovradeterminato dal conflitto delle due grandi potenze (rappresenta¬zioni simboliche delle due parti in conflitto sulla scena di ciascuna nazione) è dunque giunto alla propria fine. Non c'è più guerra strisciante fra due blocchi a livello internazionale entro la quale la guerra civile di classe possa essere raffreddata attraverso immersione nella costituzione fordista, e/o nelle organizzazioni del welfare state; non ci sono più, all'interno dei singoli i paesi, i soggetti che potevano costituire quella costituzione, che dovevano . legittimarne le espressioni, i simboli, e anche le superfetazioni. Tutto è radicalmente cambiato. Qual è dunque la nuova Costituzione che la nostra generazione deve costruire?

2. "Il denaro e le armi".

Diceva Machiavelli che per costruire lo Stato, al Principe necessitavano "armi e denaro". Quali armi, dunque, e quale denaro per una nuova Costituzione? Per Machiavelli le armi sono il popolo: i cittadini produttivi che nella democrazia comunale divengono popolo in armi. Quale popolo è disponibile oggi per una nuova costituzione? Quale generazione si apre ad un nuovo compromesso istituzionale che vada oltre il welfare state? E come è disponibile ad organizzarsi, ad "armarsi" a questo scopo? E sul lato del "denaro", che cosa avviene? E' -e se lo è, come lo è?- la borghesia finanziaria multina¬zionale disposta ad accedere ad un nuovo compromesso costituzionale e produttivo che vada oltre il compromesso fordista?
Nel sistema sociale post-fordista il concetto di popolo deve e può essere ridefinito. Non solo il concetto di popolo, ma quello di "popolo in armi" - vale a dire rinuncia- di quella frazione di cittadinanza che, lavorando, produce la ricchezza e dunque permette la riproduzione della società intera. Esso può pretendere la propria egemonia sul lavoro sociale venga costituzionalmente registrata.
Il lavoro di definizione del proletariato post-fordista è ormai molto avanzato. Questo proletariato è costituito da una massa operaia ristrutturata nei processi di produzione informatizzata ed automatizzata, processi centralmente gestiti da un proletariato intellettuale sempre più ampio e sempre più direttamente impegnato nel lavoro informatico, comunicativo, formativo. Il proletariato post-fordista, il popolo dell'operaio sociale è percorso e costituito dall'intreccio continuo dell'attività tecnico-scientifica e del duro lavoro di produzione delle merci, dall'imprenditorialità dei reseaux nei quali quest'intreccio si distribuisce, dal combinarsi sempre più intimo della ricom¬posizione dei tempi di lavoro e delle forme della vita. Ecco, solo per intro¬durre la discussione, alcuni elementi della nuova definizione di proletariato, capaci di sottolineare il fatto nuovo che esso, in tutte le sezioni in cui si compone la classe, è essenzialmente intellettualità-massa. Più - ed è essen-ziale - un altro elemento. Dentro la sussunzione scientifica del lavoro produt¬tivo, dentro la crescente astrazione e socializzazione della produzione, la forma lavoro post-fordista è sempre più cooperante ed autonoma. Autonomia e cooperazione significano: la potenza imprenditoriale del lavoro produttivo è ormai completamente nelle mani del proletariato postfordista. E' lo stesso sviluppo della produttività che costituisce la massima indipendenza del proletariato, come base intellettuale e cooperativa, come imprenditorialità economica. Ed anche come imprenditorialità politica, come autonomia poli¬tica?
La risposta a questo quesito non potrà essere accennata se non dopo essersi chiesti che cosa ne sia, in questo sviluppo storico, del "denaro". E cioè della borghesia in quanto classe, delle funzioni produttive della borghesia indu¬striale oggi. Ebbene, se quanto abbiamo detto rispetto alla nuova definizione del proletariato post-fordista è vero, ne risulta che la borghesia interna¬zionale ha ormai perduto le sue funzioni produttive, che essa diviene sempre più parassitaria - una specie di chiesa romana del capitale: essa si esprime ormai solamente attraverso il comando finanziario, e cioè un comando completamente liberato dalle esigenze della produzione, "denaro", nel senso post-classico e post-marxiano della definizione, "denaro" come universo estra¬niato ed ostile, "denaro" come Bibbia, santità e miracolo, - il contrario del lavoro, dell'intelligenza, dell'immanenza della vita e del desiderio. Il "denaro" non ha più funzioni di mediazione tra il lavoro e la merce, non è più razionalizzazione numerica del rapporto ricchezza/potenza, non è più espres¬sione quantificata della ricchezza della nazione. Davanti all'autonomia imprenditoriale del proletariato che ha chiuso in sé stesso, con la materialità, anche le forze intellettuali della produzione, il "denaro" è la posticcia realtà di un comando dispotico, esterno, vuoto, capriccioso e crudele.
E' qui che si scopre il "nuovo" fascismo - un fascismo postmoderno, che non ha più nulla a che fare con alleanze mussoliniane, con sindromi ideologiche naziste, con la vigliacca arroganza del petainismo. Il fascismo postmoderno cerca di adeguarsi alla cooperazione lavorativa post-fordista ed allo stesso tempo di esprimerne un’essenza rovesciata. Come il vecchio fascismo scimmiottava le forme di organizzazione di massa del socialismo e tentava di trasferire nel nazionalismo (nazionalsocialismo o costituzione fordista) le pulsioni proletarie verso il collettivo, così il fascismo postmoderno cerca di scoprire il bisogno comunista delle masse post-fordiste e di tradurlo, volta per volta, nel culto delle differenze, nell'esaltazione dell'individualismo, nella ricerca dell'identità, - sempre alla ricerca di gerarchie sopraffattorie e dispo¬tiche che debbono mettere differenze, singolarità, identità, individualità l'una contro l'altra, sempre, instancabilmente.
Mentre il comunismo è rispetto e sintesi delle singolarità, e come tale è desiderato da tutti quelli che amano la pace, il nuovo fascismo (espressione adeguata del comando finanziario del capitale internazionale) produce la guerra di tutti contro tutti, produce la religiosità e le guerre di religione, i nazionalismi e le guerre nazionali, gli egoismi corporativi e le guerre economiche. Mai tanti delitti sono stati compiuti in nome della democrazia. Mai tante guerre. Mai tanti "nonsenses" sono stati prodotti. Prendete due "nuovi fascismi" tipici di questa fase, Eltsin in Russia e Perot in Usa: il primo vi dirà che il suo è uno Stato democratico perché egli consegna a tutti i cittadini dei pezzi di carta sui quali sta scritto "azione" - è davvero il "comunismo del capitale", quello che egli sembra proporre!
Quanto a Perot, egli va al di là della rappresentanza democratica - ed anche questa è una pretesa del comunismo: vi va facendo esercitare i suoi elettori oggi (domani, forse, i cittadini) nel gioco informatico, dove l'espressione della volontà popolare e la partecipazione si riducono (e non possono non ridursi, per ben che vada) a sondaggio...
Torniamo alle armi del popolo, a chiederci cioè quale sia la Costituzione che la nuova generazione deve costruire. Che è come chiedersi quale siano i rapporti di forza, i compromessi che il nuovo proletariato postmoderno e il nuovo padronato multinazionale dovranno materialmente istituire per organizzare il prossimo ciclo produttivo della lotta di classe. Ma se è vero quanto siamo fin qui venuti dicendo, ha ancora senso questa domanda? Che compromesso costituzionale è infatti più possibile in una situazione nella quale al massimo della cooperazione proletaria è contrapposto il massimo di comando esterno e parassitario del capitale multinazionale? alla produzione è opposto il denaro?
Ha ancora senso domandarsi come possano essere reciprocamente calibrati del diritti e doveri quando la dialettica produttiva non vede più operai e capitale mischiarsi nella gestione del rapporto produttivo?
Probabilmente tutti potremo convenire che la questione non ha senso. Le "armi" ed il "denaro" han finito di potersi mettere assieme per costruire lo Stato. Probabilmente l'ultimo episodio di questa vicenda di accordi tra chi comanda e chi obbedisce che - se ci affidiamo a Machiavelli - nasce con il "dualismo di potere" che i Tribuni della plebe romani instaurano nei confronti della Repubblica, l'ultimo episodio, dunque, è stato quello del Welfare State. Oggi tutto cambia nella scienza politica e nella dottrina delle Costituzioni: se infatti coloro che una volta erano sudditi, son più intelligenti e più "armati" dei monarchi e dei padroni, perché dovrebbero cercare una mediazione con questi?[*]

[*] Certo, esiste un orizzonte reale sul quale le armi e il denaro, la produzione ed il comando, si scontrano effettivamente: é quello della comunicazione. Se il problema di una nuova costituzione, nel senso tradizionale del termine, ha ancora un senso, è su questo che lo si può ritrovare. Ma qui, in realtà, non ci si trova tanto a dover risolvere un nuovo problema, quanto a recuperare un tema che nei precedenti compromessi il proletariato aveva, per così dire, lasciato da parte. E d'altra parte, come risolvere costituzionalmente il problema della comunicazione?
Il problema della comunicazione è quello della verità: come è possibile un compromesso sulla verità? Come sono possibili due pubblicità contemporanee che esprimano affermazioni contrarie e rovesciate inntorno al medesimo oggetto? Come è possibile il compromesso nella sfera dell'immagine e dei simboli? E l'obiezione che il problema costitu¬zionale della comunicazione non tocca se non indirettamente il problema della verità, bensì direttamente quello dei mezzi di espres¬sione -sicché su questo terreno un compromesso, così come i rapporti di forza sono ben possibili- bene, quest'obiezione è solo relativamente valida, ovvero lo è fino al momento in cui non si entra in una fase di guerra civile. E poiché nel post-moderno tutto spinge verso la guerra civile, non si capisce davvero dove d compromesso sulla comunicazione possa instaurarsi.

3. Le forme dello Stato: quel che non è il "potere costituente".


Da Platone ad Aristotele e, con qualche modificazione, fino alla modernità, la teoria delle "forme dello Stato" ci è stata tramandata come una inevitabile teoria dialettica. Monarchia e tirannide, aristocrazia ed oligarchia, demo¬crazia ed anarchia, scambiandosi ruolo, son dunque le sole alternative nelle quali si svolge il ciclo del potere. Ad un certo punto dello sviluppo della teoria, Polibio, con indubbio buon senso, propose di non considerare come alternative queste forme ma piuttosto come complementari - riferendosi alla costituzione dell'Impero romano mostrò infatti che queste diverse forme dello Stato potevano non solo non contrapporsi ma funzionare assieme: essere funzioni del governo. I teorici della Costituzione americana, così come quelli delle costituzioni democratico-popolari dello stalinismo, si son d'allora tutti felicemente riconosciuti polibiani! Il costituzionalismo classico e contem-poraneo, quello di cui sbrodolano contente tutte le prostitute dello Stato di diritto, non è altro che polibiano! Monarchia, aristocrazia e democrazia formano insieme la migliore delle repubbliche!
Sennonché il tanto pompato valore scientifico di questa dialettica delle forme dello stato non va molto al di là di quello dell'apologo, celebre ed antico, di Menenio Agrippa: apologo quant'altri mai reazionario, che implica una concezione del potere organica, immobile, bestiale, quando chiede alle diverse classi sociali di costruire insieme una funzionalità animale. Valore nullo, dunque? Forse. Ma non vale la pena di insistere su queste nullità, se non altro perché la secolare continuità della tradizione, la sua effettività storica, l'odierna inerziale efficacia di queste teorie son là per ricordarci comunque la forza della mistificazione.
La stessa ideologia del marxismo rivoluzionario, pur rovesciandola, ha affer¬mato la validità della teoria delle forme dello Stato. L'"estinzione dello stato", di leninista memoria, assume il concetto di stato come esso è nella teoria borghese, e si pretende pratica di confronto estremo con quella realtà. Voglio dire che il concetto di "transizione" come quello di "estinzione"; quello di "via pacifica" come quello di "democrazia popolare"; quello di "dittatura del proletariato", così come quello di "rivoluzione culturale", -sono concetti bastardi perché impregnati della concezione dello stato, della sua sovranità, del suo dominio, perché si considerano mezzi necessari e vie di percorso inevitabile nella presa del potere e nella trasformazione della società. La dialettica mistificatoria della teoria delle forme dello Stato s'è rovesciata nella dialettica negativa dell'estinzione dello Stato: ma il nucleo teorico rimane, nella forza dell'affermazione assoluta, reazionaria dello Stato.
"Tutta la vecchia merda"; come diceva Marx.
E' ora di uscire da questa cristallizzazione di posizioni assurde – ravvivate ad un valore di verità unicamente dal loro estremismo. E' ora di chiedersi se non esiste, dal punto di vista teorico e pratico, una posizione che evita l'assorbimento nell'opaca e terribile essenza dello Stato. Se dunque non esiste
un punto di vista che, rinunciando alla prospettiva di chi costruisce meccanicamente la costituzione dello Stato, sa mantenere il filo della genealogia, la forza della praxis costituente, nella sua estensione ed intensità. Questo punto di vista esiste. E' quello dell'insurrezione quotidiana, della resistenza continua, del potere costituente. E' la rottura, il rifiuto, l'immaginazione, come base della scienza politica. E' il riconoscimento dell'impossibilità attuale di mediare le "armi" ed il "denaro", il "popolo in armi" e la borghesia multinazionale, la produzione e la finanza.
Stiamo uscendo dal machiavellismo del tutto convinti che Machiavelli sarebbe con noi. Stiamo uscendo dalla condanna a pensare la politica in termini di dominio. E' dunque la stessa forma della dialettica, della mediazione come contenuto del dominio come nelle sue diverse forme, che è qui in discussione. Per noi essa è definitivamente in crisi. Si tratta di riuscire a pensare politicamente oltre la teoria delle "forme dello Stato". Riprendendo i termini machiavellici, dobbiamo dunque chiederci: è possibile pensare di costruire una repubblica sulle armi del popolo e senza il denaro del Principe? E' possibile affidare il futuro dello Stato alla sola "virtù" popolare e non anche alla "fortuna"?

4. Costruire i soviet dell'intellettualità-massa.


Nell'epoca nella quale siamo entrati, dominata dalla tendenza egemonica del lavoro immateriale e caratterizzata dagli antagonismi prodotti dal nuovo rapporto tra organizzazione della forza produttiva e comando capitalistico multinazionale, la forma nella quale si presenta il problema della Costituzione è, dal punto di vista dell'intellettualità-massa, quello di determinare come i suoi Soviet possano essere costruiti.
Per specificare il problema, cominciamo con il ricordare alcune condizioni che abbiamo finora presupposto.
La prima di queste condizioni deriva dalla tendenziale egemonia del lavoro immateriale e, dunque, dalla sempre più profonda riappropriazione del sapere tecnico-scientifico da parte del proletariato. Su questa base il sapere tecnico-scientifico non potrà essere posto come mistificata funzione di
comando, separata dal corpo dell'intellettualità-massa.
La seconda condizione deriva dalla già sottolineata fine di ogni distinzione fra vita lavorativa e vita sociale, fra vita sociale e vita individuale, fra produzione e forma della vita. In questa posizione il politico e l'economico divengono due facce della stessa medaglia. Tutta la vecchia miseria delle distinzioni burocratiche tra sindacato e partito, fra movimento di massa e movimento d'avanguardia, e chi più ne ha più ne metta, sembra definitivamente scomparire. Il politico, la scienza, la vita funzionano insieme: è in questo quadro che il reale produce la soggettività.
II terzo punto da considerare è, in conseguenza di quanto detto, che su questo terreno l'alternativa al potére esistente si costruisce positivamente attraverso l'espressione di potenza. La distruzione della Stato non può essere concepita che attraverso un concetto di riappropriazione dell'ammini¬strazione. Vale a dire dell'essenza sociale della produzione, degli strumenti di comprensione della cooperazione sociale e produttiva. Amministrazione è ricchezza, consolidata e messa al servizio del comando. Riappropriarsene è fondamentale, - riappropriarsene attraverso l'esercizio del lavoro individuale posto nella prospettiva della solidarietà, nella cooperazione per ammini¬strare il lavoro sociale, per far sempre più riccamente riprodurre il lavoro immateriale accumulato.
Qui nascono dunque i Soviet dell'intellettualità-massa. Ed è interessante notare come le condizioni oggettive della loro insorgenza si combinino perfet¬tamente con le condizioni storiche del rapporto antagonistico fra le classi. Su quest'ultimo terreno, l'abbiamo precedentemente sottolineato, nessun compromesso costituzionale è più possibile. I Soviet saranno dunque definiti dal fatto che essi immediatamente esprimeranno potenza, cooperazione, produttività. I Soviet dell'intellettualità-massa daranno razionalità alla nuova organizzazione sociale del lavoro e ad essa commisureranno l'univer¬sale. L'espressione della loro potenza sarà senza costituzione.
La Repubblica costituente non è dunque una nuova forma di costituzione: essa non è né platonica né aristotelica né polibiana, e forse neppur più machiavellica. Essa è una Repubblica che viene prima dello Stato, che vien fuori dallo Stato. Il paradosso costituzionale della Repubblica costituente consiste nel fatto che il processo costituente non si chiude mai, che la Rivolu-zione non termina, che la norma costituzionale e la legge ordinaria sono ricondotte ad una sola fonte e sviluppate unitariamente in una sola proce¬dura democratica.
Eccoci infine al grande problema da cui tutto nasce e verso cui tutto tende: al compito di distruggere la separazione, la diseguaglianza, il potere che riproduce separazione e diseguaglianza. Ora, i Soviet dell'intellettualità -massa possono porsi questo compito costruendo, fuori dallo Stato, una macchina nella quale una democrazia del quotidiano organizzi la comunica¬zione attiva, l'interattività dei cittadini, e insieme produca soggettività sempre più libere e complesse.
Tutto questo è iniziale, è ancora troppo generale e astratto? Certo. Ma è importante il fatto che si ricominci a parlare di comunismo - in questa forma - cioè come un programma che in tutti i suoi aspetti va oltre le misere riduzioni che abbiamo visto realizzarsi nella storia. E che se è iniziale, non è perciò meno realistico. L'intellettualità-massa, il nuovo proletariato che nelle lotte contro lo sviluppo capitalistico e per l'espressione della potenza costitutiva si sono costruiti, cominciano a mostrarsi come veri soggetti storici.
L'evento, l'inattualità, l'Angelus novus -quando giungono- lo fanno all'im¬provviso. La nostra generazione può dunque costruire una nuova Costitu¬zione. Solo che essa non sarà una costituzione. L'evento s'è forse già dato.