HOPEFULMONSTERS
(1981)
1. Dicono che in genetica si usi il termine hopefulmonsters (mostri pieni di speranza) per denotare i mutanti protagonisti dei «salti» che hanno scandito l’evoluzione. È un termine che definisce i protagonisti della trasformazione che attraversa le nostre società meglio di quanto non faccia quello, un po’ troppo disincantato, di «nuovi soggetti». «Nuovi soggetti» è una denominazione che ci parla della moderata sorpresa di chi individua un attore «nuovo» sulla scena dello scontro sociale e propone ai «vecchi», che hanno una difficile convivenza con esso, di riconoscergli il suo spazio legittimo senza sbranarselo subito: denominazione figlia di un pensiero tollerante e aperto, non belluino, ma che ha il pathos e la tensione conoscitiva che animano un elenco della spesa. Hopefulmonsters ci parla subito di una rottura irrimediabile con il passato, che coinvolge tutti, e di una lotta feroce per la sopravvivenza, che la abita: non è un termine gentile, ma è pieno di fascino, e tratta proprio delle cose di cui è questione, cioè di un mutamento genetico.
In un senso molto preciso e determinato: la cultura che parla del «mutamento», che ne raccoglie il sogno e le aspirazioni, che è satura dello «scandalo» dell’esistente, è la cultura di «sinistra», e parla di una cosa tutt’affatto diversa dal nostro problema. Parla di un «mutamento» che è fatto dell’uso buono del potere, di un «mutamento» che nasce dall’ingresso ordinato e consapevole delle «folle» nello Stato per partecipare del suo potere e della sua conoscenza, secondo le leggi scritte dalla scienza della politica. La «sinistra» pensa a un mondo in cui il potere si concentra incessantemente, insieme alla conoscenza che esso ha della società, e si pone il problema di come rendere partecipe di questo ben di dio la folla degli esclusi: cioè, si pone un problema di tecnologia sociale, di «governo» del cambiamento a partire dalla conoscenza che possiede della sua necessità e della sua direzione. Essa progetta di cambiare molte cose, tranne le leggi che presiedono alla sua possibilità di progettare e il ruolo di chi le ha scritte, gli intellettuali.
Il mutamento che materialmente stiamo vivendo è diverso,perché non concentra il potere ma lo disperde, e la prima cosa che mette in discussione è la possibilità del governo, il ruolo e lo statuto del sapere degli intellettuali.
2. Stalin ha scritto una cosa classica, che riassume la tradizione e l’esito del pensiero democratico e socialista: al contrario della rivoluzione borghese, che prima ha cambiato la società e poi lo Stato, quella proletaria si impadronirà prima dello Stato per poi cambiare la società. Con una certa libertà nell’uso dei termini, questo concetto vale per l’intera tradizione del pensiero di sinistra, da Rousseau a Marx, a Kautsky, a Bemstein: è lo Stato, quello nuovo da costruire o quello vecchio da riformare, che tira in avanti il progresso della società, che fa progredire gli uomini. L’esperienza comunista come quella socialdemocratica conservano al centro questa idea forza, che la politica è il luogo più alto di una cooperazione umana consapevole e razionale capace di progetto, là dove il mercato appare il luogo nebuloso e casuale dello scontro di forze opache. Lo Stato deve essere il regolatore consapevole della società, capace di guidarla verso una meta di progresso: esso deve programmare il cambiamento, essere agente attivo in vista di una meta; non rappresentanza passiva del presente, ma progettualità verso il futuro, macchina buona di una tecnologia sociale che ha tutti gli attributi per presentarsi con lo statuto di una nuova scienza, meglio, con quello della scienza sovrana. Mentre il pensiero conservatore assume in modo lineare che lo Stato sia specchio di una società regolata e governata dalle sue regole interne, dal mercato, il pensiero progressista in generale vede nello Stato lo strumento della critica del presente e dei suoi equilibri: non lo Stato così com’è, che è una sovrastruttura, una superfetazione fatta di lusso e violenza - un tutore armato del mercato che non aggiunge nulla alle ingiustizie che quello crea ma si contenta di perpetuarle; ma lo Stato da costruire o quello riformato, quello che abbia dentro la classe operaia, o il Partito che lo prefigura. Non è in questione, qui, il «giacobinismo» leninista, ma il fatto più generale, che lo partorisce e giustifica, che in tutta la tradizione democratico-progressista lo Stato si contrappone al mercato come l’orizzonte delle possibilità di progresso si contrappone a una realtà manchevole e perfettibile, e, più in generale, come l’attività consapevolmente progettuale si contrappone allo scenario naturalistico del confronto di interessi rozzi e immediati.
In questa concezione progettuale della politica come macchina del mutamento sociale, gli intellettuali svolgono un ruolo assolutamente centrale: gli interessi delle classi subalterne, del lavoro operaio, spingono verso il mutamento e lo legittimano, ma ciò che lo rende possibile è la loro capacità di espressione ordinata e organizzata dentro un corpo politico di funzionari, di lavoratori intellettuali, capaci di divenire Stato, di mediare le spinte dentro un progetto sociale coerente, di dargli un’anima. Il lavoro operaio è cieco e spossessato di conoscenza, esso legittima e delega; il lavoro intellettuale conosce e opera, realizza ciò a cui è stato chiamato, e il riferimento legittimante al lavoro operaio è sempre, insieme, riferimento al lavoro intellettuale come soggetto del mutamento.
Nella produzione, che è governata dal mercato, il lavoro intellettuale, attraverso la tecnologia, organizza e domina il lavoro operaio, ne concentra la potenza, ma non ha poteri sulla proprietà che appare il residuo irrazionale di un mondo antico abitato dall’arbitrio; nello Stato il lavoro intellettuale governa anche la proprietà, o per lo meno la completa e perfeziona, ne regola gli istinti e la ammansisce. Per questo, lo Stato si presenta come il luogo pieno del dominio della razionalità, come la macchina per eccellenza, quella che governa tutte le altre perché ciò che la anima è il principio a tutte comune dell’opposizione di lavoro operaio e intellettuale, ma nella sua forma più pura e generale.
Il riferimento al lavoro operaio è così centrale nel pensiero progressista e di sinistra perché è la base della sua concezione dello Stato come soggetto del mutamento: se la società è operaia, spossessata di conoscenza, tutto il sapere può stare nello Stato. Marx pone a base del suo discorso l’opposizione di teoria e pratica, di lavoro intellettuale e manuale; la abolisce in un luogo determinato della teoria, il comuniSmo, ma riguardo a ciò che definisce con precisione scientifica, il socialismo, la conserva e la media attraverso la politica. E la politica il luogo vero di congiunzione, di mediazione creativa, tra intellettuali e produttori, non la tecnologia, che «mangia» operai, che conosce solo opposizione e guerra perché è asservita a un interesse particolare, al privilegio irrazionale del proprietario. Lo Stato è la vera macchina che conosce gli uomini perché di essi è la creazione più alta, e sua è la soggettività più potente, quella che sa cambiare il mondo: la tecnologia governa la natura, lo Stato la società, questa seconda natura che ci siamo lasciati crescere addosso. Il suo compito deve essere quello di «aprire» il futuro: per questo deve conoscere, deve essere un cervello potente; la società, viceversa, deve essere omogenea e ricettiva, trasparente e semplice, articolata per grandi organizzazioni verticali che concentrano il potere che essa produce. Nessuna cultura è mai stata più aperta verso il «cambiamento», più «compromessa» con esso, e più chiusa verso il «nuovo», verso ciò che resiste al «progetto». Cultura eminentemente moderna, razionale e discorsiva, porta i concetti di governo e sovranità alla loro espressione più alta.
3. Il lavoro operaio è lavoro esecutivo, privo di conoscenza e soggettività: produce ma deve essere guidato, governato, perché è fatto da un insieme di operazioni semplici che acquistano senso e potenza solo nella loro unità. Una unità che al lavoro operaio sfugge perché è posseduta dal comando, tecnologico e scientifico, su di esso, dal lavoro intellettuale.
Questa opposizione, di lavoro operaio e intellettuale, domina l’economia, la produzione e il suo mercato, perché, rendendo sostituibili gli operai con le macchine, di essi determina la quantità e il prezzo. Contro tale opposizione l’operaio non può nulla, salvo che trasportarla nello Stato, partecipare a esso delegando collettivamente una parte del lavoro intellettuale, un suo strato specifico di operatori economici e sociali, a intervenire sul mercato in rappresentanza dei suoi interessi di parte: può chiedere, cioè, che venga elaborata una tecnologia che sappia controllare le tecnologie, una macchina che governi le macchine o almeno tratti con esse. Passando dal mercato año Stato, l’opposizione di lavoro intellettuale e operaio da antagonista si fa partecipativa, ed è questo passaggio che l’ideologia chiama emancipazione di classe perché la miseria di ognuno vi compare tramutata in potenza collettiva, e la privazione di soggettività e conoscenza di ogni operaio costruisce la macchina più grande, quella più capace di soggettività e di scienza.
Una cosa ha rotto la linearità di questo schema «emancipa-tivo»: la perdita di centralità del lavoro operaio, il mutamento di statuto di quello intellettuale che costruiva la governabilità di economia e politica, faceva del mercato e dello Stato i luoghi di concentrazione del potere sociale.
E un passaggio estremamente netto: la lotta operaia contro il lavoro si è tradotta in fuga di massa dalle fabbriche, in deope-raizzazione della società e del lavoro produttivo, e ha caricato l’onere della produzione di ricchezza sul lavoro scientifico espandendolo a macchia d’olio su tutta la società per togliergli il gusto del governo.
La produzione moderna conosce in modo crescente il lavoro intellettuale come principale forza produttiva: esso si presenta sempre più come l’agente diretto della produzione di ricchezza, come la forma generale dell’attività umana, e sempre meno come una forma particolare di attività contrapposta a altre con le sembianze del coordinamento e del governo, della produzione di senso. Piuttosto che essere sintesi, produzione della complessità a partire dalla direzione di processi semplici - del lavoro manuale -, diviene esso stesso la forma complessa della produzione materiale. Al tempo stesso, nella produzione automatizzata come nell’informatica ecc., il lavoro operaio acquisisce in modo crescente connotati e ruoli tipoci di quello intellettuale, cessando di presentarsi come lavoro semplice scomposto e analizzato dal macchinario per diventare insieme di operazioni di controllo e selezione sui flussi di comunicazione che informano il lavoro della macchina. Il lavoro intellettuale spoglia progressivamente quello manuale e esecutivo del suo ruolo produttivo; dal canto suo, cessa di governare gli uomini per passare a maneggiare le cose.
Il dibattito epistemologico contemporaneo registra questo mutamento nella funzione e organizzazione del lavoro scientifico, il suo passaggio dalla direzione del lavoro manuale alla operatività diretta: lo registra nei termini della ricerca di un concetto operazionale di «verità», che è insieme convenzionale, flessibile e pluralista quanto conviene a un concetto che è operatore strumentale quotidiano del lavoro concreto di molti, che non è più referente universale del lavoro cieco dei più, comando su di esso. La scienza cessa di rappresentarsi come il metalinguaggio che si contrappone, come produttore di Verità e di senso, all’agire quotidiano privo di conoscenza delle moltitudini, cessa di essere il luogo privilegiato di formazione della soggettività che si contrappone all’universo delle relazioni oggettive che stringono gli uomini, per divenire strumento del lavoro di tutti, operatore diffuso della produttività generale della cooperazione sociale.
E un fatto che incide in modo potente sulla organizzazione del processo produttivo: a una struttura semplice che vede cono-scenza e comando concentrati in alto a dirigere il corpo massiccio del lavoro esecutivo, subentra una struttura complessa che è fatta della distribuzione fortemente dispersa di conoscenza, capacità di controllo e di autodeterminazione; il vertice della macchina produttiva è più povero di conoscenza e capacità di governo, il corpo ne è più ricco, e l’area istituzionale in cui si concentrano i processi decisionali appare troppo ristretta a fronte della configurazione emergente del processo lavorativo e del ruolo in esso svolto dal lavoro intellettuale.
Inoltre, questo è un fatto che modifica la struttura della cooperazione sociale togliendo centralità al lavoro: poiché il ruo-
lo produttivo della scienza libera dal lavoro una quota massiccia di tempo sociale e un numero elevato di uomini, esso riduce il lavoro produttivo a parte tra le altre, non più sintesi di un processo di riproduzione sociale in cui i canali di comunicazione e i momenti di aggregazione sociale e politica acquisiscono autonomia dalla produzione materiale e dalla sua gerarchia, si sottraggono al suo ordine definendo una geografia del potere sociale profondamente articolata, decentrata, dispersa. I meccanismi della rappresentanza attorno cui si articola la costituzione del corpo politico dello Stato moderno hanno al loro centro una «eguaglianza» di tutti i cittadini che solo entro il tempo del lavoro operaio, dove ognuno è sostituibile e tutti hanno il medesimo scopo, vive e si fonda. Il tempo del lavoro intellettuale ha una struttura più complessa, non riducibile all’indifferenziazione; e così il tempo liberato dal lavoro, che è quello del consumo, del piacere, dell’attività ludica e creativa, dove la molteplicità dei desideri si sostituisce all’univocità dello scopo e la «unicità» di ogni individuo prende il posto di quella uguaglianza per cui tutti sono capaci della medesima prestazione. Quando si parla di «complessità» sociale si parla di questo insieme di fenomeni emergenti, e quando si lamenta la difficoltà di prendere decisioni, di «governare», ci si riferisce al fatto che il lavoro intellettuale cessa di concentrarsi al vertice della società per articolarsi nell’insieme del suo tessuto, nel tempo di lavoro come in quello da esso liberato: è una geografia del potere inedita, che si presenta come un mutamento genetico perché impone la ridefinizione dei rapporti tra un corpo sociale che è cresciuto troppo e la sua testa, che si è rimpicciolita in proporzione.
4. La crisi del mercato e quella dello Stato hanno avuto tempi differenti, ma un medesimo motore: la fuga operaia dal lavoro produttivo, la corsa alla produzione del lavoro intellettuale, cioè un processo sorprendente di dispersione e redistribuzione del potere sociale. Il sogno della sinistra, riformista e rivoluzionaria, di fondare nella politica quel rapporto nuovo tra lavoro operaio e intellettuale che emancipasse la società, è stato anticipato nella materialità dei rapporti di produzione: il suo giocattolo più bello, la super macchina buona dell’apparato statale, è stato ricondotto al ruolo laico di una macchina produttiva tra le altre, di un operatore economico e sociale presente sul mercato e immerso nella sua crisi, perché è stata rotta la distinzione forte di Stato e società.
All’inflazione del denaro si accompagna quella della «verità»: la prima misura il disordine che abita una distribuzione della ricchezza che non può più ancorarsi al tempo della prestazione lavorativa perché questo è indifferente di fronte alla potenza della cooperazione sociale attivata dalla scienza, ed è strapazzata dal comportamento egualitario di soggetti economici diversi che faticano a articolarsi lungo una scala gerarchica perché sono unificati da una universale aspettativa di piacere, da una volontà appropriativa che omogeneizza orientamenti collettivi e desideri individuali; la seconda definisce lo statuto nuovo del lavoro scientifico, che diviene strumento operativo del lavoro di massa sciogliendo nella sua utilità quotidiana e sperimentale l’armatura sistematica capace di orientare, ordinare, produrre gerarchia, che vestiva il suo essere capace di governo, la sua durevolezza di cosa gestita da pochi e fruita da molti.
Cento anni fa si discuteva se lo Stato potesse essere soggetto economico oltre che politico. Oggi si discute, con ricchezza di argomenti, se possa essere soggetto politico oltre che economico, cioè se possa essere «rappresentativo», «sovrano» e «legittimo» e che cosa esattamente ciò voglia dire. Il punto è che la nostra società, in misura crescente, mostra di non produrre più ceto di governo perché incrina la distinzione tra produzione e direzione, tra lavoro operaio e intellettuale, sostituendo sempre più il primo con il secondo.
Il lavoro intellettuale può «rappresentare» quello operaio dirigendolo; nel momento in cui diviene produttivo esso stesso, non c’è più nulla da «rappresentare» e nessuno più che «rappre-senti». Nel senso, banale, che quanta più conoscenza, quanto più tessuto informativo viene elaborato direttamente nel processo produttivo dal lavoro vivo che si applica a esso, tanto di meno entra a alimentare la funzione di governo su di esso; e nel senso, altrettanto banale, che la medesima attività umana - il lavoro intellettuale - e lo stesso ceto sociale che a essa si applica - gli intellettuali -, non può allo stesso tempo unificare produzione e direzione e contrapporle come funzioni separate; non può caricarsi dell’onere della produzione diretta e insieme svolgere funzioni rappresentative, scindere, per contrapporle, nella propria attività la produzione e la sua «rappresentazione». Paradossalmente, la crisi dello Stato moderno sta nel suo tentativo di perpetuare la funzione di governo come funzione separata per difenderne il privilegio: per legittimarla, perpetua il lavoro operaio, ne impone la fatica come tassa sociale più che come onere produttivo, in nome delle esigenze della «governabilità». Nel nome della miseria operaia, che esso stesso evoca e perpetua, cerca di difendere lo «status» di ceto di governo per il lavoro intellettuale, e dentro questa distruzione di forza produttiva definisce i contorni della miseria moderna.
Ciò che è in questione, nella crisi dello Stato moderno, non è l’aspetto per cui esso è una rilevante e potente organizzazione produttiva capace di scelte economicamente e socialmente significative, perché da questo punto di vista la sua crisi è omogenea a quella che investe tutta l’organizzazione del lavoro produttivo: ovunque, la concentrazione del potere legittimo, istituzionale, si scontra con la diffusione del potere effettivo, con la struttura reale del processo produttivo, distruggendo capacità, creatività, risorse, per proteggere il ruolo del «comando». La crisi vera lo investe nel cuore delle funzioni per cui esso è Stato, quelle che dovrebbero permettergli di condurre la società fuori dalla lotta di cui è teatro, di mediarne i conflitti e trovare le soluzioni, di «regolarla» e «governarla». La crisi investe lo Stato nella sua «sovranità», «rappresentatività», «legittimità»: in ciò che lo distingue dalla società, non in ciò che lo rende eguale a essa, organizzazione tra le tante, di interesse pubblico o privato.
«Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione»: discutere della sovranità è sempre discutere della guerra, e sono le forme della guerra moderna, prima di tutto, che ci parlano della fine della sovranità. Il terrorismo, che equipara la vita del sovrano a quella di ogni suddito, eliminando la verità di sempre che la vita di chi è al potere si scambia solo con le vite di molti che il potere subiscono, nella rivoluzione o nella guerra tra Stati. E la guerra nucleare, che non ha più bisogno di molti uomini da governare dentro gli eserciti, che non ha più bisogno di consenso perché è materialmente fatta da pochi uomini e tutti gli altri li coinvolge solo in modo passivo; e per questo non è più «continuazione della politica con altri mezzi», ma scelta autonoma di un piccolo gruppo, motivata o meno dai suoi rapporti con gli altri piccoli gruppi, anche se può operare «alla grande». Il periodo aperto dalla Rivoluzione francese, quella che ha fondato il moderno concetto di «sovranità», comincia a declinare azzittendo le grandi guerre di popolo: la nuova guerra assomiglia a quella antica, al lavoro di piccole comunità guerriere. Il declino della «sovranità» riprende i motivi che erano stati alla base del suo sorgere. Il fatto che questo declino ci minacci di estinzione non cambia la natura del problema.
Ne crea uno nuovo a noi, perché definisce l’orizzonte di una prassi volta a estinguere la politica: demotivare il principe, togliergli la velleità di rimettere ordine nel mondo, piegarlo al rimpiccio-limento del suo ruolo spuntando le armi che ha per vendicarsi.
(da «Metropoli», n. 7novembre 1981)
"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
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lunedì, agosto 06, 2012
Metropoli Lucio Castellano LE ISTITUZIONI DELLA FRONTIERA
LE ISTITUZIONI DELLA FRONTIERA
(1981)
l’egualitarismo antisocialista
C’è un lato per cui l’utopia politica della «frontiera» [si parla qui del valore sociopolitico, e anche etico, che assunse l’abbondanza di terre libere a Ovest, negli Stati Uniti, durante il XIX secolo N.d.E.] ha il sapore bruciante di un discorso sui limiti della democrazia politica: un discorso che si alimenta insieme di egualitarismo e di odio antisocialista. E una cultura operaia, quella della «frontiera», nutrita da un individualismo che non è fatto di culto piccolo borghese della proprietà ma di nomadismo sociale, di fuga dalla fabbrica e dal lavoro salariato. Chi l’ha descritta più a fondo è stato Alexis de Tocqueville, che non era un colono né un americano. Era un aristocratico francese repubblicano. Ministro di Napoleone III prima del colpo di stato, amico fraterno dei macellai del giugno 1848,, quelli che sventrarono a colpi di cannone la Parigi operaia, antisocialista al punto da non poter reprimere un moto di genuino orrore fisico alla vista della figura rattrappita di Blanqui, che a suo dire voleva imporre a tutto il popolo francese quella sofferenza con cui la prigione aveva reso sgradevole il suo viso. Al tempo stesso, Tocqueville è colui che più a fondo ha studiato le istituzioni americane del suo tempo e sta nel novero di quelli che più le hanno amate, nel nome di un egualitarismo né operaio né socialista. Ciò per cui odiava i socialisti non era l’eguaglianza di cui si dicevano portatori, ma la tendenza all’accentramento politico e amministrativo, il centralismo e lo statalismo che sembravano animarli: eguaglianza e centralismo era per lui un binomio ereditato dalla grande Rivoluzione, ma cresciuto prima, insieme al dispotismo; alle spalle dei socialisti, Tocqueville vedeva, ben più che la Rivoluzione dell’89, la tradizione assolutista. Anche le istituzioni americane le considerava figlie dell’eguaglianza, anima del mondo moderno, potenza non contenibile e di gran lunga capace di spezzare ogni barriera; ma conoscevano un centralismo minore, erano in guerra per mitigarlo, e per questo le amava.
E su questo punto che si divaricano non solo due grandi miti democratici, ma anche due scienze della politica, due strategie della liberazione.
Per il taglio particolare del suo discorso, Tocqueville non appartiene al dibattito europeo sullo Stato, che, per il versante per cui è democratico ed egualitario, né autoritario, né reazionario, è sempre socialista', Tocqueville appartiene per intero al «sognò americano».
Il discorso sul dominio nel dibattito europeo è sempre discorso sulla diseguaglianza: il dominio deriva da questa e ne è funzione subordinata. La diseguaglianza che governa lo Stato moderno è quella tra proletariato e borghesia, che fonda i rapporti sociali tipici del modo capitalistico di produzione: questo assunto è comune a tutte le parti, ed è al suo interno che il mito socialista governa la prospettiva, fissa i ruoli e amministra i punti di riferimento.
Questa diseguaglianza è fondata dal diritto di proprietà ed è gestita dal mercato: per i conservatori, lo Stato la deve tutelare dall’esterno, badando a che nessuno saboti il meccanismo; per i progressisti, lo Stato, che è espressione dell’eguaglianza politica di tutti gli uomini, dell’eguaglianza dei loro diritti, deve abbattere, o per lo meno governare ed attenuare, quella diseguaglianza, forzando i ciechi automatismi del mercato e introducendo in esso la razionalità della macchina politica. Il movimento progressista e democratico europeo è fortemente statalista, naturalmente orientato in senso socialista: anche nelle sue tendenze più gra-dualiste, l’idea-forza resta che l'eguaglianza- la realizza lo Stato contro il mercato, facendo prevalere un «interesse generale» sui particolarismi che abitano la società. Insieme, c’è l’idea che una società egualitaria, che abbia sottomesso gli arbitri della proprietà, non conoscerà dominio perché sarà armonica e aconflittuale, governata da quella capacità di cooperazione che è propria del lavoro di fabbrica, dove tutti concorrono a un medesimo scopo. L’eguaglianza, dentro questo ambito di discorso, porta il segno del lavoro operaio, ed è per questo che appare non conflittuale ma partecipativa: è un’eguaglianza che, nello stesso momento in cui si costruisce attraverso lo Stato, lo rende superfluo, lo scioglie nell’amministrazione.
Tocqueville fa un discorso opposto: nel mondo moderno la diseguaglianza è un fatto residuale, l’eguaglianza è sovrana; ciò non solo non elimina il dominio ma ne crea forme nuove, capaci di incredibili oppressioni se non contrastate. Non è che Tocque-ville non veda la diseguaglianza dell’avere e del non avere. La vede, ma la ritiene fragile in una società che si è liberata dell’aristocrazia, dove tutti hanno gli stessi desideri e gusti, la stessa lingua e cultura: dove non ci sono istituzioni che inchiodano gli uomini ai loro ruoli come a destini, la proprietà appare povera cosa, argine debole allo spirito egualitario.
Dire che era un ideologo piccolo borghese ha la povertà propria delle cose ovvie: certo, non ha visto il capitalismo, il concentrarsi della proprietà e dei poteri, il crescere dell’impero a ridosso della democrazia della «frontiera». Gli altri, però, non hanno visto la sindacalizzazione, il crescere della ricchezza operaia nella società opulenta, la redistribuzione delle risorse e lo sminuzzamento dei poteri; non hanno visto il ventre molle dell’impero Usa, un impero che si diletta a fucilare i suoi presidenti sulle pubbliche piazze invece che impegnarsi a vincere le loro guerre. È vero che il capitalismo concentra potere e ricchezza; è vero anche che la lotta operaia opera in senso inverso, e i consumi di massa, l’appiattirsi delle differenze gerarchiche e la diffusione del potere sociale che segnano la «governabilità» dei paesi dello sviluppo, stanno a dimostrarne la potenza. Che il potere si concentri è un assioma socialista, che si diffonda è l’assioma della «frontiera». Un assioma democratico non è necessariamente ingenuo. In questo caso ha dietro, semplicemente, un discorso sul sindacato: l’operaio «concepisce un’idea più elevata dei suoi diritti, del suo avvenire, di se stesso; è pieno di ambizione e desideri nuovi, assediato da nuovi bisogni. Ogni momento lancia uno sguardo pieno di desiderio sui profitti di colui che l’impiega, e, per poter riuscire a condividerli, si sforza di elevare il prezzo del suo lavoro, finendo generalmente per riuscirvi». E così che, man mano «che le condizioni si fanno più uguali, i salari si elevano, e, a conseguenza di ciò, le condizioni si fanno uguali».
LA FUGA DAL LAVORO OPERAIO
Tocqueville non era un economista e non li amava; ne parlava, con quel disprezzo che solo gli aristocratici ogni tanto sanno provare, come di funzionari dell’assolutismo, di gente che vede leggi oggettive là dove c’è solo volontà di potere assoluto. Per questo si riferisce continuamente al desiderio come a una forza storica potente, al punto da pensare che se tutti desiderano le stesse cose, nulla riuscirà per lungo tempo a conservarli diseguali, e che è questa l’eguaglianza sancita dalla scomparsa dell’aristocrazia. Ed è dal desiderio che vede ridisegnata la geografìa del «nuovo mondo», spinta in avanti la Frontiera, governato l’assetto sociale degli Stati Uniti: «Non sono cinquant’anni che è stato fondato lo Stato dell’Ohio; la maggior parte di quelli che l’abitano non vi è nata, la sua capitale non ha ancora trentanni di esistenza e un’immensa estensione di campi deserti copre il suo territorio; eppure la popolazione delTOhio si è già rimessa in cammino verso l’Ovest: la maggior parte di coloro che discendono nelle fertili praterie dell ’Illinois sono abitanti dell’Ohio. Questi uomini hanno lasciato la prima patria per stare bene, ora abbandonano anche la seconda per star meglio: quasi ovunque essi trovano la fortuna, ma non la felicità. In loro il desiderio del benessere è divenuto una passione inquieta e ardente che si accresce soddisfacendosi. Essi han rotto da tempo i legami che li univano al suolo natio e non ne hanno stretti degli altri. Per loro l’emigrazione ha cominciato coll’essere un bisogno, oggi essa è diventata ai loro occhi una specie di gioco d’azzardo, di cui essi amano le emozioni oltre al guadagno». Questa spregiudicatezza del desiderio, questa irrequietezza della vita che anima il nomadismo, sono ciò che distingue l’America dall’Europa, ciò che rende diverse le regole della convivenza e la filosofia delle istituzioni: «In Europa siamo abituati a considerare l’irrequietezza dello spirito, lo smodato desiderio di ricchezze, l’amore estremo dell’indipendenza, come pericoli sociali»; ma sono proprio queste cose che garantiscono la pace e la sicurezza delle repubbliche americane, dove è debolezza d’animo la nostra «moderazione dei desideri», dove sono pericoli le nostre virtù. La ricerca della felicità governa una mobilità sociale che attraversa sia territori geografici, mutando l’estensione dello Stato, che ruoli sociali, collocazione all’interno del processo produttivo e della scala gerarchica, mutandone la composizione: un discorso per nulla vago, del tutto scevro di folklore. Il suo riferimento non è un egualitarismo generico: ciò di cui si parla è la migrazione a Ovest di operai ricchi, non inchiodati alla fabbrica dalla miseria né dalla legislazione contro il vagabondaggio, che fuggono il loro lavoro. La fuga dal lavoro operaio è ciò che spinge in avanti la frontiera, è l’anima del sogno americano; sono gli operai che viaggiano, è Temi-grante europeo che sbarca in un «paese semivuoto, in cui l’industria ha bisogno di braccia; e diviene un operaio agiato; suo figlio va a cercar fortuna in un paese quasi completamente vuoto, e diviene un ricco proprietario».
Ineguaglianza della «frontiera» non è l’eguaglianza socialista del lavoro operaio; al contrario, porta il segno della fuga dalla fabbrica. Non è partecipativa ma attraversata dal conflitto.
LA DITTATURA DELLA DEMOCRAZIA
Della dittatura dell’eguaglianza hanno parlato in molti, che odiavano l’eguaglianza. Tocqueville è il primo che ne parla amandola. Benché siano molte le ingenuità che costellano il suo pensiero, egli non condivide quella, egemone nella tradizione socialista, di identificare il governo con la classe che lo esprime, chi esercita il potere con chi lo delega. «Quando il popolo governa, è necessario che sia felice, affinché non rovesci lo Stato»; ciò vuol dire che il potere sociale è del popolo in questa società, ma che esso non si identifica mai con lo Stato, che è una macchina che produce cose. Se non è soddisfatto, il popolo è abbastanza forte da rovesciare la macchina statale, e attraverso questa minaccia la controlla e la vincola, ma non «partecipa» a essa.
Anche nel migliore dei casi, quando non c’è opposizione di interessi tra popolo e Stato, quest’ultimo cercherà sempre di concentrare tutto il potere, di governare dall’alto, di decidere tutto: di conquistare il monopolio della decisione politica e amministrativa. Cercherà cioè di uccidere pluralismo e libertà, uniformando i modi di vita, ampliando all’infinito la sfera di competenza dell’interesse pubblico. Ciò che distingue la democrazia dalle altre forme di governo non è la maggiore partecipazione alle decisioni, ma il fatto che la società democratica è quella più esposta al rischio dello strapotere del governo centrale, al rischio di un centralismo senza limiti: perché in essa non vi sono corpi intermedi, privilegi e corporazioni capaci di esprimere un potere autonomo da quello centrale e quindi di limitarlo. Il potere, in essa, è uno solo perché una sola fonte legittima lo genera, il popolo; quest’ultimo, tanto più è fiducioso e disposto alla delega, quanto più si sente rappresentato fedelmente, quanto più vede nel suo delegato una figura familiare e simile, che per origine di classe non ha interessi contrapposti ai suoi. In democrazia, proprio perché tutti sono uguali,
ciò che solo emerge è il potere centrale, che per questo tende, più che in ogni altra forma di governo, a concentrare tutto presso di sé. Per questo la società democratica esige che ci si associ liberamente al di fuori dello Stato, che si sviluppino le autonomie locali, che ci si batta per evitare che l’accentramento amministrativo sia pari a quello politico, pena la scomparsa di ogni libertà.
La tendenza al centralismo è più antica della rivoluzione francese, che si limita a portarla a compimento: «Prima che compisse l’anno dallo scoppio della Rivoluzione, Mirabeau scriveva segretamente al re: “Confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime e ne troverete conforto e speranza. Una parte degli atti dell’Assemblea nazionale - e la più considerevole - è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non è nulla Tessersi liberati del parlamento, del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L’idea di formare una sola classe di cittadini avrebbe sedotto Richelieu: questa superficie eguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi regni di governo assoluto non avrebbero fatto per il potere regio quanto ha fatto questo solo anno di rivoluzio-»
ne ».
Il potere della maggioranza non conosce limiti, questo è il problema di Tocqueville. Ed è un problema tipicamente moderno. Non è figlio dell’eguaglianza, ma è suo compagno di viaggio, e l’eguaglianza ne segna le caratteristiche: «Nei secoli democratici, il potere assoluto non è per sua natura crudele 0 selvaggio, ma è minuzioso e faccendone». Le istituzioni della «frontiera» conoscono l’antidoto: il culto della minoranza che impone il decentramento, il proliferare dei poteri locali.
Un popolo di vagabondi emigranti ha una diffidenza istintiva nei confronti della «maggioranza» che sta in un’assemblea che siede sempre in qualche luogo lontano; preferisce considerarsi un agglomerato di minoranze, che il potere centrale deve riconoscere e tutelare; preferisce raggrupparsi per entità etniche, culturali, religiose, sviluppare le forme più varie di associazionismo e difendere il proprio localismo, per quanto è possibile ricorrendo all’elezione diretta dei titolari delle funzioni pubbliche locali per eludere la morsa del funzionariato centrale.
Tocqueville non pensava che gli americani ce l’avrebbero fatta, che quel decentramento potesse averla vinta; sapeva di lavorare su una mera ipotesi politica, di essere partecipe di un mito: il solo mito antisocialista dei nostri tempi che è anche dernocratico', perché non consegna tutta la società al capitale e diffida dello Stato, perché ravvisa l’eguaglianza nel rifiuto del lavoro operaio. Come ogni mito, non spiega tutto, ma definisce le regole dello scontro politico.
(Da «Metropoli», n. 6, settembre 1981)
(1981)
l’egualitarismo antisocialista
C’è un lato per cui l’utopia politica della «frontiera» [si parla qui del valore sociopolitico, e anche etico, che assunse l’abbondanza di terre libere a Ovest, negli Stati Uniti, durante il XIX secolo N.d.E.] ha il sapore bruciante di un discorso sui limiti della democrazia politica: un discorso che si alimenta insieme di egualitarismo e di odio antisocialista. E una cultura operaia, quella della «frontiera», nutrita da un individualismo che non è fatto di culto piccolo borghese della proprietà ma di nomadismo sociale, di fuga dalla fabbrica e dal lavoro salariato. Chi l’ha descritta più a fondo è stato Alexis de Tocqueville, che non era un colono né un americano. Era un aristocratico francese repubblicano. Ministro di Napoleone III prima del colpo di stato, amico fraterno dei macellai del giugno 1848,, quelli che sventrarono a colpi di cannone la Parigi operaia, antisocialista al punto da non poter reprimere un moto di genuino orrore fisico alla vista della figura rattrappita di Blanqui, che a suo dire voleva imporre a tutto il popolo francese quella sofferenza con cui la prigione aveva reso sgradevole il suo viso. Al tempo stesso, Tocqueville è colui che più a fondo ha studiato le istituzioni americane del suo tempo e sta nel novero di quelli che più le hanno amate, nel nome di un egualitarismo né operaio né socialista. Ciò per cui odiava i socialisti non era l’eguaglianza di cui si dicevano portatori, ma la tendenza all’accentramento politico e amministrativo, il centralismo e lo statalismo che sembravano animarli: eguaglianza e centralismo era per lui un binomio ereditato dalla grande Rivoluzione, ma cresciuto prima, insieme al dispotismo; alle spalle dei socialisti, Tocqueville vedeva, ben più che la Rivoluzione dell’89, la tradizione assolutista. Anche le istituzioni americane le considerava figlie dell’eguaglianza, anima del mondo moderno, potenza non contenibile e di gran lunga capace di spezzare ogni barriera; ma conoscevano un centralismo minore, erano in guerra per mitigarlo, e per questo le amava.
E su questo punto che si divaricano non solo due grandi miti democratici, ma anche due scienze della politica, due strategie della liberazione.
Per il taglio particolare del suo discorso, Tocqueville non appartiene al dibattito europeo sullo Stato, che, per il versante per cui è democratico ed egualitario, né autoritario, né reazionario, è sempre socialista', Tocqueville appartiene per intero al «sognò americano».
Il discorso sul dominio nel dibattito europeo è sempre discorso sulla diseguaglianza: il dominio deriva da questa e ne è funzione subordinata. La diseguaglianza che governa lo Stato moderno è quella tra proletariato e borghesia, che fonda i rapporti sociali tipici del modo capitalistico di produzione: questo assunto è comune a tutte le parti, ed è al suo interno che il mito socialista governa la prospettiva, fissa i ruoli e amministra i punti di riferimento.
Questa diseguaglianza è fondata dal diritto di proprietà ed è gestita dal mercato: per i conservatori, lo Stato la deve tutelare dall’esterno, badando a che nessuno saboti il meccanismo; per i progressisti, lo Stato, che è espressione dell’eguaglianza politica di tutti gli uomini, dell’eguaglianza dei loro diritti, deve abbattere, o per lo meno governare ed attenuare, quella diseguaglianza, forzando i ciechi automatismi del mercato e introducendo in esso la razionalità della macchina politica. Il movimento progressista e democratico europeo è fortemente statalista, naturalmente orientato in senso socialista: anche nelle sue tendenze più gra-dualiste, l’idea-forza resta che l'eguaglianza- la realizza lo Stato contro il mercato, facendo prevalere un «interesse generale» sui particolarismi che abitano la società. Insieme, c’è l’idea che una società egualitaria, che abbia sottomesso gli arbitri della proprietà, non conoscerà dominio perché sarà armonica e aconflittuale, governata da quella capacità di cooperazione che è propria del lavoro di fabbrica, dove tutti concorrono a un medesimo scopo. L’eguaglianza, dentro questo ambito di discorso, porta il segno del lavoro operaio, ed è per questo che appare non conflittuale ma partecipativa: è un’eguaglianza che, nello stesso momento in cui si costruisce attraverso lo Stato, lo rende superfluo, lo scioglie nell’amministrazione.
Tocqueville fa un discorso opposto: nel mondo moderno la diseguaglianza è un fatto residuale, l’eguaglianza è sovrana; ciò non solo non elimina il dominio ma ne crea forme nuove, capaci di incredibili oppressioni se non contrastate. Non è che Tocque-ville non veda la diseguaglianza dell’avere e del non avere. La vede, ma la ritiene fragile in una società che si è liberata dell’aristocrazia, dove tutti hanno gli stessi desideri e gusti, la stessa lingua e cultura: dove non ci sono istituzioni che inchiodano gli uomini ai loro ruoli come a destini, la proprietà appare povera cosa, argine debole allo spirito egualitario.
Dire che era un ideologo piccolo borghese ha la povertà propria delle cose ovvie: certo, non ha visto il capitalismo, il concentrarsi della proprietà e dei poteri, il crescere dell’impero a ridosso della democrazia della «frontiera». Gli altri, però, non hanno visto la sindacalizzazione, il crescere della ricchezza operaia nella società opulenta, la redistribuzione delle risorse e lo sminuzzamento dei poteri; non hanno visto il ventre molle dell’impero Usa, un impero che si diletta a fucilare i suoi presidenti sulle pubbliche piazze invece che impegnarsi a vincere le loro guerre. È vero che il capitalismo concentra potere e ricchezza; è vero anche che la lotta operaia opera in senso inverso, e i consumi di massa, l’appiattirsi delle differenze gerarchiche e la diffusione del potere sociale che segnano la «governabilità» dei paesi dello sviluppo, stanno a dimostrarne la potenza. Che il potere si concentri è un assioma socialista, che si diffonda è l’assioma della «frontiera». Un assioma democratico non è necessariamente ingenuo. In questo caso ha dietro, semplicemente, un discorso sul sindacato: l’operaio «concepisce un’idea più elevata dei suoi diritti, del suo avvenire, di se stesso; è pieno di ambizione e desideri nuovi, assediato da nuovi bisogni. Ogni momento lancia uno sguardo pieno di desiderio sui profitti di colui che l’impiega, e, per poter riuscire a condividerli, si sforza di elevare il prezzo del suo lavoro, finendo generalmente per riuscirvi». E così che, man mano «che le condizioni si fanno più uguali, i salari si elevano, e, a conseguenza di ciò, le condizioni si fanno uguali».
LA FUGA DAL LAVORO OPERAIO
Tocqueville non era un economista e non li amava; ne parlava, con quel disprezzo che solo gli aristocratici ogni tanto sanno provare, come di funzionari dell’assolutismo, di gente che vede leggi oggettive là dove c’è solo volontà di potere assoluto. Per questo si riferisce continuamente al desiderio come a una forza storica potente, al punto da pensare che se tutti desiderano le stesse cose, nulla riuscirà per lungo tempo a conservarli diseguali, e che è questa l’eguaglianza sancita dalla scomparsa dell’aristocrazia. Ed è dal desiderio che vede ridisegnata la geografìa del «nuovo mondo», spinta in avanti la Frontiera, governato l’assetto sociale degli Stati Uniti: «Non sono cinquant’anni che è stato fondato lo Stato dell’Ohio; la maggior parte di quelli che l’abitano non vi è nata, la sua capitale non ha ancora trentanni di esistenza e un’immensa estensione di campi deserti copre il suo territorio; eppure la popolazione delTOhio si è già rimessa in cammino verso l’Ovest: la maggior parte di coloro che discendono nelle fertili praterie dell ’Illinois sono abitanti dell’Ohio. Questi uomini hanno lasciato la prima patria per stare bene, ora abbandonano anche la seconda per star meglio: quasi ovunque essi trovano la fortuna, ma non la felicità. In loro il desiderio del benessere è divenuto una passione inquieta e ardente che si accresce soddisfacendosi. Essi han rotto da tempo i legami che li univano al suolo natio e non ne hanno stretti degli altri. Per loro l’emigrazione ha cominciato coll’essere un bisogno, oggi essa è diventata ai loro occhi una specie di gioco d’azzardo, di cui essi amano le emozioni oltre al guadagno». Questa spregiudicatezza del desiderio, questa irrequietezza della vita che anima il nomadismo, sono ciò che distingue l’America dall’Europa, ciò che rende diverse le regole della convivenza e la filosofia delle istituzioni: «In Europa siamo abituati a considerare l’irrequietezza dello spirito, lo smodato desiderio di ricchezze, l’amore estremo dell’indipendenza, come pericoli sociali»; ma sono proprio queste cose che garantiscono la pace e la sicurezza delle repubbliche americane, dove è debolezza d’animo la nostra «moderazione dei desideri», dove sono pericoli le nostre virtù. La ricerca della felicità governa una mobilità sociale che attraversa sia territori geografici, mutando l’estensione dello Stato, che ruoli sociali, collocazione all’interno del processo produttivo e della scala gerarchica, mutandone la composizione: un discorso per nulla vago, del tutto scevro di folklore. Il suo riferimento non è un egualitarismo generico: ciò di cui si parla è la migrazione a Ovest di operai ricchi, non inchiodati alla fabbrica dalla miseria né dalla legislazione contro il vagabondaggio, che fuggono il loro lavoro. La fuga dal lavoro operaio è ciò che spinge in avanti la frontiera, è l’anima del sogno americano; sono gli operai che viaggiano, è Temi-grante europeo che sbarca in un «paese semivuoto, in cui l’industria ha bisogno di braccia; e diviene un operaio agiato; suo figlio va a cercar fortuna in un paese quasi completamente vuoto, e diviene un ricco proprietario».
Ineguaglianza della «frontiera» non è l’eguaglianza socialista del lavoro operaio; al contrario, porta il segno della fuga dalla fabbrica. Non è partecipativa ma attraversata dal conflitto.
LA DITTATURA DELLA DEMOCRAZIA
Della dittatura dell’eguaglianza hanno parlato in molti, che odiavano l’eguaglianza. Tocqueville è il primo che ne parla amandola. Benché siano molte le ingenuità che costellano il suo pensiero, egli non condivide quella, egemone nella tradizione socialista, di identificare il governo con la classe che lo esprime, chi esercita il potere con chi lo delega. «Quando il popolo governa, è necessario che sia felice, affinché non rovesci lo Stato»; ciò vuol dire che il potere sociale è del popolo in questa società, ma che esso non si identifica mai con lo Stato, che è una macchina che produce cose. Se non è soddisfatto, il popolo è abbastanza forte da rovesciare la macchina statale, e attraverso questa minaccia la controlla e la vincola, ma non «partecipa» a essa.
Anche nel migliore dei casi, quando non c’è opposizione di interessi tra popolo e Stato, quest’ultimo cercherà sempre di concentrare tutto il potere, di governare dall’alto, di decidere tutto: di conquistare il monopolio della decisione politica e amministrativa. Cercherà cioè di uccidere pluralismo e libertà, uniformando i modi di vita, ampliando all’infinito la sfera di competenza dell’interesse pubblico. Ciò che distingue la democrazia dalle altre forme di governo non è la maggiore partecipazione alle decisioni, ma il fatto che la società democratica è quella più esposta al rischio dello strapotere del governo centrale, al rischio di un centralismo senza limiti: perché in essa non vi sono corpi intermedi, privilegi e corporazioni capaci di esprimere un potere autonomo da quello centrale e quindi di limitarlo. Il potere, in essa, è uno solo perché una sola fonte legittima lo genera, il popolo; quest’ultimo, tanto più è fiducioso e disposto alla delega, quanto più si sente rappresentato fedelmente, quanto più vede nel suo delegato una figura familiare e simile, che per origine di classe non ha interessi contrapposti ai suoi. In democrazia, proprio perché tutti sono uguali,
ciò che solo emerge è il potere centrale, che per questo tende, più che in ogni altra forma di governo, a concentrare tutto presso di sé. Per questo la società democratica esige che ci si associ liberamente al di fuori dello Stato, che si sviluppino le autonomie locali, che ci si batta per evitare che l’accentramento amministrativo sia pari a quello politico, pena la scomparsa di ogni libertà.
La tendenza al centralismo è più antica della rivoluzione francese, che si limita a portarla a compimento: «Prima che compisse l’anno dallo scoppio della Rivoluzione, Mirabeau scriveva segretamente al re: “Confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime e ne troverete conforto e speranza. Una parte degli atti dell’Assemblea nazionale - e la più considerevole - è evidentemente favorevole al governo monarchico. Non è nulla Tessersi liberati del parlamento, del clero, dei privilegiati, della nobiltà? L’idea di formare una sola classe di cittadini avrebbe sedotto Richelieu: questa superficie eguale facilita l’esercizio del potere. Parecchi regni di governo assoluto non avrebbero fatto per il potere regio quanto ha fatto questo solo anno di rivoluzio-»
ne ».
Il potere della maggioranza non conosce limiti, questo è il problema di Tocqueville. Ed è un problema tipicamente moderno. Non è figlio dell’eguaglianza, ma è suo compagno di viaggio, e l’eguaglianza ne segna le caratteristiche: «Nei secoli democratici, il potere assoluto non è per sua natura crudele 0 selvaggio, ma è minuzioso e faccendone». Le istituzioni della «frontiera» conoscono l’antidoto: il culto della minoranza che impone il decentramento, il proliferare dei poteri locali.
Un popolo di vagabondi emigranti ha una diffidenza istintiva nei confronti della «maggioranza» che sta in un’assemblea che siede sempre in qualche luogo lontano; preferisce considerarsi un agglomerato di minoranze, che il potere centrale deve riconoscere e tutelare; preferisce raggrupparsi per entità etniche, culturali, religiose, sviluppare le forme più varie di associazionismo e difendere il proprio localismo, per quanto è possibile ricorrendo all’elezione diretta dei titolari delle funzioni pubbliche locali per eludere la morsa del funzionariato centrale.
Tocqueville non pensava che gli americani ce l’avrebbero fatta, che quel decentramento potesse averla vinta; sapeva di lavorare su una mera ipotesi politica, di essere partecipe di un mito: il solo mito antisocialista dei nostri tempi che è anche dernocratico', perché non consegna tutta la società al capitale e diffida dello Stato, perché ravvisa l’eguaglianza nel rifiuto del lavoro operaio. Come ogni mito, non spiega tutto, ma definisce le regole dello scontro politico.
(Da «Metropoli», n. 6, settembre 1981)
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LUCCICANZA
(1981)
Inseguire immagini, costruire bozzetti: per poter prendere appunti su cose molto diverse, ma che ci riempiono di assonanze. Per essere seri bisognerebbe prenderle una alla volta, con la loro pesantezza e le stratificazioni secolari; ma per trattare di assonanze, forse basta «prendersi alla leggera», quella cosa che (a sentire gli ottimisti) permette agli angeli di volare, a noi forse di andare veloci.
Luhmann, per l’essenziale, cita De Maistre. Attorno alle tesi del primo ruota, giustamente, il dibattito moderno sullo Stato, ma il secondo era proprio un mostro reazionario, il peggio che un democratico possa immaginare. C’è, in questo fatto, la crisi. aperta del pensiero democratico: il funzionalismo decisionista è divenuto l’orizzonte teorico al quale, nel campo della teoria dello Stato, tutti sono costretti a riferirsi. E il solo capace di formulare problemi, il solo di cui si sa di cosa parli. E tra pensiero democratico e decisionismo l’abisso è profondo.
1. IL CANE A DUE TESTE
Nietzsche scriveva che lo Stato è un cane morto; gli anarchici hanno specificato che di razza era bastardo; a noi, qui, interessa sottolineare che ha due teste. Che è doppio, e che mai il pensiero che a esso si è applicato è riuscito a sciogliere questa duplicità: duplicità tra lo Stato che rappresenta e quello che decide, tra quello che è sintesi di una società e dei suoi interessi e quello che la guida e la modifica, tra il modo in cui funziona e quello per cui è legittimo. Non c’entra qui la distinzione di Stato e governo; si tratta piuttosto della distinzione tra lo Stato come macchina produttiva, insieme di apparati capaci di scelta che svolgono delle funzioni, e lo Stato come costruzione legittima, cioè rappresentativa. Non è vero che sono cose che si integrano, si tratta di una opposizione niente affatto dialettica: tutti quelli che hanno creduto davvero nel carattere rappresentativo dello Stato hanno concluso decretandone, a breve o lungo termine, la fine, sostenendo che la sua esistenza di corpo separato era legata a un vizio transitorio nella possibilità della società di «rappresentarsi». E infatti, se lo Stato stesse tutto nel suo essere «rappresentativo», che bisogno ci sarebbe di «rappresentarsi»? Se a esso si potesse davvero «partecipare», che bisogno ci sarebbe dello Stato? Weber adorava le elezioni, però pensava anche che gli apparati burocratici, indispensabili al funzionamento dello Stato, avrebbero limitato la partecipazione democratica: lo Stato funziona non solo perché è rappresentativo, ma perché sa fare delle cose, e per farle deve avere un grado di autodeterminazione che non si scioglie nella rappresentatività. Lenin voleva che governasse la cuoca, voleva distruggere l’aspetto di apparato dello Stato per investigare i confini possibili della democrazia. Ma credeva anche nel partito di avanguardia come soggetto capace di scelte, come apparato di intellettuali; come burocrazia razionale, direbbe Weber. Per così dire, Lenin aveva due teorie: una democratica dello scioglimento dello Stato, fondata sulla trasparenza dei meccanismi di partecipazione, e una decisionista dello Stato di transizione, fondata sul concetto di avanguardia.
Entrambi, Lenin e Weber, erano decisionisti e democratici, e sapevano che tra le due cose c’è contraddizione. A parte loro però, che le due teste del cane avevano saputo contarle pur non potendo far nulla contro il fatto che nascondessero un mostro, le due facce del problema hanno fondato due filoni di pensiero, quello democratico e quello che si rifa al funzionalismo decisionista. Per il primo, lo Stato amministra un potere che non è suo, che riceve per delega, e il problema è quello del controllo, della partecipazione; per il secondo, il potere è di chi lo esercita e ogni controllo è vano - meglio, è un gioco di legittimazione del potere stesso: non è la legittimità a creare potere, ma viceversa. A una prima impressione, il solo discorso sullo Stato è quello decisionista, perché è il solo che parla del funzionamento del potere; l’altro parla sempre di cose diverse, a monte o a valle: delle fonti del potere o di ciò a cui serve, da dove viene e dove va, mai della cosa in sé. E certo, di fronte alla melensa trovata che «la sovranità è del popolo», l’affermazione schmittiana che sovrano «è chi decide sullo stato di eccezione» fa l’effetto di una lampadina accesa dentro una stanza buia. Ma non è giusto fermarsi alle prime impressioni. Il decisionismo ha un sovrano disprezzo per i contenuti del potere, e per le sue forme: «ogni governo è buono, una volta che è stabilito», dice De Maistre. Non è semplice follia reazionaria: è una impostazione teorica lucida, che coglie lati importanti del problema; in base a essa Schmitt può sostenere che «i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», che è forse la cosa più importante che è stata detta sul problema. Però è un’impostazione che è incapace del tutto di storiografia, di percepire distinzioni. Il pensiero democratico introduce la tipologia e le classificazioni: poiché l’essenza dello Stato sta nel fatto che rappresenta qualcuno, a seconda di chi rappresenta lo Stato cambia; poiché appartiene a qualcuno, bisogna ogni volta decidere di chi è, «a chi giova», a quale parte del popolo. Questo è, per l’essenziale, il contributo che il pensiero democratico dà alla teoria dello Stato: ciò vuol dire che esso è sostanzialmente un pensiero classista, capace di ricondurre ogni forma di Stato alla classe che in essa massimamente si esprime. Meglio: al contrario di quello che sostiene Bobbio, gli unici democratici che abbiano, se non proprio una teoria, qualcosa da dire sullo Stato, sono i marxisti. Per il resto, il pensiero democratico offre problemi di ingegneria costituzionale, cioè problemi pratici di governo della struttura.
2. IL TEOREMA DI LUHMANN
Il pensiero democratico ha una vocazione classista. Fino a poco tempo fa aveva anche una vocazione emancipativa; come dire, fino a poco fa il pensiero classista era il riferimento dei movimenti di liberazione ed emancipativi: su questo ritorneremo. Da alcuni anni questo filone di pensiero non ha più nulla da dire. Forse proprio perché il discorso dell’emancipazione ha preso le distanze da esso. L’unico discorso sullo Stato comincia a essere quello che usa gli strumenti concettuali del funzionalismo e del decisionismo, che ci parlano oggi, in modo inopinato e con competenza, della crisi del potere politico, della sua scarsità e povertà - in Italia si preferisce dire «ingovernabilità», con l’usuale gergo dei galoppini di partito.
Il pensiero decisionista ha sempre avuto una vocazione che oggi, con proprietà, chiamiamo «sistemica», ma che ieri chiamavamo integralista. Luhmann non è solo un rifonnatore illuminato, per molti versi radicale; è anche politicamente un conservato-re; ed è indiscutibilmente, dal punto di vista teorico, un discepolo di Schmitt, di cui conserva inalterata la dottrina della sovranità che questi ha mutuato da De Maistre. È come dire che oggi per la prima volta tutti, sinistra compresa, cominciano a fare i conti con il pensiero politico della restaurazione antiilluminista. Con la seconda testa del cane.
Per De Maistre, l’essenziale non è che «una questione sia decisa in un modo piuttosto che in un altro, ma che sia decisa senza ritardi e senza appello». Il potere politico serve a semplificare il mondo, a produrre senso, a introdurre ordine nel caos. Il caos di De Maistre è ancestrale, è il caos di prima della creazione, quello anteriore al primo atto di autorità. Ma il potere come mezzo di comunicazione sociale, come selettore di alternative e riduttore della «complessità» c’è già tutto dentro questa formulazione, anche se in un modo mistico e reazionario. Luhmann spiega ciò di cui si parla, perché ha presente un caos moderno, nostro prodotto. «Complessità» vuol dire che ci sono troppe alternative rispetto alla possibilità pratica di esperirle, cioè che vi è una situazione di indecidibilità nel tempo concreto, che può essere superata solo attraverso l’imposizione di vincoli che semplifichino le cose e permettano l’orientamento. Per ridurre la complessità dell’ambiente, ogni sistema tende a accrescere la propria differenziazione interna, cioè a creare sottosistemi specializzati, ciascuno con una propria competenza. Nella società, il potere politico è quel sottosistema che si-specializza nella riduzione della complessità, selezionando attraverso le sue decisioni le alternative altrui e i modi delle loro possibilità: è un riduttore di complessità che opera attraverso la decisione, e con questo mezzo pone vincoli, permette che per tutti coloro cui il suo messaggio è indirizzato le scelte siano semplificate. Rispetto agli altri «riduttori di complessità» operanti nella società, come il denaro, l’amore e la verità, tutti atti a trasmettere messaggi secondo codici semplici che permettono l’esclusione di possibilità - tutti «mezzi di comunicazione», secondo la terminologia luhmannia-na -, la particolarità del potere politico è di operare attraverso decisioni; ciò che importa però non è tanto il loro contenuto, la capacità di ottenere effetti o trovare realizzazione, quanto il fatto che permettono l’orientamento: «nel caso del potere, ciò che interessa primariamente è questa trasmissione di prestazioni selettive, non già la concreta realizzazione di determinati effetti». Tre sono le conseguenze centrali di questa impostazione:
suo sottosistema specializzato in un tipo determinato di prestazioni: di esso si può dire che è rappresentativo solo allo stesso modo per cui posso dire che il mio calzolaio è il rappresentante di un mio bisogno;
2) questo sottosistema sociale non ha bisogno di alcun tipo di legittimazione, è esso stesso a produrne specificamente: non è il consenso che produce potere, è vero il contrario;
3) il potere produce libertà di scelta perché, selezionando, permette l’orientamento, crea alternative provviste di senso, significative; si differenzia dalla coercizione fisica perché è un rapporto a due che suppone e costruisce la libertà dell’interlocutore, non sopprime possibilità ma ne crea: contro tutta la tradizione illuminista e democratica, Luhmann ha una idea positiva del potere, come di una cosa che produce libertà, non come una cosa dalla quale garantirsi, da controllare; non come un male necessario ma come una macchina buona.
Nella società moderna di potere ce n’è troppo poco: l’interazione sociale ha in essa caratteristiche tali che il potere politico non giunge più a ridurne la complessità. Il potere è un rapporto, non è mai a senso unico, e ogni potere crea un suo specifico contropotere di resistenza. Da noi la molteplicità delle fonti di potere come delle forme di partecipazione e controllo, e la viscosità che presentano i processi di trasmissione del potere all’interno delle grandi organizzazioni burocratiche, costruiscono una rete di contropoteri sociali capace di una forza di inerzia che è paralizzante. E una situazione di carenza, di dispersione di potere. La società moderna appare troppo «complessa» per gli strumenti di cui si è saputa dotare. L’evidenza di quest’ultima conclusione, o perlomeno la sua universale accettazione, ha imposto più di ogni altra cosa il teorema luhmanniano a quell’attenzione che ingiustamente fu sottratta ai suoi predecessori.
3. LA QUARESIMA DEL POLITICO
Molti, a questo punto, semplificano troppo. Che Luhmann abbia in mente, quando parla di crescita della complessità, anche il gigantismo, la viscosità, l’ingovernabilità degli apparati del welfa-re, è evidente; che vi sia solo questo, no. E sufficientemente chiaro a tutti, oggi, che il welfare è giunto al limite delle sue possibilità di governo; che l’irrazionalità delle sue procedure accresce il disordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.
C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro come agente del «sottosistema economico», non è chiaro; e la scelta tra lavoro e denaro come punto di riferimento dell’analisi è da sempre gravida di conseguenze. Anche prendendo per buona questa scelta dell’autore, il problema è evidente: il denaro non svolge più la sua funzione, per questo il potere è sovraccarico. Il denaro è «mezzo di comunicazione» perché discrimina comportamenti, crea gerarchia tra le alternative: mai come oggi la nostra società è stata economicamente egualitaria, unificata dal consumo di massa; mai come oggi il denaro è stato investito non della capacità di selezionare i comportamenti individuali, ma della universale aspettativa di un godimento crescente, di una volontà appropriativa che unifica aspettative collettive e desideri individuali.
Insomma, in nessuna società del passato il denaro è stato insieme così legittimato a esprimere gerarchia sociale e così incapace di farlo. Ma affrontiamo il problema dal punto di vista che ci pare più pertinente, perché più capace di offrire materiali all’analisi: dentro il moderno lavoro salariato, si struttura un insieme di gerarchie e di ruoli, di comandi sui comportamenti, la cui completezza edisordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.
C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro
d esaustività è solo riflessa dentro la scala della ricchezza, solo allusa dentro le gerarchie che regolano il possesso di denaro. Il tempo di lavoro è un microcosmo attorno al quale sono ritagliati tutti i punti di riferimento del nostro vivere sociale: è un oggetto matematico, reso univoco dalla precisa finalizzazione, dalla infinita ripetibilità e scambiabilità; è la base di ogni astrazione successiva, dal denaro all’eguaglianza vuota dell’«inte-resse generale», quella per cui i «cittadini» possono essere rappresentati perché «ugualmente fungibili». Il lavoro salariato sta nel cuore della legittimità moderna della forma-Stato e della sua crisi. Perché mai come oggi il tempo di lavoro è stato ridotto a quota minoritaria della vita sociale: mai si è lavorato così poco. Per così poche giornate della propria vita, per così poche ore nella propria giornata, da parte di così poche persone nella società. E mai i processi di identificazione e comunicazione sociale si sono sganciati a tal punto dal lavoro: rendendo fluide le gerarchie, sciogliendo i ruoli dentro un nomadismo sociale che unifica attività diverse, mescola inscindibilmente lavoro e non lavoro dentro una gestione della giornata sociale che è complessa e contraddittoria. Il tempo di lavoro è semplice, reso trasparente dalla palese gerarchia che lo attraversa; il tempo liberato dal lavoro è infinitamente più complesso, perché intreccia e giustappone ruoli diversi, perché è polimorfo, non ha una finalizzazione né una struttura univoche. E il luogo in cui la comunicazione sociale si apre alla contraddizione, in cui il potere si disperde, in cui la «complessità» si accumula. Il soggetto della complessità moderna è il nomadismo sociale, la ricchezza di massa che esprime, il tempo sociale che libera dal lavoro. Non è un soggetto casuale, privo di storia: limitare la prestazione lavorativa, toglierle la centralità sociale, sganciare dai suoi codici la comunicazione sociale, rendere «libere» quote di potere sono le tappe della lotta operaia contro il lavoro. Ed è alla crisi della sintesi sociale di parte capitalista che il politico ha cercato di ovviare, moltiplicando aU’infinito terreni di intervento e oneri.
Il nuovo sociale è abitato dall’esplosione delle differenze, perché allarga la cooperazione produttiva oltre il rapporto di lavoro salariato e l’eguaglianza astratta che ne è il riverbero. I codici attorno a cui struttura la propria comunicazione sono più complessi di quelli che governano il potere politico perché la mobilità tra ruoli diversi, come pure l’interscambiabilità all’interno del medesimo ruolo, ne costituisce la norma. L’universalismo egualitario attorno a cui si costruisce la vocazione statalista dei movimenti democratici e socialisti si infrange oggi contro l’emergere delle identità particolari dei nuovi soggetti dei movimenti di emancipazione e liberazione. Giovani, donne, neri, minoranze etniche, nazionali e religiose di tutti i tipi, chiedono non la «partecipazione» al potere in quanto «eguali», ma il riconoscimento dello spazio politico della loro particolare diversità: non vogliono èssere rappresentati dentro il potere generale, chiedono una quota di potere da gestire in proprio. Il particolare e il «privato» irrompono nell’universo piatto della rappresentanza, incrinano il senso della comunicazione politica. Il potere politico si esprime secondo un codice che è troppo rarefatto ed elementare per costituire un criterio di ordine efficace per questo sociale: è troppo disincarnato ed esteriore, o meglio, è troppo incarnato in una gerarchia sociale la cui univocità è stata rotta. Il cane ha due teste, e sa parlare, ma resta pur sempre un animale, in questo nuovo mondo ricco.
All’inizio lo Stato ha cercato di fare di questo mutamento una tappa ulteriore nella storia delle sue forme politiche, con il socialismo e l’assistenzialismo; ne sono nati mostri e ora fa mar-eia indietro. Non ci sono grandi possibilità che ottenga delle rivincite: che i «neo-liberisti» pretendano di ritrovare lo stesso mercato di un secolo fa, abitato dai medesimi rapporti di forza sociali e dalla distribuzione delle risorse che gli corrispondeva, è un loro problema. A noi, da questa storia, basterebbe ricavare un «politico» meno onnivoro e invadente, meno ansioso di imporre il suo linguaggio a tutto ciò che si muove, più capace di riconoscere l’esistenza di altri poteri dentro la società. In questo c’è la possibilità di un maggior spazio per il nuovo sociale, per una ricerca più libera del suo «ordine», per una strutturazione più ricca dei suoi codici di comunicazione. Lontano dall’abbaiare del cane.
(Da «Metropoli», n. 4, aprile 1981)
(1981)
Inseguire immagini, costruire bozzetti: per poter prendere appunti su cose molto diverse, ma che ci riempiono di assonanze. Per essere seri bisognerebbe prenderle una alla volta, con la loro pesantezza e le stratificazioni secolari; ma per trattare di assonanze, forse basta «prendersi alla leggera», quella cosa che (a sentire gli ottimisti) permette agli angeli di volare, a noi forse di andare veloci.
Luhmann, per l’essenziale, cita De Maistre. Attorno alle tesi del primo ruota, giustamente, il dibattito moderno sullo Stato, ma il secondo era proprio un mostro reazionario, il peggio che un democratico possa immaginare. C’è, in questo fatto, la crisi. aperta del pensiero democratico: il funzionalismo decisionista è divenuto l’orizzonte teorico al quale, nel campo della teoria dello Stato, tutti sono costretti a riferirsi. E il solo capace di formulare problemi, il solo di cui si sa di cosa parli. E tra pensiero democratico e decisionismo l’abisso è profondo.
1. IL CANE A DUE TESTE
Nietzsche scriveva che lo Stato è un cane morto; gli anarchici hanno specificato che di razza era bastardo; a noi, qui, interessa sottolineare che ha due teste. Che è doppio, e che mai il pensiero che a esso si è applicato è riuscito a sciogliere questa duplicità: duplicità tra lo Stato che rappresenta e quello che decide, tra quello che è sintesi di una società e dei suoi interessi e quello che la guida e la modifica, tra il modo in cui funziona e quello per cui è legittimo. Non c’entra qui la distinzione di Stato e governo; si tratta piuttosto della distinzione tra lo Stato come macchina produttiva, insieme di apparati capaci di scelta che svolgono delle funzioni, e lo Stato come costruzione legittima, cioè rappresentativa. Non è vero che sono cose che si integrano, si tratta di una opposizione niente affatto dialettica: tutti quelli che hanno creduto davvero nel carattere rappresentativo dello Stato hanno concluso decretandone, a breve o lungo termine, la fine, sostenendo che la sua esistenza di corpo separato era legata a un vizio transitorio nella possibilità della società di «rappresentarsi». E infatti, se lo Stato stesse tutto nel suo essere «rappresentativo», che bisogno ci sarebbe di «rappresentarsi»? Se a esso si potesse davvero «partecipare», che bisogno ci sarebbe dello Stato? Weber adorava le elezioni, però pensava anche che gli apparati burocratici, indispensabili al funzionamento dello Stato, avrebbero limitato la partecipazione democratica: lo Stato funziona non solo perché è rappresentativo, ma perché sa fare delle cose, e per farle deve avere un grado di autodeterminazione che non si scioglie nella rappresentatività. Lenin voleva che governasse la cuoca, voleva distruggere l’aspetto di apparato dello Stato per investigare i confini possibili della democrazia. Ma credeva anche nel partito di avanguardia come soggetto capace di scelte, come apparato di intellettuali; come burocrazia razionale, direbbe Weber. Per così dire, Lenin aveva due teorie: una democratica dello scioglimento dello Stato, fondata sulla trasparenza dei meccanismi di partecipazione, e una decisionista dello Stato di transizione, fondata sul concetto di avanguardia.
Entrambi, Lenin e Weber, erano decisionisti e democratici, e sapevano che tra le due cose c’è contraddizione. A parte loro però, che le due teste del cane avevano saputo contarle pur non potendo far nulla contro il fatto che nascondessero un mostro, le due facce del problema hanno fondato due filoni di pensiero, quello democratico e quello che si rifa al funzionalismo decisionista. Per il primo, lo Stato amministra un potere che non è suo, che riceve per delega, e il problema è quello del controllo, della partecipazione; per il secondo, il potere è di chi lo esercita e ogni controllo è vano - meglio, è un gioco di legittimazione del potere stesso: non è la legittimità a creare potere, ma viceversa. A una prima impressione, il solo discorso sullo Stato è quello decisionista, perché è il solo che parla del funzionamento del potere; l’altro parla sempre di cose diverse, a monte o a valle: delle fonti del potere o di ciò a cui serve, da dove viene e dove va, mai della cosa in sé. E certo, di fronte alla melensa trovata che «la sovranità è del popolo», l’affermazione schmittiana che sovrano «è chi decide sullo stato di eccezione» fa l’effetto di una lampadina accesa dentro una stanza buia. Ma non è giusto fermarsi alle prime impressioni. Il decisionismo ha un sovrano disprezzo per i contenuti del potere, e per le sue forme: «ogni governo è buono, una volta che è stabilito», dice De Maistre. Non è semplice follia reazionaria: è una impostazione teorica lucida, che coglie lati importanti del problema; in base a essa Schmitt può sostenere che «i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», che è forse la cosa più importante che è stata detta sul problema. Però è un’impostazione che è incapace del tutto di storiografia, di percepire distinzioni. Il pensiero democratico introduce la tipologia e le classificazioni: poiché l’essenza dello Stato sta nel fatto che rappresenta qualcuno, a seconda di chi rappresenta lo Stato cambia; poiché appartiene a qualcuno, bisogna ogni volta decidere di chi è, «a chi giova», a quale parte del popolo. Questo è, per l’essenziale, il contributo che il pensiero democratico dà alla teoria dello Stato: ciò vuol dire che esso è sostanzialmente un pensiero classista, capace di ricondurre ogni forma di Stato alla classe che in essa massimamente si esprime. Meglio: al contrario di quello che sostiene Bobbio, gli unici democratici che abbiano, se non proprio una teoria, qualcosa da dire sullo Stato, sono i marxisti. Per il resto, il pensiero democratico offre problemi di ingegneria costituzionale, cioè problemi pratici di governo della struttura.
2. IL TEOREMA DI LUHMANN
Il pensiero democratico ha una vocazione classista. Fino a poco tempo fa aveva anche una vocazione emancipativa; come dire, fino a poco fa il pensiero classista era il riferimento dei movimenti di liberazione ed emancipativi: su questo ritorneremo. Da alcuni anni questo filone di pensiero non ha più nulla da dire. Forse proprio perché il discorso dell’emancipazione ha preso le distanze da esso. L’unico discorso sullo Stato comincia a essere quello che usa gli strumenti concettuali del funzionalismo e del decisionismo, che ci parlano oggi, in modo inopinato e con competenza, della crisi del potere politico, della sua scarsità e povertà - in Italia si preferisce dire «ingovernabilità», con l’usuale gergo dei galoppini di partito.
Il pensiero decisionista ha sempre avuto una vocazione che oggi, con proprietà, chiamiamo «sistemica», ma che ieri chiamavamo integralista. Luhmann non è solo un rifonnatore illuminato, per molti versi radicale; è anche politicamente un conservato-re; ed è indiscutibilmente, dal punto di vista teorico, un discepolo di Schmitt, di cui conserva inalterata la dottrina della sovranità che questi ha mutuato da De Maistre. È come dire che oggi per la prima volta tutti, sinistra compresa, cominciano a fare i conti con il pensiero politico della restaurazione antiilluminista. Con la seconda testa del cane.
Per De Maistre, l’essenziale non è che «una questione sia decisa in un modo piuttosto che in un altro, ma che sia decisa senza ritardi e senza appello». Il potere politico serve a semplificare il mondo, a produrre senso, a introdurre ordine nel caos. Il caos di De Maistre è ancestrale, è il caos di prima della creazione, quello anteriore al primo atto di autorità. Ma il potere come mezzo di comunicazione sociale, come selettore di alternative e riduttore della «complessità» c’è già tutto dentro questa formulazione, anche se in un modo mistico e reazionario. Luhmann spiega ciò di cui si parla, perché ha presente un caos moderno, nostro prodotto. «Complessità» vuol dire che ci sono troppe alternative rispetto alla possibilità pratica di esperirle, cioè che vi è una situazione di indecidibilità nel tempo concreto, che può essere superata solo attraverso l’imposizione di vincoli che semplifichino le cose e permettano l’orientamento. Per ridurre la complessità dell’ambiente, ogni sistema tende a accrescere la propria differenziazione interna, cioè a creare sottosistemi specializzati, ciascuno con una propria competenza. Nella società, il potere politico è quel sottosistema che si-specializza nella riduzione della complessità, selezionando attraverso le sue decisioni le alternative altrui e i modi delle loro possibilità: è un riduttore di complessità che opera attraverso la decisione, e con questo mezzo pone vincoli, permette che per tutti coloro cui il suo messaggio è indirizzato le scelte siano semplificate. Rispetto agli altri «riduttori di complessità» operanti nella società, come il denaro, l’amore e la verità, tutti atti a trasmettere messaggi secondo codici semplici che permettono l’esclusione di possibilità - tutti «mezzi di comunicazione», secondo la terminologia luhmannia-na -, la particolarità del potere politico è di operare attraverso decisioni; ciò che importa però non è tanto il loro contenuto, la capacità di ottenere effetti o trovare realizzazione, quanto il fatto che permettono l’orientamento: «nel caso del potere, ciò che interessa primariamente è questa trasmissione di prestazioni selettive, non già la concreta realizzazione di determinati effetti». Tre sono le conseguenze centrali di questa impostazione:
suo sottosistema specializzato in un tipo determinato di prestazioni: di esso si può dire che è rappresentativo solo allo stesso modo per cui posso dire che il mio calzolaio è il rappresentante di un mio bisogno;
2) questo sottosistema sociale non ha bisogno di alcun tipo di legittimazione, è esso stesso a produrne specificamente: non è il consenso che produce potere, è vero il contrario;
3) il potere produce libertà di scelta perché, selezionando, permette l’orientamento, crea alternative provviste di senso, significative; si differenzia dalla coercizione fisica perché è un rapporto a due che suppone e costruisce la libertà dell’interlocutore, non sopprime possibilità ma ne crea: contro tutta la tradizione illuminista e democratica, Luhmann ha una idea positiva del potere, come di una cosa che produce libertà, non come una cosa dalla quale garantirsi, da controllare; non come un male necessario ma come una macchina buona.
Nella società moderna di potere ce n’è troppo poco: l’interazione sociale ha in essa caratteristiche tali che il potere politico non giunge più a ridurne la complessità. Il potere è un rapporto, non è mai a senso unico, e ogni potere crea un suo specifico contropotere di resistenza. Da noi la molteplicità delle fonti di potere come delle forme di partecipazione e controllo, e la viscosità che presentano i processi di trasmissione del potere all’interno delle grandi organizzazioni burocratiche, costruiscono una rete di contropoteri sociali capace di una forza di inerzia che è paralizzante. E una situazione di carenza, di dispersione di potere. La società moderna appare troppo «complessa» per gli strumenti di cui si è saputa dotare. L’evidenza di quest’ultima conclusione, o perlomeno la sua universale accettazione, ha imposto più di ogni altra cosa il teorema luhmanniano a quell’attenzione che ingiustamente fu sottratta ai suoi predecessori.
3. LA QUARESIMA DEL POLITICO
Molti, a questo punto, semplificano troppo. Che Luhmann abbia in mente, quando parla di crescita della complessità, anche il gigantismo, la viscosità, l’ingovernabilità degli apparati del welfa-re, è evidente; che vi sia solo questo, no. E sufficientemente chiaro a tutti, oggi, che il welfare è giunto al limite delle sue possibilità di governo; che l’irrazionalità delle sue procedure accresce il disordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.
C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro come agente del «sottosistema economico», non è chiaro; e la scelta tra lavoro e denaro come punto di riferimento dell’analisi è da sempre gravida di conseguenze. Anche prendendo per buona questa scelta dell’autore, il problema è evidente: il denaro non svolge più la sua funzione, per questo il potere è sovraccarico. Il denaro è «mezzo di comunicazione» perché discrimina comportamenti, crea gerarchia tra le alternative: mai come oggi la nostra società è stata economicamente egualitaria, unificata dal consumo di massa; mai come oggi il denaro è stato investito non della capacità di selezionare i comportamenti individuali, ma della universale aspettativa di un godimento crescente, di una volontà appropriativa che unifica aspettative collettive e desideri individuali.
Insomma, in nessuna società del passato il denaro è stato insieme così legittimato a esprimere gerarchia sociale e così incapace di farlo. Ma affrontiamo il problema dal punto di vista che ci pare più pertinente, perché più capace di offrire materiali all’analisi: dentro il moderno lavoro salariato, si struttura un insieme di gerarchie e di ruoli, di comandi sui comportamenti, la cui completezza edisordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.
C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro
d esaustività è solo riflessa dentro la scala della ricchezza, solo allusa dentro le gerarchie che regolano il possesso di denaro. Il tempo di lavoro è un microcosmo attorno al quale sono ritagliati tutti i punti di riferimento del nostro vivere sociale: è un oggetto matematico, reso univoco dalla precisa finalizzazione, dalla infinita ripetibilità e scambiabilità; è la base di ogni astrazione successiva, dal denaro all’eguaglianza vuota dell’«inte-resse generale», quella per cui i «cittadini» possono essere rappresentati perché «ugualmente fungibili». Il lavoro salariato sta nel cuore della legittimità moderna della forma-Stato e della sua crisi. Perché mai come oggi il tempo di lavoro è stato ridotto a quota minoritaria della vita sociale: mai si è lavorato così poco. Per così poche giornate della propria vita, per così poche ore nella propria giornata, da parte di così poche persone nella società. E mai i processi di identificazione e comunicazione sociale si sono sganciati a tal punto dal lavoro: rendendo fluide le gerarchie, sciogliendo i ruoli dentro un nomadismo sociale che unifica attività diverse, mescola inscindibilmente lavoro e non lavoro dentro una gestione della giornata sociale che è complessa e contraddittoria. Il tempo di lavoro è semplice, reso trasparente dalla palese gerarchia che lo attraversa; il tempo liberato dal lavoro è infinitamente più complesso, perché intreccia e giustappone ruoli diversi, perché è polimorfo, non ha una finalizzazione né una struttura univoche. E il luogo in cui la comunicazione sociale si apre alla contraddizione, in cui il potere si disperde, in cui la «complessità» si accumula. Il soggetto della complessità moderna è il nomadismo sociale, la ricchezza di massa che esprime, il tempo sociale che libera dal lavoro. Non è un soggetto casuale, privo di storia: limitare la prestazione lavorativa, toglierle la centralità sociale, sganciare dai suoi codici la comunicazione sociale, rendere «libere» quote di potere sono le tappe della lotta operaia contro il lavoro. Ed è alla crisi della sintesi sociale di parte capitalista che il politico ha cercato di ovviare, moltiplicando aU’infinito terreni di intervento e oneri.
Il nuovo sociale è abitato dall’esplosione delle differenze, perché allarga la cooperazione produttiva oltre il rapporto di lavoro salariato e l’eguaglianza astratta che ne è il riverbero. I codici attorno a cui struttura la propria comunicazione sono più complessi di quelli che governano il potere politico perché la mobilità tra ruoli diversi, come pure l’interscambiabilità all’interno del medesimo ruolo, ne costituisce la norma. L’universalismo egualitario attorno a cui si costruisce la vocazione statalista dei movimenti democratici e socialisti si infrange oggi contro l’emergere delle identità particolari dei nuovi soggetti dei movimenti di emancipazione e liberazione. Giovani, donne, neri, minoranze etniche, nazionali e religiose di tutti i tipi, chiedono non la «partecipazione» al potere in quanto «eguali», ma il riconoscimento dello spazio politico della loro particolare diversità: non vogliono èssere rappresentati dentro il potere generale, chiedono una quota di potere da gestire in proprio. Il particolare e il «privato» irrompono nell’universo piatto della rappresentanza, incrinano il senso della comunicazione politica. Il potere politico si esprime secondo un codice che è troppo rarefatto ed elementare per costituire un criterio di ordine efficace per questo sociale: è troppo disincarnato ed esteriore, o meglio, è troppo incarnato in una gerarchia sociale la cui univocità è stata rotta. Il cane ha due teste, e sa parlare, ma resta pur sempre un animale, in questo nuovo mondo ricco.
All’inizio lo Stato ha cercato di fare di questo mutamento una tappa ulteriore nella storia delle sue forme politiche, con il socialismo e l’assistenzialismo; ne sono nati mostri e ora fa mar-eia indietro. Non ci sono grandi possibilità che ottenga delle rivincite: che i «neo-liberisti» pretendano di ritrovare lo stesso mercato di un secolo fa, abitato dai medesimi rapporti di forza sociali e dalla distribuzione delle risorse che gli corrispondeva, è un loro problema. A noi, da questa storia, basterebbe ricavare un «politico» meno onnivoro e invadente, meno ansioso di imporre il suo linguaggio a tutto ciò che si muove, più capace di riconoscere l’esistenza di altri poteri dentro la società. In questo c’è la possibilità di un maggior spazio per il nuovo sociale, per una ricerca più libera del suo «ordine», per una strutturazione più ricca dei suoi codici di comunicazione. Lontano dall’abbaiare del cane.
(Da «Metropoli», n. 4, aprile 1981)
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