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lunedì, agosto 06, 2012

Metropoli Lucio Castellano HOPEFULMONSTERS


HOPEFULMONSTERS

(1981)
1. Dicono che in genetica si usi il termine hopefulmonsters (mostri pieni di speranza) per denotare i mutanti protagonisti dei «salti» che hanno scandito l’evoluzione. È un termine che definisce i protagonisti della trasformazione che attraversa le nostre società meglio di quanto non faccia quello, un po’ troppo disincantato, di «nuovi soggetti». «Nuovi soggetti» è una denominazione che ci parla della moderata sorpresa di chi individua un attore «nuovo» sulla scena dello scontro sociale e propone ai «vecchi», che hanno una difficile convivenza con esso, di riconoscergli il suo spazio legittimo senza sbranarselo subito: denominazione figlia di un pensiero tollerante e aperto, non belluino, ma che ha il pathos e la tensione conoscitiva che animano un elenco della spesa. Hopefulmonsters ci parla subito di una rottura irrimediabile con il passato, che coinvolge tutti, e di una lotta feroce per la sopravvivenza, che la abita: non è un termine gentile, ma è pieno di fascino, e tratta proprio delle cose di cui è questione, cioè di un mutamento genetico.

In un senso molto preciso e determinato: la cultura che parla del «mutamento», che ne raccoglie il sogno e le aspirazioni, che è satura dello «scandalo» dell’esistente, è la cultura di «sinistra», e parla di una cosa tutt’affatto diversa dal nostro problema. Parla di un «mutamento» che è fatto dell’uso buono del potere, di un «mutamento» che nasce dall’ingresso ordinato e consapevole delle «folle» nello Stato per partecipare del suo potere e della sua conoscenza, secondo le leggi scritte dalla scienza della politica. La «sinistra» pensa a un mondo in cui il potere si concentra incessantemente, insieme alla conoscenza che esso ha della società, e si pone il problema di come rendere partecipe di questo ben di dio la folla degli esclusi: cioè, si pone un problema di tecnologia sociale, di «governo» del cambiamento a partire dalla conoscenza che possiede della sua necessità e della sua direzione. Essa progetta di cambiare molte cose, tranne le leggi che presiedono alla sua possibilità di progettare e il ruolo di chi le ha scritte, gli intellettuali.

Il mutamento che materialmente stiamo vivendo è diverso,perché non concentra il potere ma lo disperde, e la prima cosa che mette in discussione è la possibilità del governo, il ruolo e lo statuto del sapere degli intellettuali.

2. Stalin ha scritto una cosa classica, che riassume la tradizione e l’esito del pensiero democratico e socialista: al contrario della rivoluzione borghese, che prima ha cambiato la società e poi lo Stato, quella proletaria si impadronirà prima dello Stato per poi cambiare la società. Con una certa libertà nell’uso dei termini, questo concetto vale per l’intera tradizione del pensiero di sinistra, da Rousseau a Marx, a Kautsky, a Bemstein: è lo Stato, quello nuovo da costruire o quello vecchio da riformare, che tira in avanti il progresso della società, che fa progredire gli uomini. L’esperienza comunista come quella socialdemocratica conservano al centro questa idea forza, che la politica è il luogo più alto di una cooperazione umana consapevole e razionale capace di progetto, là dove il mercato appare il luogo nebuloso e casuale dello scontro di forze opache. Lo Stato deve essere il regolatore consapevole della società, capace di guidarla verso una meta di progresso: esso deve programmare il cambiamento, essere agente attivo in vista di una meta; non rappresentanza passiva del presente, ma progettualità verso il futuro, macchina buona di una tecnologia sociale che ha tutti gli attributi per presentarsi con lo statuto di una nuova scienza, meglio, con quello della scienza sovrana. Mentre il pensiero conservatore assume in modo lineare che lo Stato sia specchio di una società regolata e governata dalle sue regole interne, dal mercato, il pensiero progressista in generale vede nello Stato lo strumento della critica del presente e dei suoi equilibri: non lo Stato così com’è, che è una sovrastruttura, una superfetazione fatta di lusso e violenza - un tutore armato del mercato che non aggiunge nulla alle ingiustizie che quello crea ma si contenta di perpetuarle; ma lo Stato da costruire o quello riformato, quello che abbia dentro la classe operaia, o il Partito che lo prefigura. Non è in questione, qui, il «giacobinismo» leninista, ma il fatto più generale, che lo partorisce e giustifica, che in tutta la tradizione democratico-progressista lo Stato si contrappone al mercato come l’orizzonte delle possibilità di progresso si contrappone a una realtà manchevole e perfettibile, e, più in generale, come l’attività consapevolmente progettuale si contrappone allo scenario naturalistico del confronto di interessi rozzi e immediati.
In questa concezione progettuale della politica come macchina del mutamento sociale, gli intellettuali svolgono un ruolo assolutamente centrale: gli interessi delle classi subalterne, del lavoro operaio, spingono verso il mutamento e lo legittimano, ma ciò che lo rende possibile è la loro capacità di espressione ordinata e organizzata dentro un corpo politico di funzionari, di lavoratori intellettuali, capaci di divenire Stato, di mediare le spinte dentro un progetto sociale coerente, di dargli un’anima. Il lavoro operaio è cieco e spossessato di conoscenza, esso legittima e delega; il lavoro intellettuale conosce e opera, realizza ciò a cui è stato chiamato, e il riferimento legittimante al lavoro operaio è sempre, insieme, riferimento al lavoro intellettuale come soggetto del mutamento.

Nella produzione, che è governata dal mercato, il lavoro intellettuale, attraverso la tecnologia, organizza e domina il lavoro operaio, ne concentra la potenza, ma non ha poteri sulla proprietà che appare il residuo irrazionale di un mondo antico abitato dall’arbitrio; nello Stato il lavoro intellettuale governa anche la proprietà, o per lo meno la completa e perfeziona, ne regola gli istinti e la ammansisce. Per questo, lo Stato si presenta come il luogo pieno del dominio della razionalità, come la macchina per eccellenza, quella che governa tutte le altre perché ciò che la anima è il principio a tutte comune dell’opposizione di lavoro operaio e intellettuale, ma nella sua forma più pura e generale.

Il riferimento al lavoro operaio è così centrale nel pensiero progressista e di sinistra perché è la base della sua concezione dello Stato come soggetto del mutamento: se la società è operaia, spossessata di conoscenza, tutto il sapere può stare nello Stato. Marx pone a base del suo discorso l’opposizione di teoria e pratica, di lavoro intellettuale e manuale; la abolisce in un luogo determinato della teoria, il comuniSmo, ma riguardo a ciò che definisce con precisione scientifica, il socialismo, la conserva e la media attraverso la politica. E la politica il luogo vero di congiunzione, di mediazione creativa, tra intellettuali e produttori, non la tecnologia, che «mangia» operai, che conosce solo opposizione e guerra perché è asservita a un interesse particolare, al privilegio irrazionale del proprietario. Lo Stato è la vera macchina che conosce gli uomini perché di essi è la creazione più alta, e sua è la soggettività più potente, quella che sa cambiare il mondo: la tecnologia governa la natura, lo Stato la società, questa seconda natura che ci siamo lasciati crescere addosso. Il suo compito deve essere quello di «aprire» il futuro: per questo deve conoscere, deve essere un cervello potente; la società, viceversa, deve essere omogenea e ricettiva, trasparente e semplice, articolata per grandi organizzazioni verticali che concentrano il potere che essa produce. Nessuna cultura è mai stata più aperta verso il «cambiamento», più «compromessa» con esso, e più chiusa verso il «nuovo», verso ciò che resiste al «progetto». Cultura eminentemente moderna, razionale e discorsiva, porta i concetti di governo e sovranità alla loro espressione più alta.

3. Il lavoro operaio è lavoro esecutivo, privo di conoscenza e soggettività: produce ma deve essere guidato, governato, perché è fatto da un insieme di operazioni semplici che acquistano senso e potenza solo nella loro unità. Una unità che al lavoro operaio sfugge perché è posseduta dal comando, tecnologico e scientifico, su di esso, dal lavoro intellettuale.

Questa opposizione, di lavoro operaio e intellettuale, domina l’economia, la produzione e il suo mercato, perché, rendendo sostituibili gli operai con le macchine, di essi determina la quantità e il prezzo. Contro tale opposizione l’operaio non può nulla, salvo che trasportarla nello Stato, partecipare a esso delegando collettivamente una parte del lavoro intellettuale, un suo strato specifico di operatori economici e sociali, a intervenire sul mercato in rappresentanza dei suoi interessi di parte: può chiedere, cioè, che venga elaborata una tecnologia che sappia controllare le tecnologie, una macchina che governi le macchine o almeno tratti con esse. Passando dal mercato año Stato, l’opposizione di lavoro intellettuale e operaio da antagonista si fa partecipativa, ed è questo passaggio che l’ideologia chiama emancipazione di classe perché la miseria di ognuno vi compare tramutata in potenza collettiva, e la privazione di soggettività e conoscenza di ogni operaio costruisce la macchina più grande, quella più capace di soggettività e di scienza.

Una cosa ha rotto la linearità di questo schema «emancipa-tivo»: la perdita di centralità del lavoro operaio, il mutamento di statuto di quello intellettuale che costruiva la governabilità di economia e politica, faceva del mercato e dello Stato i luoghi di concentrazione del potere sociale.

E un passaggio estremamente netto: la lotta operaia contro il lavoro si è tradotta in fuga di massa dalle fabbriche, in deope-raizzazione della società e del lavoro produttivo, e ha caricato l’onere della produzione di ricchezza sul lavoro scientifico espandendolo a macchia d’olio su tutta la società per togliergli il gusto del governo.

La produzione moderna conosce in modo crescente il lavoro intellettuale come principale forza produttiva: esso si presenta sempre più come l’agente diretto della produzione di ricchezza, come la forma generale dell’attività umana, e sempre meno come una forma particolare di attività contrapposta a altre con le sembianze del coordinamento e del governo, della produzione di senso. Piuttosto che essere sintesi, produzione della complessità a partire dalla direzione di processi semplici - del lavoro manuale -, diviene esso stesso la forma complessa della produzione materiale. Al tempo stesso, nella produzione automatizzata come nell’informatica ecc., il lavoro operaio acquisisce in modo crescente connotati e ruoli tipoci di quello intellettuale, cessando di presentarsi come lavoro semplice scomposto e analizzato dal macchinario per diventare insieme di operazioni di controllo e selezione sui flussi di comunicazione che informano il lavoro della macchina. Il lavoro intellettuale spoglia progressivamente quello manuale e esecutivo del suo ruolo produttivo; dal canto suo, cessa di governare gli uomini per passare a maneggiare le cose.

Il dibattito epistemologico contemporaneo registra questo mutamento nella funzione e organizzazione del lavoro scientifico, il suo passaggio dalla direzione del lavoro manuale alla operatività diretta: lo registra nei termini della ricerca di un concetto operazionale di «verità», che è insieme convenzionale, flessibile e pluralista quanto conviene a un concetto che è operatore strumentale quotidiano del lavoro concreto di molti, che non è più referente universale del lavoro cieco dei più, comando su di esso. La scienza cessa di rappresentarsi come il metalinguaggio che si contrappone, come produttore di Verità e di senso, all’agire quotidiano privo di conoscenza delle moltitudini, cessa di essere il luogo privilegiato di formazione della soggettività che si contrappone all’universo delle relazioni oggettive che stringono gli uomini, per divenire strumento del lavoro di tutti, operatore diffuso della produttività generale della cooperazione sociale.

E un fatto che incide in modo potente sulla organizzazione del processo produttivo: a una struttura semplice che vede cono-scenza e comando concentrati in alto a dirigere il corpo massiccio del lavoro esecutivo, subentra una struttura complessa che è fatta della distribuzione fortemente dispersa di conoscenza, capacità di controllo e di autodeterminazione; il vertice della macchina produttiva è più povero di conoscenza e capacità di governo, il corpo ne è più ricco, e l’area istituzionale in cui si concentrano i processi decisionali appare troppo ristretta a fronte della configurazione emergente del processo lavorativo e del ruolo in esso svolto dal lavoro intellettuale.

Inoltre, questo è un fatto che modifica la struttura della cooperazione sociale togliendo centralità al lavoro: poiché il ruo-

lo    produttivo della scienza libera dal lavoro una quota massiccia di tempo sociale e un numero elevato di uomini, esso riduce il lavoro produttivo a parte tra le altre, non più sintesi di un processo di riproduzione sociale in cui i canali di comunicazione e i momenti di aggregazione sociale e politica acquisiscono autonomia dalla produzione materiale e dalla sua gerarchia, si sottraggono al suo ordine definendo una geografia del potere sociale profondamente articolata, decentrata, dispersa. I meccanismi della rappresentanza attorno cui si articola la costituzione del corpo politico dello Stato moderno hanno al loro centro una «eguaglianza» di tutti i cittadini che solo entro il tempo del lavoro operaio, dove ognuno è sostituibile e tutti hanno il medesimo scopo, vive e si fonda. Il tempo del lavoro intellettuale ha una struttura più complessa, non riducibile all’indifferenziazione; e così il tempo liberato dal lavoro, che è quello del consumo, del piacere, dell’attività ludica e creativa, dove la molteplicità dei desideri si sostituisce all’univocità dello scopo e la «unicità» di ogni individuo prende il posto di quella uguaglianza per cui tutti sono capaci della medesima prestazione. Quando si parla di «complessità» sociale si parla di questo insieme di fenomeni emergenti, e quando si lamenta la difficoltà di prendere decisioni, di «governare», ci si riferisce al fatto che il lavoro intellettuale cessa di concentrarsi al vertice della società per articolarsi nell’insieme del suo tessuto, nel tempo di lavoro come in quello da esso liberato: è una geografia del potere inedita, che si presenta come un mutamento genetico perché impone la ridefinizione dei rapporti tra un corpo sociale che è cresciuto troppo e la sua testa, che si è rimpicciolita in proporzione.
4. La crisi del mercato e quella dello Stato hanno avuto tempi differenti, ma un medesimo motore: la fuga operaia dal lavoro produttivo, la corsa alla produzione del lavoro intellettuale, cioè un processo sorprendente di dispersione e redistribuzione del potere sociale. Il sogno della sinistra, riformista e rivoluzionaria, di fondare nella politica quel rapporto nuovo tra lavoro operaio e intellettuale che emancipasse la società, è stato anticipato nella materialità dei rapporti di produzione: il suo giocattolo più bello, la super macchina buona dell’apparato statale, è stato ricondotto al ruolo laico di una macchina produttiva tra le altre, di un operatore economico e sociale presente sul mercato e immerso nella sua crisi, perché è stata rotta la distinzione forte di Stato e società.

All’inflazione del denaro si accompagna quella della «verità»: la prima misura il disordine che abita una distribuzione della ricchezza che non può più ancorarsi al tempo della prestazione lavorativa perché questo è indifferente di fronte alla potenza della cooperazione sociale attivata dalla scienza, ed è strapazzata dal comportamento egualitario di soggetti economici diversi che faticano a articolarsi lungo una scala gerarchica perché sono unificati da una universale aspettativa di piacere, da una volontà appropriativa che omogeneizza orientamenti collettivi e desideri individuali; la seconda definisce lo statuto nuovo del lavoro scientifico, che diviene strumento operativo del lavoro di massa sciogliendo nella sua utilità quotidiana e sperimentale l’armatura sistematica capace di orientare, ordinare, produrre gerarchia, che vestiva il suo essere capace di governo, la sua durevolezza di cosa gestita da pochi e fruita da molti.

Cento anni fa si discuteva se lo Stato potesse essere soggetto economico oltre che politico. Oggi si discute, con ricchezza di argomenti, se possa essere soggetto politico oltre che economico, cioè se possa essere «rappresentativo», «sovrano» e «legittimo» e che cosa esattamente ciò voglia dire. Il punto è che la nostra società, in misura crescente, mostra di non produrre più ceto di governo perché incrina la distinzione tra produzione e direzione, tra lavoro operaio e intellettuale, sostituendo sempre più il primo con il secondo.

Il    lavoro intellettuale può «rappresentare» quello operaio dirigendolo; nel momento in cui diviene produttivo esso stesso, non c’è più nulla da «rappresentare» e nessuno più che «rappre-senti». Nel senso, banale, che quanta più conoscenza, quanto più tessuto informativo viene elaborato direttamente nel processo produttivo dal lavoro vivo che si applica a esso, tanto di meno entra a alimentare la funzione di governo su di esso; e nel senso, altrettanto banale, che la medesima attività umana - il lavoro intellettuale - e lo stesso ceto sociale che a essa si applica - gli intellettuali -, non può allo stesso tempo unificare produzione e direzione e contrapporle come funzioni separate; non può caricarsi dell’onere della produzione diretta e insieme svolgere funzioni rappresentative, scindere, per contrapporle, nella propria attività la produzione e la sua «rappresentazione». Paradossalmente, la crisi dello Stato moderno sta nel suo tentativo di perpetuare la funzione di governo come funzione separata per difenderne il privilegio: per legittimarla, perpetua il lavoro operaio, ne impone la fatica come tassa sociale più che come onere produttivo, in nome delle esigenze della «governabilità». Nel nome della miseria operaia, che esso stesso evoca e perpetua, cerca di difendere lo «status» di ceto di governo per il lavoro intellettuale, e dentro questa distruzione di forza produttiva definisce i contorni della miseria moderna.

Ciò che è in questione, nella crisi dello Stato moderno, non è l’aspetto per cui esso è una rilevante e potente organizzazione produttiva capace di scelte economicamente e socialmente significative, perché da questo punto di vista la sua crisi è omogenea a quella che investe tutta l’organizzazione del lavoro produttivo: ovunque, la concentrazione del potere legittimo, istituzionale, si scontra con la diffusione del potere effettivo, con la struttura reale del processo produttivo, distruggendo capacità, creatività, risorse, per proteggere il ruolo del «comando». La crisi vera lo investe nel cuore delle funzioni per cui esso è Stato, quelle che dovrebbero permettergli di condurre la società fuori dalla lotta di cui è teatro, di mediarne i conflitti e trovare le soluzioni, di «regolarla» e «governarla». La crisi investe lo Stato nella sua «sovranità», «rappresentatività», «legittimità»: in ciò che lo distingue dalla società, non in ciò che lo rende eguale a essa, organizzazione tra le tante, di interesse pubblico o privato.

«Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione»: discutere della sovranità è sempre discutere della guerra, e sono le forme della guerra moderna, prima di tutto, che ci parlano della fine della sovranità. Il terrorismo, che equipara la vita del sovrano a quella di ogni suddito, eliminando la verità di sempre che la vita di chi è al potere si scambia solo con le vite di molti che il potere subiscono, nella rivoluzione o nella guerra tra Stati. E la guerra nucleare, che non ha più bisogno di molti uomini da governare dentro gli eserciti, che non ha più bisogno di consenso perché è materialmente fatta da pochi uomini e tutti gli altri li coinvolge solo in modo passivo; e per questo non è più «continuazione della politica con altri mezzi», ma scelta autonoma di un piccolo gruppo, motivata o meno dai suoi rapporti con gli altri piccoli gruppi, anche se può operare «alla grande». Il periodo aperto dalla Rivoluzione francese, quella che ha fondato il moderno concetto di «sovranità», comincia a declinare azzittendo le grandi guerre di popolo: la nuova guerra assomiglia a quella antica, al lavoro di piccole comunità guerriere. Il declino della «sovranità» riprende i motivi che erano stati alla base del suo sorgere. Il fatto che questo declino ci minacci di estinzione non cambia la natura del problema.

Ne crea uno nuovo a noi, perché definisce l’orizzonte di una prassi volta a estinguere la politica: demotivare il principe, togliergli la velleità di rimettere ordine nel mondo, piegarlo al rimpiccio-limento del suo ruolo spuntando le armi che ha per vendicarsi.

(da «Metropoli», n. 7novembre 1981)






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