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lunedì, agosto 06, 2012

Metropoli Lucio Castellano Luccicanza

LUCCICANZA

(1981)
Inseguire immagini, costruire bozzetti: per poter prendere appunti su cose molto diverse, ma che ci riempiono di assonanze. Per essere seri bisognerebbe prenderle una alla volta, con la loro pesantezza e le stratificazioni secolari; ma per trattare di assonanze, forse basta «prendersi alla leggera», quella cosa che (a sentire gli ottimisti) permette agli angeli di volare, a noi forse di andare veloci.

Luhmann, per l’essenziale, cita De Maistre. Attorno alle tesi del primo ruota, giustamente, il dibattito moderno sullo Stato, ma il secondo era proprio un mostro reazionario, il peggio che un democratico possa immaginare. C’è, in questo fatto, la crisi. aperta del pensiero democratico: il funzionalismo decisionista è divenuto l’orizzonte teorico al quale, nel campo della teoria dello Stato, tutti sono costretti a riferirsi. E il solo capace di formulare problemi, il solo di cui si sa di cosa parli. E tra pensiero democratico e decisionismo l’abisso è profondo.

1. IL CANE A DUE TESTE

Nietzsche scriveva che lo Stato è un cane morto; gli anarchici hanno specificato che di razza era bastardo; a noi, qui, interessa sottolineare che ha due teste. Che è doppio, e che mai il pensiero che a esso si è applicato è riuscito a sciogliere questa duplicità: duplicità tra lo Stato che rappresenta e quello che decide, tra quello che è sintesi di una società e dei suoi interessi e quello che la guida e la modifica, tra il modo in cui funziona e quello per cui è legittimo. Non c’entra qui la distinzione di Stato e governo; si tratta piuttosto della distinzione tra lo Stato come macchina produttiva, insieme di apparati capaci di scelta che svolgono delle funzioni, e lo Stato come costruzione legittima, cioè rappresentativa. Non è vero che sono cose che si integrano, si tratta di una opposizione niente affatto dialettica: tutti quelli che hanno creduto davvero nel carattere rappresentativo dello Stato hanno concluso decretandone, a breve o lungo termine, la fine, sostenendo che la sua esistenza di corpo separato era legata a un vizio transitorio nella possibilità della società di «rappresentarsi». E infatti, se lo Stato stesse tutto nel suo essere «rappresentativo», che bisogno ci sarebbe di «rappresentarsi»? Se a esso si potesse davvero «partecipare», che bisogno ci sarebbe dello Stato? Weber adorava le elezioni, però pensava anche che gli apparati burocratici, indispensabili al funzionamento dello Stato, avrebbero limitato la partecipazione democratica: lo Stato funziona non solo perché è rappresentativo, ma perché sa fare delle cose, e per farle deve avere un grado di autodeterminazione che non si scioglie nella rappresentatività. Lenin voleva che governasse la cuoca, voleva distruggere l’aspetto di apparato dello Stato per investigare i confini possibili della democrazia. Ma credeva anche nel partito di avanguardia come soggetto capace di scelte, come apparato di intellettuali; come burocrazia razionale, direbbe Weber. Per così dire, Lenin aveva due teorie: una democratica dello scioglimento dello Stato, fondata sulla trasparenza dei meccanismi di partecipazione, e una decisionista dello Stato di transizione, fondata sul concetto di avanguardia.

Entrambi, Lenin e Weber, erano decisionisti e democratici, e sapevano che tra le due cose c’è contraddizione. A parte loro però, che le due teste del cane avevano saputo contarle pur non potendo far nulla contro il fatto che nascondessero un mostro, le due facce del problema hanno fondato due filoni di pensiero, quello democratico e quello che si rifa al funzionalismo decisionista. Per il primo, lo Stato amministra un potere che non è suo, che riceve per delega, e il problema è quello del controllo, della partecipazione; per il secondo, il potere è di chi lo esercita e ogni controllo è vano - meglio, è un gioco di legittimazione del potere stesso: non è la legittimità a creare potere, ma viceversa. A una prima impressione, il solo discorso sullo Stato è quello decisionista, perché è il solo che parla del funzionamento del potere; l’altro parla sempre di cose diverse, a monte o a valle: delle fonti del potere o di ciò a cui serve, da dove viene e dove va, mai della cosa in sé. E certo, di fronte alla melensa trovata che «la sovranità è del popolo», l’affermazione schmittiana che sovrano «è chi decide sullo stato di eccezione» fa l’effetto di una lampadina accesa dentro una stanza buia. Ma non è giusto fermarsi alle prime impressioni. Il decisionismo ha un sovrano disprezzo per i contenuti del potere, e per le sue forme: «ogni governo è buono, una volta che è stabilito», dice De Maistre. Non è semplice follia reazionaria: è una impostazione teorica lucida, che coglie lati importanti del problema; in base a essa Schmitt può sostenere che «i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», che è forse la cosa più importante che è stata detta sul problema. Però è un’impostazione che è incapace del tutto di storiografia, di percepire distinzioni. Il pensiero democratico introduce la tipologia e le classificazioni: poiché l’essenza dello Stato sta nel fatto che rappresenta qualcuno, a seconda di chi rappresenta lo Stato cambia; poiché appartiene a qualcuno, bisogna ogni volta decidere di chi è, «a chi giova», a quale parte del popolo. Questo è, per l’essenziale, il contributo che il pensiero democratico dà alla teoria dello Stato: ciò vuol dire che esso è sostanzialmente un pensiero classista, capace di ricondurre ogni forma di Stato alla classe che in essa massimamente si esprime. Meglio: al contrario di quello che sostiene Bobbio, gli unici democratici che abbiano, se non proprio una teoria, qualcosa da dire sullo Stato, sono i marxisti. Per il resto, il pensiero democratico offre problemi di ingegneria costituzionale, cioè problemi pratici di governo della struttura.

2. IL TEOREMA DI LUHMANN

Il pensiero democratico ha una vocazione classista. Fino a poco tempo fa aveva anche una vocazione emancipativa; come dire, fino a poco fa il pensiero classista era il riferimento dei movimenti di liberazione ed emancipativi: su questo ritorneremo. Da alcuni anni questo filone di pensiero non ha più nulla da dire. Forse proprio perché il discorso dell’emancipazione ha preso le distanze da esso. L’unico discorso sullo Stato comincia a essere quello che usa gli strumenti concettuali del funzionalismo e del decisionismo, che ci parlano oggi, in modo inopinato e con competenza, della crisi del potere politico, della sua scarsità e povertà - in Italia si preferisce dire «ingovernabilità», con l’usuale gergo dei galoppini di partito.

Il pensiero decisionista ha sempre avuto una vocazione che oggi, con proprietà, chiamiamo «sistemica», ma che ieri chiamavamo integralista. Luhmann non è solo un rifonnatore illuminato, per molti versi radicale; è anche politicamente un conservato-re; ed è indiscutibilmente, dal punto di vista teorico, un discepolo di Schmitt, di cui conserva inalterata la dottrina della sovranità che questi ha mutuato da De Maistre. È come dire che oggi per la prima volta tutti, sinistra compresa, cominciano a fare i conti con il pensiero politico della restaurazione antiilluminista. Con la seconda testa del cane.

Per De Maistre, l’essenziale non è che «una questione sia decisa in un modo piuttosto che in un altro, ma che sia decisa senza ritardi e senza appello». Il potere politico serve a semplificare il mondo, a produrre senso, a introdurre ordine nel caos. Il caos di De Maistre è ancestrale, è il caos di prima della creazione, quello anteriore al primo atto di autorità. Ma il potere come mezzo di comunicazione sociale, come selettore di alternative e riduttore della «complessità» c’è già tutto dentro questa formulazione, anche se in un modo mistico e reazionario. Luhmann spiega ciò di cui si parla, perché ha presente un caos moderno, nostro prodotto. «Complessità» vuol dire che ci sono troppe alternative rispetto alla possibilità pratica di esperirle, cioè che vi è una situazione di indecidibilità nel tempo concreto, che può essere superata solo attraverso l’imposizione di vincoli che semplifichino le cose e permettano l’orientamento. Per ridurre la complessità dell’ambiente, ogni sistema tende a accrescere la propria differenziazione interna, cioè a creare sottosistemi specializzati, ciascuno con una propria competenza. Nella società, il potere politico è quel sottosistema che si-specializza nella riduzione della complessità, selezionando attraverso le sue decisioni le alternative altrui e i modi delle loro possibilità: è un riduttore di complessità che opera attraverso la decisione, e con questo mezzo pone vincoli, permette che per tutti coloro cui il suo messaggio è indirizzato le scelte siano semplificate. Rispetto agli altri «riduttori di complessità» operanti nella società, come il denaro, l’amore e la verità, tutti atti a trasmettere messaggi secondo codici semplici che permettono l’esclusione di possibilità - tutti «mezzi di comunicazione», secondo la terminologia luhmannia-na -, la particolarità del potere politico è di operare attraverso decisioni; ciò che importa però non è tanto il loro contenuto, la capacità di ottenere effetti o trovare realizzazione, quanto il fatto che permettono l’orientamento: «nel caso del potere, ciò che interessa primariamente è questa trasmissione di prestazioni selettive, non già la concreta realizzazione di determinati effetti». Tre sono le conseguenze centrali di questa impostazione:

suo sottosistema specializzato in un tipo determinato di prestazioni: di esso si può dire che è rappresentativo solo allo stesso modo per cui posso dire che il mio calzolaio è il rappresentante di un mio bisogno;

2)    questo sottosistema sociale non ha bisogno di alcun tipo di legittimazione, è esso stesso a produrne specificamente: non è il consenso che produce potere, è vero il contrario;

3)    il potere produce libertà di scelta perché, selezionando, permette l’orientamento, crea alternative provviste di senso, significative; si differenzia dalla coercizione fisica perché è un rapporto a due che suppone e costruisce la libertà dell’interlocutore, non sopprime possibilità ma ne crea: contro tutta la tradizione illuminista e democratica, Luhmann ha una idea positiva del potere, come di una cosa che produce libertà, non come una cosa dalla quale garantirsi, da controllare; non come un male necessario ma come una macchina buona.

Nella società moderna di potere ce n’è troppo poco: l’interazione sociale ha in essa caratteristiche tali che il potere politico non giunge più a ridurne la complessità. Il potere è un rapporto, non è mai a senso unico, e ogni potere crea un suo specifico contropotere di resistenza. Da noi la molteplicità delle fonti di potere come delle forme di partecipazione e controllo, e la viscosità che presentano i processi di trasmissione del potere all’interno delle grandi organizzazioni burocratiche, costruiscono una rete di contropoteri sociali capace di una forza di inerzia che è paralizzante. E una situazione di carenza, di dispersione di potere. La società moderna appare troppo «complessa» per gli strumenti di cui si è saputa dotare. L’evidenza di quest’ultima conclusione, o perlomeno la sua universale accettazione, ha imposto più di ogni altra cosa il teorema luhmanniano a quell’attenzione che ingiustamente fu sottratta ai suoi predecessori.

3. LA QUARESIMA DEL POLITICO

Molti, a questo punto, semplificano troppo. Che Luhmann abbia in mente, quando parla di crescita della complessità, anche il gigantismo, la viscosità, l’ingovernabilità degli apparati del welfa-re, è evidente; che vi sia solo questo, no. E sufficientemente chiaro a tutti, oggi, che il welfare è giunto al limite delle sue possibilità di governo; che l’irrazionalità delle sue procedure accresce il disordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.

C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro come agente del «sottosistema economico», non è chiaro; e la scelta tra lavoro e denaro come punto di riferimento dell’analisi è da sempre gravida di conseguenze. Anche prendendo per buona questa scelta dell’autore, il problema è evidente: il denaro non svolge più la sua funzione, per questo il potere è sovraccarico. Il denaro è «mezzo di comunicazione» perché discrimina comportamenti, crea gerarchia tra le alternative: mai come oggi la nostra società è stata economicamente egualitaria, unificata dal consumo di massa; mai come oggi il denaro è stato investito non della capacità di selezionare i comportamenti individuali, ma della universale aspettativa di un godimento crescente, di una volontà appropriativa che unifica aspettative collettive e desideri individuali.

Insomma, in nessuna società del passato il denaro è stato insieme così legittimato a esprimere gerarchia sociale e così incapace di farlo. Ma affrontiamo il problema dal punto di vista che ci pare più pertinente, perché più capace di offrire materiali all’analisi: dentro il moderno lavoro salariato, si struttura un insieme di gerarchie e di ruoli, di comandi sui comportamenti, la cui completezza edisordine più che ridurre la complessità; che l’innesto di nuovi automatismi, per limitare la costosa discrezionalità delle sue burocrazie, è non solo necessario ma ovvio. Questo è il lato minore della questione, con il suo piccolo correttivo. Quello che è più difficile da sostenere è che sia legittimo ridurre il crescere incontenibile della complessità sociale a frutto di una strategia politica errata, pretendere di fare del welfare il responsabile di una situazione che semplicemente non è riuscito a contenere. In realtà allo Stato moderno è successo ciò che, secondo Borges, avvenne a quell’imperatore cinese che, volendo una carta geografica che riproducesse perfettamente il territorio del paese, per la sua costruzione impiegò ogni cinese, in essa investì tutte le risorse della nazione, con il risultato che la carta ricopri ogni centimetro quadrato del paese. Lo Stato, per meglio governare la società, l’ha inseguita in tutti gli interstizi fino a riplasmarsi su di essa, fino a prendere sulle sue spalle il peso della sintesi sociale. Ha mescolato le burocrazie con gli apparati produttivi intersecandone identità e funzioni, di tutto ha fatto Stato annegando le differenze, e in questo cammino ha perso la possibilità di selezionare e decidere: ha sviluppato il suo lato partecipativo e socialista fino a smarrirsi; e ora guarda indietro, per ritrovarsi. Ma non si è trattato di una svista: lo Stato si è messo a inseguire la società perché questa ha cominciato a sfuggirgli. C’è stato un mutamento sociale, questo sì «moltiplicatore di complessità» perché portatore di canali di comunicazione nuovi, perché capace di debordare dai vecchi; lo Stato si è metamorfosato, cercando di allargare i suoi confini fino a includere le novità estreme al proprio interno. Ora, forse, vediamo la fine della pagliacciata, la fine di questo carnevale tristissimo in cui lo Stato ha finto di parlare la lingua della liberazione.

C’è una cosa che Luhmann proprio non riesce a spiegare: perché la nostra società sia tanto più «complessa» di ogni altra precedente. Habermas, a ragione, gli ha potuto obiettare che tutte le società capitalistiche, fin dai loro albori, sono state caratterizzate da un elevato grado di complessità; perché la crisi del politico scoppia ora, in cosa siamo davvero diversi dai nostri genitori? Nietzsche diceva che il lavoro va bene solo per quelli che hanno paura di occuparsi di sé; come dire che il lavoro «semplifica». Perché Luhmann non abbia considerato il lavoro tra i mezzi di comunicazione sociale, preferendogli il denaro

d esaustività è solo riflessa dentro la scala della ricchezza, solo allusa dentro le gerarchie che regolano il possesso di denaro. Il tempo di lavoro è un microcosmo attorno al quale sono ritagliati tutti i punti di riferimento del nostro vivere sociale: è un oggetto matematico, reso univoco dalla precisa finalizzazione, dalla infinita ripetibilità e scambiabilità; è la base di ogni astrazione successiva, dal denaro all’eguaglianza vuota dell’«inte-resse generale», quella per cui i «cittadini» possono essere rappresentati perché «ugualmente fungibili». Il lavoro salariato sta nel cuore della legittimità moderna della forma-Stato e della sua crisi. Perché mai come oggi il tempo di lavoro è stato ridotto a quota minoritaria della vita sociale: mai si è lavorato così poco. Per così poche giornate della propria vita, per così poche ore nella propria giornata, da parte di così poche persone nella società. E mai i processi di identificazione e comunicazione sociale si sono sganciati a tal punto dal lavoro: rendendo fluide le gerarchie, sciogliendo i ruoli dentro un nomadismo sociale che unifica attività diverse, mescola inscindibilmente lavoro e non lavoro dentro una gestione della giornata sociale che è complessa e contraddittoria. Il tempo di lavoro è semplice, reso trasparente dalla palese gerarchia che lo attraversa; il tempo liberato dal lavoro è infinitamente più complesso, perché intreccia e giustappone ruoli diversi, perché è polimorfo, non ha una finalizzazione né una struttura univoche. E il luogo in cui la comunicazione sociale si apre alla contraddizione, in cui il potere si disperde, in cui la «complessità» si accumula. Il soggetto della complessità moderna è il nomadismo sociale, la ricchezza di massa che esprime, il tempo sociale che libera dal lavoro. Non è un soggetto casuale, privo di storia: limitare la prestazione lavorativa, toglierle la centralità sociale, sganciare dai suoi codici la comunicazione sociale, rendere «libere» quote di potere sono le tappe della lotta operaia contro il lavoro. Ed è alla crisi della sintesi sociale di parte capitalista che il politico ha cercato di ovviare, moltiplicando aU’infinito terreni di intervento e oneri.

Il nuovo sociale è abitato dall’esplosione delle differenze, perché allarga la cooperazione produttiva oltre il rapporto di lavoro salariato e l’eguaglianza astratta che ne è il riverbero. I codici attorno a cui struttura la propria comunicazione sono più complessi di quelli che governano il potere politico perché la mobilità tra ruoli diversi, come pure l’interscambiabilità all’interno del medesimo ruolo, ne costituisce la norma. L’universalismo egualitario attorno a cui si costruisce la vocazione statalista dei movimenti democratici e socialisti si infrange oggi contro l’emergere delle identità particolari dei nuovi soggetti dei movimenti di emancipazione e liberazione. Giovani, donne, neri, minoranze etniche, nazionali e religiose di tutti i tipi, chiedono non la «partecipazione» al potere in quanto «eguali», ma il riconoscimento dello spazio politico della loro particolare diversità: non vogliono èssere rappresentati dentro il potere generale, chiedono una quota di potere da gestire in proprio. Il particolare e il «privato» irrompono nell’universo piatto della rappresentanza, incrinano il senso della comunicazione politica. Il potere politico si esprime secondo un codice che è troppo rarefatto ed elementare per costituire un criterio di ordine efficace per questo sociale: è troppo disincarnato ed esteriore, o meglio, è troppo incarnato in una gerarchia sociale la cui univocità è stata rotta. Il cane ha due teste, e sa parlare, ma resta pur sempre un animale, in questo nuovo mondo ricco.

All’inizio lo Stato ha cercato di fare di questo mutamento una tappa ulteriore nella storia delle sue forme politiche, con il socialismo e l’assistenzialismo; ne sono nati mostri e ora fa mar-eia indietro. Non ci sono grandi possibilità che ottenga delle rivincite: che i «neo-liberisti» pretendano di ritrovare lo stesso mercato di un secolo fa, abitato dai medesimi rapporti di forza sociali e dalla distribuzione delle risorse che gli corrispondeva, è un loro problema. A noi, da questa storia, basterebbe ricavare un «politico» meno onnivoro e invadente, meno ansioso di imporre il suo linguaggio a tutto ciò che si muove, più capace di riconoscere l’esistenza di altri poteri dentro la società. In questo c’è la possibilità di un maggior spazio per il nuovo sociale, per una ricerca più libera del suo «ordine», per una strutturazione più ricca dei suoi codici di comunicazione. Lontano dall’abbaiare del cane.

(Da «Metropoli», n. 4, aprile 1981)








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