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sabato, gennaio 17, 2015

Pierre Dardot e Christian Laval La nuova ragione del mondo

di Pierre Dardot e Christian Laval

 
[DeriveApprodi l’edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all’edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un’ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l’identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].

La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2]. A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l’«ordine-quadro» a partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare sul quadro generale»[3] e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino.
Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l’ideale di una «società di diritto privato»[4], non c’è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.
Quarto, l’esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto le frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al livello dell’azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé dell’«individuoimpresa ». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance, deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende dunque «l’insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l’azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui »[5]. L’impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. […]
Un dispositivo di natura strategica
Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante. Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto, condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e aggiustamenti dovuti all’insorgere di effetti indesiderati a volte in completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault[6]. Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo strategico»[7]. L’obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l’innesto di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione, combinazione di due logiche che arriva a imporre l’obiettivo strategico della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello, che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere realizzato seguendo un piano in una fase successiva.
Attribuire un carattere strategico al dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti dei paesi capitalisti dominanti dall’ampiezza della crisi finanziaria. Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista.
Oggi, al di là delle prime «riparazioni» d’urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d’insieme del dispositivo Stato/mercato. Non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato sull’indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi dall’inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista, sarebbe d’altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate, ancorato stabilmente all’«economia reale», rispettoso dell’ambiente, attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene comune dell’umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è almeno un’illusione altrettanto nociva che l’utopia del mercato autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo. È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano ideologico, da una patina di «ritorno alle origini». Dopotutto, l’appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon «codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale» dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell’ideologia, a un ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata[8].
Il carattere strategico del dispositivo neoliberista sarebbe altrettanto misconosciuto se lo si mettesse in rapporto con il Gestell dell’- Heidegger più tardo o con l’oikonomía della teologia cristiana del II secolo, come suggerisce indirettamente Agamben in Che cos’è un dispositivo?[9]. Parlare, come fa lui, di una «genealogia teologica» dei «dispositivi» foucaultiani, vuol dire trascurare che anche se i dispositivi non hanno effettivamente «alcun fondamento nell’essere» e sono di conseguenza votati a «produrre il loro soggetto», non per questo ripetono la «cesura che separa in Dio essere e azione, ontologia e prassi»[10]: a differenza del governo degli uomini da parte di Dio, che rinvia al problema teologico dell’Incarnazione, essi si costituiscono sempre a partire da condizioni storiche singolari e contingenti, e dunque hanno un carattere esclusivamente «strategico», e non «destinale» o «epocale». A questo proposito è bene ricordare l’appunto di Foucault sulla specificità della nuova problematizzazione del governo che vede la luce tra il 1580 e il 1660: se l’azione del governo dà luogo a tematizzazione, è perché non trova «modelli ricavabili da Dio o dalla natura»[11]. In altri termini, non è il «retaggio teologico» del governo degli uomini e del mondo da parte di Dio che spiega come il governo degli uomini da parte degli uomini sia un problema, ma la crisi del modello del «governo pastorale» del mondo da parte di Dio che libera la riflessione sull’arte di governare gli uomini. Ciò che è vero per l’emergere del problema generale del governo è vero anche per la costituzione della forma specificamente neoliberista della governamentalità. Quest’ultima non è né la conseguenza necessaria del regime di accumulazione del capitale, né una delle metamorfosi della logica generale dell’Incarnazione, né un misterioso «invio dell’Essere», e tanto meno una semplice dottrina intellettuale o una forma effimera di «falsa coscienza».
Resta il fatto che la razionalità neoliberista può entrare in contatto con ideologie estranee alla pura logica commerciale, senza per questo cessare di essere la razionalità dominante. Come scrive giustamente la Brown, «il neoliberismo può imporsi come governamentalità anche senza costituire l’ideologia dominante»[12]. Certo, ciò non si verifica mai senza tensioni o contraddizioni. L’esempio americano è particolarmente istruttivo a questo riguardo. Il neoconservatorismo si è imposto come ideologia di riferimento della nuova destra, anche se l’«alto tasso di moralismo» di tale ideologia sembrerebbe incompatibile con il carattere «amorale» della razionalità neoliberista[13]. Un’analisi superficiale potrebbe far pensare a un «doppio gioco». In realtà, tra neoliberismo e neoconservatorismo esiste una corrispondenza che non è per nulla fortuita: se la razionalità neoliberista eleva l’impresa al rango di modello della soggettivazione, è proprio perché la forma-impresa è la «forma cellulare» di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia è la «forma cellulare di moralizzazione del bambino[14]. Di qui l’elogio incessante dell’individuo calcolatore e responsabile (presentato il più delle volte come un padre di famiglia lavoratore, economo e previdente) che accompagna lo smantellamento dei sistemi pensionistici, istruzione pubblica e sanità. Molto più che una semplice «zona di contatto», il collegamento di impresa e famiglia costituisce il punto di convergenza o sovrapposizione tra normatività neo479 liberista e moralismo neoconservatore. Ragion per cui è sempre pericoloso criticare il conservatorismo morale e culturale attaccandosi al presunto «liberismo» dei suoi partigiani in campo economico: cercando di smascherare l’«incoerenza» di questi ultimi, si rivelerebbe soprattutto la propria scarsa comprensione della differenza tra neoliberismo e laissez-faire, e per di più si rischierebbe di dover assumere una sorta di laissez-fairismo integrale e sistematico per salvare la coerenza della propria critica.
Ma la temporanea alleanza di neoconservatorismo e neoliberismo non vuol dire che un nuovo amalgama ideologico, una combinazione di ingredienti di provenienze diverse, non possa prendere il posto di una corrente di pensiero oggi piuttosto anemica. La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti, compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.


[1] Cfr. W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, in W. Brown, Edgework. Critical essays on knowledge and politics, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 40.
[2] Tale norma non esclude affatto strategie di «alleanza» messe in atto dalle imprese per potenziare i loro «vantaggi competitivi», anzi le rende necessarie. Da cui la fortuna nel vocabolario del management del termine «coopetizione», che evidenzia il ricorso a una combinazione morbida di cooperazione e concorrenza. Tuttavia le relazioni informali tramite le quali avviene lo «scambio di saperi» tra aziende concorrenti non si possono ricondurre, non più della «cooperazione volontaria» vantata da Spencer sotto la forma del contratto, a una vera cooperazione nel senso di una condivisione non transazionale.
[3] Sul senso di queste espressioni si veda il capitolo 7 per la prima, il capitolo 10 per la seconda.
[4] Su questa espressione di Böhm si veda il capitolo 7, sulla ripresa e approfondimento di Hayek il capitolo 9.
[5] W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 43.
[6] Sul concetto allargato di «dispositivo» in quanto rete di elementi eterogenei che dipendono tanto dal discorsivo quanto dal «sociale non discorsivo», vedi M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et Écrits, cit. vol. II, pp. 299-301.
[7] Ibid.
[8] Quest’indifferenza, che può arrivare fino alla pura e semplice negazione (l’ordoliberalismo
non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.
[9] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006, pp. 15-18. Il termine Gestell indica un ordinamento in cui l’uomo è costretto a svelare il reale «sul modo dell’ordinare», il che definisce per Heidegger l’essenza della tecnica moderna. Quanto all’oikonomía dei teologi, essa permette di concepire il governo degli uomini e del mondo come affidato da Dio a suo Figlio. È significativo che Agamben dia al concetto di «dispositivo » un’estensione difficilmente compatibile con la preoccupazione di Foucault per la singolarità storica (Ivi, pp. 19-20).
[10] Ivi, p. 17. L’idea è ripresa e approfondita ne Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Neri Pozza, Vicenza 2007, cap. 3, pp. 69-80.
[11] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005., p. 173.
[12] L’autrice aggiunge subito dopo che «la prima fa riferimento all’esercizio del potere, mentre la seconda a un ordine di credenze popolari che può corrispondere perfettamente alla prima o meno, e che può addirittura costituire un punto di resistenza alla governamentalità», W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 49
[13] Ivi, p. 143, nota 5 [«the high moral tone»]. Va osservato che l’autrice parla nella stessa nota del neoconservatorismo come di un’«ideologia»: «Neoliberalism and neoconservatism are quite different, not least because the former functions as a political rationality while the latter remains an ideology». Mentre in un altro recente saggio, intitolato American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization («Political Theory», XXXIV, n. 6, 2006, pp. 690-714), la Brown parla del neoliberismo e del neoconservatorismo come di due «razionalità politiche». Per quanto ci riguarda, crediamo che nessuna simmetria tra razionalità neoliberista e ideologia neoconservatrice sia possibile.
[14] L’impresa costituisce lo «zoccolo etico-politico» del neoliberismo. In effetti già in Röpke, agli albori del pensiero neoliberista, la forma-impresa è concepita come forma di «moralizzazione-responsabilizzazione» dell’individuo (cfr. capitolo 7).


domenica, ottobre 12, 2014

Oltre il determinismo: una storicità sovversiva di Antonio Negri

Oltre il determinismo: una storicità sovversiva

di Antonio Negri

Recensione di P. Dardot e C. Laval, Marx. Prenom: Karl, Edizioni Gallimard, Parigi, 2012
Quali sono i nodi più rilevanti di questo poderoso libro? È necessario chiederselo perché (essendo appunto troppo voluminoso – 800 pagine – da poter esser letto di un solo colpo) solo apprestando dei dispositivi di lettura, esso può essere scorso utilmente e permettere approssimazioni per una lettura centrata sui temi fondamentali e che venga, per così dire, sempre più precisandosi.
Il primo grande nodo consiste nell’espressione della necessità di rompere con la tradizione sempre parziale e settaria (quando non fosse introvabile) degli studi francesi su Marx. Qui invece Marx viene preso per intero, il filosofo l’economista il politico, ed è solo questa lettura, storicamente e filologicamente impiantata, senza “cesure” storiche né teoriche, che può permetterci di riprendere solidamente in mano l’interezza del discorso marxiano e di avanzare ipotesi nuove che si confrontino con quelle marxiane, attorno ad un progetto di emancipazione per l’attualità. Questa distanza critica dalla continuità della tradizione francese (ed in particolare dall’althusserismo), questo sentirsi in un’altra epoca dal XIX e XX secolo, non impedisce che gli autori si impegnino attorno a talune difficoltà ereditate dal passato. Solo per fare un paio di esempi, Dardot-Laval puntano criticamente molto in alto quando, ad esempio, in una polemica che sembra solo terminologica ma non lo è, traducono il concetto marxiano di Mehrwert, con plus-de-value. Non si tratta semplicemente di un’elegante reminiscenza lacaniana ma di una forte polemica, non solo contro un uso consolidato ma (ci sembra) anche contro le concezioni quasi metafisiche del plusvalore che tanto hanno afflitto i comunismi religiosi (cosa che non può lasciare indifferente un “operaista” e rende senz’altro felice chi nell’oggi, nell’epoca del capitalismo cognitivo, considera il Mehrwert senz’altro come una “eccedenza”). Non meno decisiva sembra la presa di distanza, solo per fare un altro esempio, dalla discussione di un tema, indubbiamente centrale per i marxisti, qui preso nel rinnovamento della discussione fra Séve e Fischbach, sulla maggiore o minore rilevanza delle determinazioni oggettive o di quelle soggettive nella costruzione del progetto marxiano di comunismo.
È evidente che su questa critica si dovrà ritornare più tardi al termine nella nostra riflessione.
Il secondo nodo sta nell’esporre positivamente la novità del compito di una lettura di Marx oggi. Deve essere una lettura che si confronta con problemi contemporanei e ne propone soluzioni adeguate. Il percorso marxiano va confrontato al fallimento del “socialismo reale”, la dialettica del materialismo storico va messa in tensione con le metodologie genealogiche contemporanee, ed infine la critica economica e le prospettive politiche del marxismo vanno fatte reagire non con modelli astratti ma con le nuove pratiche politiche del proletariato. La definizione del campo di ricerca, attorno alle nuove condizioni dell’emancipazione, esibisce qui una forza critica esuberante, talora distruttiva di vecchi miti, ma costruttiva d’ipotesi feconde. La tensione che qui si apre è molto forte poiché lo stacco metodologico è radicale. Dardot e Laval dichiarano che bisogna leggere Marx per rendere conto di “quello che nel suo pensiero si è rifiutato d’essere pensato” – intendendo con ciò il rifiuto, l’esclusione dal materialismo storico di ogni tendenza evoluzionista, di ogni dialettica chiusa, di ogni teleologia determinista. Perciò si riparte qui da “La Sacra Famiglia”: “La storia non fa nulla, essa non ha dei fini perché essa non è null’altro che l’attività degli uomini che perseguono i loro fini.” Dunque “Il Capitale” va sottoposto ad una critica serrata laddove esso espone una legge che conduce il capitale alla sua propria distruzione. L’affermazione che il capitale è l’ostacolo definitivo allo sviluppo capitalistico e che ciò automaticamente apre al comunismo, negazione della negazione, le determinazioni dall’accumulazione che conducono alla soppressione del capitale – bene, queste sono tutte posizioni che il pensiero marxiano ha subìto piuttosto che elaborato. L’evoluzionismo radicale dell’epoca, una sorta di darwinismo che investe e naturalizza la dialettica hegeliana, le metafore continuamente riprese dall’ostetricia, laddove il capitale genera, concepisce, partorisce il comunismo, si rivelano dannosi per comprendere lo sviluppo reale del capitalismo. Per Dardot e Laval “Il Capitale” non è un trattato di economia politica: è un trattato politico che costruisce una prospettiva di emancipazione; come tale esso va considerato. Il suo metodo non è “trascendentale”, neppure è “induttivo” (non procede cioè per generalizzazioni successive), non è neppure “ipotetico deduttivo” (non trae conseguenze da astrazioni empiriche) e neppure si tratta infine della variante di una pragmatica di “approssimazioni successive”.  “Il Capitale” è piuttosto lo studio di un tessuto storico e va analizzato a partire da un punto di vista genealogico che assume la rivoluzione proletaria (e cioè, contemporaneamente, la storia, il mercato, la critica) dal basso dei movimenti di massa, proletari ed operai. La potenza del metodo foucaultiano va qui assolutamente rivendicata.
Non bisogna credere che questo programma sia facile da sviluppare. Si tratta, di impostare una lettura di Marx che comprenda un progetto di una rivoluzione contro “das Kapital” (come ebbe – felicemente – a scrivere Gramsci nel 1917). Che cosa significa questo? Significa partire da una premessa fondamentale – ma estranea ad una troppo lunga tradizione – e cioè dalla demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo costituisca una necessità iscritta nel suo stesso sviluppo. In questo quadro il comunismo è un’idea che si è affermata fra l’ordine necessario dello sviluppo (e della crisi) del capitalismo e, d’altra parte, l’evento di una rivoluzione altrettanto necessaria, quasi naturalisticamente predeterminata. Una volta invece rotto questo nesso e accettata l’ipotesi dell’insolubilità del rapporto fra sviluppo teorico ed effettività storica del comunismo, bisognerà lavorare a definire un nuovo terreno “antropologico” che dia base e spazio all’ipotesi comunista. Questa impostazione non è nuova in Dardot-Laval. Già in “Sauver Marx?” (scritto con El Mouhoub Mouhoud, dal sottotitolo “Epire, multitude, travail immateriel” La Dècouverte, Paris, 2007) si erano posti questo interrogativo andando oltre la demistificazione dell’ipotesi che la fine del capitalismo fosse iscritta nel suo stesso sviluppo. Ma rivendicando il fatto che la rivoluzione non è necessaria, che la dialettica del processo storico si presenta irrisolta, per non cadere in una deriva nihilista è necessario reintrodurre una intuizione strategica che eviti la retorica o l’utopia. Il fondamento antropologico è probabilmente quello che permette questo passaggio, poiché esso scava processi di soggettivazione della lotta di classe. Già nel passato: Edward P. Thompson e Jacques Rancière sono stati, da questo punto di vista, dei maestri. Ma di nuovo, non più nel passato ma nel presente, è soprattutto riferendosi a Foucault che il “farsi” della classe operaia attraverso processi di soggettivazione può essere seguito con efficacia. Inutile sottolineare quanto nella tradizione socialista (e soprattutto in quella francese) questa dinamica antropologica (meglio, il “farsi”  e la trasformazione antropologica della classe operaia attraverso le lotte) sia stata dimenticata. Di contro, sottolineano Dardot-Laval, è solo un’interpretazione “espressiva” della storia dei conflitti di classe che può aprire ad una proiezione “strategica” del comunismo. La Comune di Parigi è un enigma se la si vuole assumere dal punto di vista storico; nulla di quanto ne sappiamo può darci la garanzia teorica di una ideale forma di governo; essa è piuttosto una matrice di soggettività, una potenza dell’immaginazione collettiva che investe l’a-venire.
Vi sono delle pagine bellissime su questa ipotesi, nel libro di Dardot e Laval,  nelle quali si tenta di recuperare, meglio, di riproporre, il tema dell’emancipazione, rompendo con ogni ipotesi riduttiva (naturalistica, comunitaria, organica, ecc.) e agganciando invece un concetto di “produzione del comune” – di cui Rousseau ha (Dardot – Laval ritengono) forse approssimato meglio di ogni altro la figura – e che va ora sviluppato attraverso nuove esperienze di lotta, tanto riformiste quanto sovversive. Qualche riflessione in proposito. È chiaro che si può perfettamente assumere Rousseau e fargli sostenere questa figura del “comune”: è un Rousseau che denaturalizza la natura, che impone al contratto una dimensione di solidarietà irriducibile all’alienazione individuale (che pur del contratto è all’origine!), che mostra l’emancipazione non come una “riduzione” all’uno ma come “produzione” plurima, etica. Ma questo resta pur sempre un aspetto del rousseauismo, legittimo eppure parziale, ed accompagnato ben più massicciamente da un altro Rousseau – giacobino, hobbesiano, piuttosto che spinozista. Il socialismo (soprattutto quello francese) si è sempre mosso mantenendo questa ambiguità. Quale dei due Rousseau Marx ha assunto? Come Dardot e Laval, sono convinto che si trattasse del Rousseau solidale – riservandosi tuttavia, Marx, di far assumere anche a Rousseau quel fondamento oggettivo del comunismo che gli era proprio. Ragioniamoci su un momento. Sul terreno marxiano, risultava più semplice chiamare “comune” quel centro di imputazione che in Rousseau la realizzazione del contratto sociale definisce come “repubblica” o “sovranità popolare”. Ma questo ci rinvia di nuovo alla concezione moderna dello Stato piuttosto che dentro la vicenda utopica del comunismo, nell’attualità “postmoderna”. E allora, mantenere il riferimento all’ambiguo Rousseau ed attribuirne la faccia “buona” a Marx, non ci aiuta a semplificare il problema. Non è meglio assumere che esistano condizioni “comuni” (nel caso: i movimenti e le trasformazioni della forza-lavoro che divengono sempre più comuni, in quanto linguistiche, cognitive, affettive, ecc.) a determinare così il campo oggettivo della solidarietà, dell’emancipazione e del comune? Certo, non è detto che questi movimenti e trasformazioni determinino necessariamente un’evoluzione verso il comunismo – la distanza fra il sociale e il politico è in ogni caso massima – ma le probabilità aumentano, nuove condizioni si presentano, l’evento è possibile. Insomma, se il comune non è una mediazione oggettiva (che resterebbe comunque astratta), lo sviluppo storico della forza-lavoro e le trasformazioni tecniche, politiche ed antropologiche della sua composizione (sospinte dalle lotte contro lo sfruttamento) gliene propone maggiori potenzialità. La mediazione fra storia e decisione si approssima. Senza di nuovo ricorrere, come troppo spesso hanno fatto inutilmente gli interpreti francesi, al buon Rousseau.
L’affermazione fondamentale di Dardot e Laval sull’irrisolta dialettica del processo storico, comprende un’ampia serie di complementi metodologici. Analizzando il rapporto Hegel/Marx, si mette qui in discussione la dialettica hegeliana (nelle forme in cui Marx la recepisce – e qui la critica  non avrebbe potuto andare più a fondo) ed in particolare la crisi che la dialettica recepita da Marx conosce ogni qual volta essa definisca nessi lineari o addirittura tautologici fra presupposti e risultati del processo storico, destituendone radicalmente ogni possibilità di originalità e/o di innovazione. La relazione fra “esser-la” e “divenire” è sempre ripetitiva, ipostatizza il Dasein, l’effettività, determina analogie sistemiche sempre corrotte, insomma non riesce a darci la realtà profonda, la chiave dello sviluppo, del conflitto, dell’emancipazione. Questo nesso, lasciato da Hegel in eredità a Marx, inficia pesantemente la sua opera. Abbiamo già accennato al fatto che Dardot e Laval studiano il meglio dell’attuale critica hegelo-marxista (il new turn of dialectics di Chr. Arthur e di M. Postone ed in generale quel che avviene a Francoforte e nei suoi paraggi) per attaccare quel nesso dialettico, non solo dunque nella sua “esposizione lineare” ma anche in quella “sistematica”. Essi evidentemente lo fanno per liberare da ogni riduzionismo logico o sistematico quelle categorie hegelo-marxiste che falsificano la figura genealogica di un possibile procedere marxiano. Infatti, se ci teniamo alla logica dialettica, se confondiamo l’astrazione delle sue categorie e le determinazioni dello sviluppo storico reale, noi non usciamo da quel circolo magico nel quale “il presupposto del capitale (per esempio il valore) è nello stesso tempo il risultato del capitalismo” (ed altrettanto vale per il denaro). La dialettica del presupposto destituisce radicalmente ogni proposta speculativa, ogni verità originaria ed ogni azione originale di chi consiste e si muove nella realtà.
Tutto ci dice che Marx abbiamo sofferto questo limite della teoria come uno vero e proprio shock – che forse (aggiungono Dardot-Laval) l’avrebbe costretto a sospendere la scrittura del terzo volume de Il Capitale e a rinunciare alla stesura di quel capitolo sul concetto di “classe” che doveva rintrodurre la soggettività nel processo di emancipazione rivoluzionaria. Forse… È certo che negli anni 1870-80 Marx comincia a studiare (accanto a mille altri argomenti) l’etnologia – e si appassiona (Dardot-Laval giustamente raccomandano di non sopravvalutare l’episodio) allo studio delle forme di comunità estranee allo sviluppo capitalista. Sono state l’esperienza della Comune o quella delle lotte in Russia (che allora entrano nel giro socialista europeo) che gli hanno fatto sentire l’insufficienza delle piste definite nel Capitale e l’urgenza di mettere i piedi per terra, non attraverso la dialettica ma attraverso l’antropologia? Forse… È certo che ogni qual volta ci si scontri con le modificazioni del modo di produzione o con le trasformazioni della composizione di classe, coloro che insieme sono comunisti e marxisti sentono la necessità di rompere quell’“incantesimo del metodo” di cui lo stesso Marx è autore e prigioniero. Mi si permetta qui di ricordare come, nello stesso modo Dardot e Laval sentono quest’urgenza critica, la sentirono gli operaisti italiani fra il ’60 e il ’70 – concludendo, i primi come i secondi, alla costruzione di un nuovo approccio antropologico alla realtà della lotta di classe, ad un nuovo punto di vista dal basso che rinnovando la critica antagonista costruiva materialmente le armi dell’emancipazione. Dire quanto l’insegnamento di Foucault sia stato importante, in vari momenti di questo cammino critico, per considerare la prospettiva, è evidentemente un pleonasmo.
“Io non sono marxista”: non è dunque una boutade di Marx contro i suoi fedeli e i suoi adulatori ma il riconoscimento che l’opera andava conclusa e che la sua conclusione doveva andare oltre l’opera stessa. Marx vive e soffre l’insolubilità della connessione fra “sviluppo teorico” ed “effettività storica” del comunismo. Che cosa potremo aggiungere noi che abbiamo vissuto e sofferto il fallimento del “socialismo reale” e delle politiche dei partiti comunisti come esperienza centrale nella nostra militanza? Nulla – noi possiamo solo consentire, proseguendo tuttavia nell’approfondimento dello studio e della pratica della lotta di classe. Non curiamoci dunque dei filologi marxisti che accuseranno Dardot e Laval di avere spaccato in due Il Capitale. Il problema semmai, al contrario, è quello di chiedersi se non abbiano ancora abbastanza separato la classe dal capitale, se non abbiano, nell’attualità, sufficientemente “spezzato l’uno in due”: ma questo è un altro discorso e diventa legittimo farlo solo dentro le lotte, una volta che il cammino indicato da Dardot e Laval sia stato percorso e digerito. Quel che è sicuro è che questa introduzione critica e metodica risulta pregiudizialmente necessaria alla questione: possiamo uscire dal capitalismo? Per ora, se siamo riusciti a disarticolare la logica del capitale e la logica delle lotte, la risposta definitiva ce la daranno coloro che vogliono procedere sulla via dell’emancipazione collettiva, nella costruzione dunque del comunismo. Queste riposte saranno allora intese a rafforzare, non a chiudere dentro un nesso riformista (e dialettico), la tensione fra Stato-capitale (strutture ormai indistinguibili) e la forza-lavoro globalmente sfruttata, fra quel capitale-mondo (che i processi di globalizzazione e di sussunzione reale hanno costruito) ed una forza di resistenza che si proponga a quell’altezza. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente se non si apprende a mettere in moto quei processi di soggettivazione, descritti da Foucault, “per mezzo dei quali gli ‘attori’ che sono impegnati nei rapporti conflittuali trasformano se stessi a misura dello sviluppo della lotta, nel medesimo tempo in cui essi trasformano la situazione e creano così le condizioni di una loro eventuale vittoria. Il legame fra la natura “strategica” dei rapporti sociali e la formazione delle soggettività di classe è precisamente uno degli aspetti più originali e più interessanti del pensiero di Marx.” Questo riconoscimento onora la profonda originalità dell’opera di Dardot e Laval.
Resta un problema da discutere – lo accennavamo all’inizio – quello cioè del rapporto fra logica politica, storica, dell’immanenza strategica delle lotte e logica di sistema in Marx. Ricomporre queste due logiche è, secondo Dardot e Laval, impossibile. Ma, essi aggiungono, è da questa impossibilità che nasce oggi il nostro compito politico di comunisti, non più costretti al determinismo bensì aperti all’attualizzazione del comunismo. Ma, si può obbiettare, questo dualismo non è eccessivo? Come si può negare che su molti punti (per esempio, la narrativa del passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo, oppure quella della trasformazione della sussunzione da formale a reale, ecc.) le due logiche si incrocino? Dardot-Laval non lo negano ma ritengono questo incrocio privo di risonanze strutturali nello sviluppo del discorso marxiano. Questa conclusione ci sembra tuttavia povera. Se Marx è – come Dardot e Laval sostengono – “una macchina” di pensiero e di azione, anche il rapporto fra quelle due linee della critica dell’economica politica lo deve essere; e quando si incrociano, quelle due linee, non è semplicemente per scavalcarsi ma piuttosto per determinare nuovi punti di partenza, nuove aperture su nuove accumulazioni di eventi storici e di trasformazioni tecnologiche. La storia del tempo presente – in maniera non determinista ma semplicemente perché è essa stessa “storicità” – si nutre del tempo passato: della storia delle lotte come dell’accumularsi delle trasformazioni tecnologiche. La “composizione tecnica” del proletariato, quella della classe operaia, quella della moltitudine, riposano su temporalità diverse, quindi su una storia di lotte dentro diverse composizioni tecniche del comando capitalista – il cui accumularsi, così come avviene per gli eventi storico-politici, determina differenti processi di soggettivazione, diverse condensazioni antropologiche, nuove “composizioni politiche”. Non c’è determinismo nel tracciare queste relazioni ma semplicemente il riconoscimento della potenza della storicità: quod factum infectum fieri nequit. Il proletariato, oggi, scopre la storia nel rapporto con la nuova “composizione organica” del capitale che ha sussunto società e vita: è qui dentro che si ribella e reinventa il comunismo. Siamo d’accordo con Dardot-Laval che qui dentro c’è di nuovo Marx – non ci sono né Proudhon né i marxismi di una vulgata corrotta e traditrice. Ed è qui che il lavoro politico comune può procedere.

FONTE: http://www.uninomade.org/

venerdì, settembre 19, 2014

Pierre Dardot et Christian Laval Du public au commun

Revue du Mauss N° 35 1er semestre 2010

Origine : http://www.sudeduclim.lautre.net/IMG/pdf/C-LAVAL_-_mauss-public-commun.pdf
La posture classique d’un certain « anti-libéralisme » consiste à dénoncer dans l’offensive néolibérale une marchandisation du monde et à lui opposer la défense des services publics nationaux pour les uns et des biens publics mondiaux pour les autres. Autant dire que la lutte politique se maintient sur un terrain bien connu où s’affrontent le Marché et l’État. Les « antilibéraux », sans trop le savoir ou sans trop s’en inquiéter, s’installent en fait sur le terrain de l’adversaire lorsqu’ils prennent fait et cause pour la production de services par l’État au nom d’une opposition qui s’est constituée précisément pour faire du marché la règle et de l’État l’exception. Ce travers est aussi pénalisant que l’aveuglement volontaire à l’égard des pratiques bureaucratiques étatiques au prétexte qu’il ne faudrait pas faire le « jeu du marché ». On sait pourtant que ce genre de raisonnement a coûté historiquement aux « forces de progrès » : un discrédit durable. Sortir du capitalisme néolibéral, c’est aussi sortir de ce double jeu du Marché et de l’État c’est définir une politique qui ne confondrait plus l’opposition à la marchandisation et la promotion de l’administration bureaucratique. Cette tâche est aujourd’hui d’autant plus nécessaire que le néolibéralisme montre tous les jours que le Marché et l’État désignent, non des entités indépendantes engagées dans un « face à face » planétaire pour la suprématie, mais des processus profondément enchevêtrés et des logiques étroitement imbriquées.
Pour oeuvrer à la définition de cette politique, on peut s’appuyer sur la problématique de l’association, de la solidarité, de la mutualité, qui a nourri toute la réflexion du mouvement ouvrier au cours de son histoire 1.
1 Cf. Philippe Chanial, La délicate essence du socialisme, L’association, l’individu & la République, Au bord de l’eau, 2009.
Aujourd’hui, cette problématique semble trouver un nouveau souffle et peut-être de nouveaux fondements dans la résurgence de la thématique du commun. Rien n’est joué cependant, tant l’emprise de la doctrine économique dominante tend à s’exercer sur ceux qui, aujourd’hui, tentent de penser la question des « biens » communs.
La question des services et des biens publics « Défendre les services publics » est une tâche politique nécessaire pour endiguer autant que possible les politiques de privatisation directe ou indirecte que les gouvernements successifs mènent depuis au moins trois décennies. On ne mettra donc pas ici sur le même plan les administrations publiques et les entreprises privées, tant du point de vue de leurs logiques d’action que du point de vue de leurs résultats. Il va sans dire que la production de services non marchands permet des avantages collectifs qu’il convient de défendre contre l’extension de l’accumulation du capital. Avec la poste, l’hôpital, l’école, il en va des liens sociaux, de la qualité de la vie, du bien-être, de la liberté de pensée. Mais il faudrait aussi interroger les limites de cette « défense des services publics » et se demander si, à demeurer sur le terrain de cette opposition du marché et de l’État, du bien privé et du bien public, on ne se condamne pas à une éternelle et stérile position défensive. Plus encore, il faudrait se demander si, en défendant l’État contre le Marché, on n’oublie pas un peu trop que l’État est aujourd’hui en train de se transformer profondément en entreprise selon les canons de la gouvernance du « corporate state ». La question est par conséquent de savoir de quel principe se soutient la défense de ces « services » : s’agit-il de les défendre au nom de l’Etat « impartial » et « redistributeur » ou bien au nom d’une certaine idée du lien social que l’action de l’Etat entrepreneurial tend à remettre en cause ? Il convient ainsi de remarquer que les « antilibéraux » qui dénoncent l’emprise des processus marchands emploient bien trop souvent le langage même de leurs adversaires et, plus encore que leur langage, leur mode de raisonnement, relève très fréquemment de l’économie publique la plus traditionnelle. Pour le dire vite, tout se passe comme si pour combattre un « ultralibéralisme » supposé vouloir tout privatiser, la seule ligne de défense résidait dans l’argument économique qui distingue les types de biens selon leurs caractéristiques intrinsèques. La seule « originalité » de la position, présentée parfois comme d’une extrême « radicalité », consisterait dès lors à étendre la problématique et la gestion des biens publics à l’échelle mondiale, ce qui ne veut rien dire d’autre que l’appel à la création d’un État mondial.
Il faut rappeler ici que la théorie des biens publics qui fonde une telle revendication n’est jamais qu’une partie d’une doctrine générale des biens économiques pour laquelle la plupart des biens doivent être produits pour des marchés concurrentiels. Ce sont leurs qualités propres, techniques et économiques, qui les destinent comme naturellement au marché 2. De la même manière, il existe des biens qui sont comme naturellement voués à être des biens publics. Comme l’indique la doctrine aujourd’hui en vigueur, les biens privés sont exclusifs et rivaux 3. Un bien est dit exclusif lorsque son détenteur ou son producteur peut empêcher par l’exercice du droit de propriété sur ce bien l’accès à toute personne qui refuse de l’acheter au prix qu’il en exige. Un bien est rival lorsque son achat ou son utilisation exclut toute consommation par une autre personne. On en déduit donc qu’un bien non exclusif est un bien qui ne peut être réservé par son détenteur à ceux qui sont prêts à payer et qu’un bien non rival est un bien ou un service qui peut être consommé ou utilisé par un grand nombre de personnes sans coût de production supplémentaire car la consommation de l’une ne diminue en rien la quantité disponible pour les autres.
Ce sont ces caractéristiques économiques et techniques qui justifient l’intervention de l’Etat selon les thèses classiques de Richard Musgrave et de Paul Samuelson formulées dans les années 1950 4. Selon Richard Musgrave, l’une des fonctions de l’État est de veiller à l’allocation optimale des ressources économiques, ce qui l’oblige à produire les biens qui ne pourraient pas être produits par le marché du fait de leurs particularités. D’où précisément l’appellation qu’on peut leur donner de biens publics. Mais observons bien le raisonnement qui est tenu. C’est parce que certains biens sont en quelque sorte défectueux ou déficitaires au regard de la norme qu’ils doivent être produits par le gouvernement. Un bien public est donc déterminé négativement. Quel est son défaut, quelle est sa déficience ? C’est que l’on ne peut individualiser suffisamment ses bénéficiaires, c’est qu’il bénéficie à un ensemble non divisible d’individus. Lorsque le bien par contre peut être divisé et faire l’objet d’une consommation individuelle sans effets externes, on a alors affaire à un bien qui peut et qui doit être produit sur un marché concurrentiel.
L’économie des biens publics est ainsi dans une relation de miroir avec celle des biens privés, comme le souligne avec pertinence Luc Weber. On n’entrera pas ici dans la discussion pour savoir si ces caractéristiques spécifiques suffisent à justifier l’intervention publique. Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une

2 Les distinctions économiques sont sur ce point des héritages du droit civil romain et de sa division des biens selon leur nature.
3 Cf. pour un exposé de la doctrine Luc Weber, L’Etat acteur économique, Economica, 1997.
4 Cf. Richard Musgrave, The Theory of Public Finance, 1959, et sa présentation canonique par Paul Samuelson, in L’économique, I, Armand Colin, 1982, p. 224.
Les néolibéraux ont depuis lors cherché à montrer que certains services pouvaient bien être d’une nature spéciale mais que cela ne rendait pas nécessaire pour autant leur production par l’État.
La doctrine de l’Union européenne, pour ne prendre que cet exemple, a renoncé pour sa part à utiliser les vocables de bien ou de service public, préférant employer les termes de « service d’intérêt général », ce qui laisse la place pour une production privée sous contrainte d’un cahier des charges fixé par des autorités publiques.
La renaissance des communs En réalité, cette présentation qui oppose deux types de biens privés et publics, s’est avérée très insuffisante. Si l’on combine comme cela a été fait dans les années 1970 les deux qualités des biens économiques, on distingue quatre types de biens. A côté des biens purement privés (rivaux et exclusifs) comme les doughnuts achetés au supermarché et des biens purement publics (non rivaux et non exclusifs) comme l’éclairage, la défense nationale ou les phares, on rencontre des biens hybrides ou mixtes, à la fois exclusifs et non rivaux, comme les ponts et les autoroutes sur lesquels on peut établir des péages, ou encore des clubs, des spectacles artistiques ou sportifs payants mais dont la consommation individuelle n’est pas diminuée par celle des autres spectateurs. Mais il est encore possible de rencontrer un autre type de biens mixtes qui sont à la fois non exclusifs et rivaux, comme des zones de pêche, des pâturages, des systèmes d’irrigation, c’est-à-dire des biens dont on peut difficilement interdire ou restreindre l’accès, mais qui peuvent faire l’objet d’une exploitation individuelle pour une utilité personnelle. Ce sont ces biens qu’Elinor Ostrom a désignés comme des« common-pool ressources »), c’est-à-dire des mises en commun de ressources qui donnent lieu à une gestion collective pour leur usage et partage.
La rencontre de cette problématique économique avec la mobilisation écologique à partir des années 1980 a donné un relief très particulier à la théorie des « commons » ( que l’on traduit ici par le mot « communs »), comme formes de gestion commune : parmi les ressources communes, on trouve en effet tous les « biens naturels » aujourd’hui menacés de dégradation ou de destruction, comme l’atmosphère, l’eau, les forêts. Un vaste débat s’est noué autour d’un article de Garrett Hardin qui, en 1968, dans la Tragedy of the Commons 5, avait cru pouvoir montrer, à partir de considérations sur la surpopulation, que les terres communales, avant même le mouvement des enclosures, avaient été détruites par la surexploitation auxquelles elles avaient été soumises par des paysans mus par leur seul intérêt égoïste, considérés tous comme des « resquilleurs » ou des « passagers clandestins » : « Freedom in a commons brings ruin to all », concluait Hardin.
5 Science, 13 décembre 1968, disponible en ligne
http://www.sciencemag.org/cgi/content/full/162/3859/1243
Une littérature abondante, d’inspiration néolibérale, a pris appui sur cet argument pour montrer les avantages de la propriété privée et l’inefficacité de la gestion collective en général. L’échec des services publics et des systèmes de protection sociale tenait au fait qu’ils sont la proie des passagers clandestins qui jouissent gratuitement des avantages sans payer et qui ne veulent surtout pas révéler cette jouissance pour ne pas avoir à en supporter le coût. Mais au-delà de cet aspect des choses, l’article de Hardin a réintroduit sans le vouloir la dimension des commons dans la discussion théorique, ce qui n’est pas un mince paradoxe lorsqu’on sait le discrédit de tout ce qui touchait de près ou de loin au « communisme » à cette époque. Mais il l’a fait en niant totalement l’existence de règles coutumières collectives comme condition d’usage des commons, c’est-à-dire en confondant le libre accès à des ressources et l’organisation collective des ressources. A cet égard, le principal apport de l’économie politique des communs est précisément d’être parti de la définition du commun comme forme de gestion collective 6.
Enfin, dans les années 1990, le développement de l’informatique et de l’Internet, a suscité un regain d’intérêt pour des communs d’un nouveau genre, les « communs de la connaissance ».
La connaissance, en un sens très large, est alors conçue comme une « ressource partagée » non seulement entre universitaires et scientifiques mais entre tous les coproducteurs susceptibles d’intervenir sur des réseaux qui peuvent s’élargir indéfiniment. Si Wikipedia est devenu l’exemple le plus visible de ces nouveaux types de ressources, il en existe de multiples formes correspondant à des communautés de coproduction digitale de toutes formes et de toutes tailles. Le mouvement des logiciels libres ou celui des« creative commons » en sont d’autres tout aussi significatifs. Ces communs de la connaissance, qui sont l’objet d’un vif intérêt aux Etats-Unis depuis une dizaine d’années, ont des particularités qui ont été mises en évidence par E.Ostrom et qui les distinguent des communs dits naturels. Alors que les ressources naturelles sont des ressources rares, à la fois non exclusives et rivales, les communs de la connaissance sont des biens non rivaux dont l’utilisation par les uns non seulement ne diminue pas celle des autres, mais a plutôt tendance à l’augmenter.
6 L’ouvrage désormais classique de Jared Diamond, Effondrement, Folio essais, 2009, est symptomatique de la façon dont une certaine écologie entend répondre à l’objection de G.Hardin en se référant aux travaux de E.Ostrom (p.843-844) : on tente de parer à l’argument de la « tragédie des communs » (p. 25 et 663) en mettant l’accent sur l’attitude responsable des « consommateurs » et non sur la co-production de règles. Cette approche révèle ainsi indirectement les limites de ces travaux.
C’est ainsi que progressivement un nouvel objet est apparu dans la littérature anglo-saxonne sous l’appellation de « commons ». Ce terme a été traduit en français tantôt par « biens publics » tantôt par « biens communs ». C’était pour la première traduction commettre une confusion théorique, puisque l’intérêt de la théorie est précisément de faire apparaître à côté des biens publics de nouvelles sortes de biens. Pour la seconde, c’était oublier que les « commons » ne sont pas nécessairement des biens au sens strict du terme, mais plutôt des systèmes de règles régissant des actions collectives, des modes d’existence et d’activité de communautés. C’est pourquoi il vaut sans doute mieux traduire le terme par « communs » pour faire entendre la dimension institutionnelle du concept et le lien étroit de l’ institution et de la pratique des « commons » avec l’existence de communautés non réductibles à un agrégat d’individus intéressés.
Les communs comme institutions Les limites de la nouvelle économie politique des communs à laquelle le nom d’E. Ostrom est désormais attachée tiennent au fait que cette théorie ne s’est pas complètement débarrassée des hypothèses économiques fondamentales qui fondent la théorie des biens publics 7. Elle reste en effet prisonnière du postulat selon lequel la forme de la production des biens dépend des qualités intrinsèques des biens eux-mêmes. De ce point de vue, la réponse que la théorie économique des communs a apportée à la thèse de Garret Hardin reste problématique. Car s’il est une réalité historique dont les économistes doivent tenir compte c’est bien que le mouvement des enclosures ne relève pas de la soudaine prise de conscience par les propriétaires fonciers de la nature de la terre comme bien exclusif et rival mais de la transformation en Angleterre des rapports sociaux à la campagne comme l’ont encore montré récemment les remarquables travaux de Ellen Meiksins Wood 8.
7 On trouve cette typologie dès 1977 in Vincent Ostrom et Elinor Ostrom , « Public Goods and Public Choices”, in E.S Savas, Alternatives for Delivering Public services, Boulder Westview press, 1977.
8 Cf. Ellen Meiksins Wood, L'origine du capitalisme, Une étude approfondie, Lux Humanités, 2009.
En un certain sens, la nouvelle théorie des communs n’est donc qu’un raffinement de la théorie des biens publics des années 1950 qui reconduit les limitations propres à tout économisme. En un certain sens seulement. Car outre le fait qu’elle prend en considération des questions nouvelles réelles et des transformations majeures comme l’environnement ou les technologies de l’information, cette théorie introduit la dimension fondamentale des institutions dans la gestion des communs, en soulignant que ce n’est pas tant la qualité intrinsèque du bien qui peut déterminer sa nature que le système organisé de gestion qui institue une activité comme un commun. Par là, elle répond à l’argument économique dominant selon lequel une économie ne peut fonctionner sans un système de droits bien définis par un contre-argument qui montre qu’un système institutionnel organisant la gestion commune peut être plus efficace dans un certain nombre de domaines que le marché.
Ce qui permet de mettre sur le même plan les « commons » dits naturels et les « commons » de la connaissance, c’est la prise de conscience des différentes menaces qui pèsent sur l’environnement et sur le partage libre des ressources intellectuelles en raison des règles d’usage explicites ou implicites, formelles ou informelles, actuelles ou potentielles, qui les détruisent ou empêchent leur développement. C’est donc la prise de conscience de leur fondamentale vulnérabilité. Ce qu’il y a de commun dans les « commons », si l’on peut ainsi s’exprimer, c’est le caractère destructeur des règles en usage pour l’exploitation des ressources naturelles et des risques de privatisation qui pèsent sur la production de la connaissance. Pour les unes, ce sont les comportements de prédation sans contrôle, favorisés par la compétition, qui sont les principaux dangers car ils épuisent les ressources naturelles.
Pour les autres, ce sont les processus de privatisation et de marchandisation qui menacent la créativité dans le domaine de la connaissance en imposant de « nouvelles enclosures » et en brisant la coproduction des idées et des oeuvres. C’est la « tragédie des anti-communs » selon l’expression du juriste américain Michael Heller à propos de la privatisation de la recherche biomédicale. La théorie des communs de la connaissance est de ce point de vue une réponse à l’expansion de la propriété intellectuelle et à la place qu’elle occupe dans le nouveau capitalisme. Les dangers ne sont évidemment pas les mêmes, mais dans les deux cas, il est besoin d’imposer des règles qui permettent d’instituer et de « gouverner » les communs et d’identifier le groupe qui gère le commun.
Ce qu’il y a donc de commun dans les communs, le point commun de tous les communs, est le fait qu’ils sont toujours utilisés collectivement et gérés par des groupes qui peuvent être de tailles différentes et obéir à des logiques variées 9.
9 Charlotte Hess et Elinor Ostrome (eds.), Understanding Knowledge as a Commons,
Les communs ne sont pas des « choses » qui préexisteraient aux règles, des objets ou des domaines naturels auxquels on appliquerait de surcroît des règles d’usage et de partage, que des relations sociales régies par des règles d’usage, de partage, ou de coproduction de certaines ressources. En un mot, ce sont des institutions qui structurent la gestion commune. Tout l’apport de la nouvelle économie politique des communs réside dans cette insistance sur la nécessité des règles et sur la nature des règles elles-mêmes qui permettent de produire et de reproduire les ressources communes.
Il faut en tirer une conclusion radicale qui va au-delà des formulations souvent équivoques de cette économie : seul l’acte d’instituer les communs fait exister les communs, à rebours d’une ligne de pensée qui fait des communs un donné préexistant qu’il s’agirait de reconnaître et de protéger, ou encore un processus spontané et en expansion qu’il s’agirait de stimuler et de généraliser 10.
Une politique des communs La gestion de la production des ressources communes doit obéir à un certain nombre de principes institutionnels que la théorie cherche à mettre en évidence. Certes, on peut penser qu’il n’y a rien de très original dans les résultats des travaux empiriques qui montrent que les communs auto-organisés requièrent un engagement volontaire, des liens sociaux denses, des normes fortes et claires de réciprocité. On peut même tenir que les concepts utilisés par cette théorie des communs restent insuffisants, cantonnés qu’ils sont à décrire la « gouvernance » collective des ressources partagées. Issus du corpus de l’économie appliquée aux rapports sociaux (capital social, passager clandestin, action collective, etc.), ils peinent à rendre compte des logiques et des normes de l’action qui permettent de faire fonctionner un « commun » et de penser l’articulation entre des ressources et des communautés humaines. On doit néanmoins réfléchir aux implications politiques des conditions nécessaires énoncées par The MIT Press Cambridge, Massachusetts, London, 2007, p. 5.
10 La thèse de Michael Hardt et Toni Negri est précisément que le commun est spontanément produit par l’action de la multitude comme sa propre condition, de telle manière que l’Empire échoue à capturer ce commun continuellement produit (Multitude, La Découverte, 2004).
Dans leur dernier ouvrage, Commonwealth, Belknap Harvard, 2009, les deux auteurs valorisent à juste titre la lutte organisée dans la « Coordination pour la défense de l’eau » à Cochabamba en 2000 en soulignant le fait que, dans cette expérience, le commun est considéré « non comme une ressource naturelle mais comme un produit social » (Ibid., p. 111). Toute la question est de savoir si ce « produit social » relève encore d’une production spontanée.
E.Ostrom et C.Hess pour la gestion des communs à partir de l’examen des situations qui ont réussi ou échoué.
Ce n’est pas qu’il y a une seule bonne manière de conduire les communs transposable partout. Au contraire, il existe une très grande variété de systèmes de gestion. Mais un certain nombre de questions fondamentales doivent être traitées et résolues par le système de règles pour faire exister un commun et le rendre pérenne. Selon ces deux auteurs, le commun doit avoir des limites nettement définies car il convient d’identifier la communauté concernée par le commun ; des règles doivent être bien adaptées aux besoins et conditions locales et conformes aux objectifs ; les individus concernés par ces règles doivent participer régulièrement afin de modifier ces règles ; leur droit à fixer et à modifier ces règles leur est reconnu par les autorité extérieures ; un système d’auto-contrôle du comportement des membres est collectivement fixé, ainsi qu’un système gradué de sanctions ; les membres de la communauté ont accès à un système peu coûteux de résolution des conflits et peuvent compter sur un ensemble d’activités réparties entre eux pour accomplir les différentes fonctions de régulation.
Cette liste des conditions du commun a sans doute à première vue quelque chose de décevant.
Elle permet pourtant de souligner une dimension essentielle, que la théorie économique standard ne permet pas de voir : le lien étroit entre la norme de réciprocité, la gestion démocratique et la participation active dans la production d’un certain nombre de ressources.
C’est qu’un commun ne réunit pas des consommateurs du marché ou des usagers d’une administration extérieurs à la production, ce sont plutôt des coproducteurs qui oeuvrent ensemble à l’édiction de règles ainsi qu’à leur mise en œuvre 11. En ce sens, la problématique des communs ne remet pas seulement en question l’économie des biens privés mais aussi celle des biens publics, qui lui est complémentaire. Entre le marché qui ne connaît que des biens privés et l’État qui ne connaît que des biens publics, il y a des formes d’activité et de production qui relèvent de communautés éminemment productrices, mais que l’économie politique a été radicalement incapable de penser jusqu’à présent.
11 En ce sens, la traduction de commoners par « usagers » qui est retenue par Isabelle Stengers est malheureuse, même si elle s’accompagne de la distinction entre « usager » et « utilisateur » : un commoner est non un usager, mais le gardien en acte d’une intelligence collective, comme elle le montre d’ailleurs elle-même très bien. Cf. Cf. Isabelle Stengers dans Au temps des catastrophes, résister à la barbarie qui vient, Les empêcheurs de penser en rond/La Découverte, 2009.
Plus encore, si l’on suit les résultats des travaux empiriques sur les communs de la connaissance, cette activité de production doit répondre à des conditions sociales et politiques précises. La production économique des ressources y est inséparable de l’engagement civique, elle est étroitement liée au respect des normes de réciprocité, elle suppose des rapports entre égaux et des modes d’élaboration démocratique des règles. L’économie politique des communs renoue ainsi avec les traditions de pensée du socialisme et de la sociologie.
La théorie des communs permet de souligner le caractère construit des communs. Rien ne peut laisser penser, comme les libertariens seraient tentés de le croire au vu de l’expansion de l’Internet, qu’un commun pourrait fonctionner sans règles instituées, qu’il pourrait être considéré comme un objet naturel, que le « libre accès » est synonyme du laisser faire absolu.
Pas de spontanéisme: la réciprocité n’est pas un don inné, pas plus que la démocratie n’est une donnée humaine éternelle. Le commun doit plutôt être pensé comme la construction d’un cadre réglementaire et d’institutions démocratiques qui organisent la réciprocité afin d’éviter les comportements de type « passager clandestin » mis en évidence par Garret Hardin ou la passivité des usagers dépendants des « guichets » de l’État. D’une certaine manière, la théorie des communs est parfaitement contemporaine du néolibéralisme qui pense, accompagne et favorise la création des objets marchands et la construction des marchés par le développement des droits de propriété, des formes de contrats, des modes construits de la concurrence. Elle permet d’envisager, à son tour, mais dans une voie opposée, un constructivisme théorique fondant une politique de construction des communs.

Fonte: http://1libertaire.free.fr/PDardotCLaval22.html