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venerdì, marzo 13, 2015

Ernst Lohoff La crisi della teoria della rivoluzione

di Ernst Lohoff
1. La crisi della teoria della rivoluzione 

Alla società borghese moderna riesce ogni giorno più difficile assicurare la propria riproduzione. A partire dal rapporto del Club of Rome nei primi anni settanta, si è andata largamente diffondendo, anche nella coscienza quotidiana, la consapevolezza che la società mondiale presenti tendenze suicide. Il continuo arrivo di notizie funeste nei campi dell’ecologia, dell’economia e della politica alimentano in permanenza una diffusa sensazione di crisi, che da tempo non è più centrata sul solo aspetto ecologico. Ma nonostante l’accumulazione di oggettivi sintomi di crisi, la società borghese sembra più salda che mai dal suo lato “soggettivo”. Le ex-opposizioni radicali si dimostrano prive di concetti e di idee di fronte ai reali problemi del nostro tempo e hanno rinunciato a tutte le loro aspirazioni. Con la loro mancanza di idee e di organizzazioni, esse non costituiscono più una sfida, ma forniscono al contrario un’ulteriore legittimazione per continuare lo statu quo. Di fronte al fallimento del pensiero antagonistico, l’attuale società borghese ha a sua disposizione un argomento molto forte: tutti riconoscono che non vi sono alternative a essa. L’opposizione fondamentalista perde ogni lustro e si riduce a moraleggiare e a lanciare accuse, degenerando in una posizione contemplativa e brontolona, mentre i modernizzatori e i riformisti continuano ciechi il loro povero mestiere.
Il nucleo di questo insieme ideologico è la miseria del pensiero marxista. La lunga crisi del marxismo è finita con la sua bancarotta completa. Lo sfacelo non colpisce però tutti gli elementi della teoria marxiana allo stesso modo. La bancarotta del marxismo consiste in prima linea nel misero fallimento della sua pretesa rivoluzionaria, quella di voler trascendere i rapporti borghesi. Mentre Marx, in quanto teorico dello sviluppo capitalistico, riceve ancora ogni tanto delle lodi postume anche dai suoi avversari per la sua lungimiranza analitica, la sua visione di un superamento del modo di produzione borghese viene considerata da tempo il più morto di tutti i cani. I giornalisti di terza pagina e altri sciacalli non debbono oggi aver remore di attingere alle idee di Marx con la stessa disinvoltura con cui hanno sfruttato in altre occasioni Aristotele, San Tommaso o gli illuministi francesi. La sua teoria dell’”alienazione” può essere considerata buona per tutte le stagioni. Solo una cosa è assolutamente esclusa in questi riferimenti a Marx – una prospettiva rivoluzionaria, post-borghese. Chi porta avanti l’idea marxiana di un possibile superamento della società capitalistica commette un imperdonabile passo falso e si rende ridicolo, ponendosi al di fuori di ogni “discorso razionale” e screditandosi con questa “speranza escatologica”, indipendentemente dai motivi che adduce per proclamare la fine possibile della società borghese. Anche alle orecchie della sinistra suona assai oscuro il discorso sul “carattere transitorio del modo di produzione capitalistico”. La futura storia dell’umanità sembra legata, almeno per un lungo periodo, alla forma borghese, la cui eliminazione viene identificata inevitabilmente con il passaggio alla barbarie pura.
Questo paradigma non è limitato agli apologeti di destra e di sinistra della società borghese, ma si riproduce anche là dove la teoria mantiene la sua punta critica e intende negarsi al consenso tacito con lo statu quo vigente. Quella parte minoritaria del marxismo attuale, che non ha fatto la pace con l’ordine esistente, svicola però “adornianamente” davanti alla possibilità di pensare qualcosa come la rivoluzione. Nella corrente ispirata alla Teoria critica, l’insistenza coerente sulla critica radicale coincide con l’abbandono di ogni speranza in una prospettiva rivoluzionaria che trascenda la socializzazione negativa. Il superamento del dominio borghese è per loro tanto necessario quanto impossibile. Tale quintessenza si è pietrificata in un paradigma. Di regola, la fusione di critica e pessimismo non viene nemmeno motivata o argomentata, ma costituisce il tacito presupposto di ogni sforzo analitico. Naturalmente non c’è regola senza eccezione. Nel nostro caso, essa si chiama soprattutto Stefan Breuer. Nel suo libro La crisi della teoria della rivoluzione, egli cerca di motivare in modo autonomo ed esplicito il nesso tra la critica radicale e il deciso rifiuto di tutte le “illusioni rivoluzionaristiche”. Questo tentativo merita attenzione, perché forma un piacevole contrasto con la ripetizione vuota di paradigmi della teoria critica, su cui normalmente si riposano intellettualmente gli apologeti della classica Scuola di Francoforte che hanno perso ogni speranza nella prospettiva rivoluzionaria.
Nella sua discussione della teoria di Marx, Breuer evidenzia due filoni teorici diametralmente opposti che esistono l’uno accanto all’altro nell’opera del maestro. Da una parte, Marx dimostra nella sua critica del feticismo che il dominio della forma-valore lascia spazio solo per una soggettività costituita dal capitale e totalmente sottoposta ad esso, mentre dall’altra sostiene una teoria della rivoluzione del tutto separata da questa impostazione e che ricorre invece all’”ontologia del lavoro”. Scrive Breuer: “Mentre – per riprendere una distinzione della vecchia interpretazione di Hegel – il Marx «esoterico» ha svelato, con un radicalismo insuperato, la natura astratta e repressiva della socializzazione borghese che ha violentemente eliminato tutte le forme di vita, di rapporti e di produzione che non le corrispondevano – poiché essa non era altro che la «sottomissione completa dell’individualità alle condizioni sociali che prendono la forma di forze oggettive, anzi di cose soprannaturali» -, il Marx «essoterico» era incline a revocare la sua affermazione secondo cui la socializzazione della produzione nel modo di produzione capitalistico non poteva essere altro che socializzazione astratta”.
Per poter salvare il proletariato come soggetto rivoluzionario, e quindi la prospettiva rivoluzionaria in quanto tale, Marx abbandona, nelle sue considerazioni sulla teoria della rivoluzione, il livello di riflessione raggiunto nella critica dell’economia politica, proprio come fanno i suoi epigoni. Egli tratta invece il proletariato come una potenza intimamente estranea al capitale, cui è sottomesso solo esteriormente: “Per poter conservare nonostante tutto le sue speranze rivoluzionarie, fondandole allo stesso tempo su processi oggettivi … Marx ha indietreggiato di fronte alle conseguenze della propria teoria e ha fatto della forma specificamente capitalistica del lavoro un punto d’Archimede situato al di là di ogni determinazione della forma, un punto da cui si poteva condurre la critica del modo di produzione capitalistico e la cui esistenza garantiva la possibilità della nascita di un soggetto nuovo e veramente umano”.
Secondo Breuer, Marx poteva farsi l’illusione di una prospettiva trans-borghese solo perché nella sua teoria della rivoluzione egli tratta il lavoro come un’opposizione ontologica al capitale e presuppone che il lavoro nel suo nucleo non venga inficiato dal dominio del capitale. Ma l’analisi della forma-valore, decifrata da Marx nella sua critica dell’economia politica come forma basilare della socializzazione borghese, toglie la base proprio a questo modo di vedere. Il trionfo del valore, anticipato da Marx, spezza l’indipendenza dei produttori immediati e degrada i lavoratori ad appendici del sistema delle macchine. Il fiero produttore indipendente diventa una rotella dell’ingranaggio capitalistico e può comportarsi solo come parte del capitale variabile, cioè in quanto integrato nel processo di valorizzazione. In queste condizioni, l’interesse proletario non contiene più nessuna potenza rivoluzionaria. La conclusione è che la rivoluzione comunista, se mai è stata teoricamente possibile, lo è stata durante il passaggio storico dalla sussunzione formale a quella reale. Ma quest’occasione è stata persa, e così, con il compimento della reale sussunzione del lavoro al capitale, l’universo capitalistico si chiude e diventa una totalità negativa, non più superabile. Lo scandaloso rapporto capitalistico si eternizza universalizzandosi. Diventa invincibile facendo della classe operaia una parte integrante del suo meccanismo. L’autonomizzazione del valore, che diventa il soggetto automatico della società, costituisce nell’interpretazione di Breuer il garante della stabilità della forma borghese. La teoria marxiana della rivoluzione, la speranza in una fine del rapporto capitalistico, è agli occhi di Breuer ormai solo un corpo estraneo, incompatibile con tutto il contenuto principale della critica dell’economia politica.

martedì, maggio 20, 2014

"La grande svalorizzazione" introduzione di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle



Il detto, vecchio di cent'anni, di Walter Rathenaus, "L'economia è il nostro destino", oggi suona come una minaccia. L'economia, il Sancta Sanctorum di questa società, ed il suo fulcro, è fuori da ogni controllo. Fino a non molto tempo fa, l'economia veniva considerata il territorio della ragione più alta. Oggi, a leggere le notizie economiche, ci sentiamo come trasportati regolarmente dentro un manicomio. Da quando lo scoppio della bolla finanziaria ha portato il mercato sull'orlo del collasso, nell'autunno del 2008, l'economia globale è riuscita a stabilizzarsi solo a breve termine. Gli addetti alla politica, ed i loro saggi, non avevano ancora finito di proclamare la "fine della crisi" in maniera strumentalmente ottimistica  quando ecco che nuove cattive notizie bussavano già alla porta. Non appena veniva spento un fuoco, per mezzo di massicci apporti di denaro fresco, ecco che il fuoco divampava in altri due o tre angoli del sistema capitalista mondiale. I governi e le banche centrali, per mezzo della nazionalizzazione d'emergenza dei titoli tossici e di una politica di abbattimento del costo del denaro, insieme ad un massivo indebitamento di Stato, riuscivano ad evitare il crollo economico globale. Tutto questo, comunque, non faceva altro che preparare la prossima, e ancora più grande, crisi. Ora, lo scoppio delle bolle di Stato minaccia di trascinare l'economia mondiale sull'orlo del precipizio. Una catastrofica confusione di opinioni accompagna questo sviluppo drammatico. Schiere di imbroglioni spiegano al pubblico a che punto, la "nostra economia" ha deviato del sentiero virtuoso della libera impresa, e con quali terapie la perduta ragione economica può di nuovo stamparsi nelle nostre teste.
Gli autori di questo libro non si uniscono alla farsa. Essi considerano l'assunto alla base del dibattito corrente, per cui l'attuale crisi può essere risolta coi metodi della produzione capitalista, come essenzialmente capovolto. La presunta "degenerazione" della gloriosa economia di mercato, responsabile dell'attuale disastroso stato del sistema capitalista mondiale, dev'essere compresa come un processo rivelatore. Il modo di produzione capitalista è una forma estremamente irrazionale di produzioni di beni, programmata per l'auto-distruzione. La deregolamentazione dei mercati finanziari, la speculazione, l'eccessivo stato di indebitamento, o qualsiasi altra cosa venga offerta sul mercato delle opinioni come causa dell'attuale malessere, sono in realtà solo i sintomi di un processo di crisi molto più profondo. Ci troviamo di fronte alla dissoluzione delle fondamenta del sistema capitalista mondiale, e non di fronte a qualche "malformazione" che può essere cancellata. Quest'idea è tabù nel dibattito pubblico, dove, da tutti i media, ci viene ostentatamente urlata una "critica del capitalismo". Questa critica si limita allo schianto dei mercati finanziari - motivata da una condanna personale di "banchieri e speculatori". L'ovvia percezione che il sistema capitalista di produzione di ricchezza possa essere insostenibile, viene del tutto repressa. La realtà spinge l'idea di una crisi fondamentale, ma la coscienza dominante si allontana da questa realtà con tutta la sua forza. La paura di una grande catastrofe è sicuramente nell'aria. Tuttavia, questa rimane diffusa e viene incanalata, sia in fantasie esoteriche di distruzione del mondo, come la presunta profezia dei Maya, che proliferano in modo selvaggio, parzialmente antisemite, fantasie cospirazioniste e tentativi individuali di sfuggire alla routine quotidiana affidandosi a vari generi di santoni e guaritori che banalizzano la crisi per mezzo dei loro sedativi e tranquillanti. Lo sfondo silenzioso di questo sentimento, è la preparazione socio-psicologica dell'individuo moderno dopo trent'anni di economizzazione radicale di tutti i settori della vita, cosa che è riuscita a far sembrare impossibile qualsiasi altra forma di interazione sociale diversa dalla forma merce, dalla forza lavoro astratta, e dal denaro. Per sovrammercato, il dogma della mancanza di alternative al capitalismo, viene confuso, nel senso comuno, con il crollo dell'impero del socialismo. "L'impero socialista" non è mai stato altro che una variante autoritaria della modernizzazione capitalista, sostenuta da una bizzarra ideologia della "dittatura del proletariato", e che non rappresentava in alcun modo una prospettiva di emancipazione sociale. Tuttavia, solo la sua esistenza sembrava provare a molti che ci potesse essere un'alternativa all'orientamento di tutte le relazioni sociali secondo il principio della razionalità economica. Per questa ragione, la sua distruzione non ha ampliato l'orizzonte del pensiero emancipativo, ma, al contrario, ha cementato nella testa la mancanza di alternative al modo di vita e di produzione della libera impresa capitalista. Il concetto di una critica fondamentale del sistema è implicitamente un tabù, in quanto la mera possibilità di una comprensione emancipativa del capitalismo viene scartata come un'idea folle, un sogno irrealizzabile di irriducibili incorreggibili. Non può essere intesa come la crisi di un obsoleto modo di produzione, storicamente specifico, ma appare alla classe politica come un evento apocalittico, come una guerra nucleare globale, o come l'impatto di un meteorite gigante. Il commissario all'austerità, Peer Steinbruck, ha detto che "stava guardando nell'abisso", riferendosi allo shock del crollo del mercato finanziario. E' un orrore spontaneo, quello che talvolta viene espresso per le conseguenze delle azioni di qualcuno. Ma questo, ultimamente, serve per legittimare le drastiche misure d austerità ed i sacrifici, che si pretendono dalla popolazione, per tenere sotto controllo la disgregazione economica. Così il vocabolario apocalittico diventa una variante del noto principio "TINA": "There Is No Alternative". Non c'è alternativa. Questa frase non si è mai ripresentata così spesso e così piena di convinzione come dopo lo scoppio della bolla immobiliare e l'onda d'urto innescata da quell'esplosione. Non si può essere schizzinosi quando il mondo è minacciato di distruzione.
I molti guru della crisi, apparsi dopo la caduta del 2008, usano questo modello. Il loro successo si basa sul creare uno stato d'animo sociale subliminale, per mezzo del loro allarmismo ed il loro dipingere scenari di disgregazione, mettendoli in contrasto cone la squadra di guaritori e sistematori. Ma nonostante tutto promuovono il consenso sociale al fatto che la crisi non ha alcun carattere sistemico fondamentale, ma può essere risolta per mezzo di risolute azioni politiche ed intensificando gli sforzi di austerità. L'idea che il modo di produzione capitalista possa diventare insostenibile ed assurdo, è loro completamente aliena. Fissati sulla superficie della crisi, polemizzano contro le presunte "malformazioni", quali lo "sconfinato indebitamento dello Stato", o la "speculazione sfrenata" che dev'essere finalmente fermata, se la società non vuole scivolare nell'abisso: Secondo i guru della crisi, il ripristino del prosperoso capitalismo è solo questione di volontà politica e sociale. E allegramente si uniscono alla grande banalizzazione. Il maggior rappresentante tedesco di questa combriccola, Max Otte, comprende la crisi come un'opportunità, come un'occasione collettiva ed individuale per riposizionarsi nella competizione capitalista e, ovviamente, non come una possibilità di sviluppare una contro-prassi alla corrente follia. Viene offerta all'Europa la possibilità di migliorare la sua posizione nella competizione globale del Mercato. All'investitore intelligente, vengono offerte eccellenti possibilità di moltiplicare i suoi ultimi spiccioli. Nonostante la disgregazione economica, per Otte è inconcepibile un crollo della fondamenta del sistema capitalista. I mercato mondiale continuerà a funzionare fino alla fine dei giorni. Il sacro destino dell'esistenza umana non verrà mai cambiato. Ottimizzare la formazione di capitale sarà possibile per sempre e rimarrà il centro di ogni sforzo terrestre.
Le prognosi e le diagnosi dei diversi guru della crisi, differiscono nei dettagli. Nel suo libro, scritto prima del crollo del 2008, Otte interpreta la crisi primariamente come crisi di deflazione, nella quale il prezzo crolla e i titoli si trasformano in spazzatura. Altri autori mettono in guardia circa un collasso del sistema monetario internazionale e circa una iper-inflazione. Questa paura non è campata in aria. Il corrente processo di crisi deve sfociare in una crisi della moneta e del sistema monetario. Se ne discute nella seconda e terza parte di questo libro. L'ordine monetario attuale, con il dollaro come moneta mondiale e l'euro come seconda valuta chiave, non può durare a lungo. Questo sviluppo è stato a lungo il segreto di Pulcinella. I guru della crisi non possono guardare dento il tunnel oscuro senza vedere scintillare un barlume d'oro, all'altra estremità. La ricetta offerta da Nathan Lewis nel suo libro, "Oro: L'unico denaro del futuro"(2007), gode di grande popolarità fra gli altri piccoli e grandi guru neoliberisti della crisi. Gli Stati, dice Lewis, dovrebbero consentire l'indebitamento e tornare ad un sistema monetario basato sull'oro. Allora le fondamenta monetare per una rinnovata, solida e prospera economia mondiale verrebbero ricreate. Tali proposte possono essere fatte solamente quando viene a mancare qualsiasi senso dello sviluppo logico e storico del sistema della produzione capitalista della ricchezza. Che questo sistema sia cresciuto nel corso di molte decadi, abbandonando il sistema valutario aureo, non è stato un incidente o il risultato di un errore di politici che si erano sbagliati, che può essere cancellato nel modo in cui immaginano Lewis e i suoi colleghi. Ma è stato, piuttosto, il risultato ed il prerequisito per l'enorme espansione della produzione capitalista e per la sua marcia trionfale su tutto il pianeta. La crescita-spinta capitalista delle ultime decadi non sarebbe mai stata possibile sul "barbarico metallo" (Keynes) soggetto ad un limite naturale a causa della sua sostanza materiale. Il passaggio alla pura moneta di credito era indispensabile. E' del tutto concepibile che verranno fatti dei tentativi per agganciare le valute nazionali all'oro, in qualche modo, nel corso della fase avanzata della decadenza dell'economia mondiale e del crollo del denaro. Tali riforme monetarie, comunque, sarebbero il risultato e lo sviluppo di un porcesso di avvizzimento del sistema di produzione capitalista di ricchezza. Avrebbero a che fare con una ricostruzione orientata al futuro, quanto l'avevano le sigarette usate come valuta, dopo la seconda guerra mondiale. I discutibili guru della crisi, come Otte e Lewis, non sono i soli che mancano di qualsiasi comprensione dei caratteri fondamentali degli attuali processi di crisi. Se la gran parte del dibattito pubblico su questo tema, si arrampica sulla superficie degli eventi, e se i sintomi della crisi vengono mistificati per renderli cause, come l'indipendenza dei mercati finanziari o l'esplosivo indebitamento dello Stato, tutto questo riflette, più che restringere, l'enorme portata della crisi del sistema capitalista. L'economia, in tutte le sue scuole rivali, con i loro presupposti teorici, assunti e paradigmi. è incapace di concepire una crisi fondamentale. Fin dai tempi di Adam Smith e di Jean-Baptiste Say, la scienza economica, quasi senza eccezioni, contesta il fatto che il capitalismo, per la sua logica interna, produca delle crisi. Sebbene, ovviamente, la dinamica capitalista produca costantemente squilibri ed incongruenze che poi esplodono in crisi, che vengono poi sempre contenute per mezzo di soluzioni provvisorie, la scienza economica segnatamente classica e neoclassica vede il mercato come il garante affidabile di uno stato di equilibrio. Per come la vede, le crisi economiche non si spiegano a partire da una crisi economica interna, ma sono, per definizione, il risultato di fattori esogeni, e non economici, come disastri naturali, guerre e congiunture politiche. In tal modo, tutte queste crisi che accompagnano l'ascesa del capitalismo, vengono mistificate ideologicamente. Le contraddizioni interne al capitalismo che dovevano inevitabilmente portare a ricorrenti disgregazioni, venivano negate. Con il keynesismo, una scuola economica sorta per la prima volta nel corso della crisi economica mondiale degli anni 1930, questo dogma si indebolisce, pur continuando in altri modi. Secondo Keynes, la preferenza per la moneta (“liquidity preference”), rispetto ad altre forme di ricchezza, può compromettere l'equilibrio economico e portare ad una sotto-occupazione strutturale, e questo va combattuto per mezzo di corrispondenti misure monetarie e politico-fiscali. Entra in gioco lo Stato. Tuttavia il suo compito consiste nel ripristinare il potere del mercato che crea armonia, laddove c'è stata una sospensione di tale potere, dovuta a disturbi temporanei.
A partire dal fatto che tutte le precedenti crisi sono state minimizzate con successo, non sorprende che una crisi fondamentale dell'economia sembra assolutamente impensabile. Le definizioni economiche e le idee di base sviluppate negli scorsi due secoli non permettono che si possa formare una simile idea. Finché vengono tratteggiate come conclusioni scontate auto-evidenti, l'immunità è garantita, a prescindere da qualsivoglia immagine empirica del sistema capitalista mondiale. Negli ultimi, data la virulenza della crisi, alcuni rappresentanti dell'economia hanno acconsentito a discutere la "fine del capitalismo". Come avviene con i discutibili guru della crisi, quest'enfasi su un secondo punto di vista si rivela solo come un segnale del fatto che è avvenuto un presunto "deragliamento" dall'economia di mercato, per cui c'è solo bisogno di tornare sulla vera via della virtù. Il capitalismo è il male e l'economia di mercato è il bene. E' questo il credo che da sempre denuncia le "eccessive speculazioni" sui mercati finanziari. In questa versione, ci si rifà ai liberali furbetti e irriducibili, come il propagandista della "flat tax" Paul Kirchhof. Nella sua rubrica su "Die Zeit", "E' finito il capitalismo?", implora una "economia di mercato responsabile" e insiste sul fatto che "non possiamo farci mettere nell'angolo da un mercato finanziario divenuto selvaggio". Questa distinzione fra "economia di mercato" e "capitalismo" ha una sua tradizione. Durante l'epoca della Guerra Fredda, era il nucleo della legittimazione ideologica dell'Occidente che vendeva la sua "economia sociale di mercato" come la terza via fra capitalismo e comunismo. Nell'era del capitalismo di crisi, assume nuova importanza nel cercare di scongiurare l'idea che l'intero sistema starebbe per cedere. Le radici di quest'immunizzazione di base vanno ancora più in profondità. Nascono dall'immagine che l'economia ha di sé stessa in quanto figlia del modo di produzione capitalista, ma che non può parlare di questa forma di socializzazione, specificamente storica, senza mistificarla come se fosse il modo di vita umano in generale. Laddove lo sfruttamento del capitale, difficilmente calcolabile nella realtà capitalista - l'astratto fine in sé di fare più soldi dai soldi - è il fulcro del processo economico, e dove la produzione di beni è solo il mezzo secondario per realizzare un tale obiettivo, l'economia vede solo un'innocua "produzione di beni", come se questa fosse sempre esistita, già fin da quando gli antenati dell'Homo sapiens scesero dagli alberi. Ogni libro di testo di economia, comincia con l'assioma indiscutibile secondo il quale lo scopo dell'economia è quello di fornire alle persone cose utili, mentre la produzione di merci, il denaro e il mercato vengono presentati solo come mezzi sofisticati per raggiungere quest'obiettivo, l'organizzazione della divisione sociale del lavoro e "l'ottimale allocazione delle risorse". L'inversione essenziale fra mezzi e fini, che appartiene alla natura del carattere specificamente storico che ha il modo di produzione capitalista, viene reso invisibile. Le contraddizioni interne che ne risultano spariscono e la nozione di crisi che ne deriva diventa priva di significato. La particolare incompetenza di questa generazione di economisti non può essere ritenuta responsabile del fatto che l'analisi della crisi, da parte di economisti esperti, risulti superficiale ed inutile. Il problema è la struttura di base, non la mancanza di controllo da parte degli strumenti economici ... Chiunque voglia capire questo in profondità, deve assumere un altro sistema di riferimento teorico che rompa con le assunzioni armoniche di base dell'economia, e che colga le caratteristiche storicamente specifiche del modo di produzione capitalista.
150 anni fa, Karl Marx pose le fondamenta per un simile sistema di riferimento teorico. Partendo dalla critica della produzione di beni e dalle sue contraddizioni interne, Marx ha descritto il modo di produzione capitalista come un sistema feticistico estremamente irrazionale governato da un'incontrollabile dinamica storica, la quale ultimamente sta portando alla sua auto-distruzione, se l'umanità non l'abolisce prima. Sorprendentemente, queste conclusioni non giocano nessun ruolo pratico nel dibattito sulla crisi. Negli ultimi anni c'è stata una certa "rinascita di Marx" ... Gli scherzi folli del capitalismo di crisi e le irragionevoli richieste sociali che questo fa, risvegliano il desiderio di una critica sociale radicale dove il nome di Marx è una sorta di codice. La reale dirompenza e l'attualità della critica dell'economia politica di Marx, viene più bloccata, che rivelata, da queste reminiscenze.
Alcuni evocano un ritorno della lotta di classe e riattivano quella parte della teoria di Marx che in passato ha avuto un'enorme efficacia ideologica e politica. Questo oggi può essere irrimediabilmente datato. Un Marx visto come testimone principale di una sorta di critica sintetica di un capitale finanziario senza restrizioni che si presume "troppo cresciuto" rispetto alla "economia reale", e quindi dev'essere fermato. Ai suoi tempi, Marx si faceva beffe di queste fantasie della classe media a proposito di un mondo capitalista guarito. Infine ci sono gli accademici che riducono il pensiero marxista al sistema di riferimento teorico e quindi si appropriano del suo contenuto critico. Dichiarano Marx essere una sorta di predecessore di Keynes, o gli attribuiscono la teoria neoclassica del valore soggettivo. Mentre, quella parte della teoria marxista che oggi è del tutto dirompente, la critica fondamentale della merce, del lavoro, del valore e del denaro, e la teoria della crisi che si basa su di essa è completamente svanita. Se seguiamo questo filone teorico e lo sviluppiamo ulteriormente, il capitalismo e il suo essere suscettibile di crisi ci apparirà sotto una luce molto diversa, rispetto a quella dei modelli assiomatici e astoricamente armonici dell'economia. Le crisi storiche che non possono essere spiegate secondo tali modelli, indicano come il carattere irrazionale e auto-contraddittorio del modo dominante di produzione siano anche i gradini che portano questo modo di produzione a sbattere contro i suoi limiti interni. La mentalità ristretta dello sfruttamento fine a sé stesso del capitale, è incompatibile, nel lungo periodo, con l'enorme potenziale di ricchezza che esso produce, dal momento che il processo va verso un'inesorabile riduzione delle ore necessarie di lavoro ai fini della produzione di merci. In differenti condizioni sociali, questo potenziale potrebbe essere usato per rendere possibile una buona vita per tutte le persone, senza distruggere la natura e l'ambiente, fondamento della vita stessa. Invece, in condizioni di capitalismo, il costante aumento della produttività pregiudica la produzione di ricchezza e le basi dello sfruttamento del capitale. Quindi, presto o tardi, si deve arrivare ad un punto in cui il livello di produttività raggiunto diventa incompatibile con la forma capitalista della ricchezza. Vista così, l'attuale crisi economica globale non è in alcun modo il risultato di un'eccessiva speculazione e di un eccessivo indebitamento, di cui oggi si dovrebbe pagare il conto. Viceversa, la gigantesca inflazione dei mercati finanziari, come riflesso del fatto che la forza lavoro nei settori chiave dello sfruttamento capitalista è diventata "superflua", e la produzione di ricchezza diminuisce in modo assoluto. La crisi strutturale che si è chiaramente manifestata a partire dagli anni 1970, come crisi del lavoro, può essere solo rinviata e ritardata dall'enorme accumulo di "capitale fittizio" sui mercati finanziari. La svalutazione di questo capitale fittizio, ora penzola sul mondo come una spada di Damocle. I superficiali annunci di "via libera!" rispetto alla crisi sono sbagliati, come sono sbagliate le grida di Cassandra dei guru della crisi che ammoniscono a fare una conversione verso una "sana economia di mercato". Come, all'inverso, tutte le richieste di "addomesticare i mercati finanziari". La crisi strutturale fondamentale può essere rinviata da un'altra inflazione di capitale fittizio e da differenti misure amministrative di emergenza, ma non può essere risolta dentro la logica capitalista. Se questa logica continuerà ad essere forzatamente mantenuta, siamo minacciati da una grande catastrofe all'intensificarsi della crisi. Questa può essere evitata solamente se viene sviluppata un'alternativa sociale globale che superi la produzione di merci.
- Ernst Lohoff e Norbert Trenkle -
fonte: Krisis