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venerdì, marzo 13, 2015

Ernst Lohoff La crisi della teoria della rivoluzione

di Ernst Lohoff
1. La crisi della teoria della rivoluzione 

Alla società borghese moderna riesce ogni giorno più difficile assicurare la propria riproduzione. A partire dal rapporto del Club of Rome nei primi anni settanta, si è andata largamente diffondendo, anche nella coscienza quotidiana, la consapevolezza che la società mondiale presenti tendenze suicide. Il continuo arrivo di notizie funeste nei campi dell’ecologia, dell’economia e della politica alimentano in permanenza una diffusa sensazione di crisi, che da tempo non è più centrata sul solo aspetto ecologico. Ma nonostante l’accumulazione di oggettivi sintomi di crisi, la società borghese sembra più salda che mai dal suo lato “soggettivo”. Le ex-opposizioni radicali si dimostrano prive di concetti e di idee di fronte ai reali problemi del nostro tempo e hanno rinunciato a tutte le loro aspirazioni. Con la loro mancanza di idee e di organizzazioni, esse non costituiscono più una sfida, ma forniscono al contrario un’ulteriore legittimazione per continuare lo statu quo. Di fronte al fallimento del pensiero antagonistico, l’attuale società borghese ha a sua disposizione un argomento molto forte: tutti riconoscono che non vi sono alternative a essa. L’opposizione fondamentalista perde ogni lustro e si riduce a moraleggiare e a lanciare accuse, degenerando in una posizione contemplativa e brontolona, mentre i modernizzatori e i riformisti continuano ciechi il loro povero mestiere.
Il nucleo di questo insieme ideologico è la miseria del pensiero marxista. La lunga crisi del marxismo è finita con la sua bancarotta completa. Lo sfacelo non colpisce però tutti gli elementi della teoria marxiana allo stesso modo. La bancarotta del marxismo consiste in prima linea nel misero fallimento della sua pretesa rivoluzionaria, quella di voler trascendere i rapporti borghesi. Mentre Marx, in quanto teorico dello sviluppo capitalistico, riceve ancora ogni tanto delle lodi postume anche dai suoi avversari per la sua lungimiranza analitica, la sua visione di un superamento del modo di produzione borghese viene considerata da tempo il più morto di tutti i cani. I giornalisti di terza pagina e altri sciacalli non debbono oggi aver remore di attingere alle idee di Marx con la stessa disinvoltura con cui hanno sfruttato in altre occasioni Aristotele, San Tommaso o gli illuministi francesi. La sua teoria dell’”alienazione” può essere considerata buona per tutte le stagioni. Solo una cosa è assolutamente esclusa in questi riferimenti a Marx – una prospettiva rivoluzionaria, post-borghese. Chi porta avanti l’idea marxiana di un possibile superamento della società capitalistica commette un imperdonabile passo falso e si rende ridicolo, ponendosi al di fuori di ogni “discorso razionale” e screditandosi con questa “speranza escatologica”, indipendentemente dai motivi che adduce per proclamare la fine possibile della società borghese. Anche alle orecchie della sinistra suona assai oscuro il discorso sul “carattere transitorio del modo di produzione capitalistico”. La futura storia dell’umanità sembra legata, almeno per un lungo periodo, alla forma borghese, la cui eliminazione viene identificata inevitabilmente con il passaggio alla barbarie pura.
Questo paradigma non è limitato agli apologeti di destra e di sinistra della società borghese, ma si riproduce anche là dove la teoria mantiene la sua punta critica e intende negarsi al consenso tacito con lo statu quo vigente. Quella parte minoritaria del marxismo attuale, che non ha fatto la pace con l’ordine esistente, svicola però “adornianamente” davanti alla possibilità di pensare qualcosa come la rivoluzione. Nella corrente ispirata alla Teoria critica, l’insistenza coerente sulla critica radicale coincide con l’abbandono di ogni speranza in una prospettiva rivoluzionaria che trascenda la socializzazione negativa. Il superamento del dominio borghese è per loro tanto necessario quanto impossibile. Tale quintessenza si è pietrificata in un paradigma. Di regola, la fusione di critica e pessimismo non viene nemmeno motivata o argomentata, ma costituisce il tacito presupposto di ogni sforzo analitico. Naturalmente non c’è regola senza eccezione. Nel nostro caso, essa si chiama soprattutto Stefan Breuer. Nel suo libro La crisi della teoria della rivoluzione, egli cerca di motivare in modo autonomo ed esplicito il nesso tra la critica radicale e il deciso rifiuto di tutte le “illusioni rivoluzionaristiche”. Questo tentativo merita attenzione, perché forma un piacevole contrasto con la ripetizione vuota di paradigmi della teoria critica, su cui normalmente si riposano intellettualmente gli apologeti della classica Scuola di Francoforte che hanno perso ogni speranza nella prospettiva rivoluzionaria.
Nella sua discussione della teoria di Marx, Breuer evidenzia due filoni teorici diametralmente opposti che esistono l’uno accanto all’altro nell’opera del maestro. Da una parte, Marx dimostra nella sua critica del feticismo che il dominio della forma-valore lascia spazio solo per una soggettività costituita dal capitale e totalmente sottoposta ad esso, mentre dall’altra sostiene una teoria della rivoluzione del tutto separata da questa impostazione e che ricorre invece all’”ontologia del lavoro”. Scrive Breuer: “Mentre – per riprendere una distinzione della vecchia interpretazione di Hegel – il Marx «esoterico» ha svelato, con un radicalismo insuperato, la natura astratta e repressiva della socializzazione borghese che ha violentemente eliminato tutte le forme di vita, di rapporti e di produzione che non le corrispondevano – poiché essa non era altro che la «sottomissione completa dell’individualità alle condizioni sociali che prendono la forma di forze oggettive, anzi di cose soprannaturali» -, il Marx «essoterico» era incline a revocare la sua affermazione secondo cui la socializzazione della produzione nel modo di produzione capitalistico non poteva essere altro che socializzazione astratta”.
Per poter salvare il proletariato come soggetto rivoluzionario, e quindi la prospettiva rivoluzionaria in quanto tale, Marx abbandona, nelle sue considerazioni sulla teoria della rivoluzione, il livello di riflessione raggiunto nella critica dell’economia politica, proprio come fanno i suoi epigoni. Egli tratta invece il proletariato come una potenza intimamente estranea al capitale, cui è sottomesso solo esteriormente: “Per poter conservare nonostante tutto le sue speranze rivoluzionarie, fondandole allo stesso tempo su processi oggettivi … Marx ha indietreggiato di fronte alle conseguenze della propria teoria e ha fatto della forma specificamente capitalistica del lavoro un punto d’Archimede situato al di là di ogni determinazione della forma, un punto da cui si poteva condurre la critica del modo di produzione capitalistico e la cui esistenza garantiva la possibilità della nascita di un soggetto nuovo e veramente umano”.
Secondo Breuer, Marx poteva farsi l’illusione di una prospettiva trans-borghese solo perché nella sua teoria della rivoluzione egli tratta il lavoro come un’opposizione ontologica al capitale e presuppone che il lavoro nel suo nucleo non venga inficiato dal dominio del capitale. Ma l’analisi della forma-valore, decifrata da Marx nella sua critica dell’economia politica come forma basilare della socializzazione borghese, toglie la base proprio a questo modo di vedere. Il trionfo del valore, anticipato da Marx, spezza l’indipendenza dei produttori immediati e degrada i lavoratori ad appendici del sistema delle macchine. Il fiero produttore indipendente diventa una rotella dell’ingranaggio capitalistico e può comportarsi solo come parte del capitale variabile, cioè in quanto integrato nel processo di valorizzazione. In queste condizioni, l’interesse proletario non contiene più nessuna potenza rivoluzionaria. La conclusione è che la rivoluzione comunista, se mai è stata teoricamente possibile, lo è stata durante il passaggio storico dalla sussunzione formale a quella reale. Ma quest’occasione è stata persa, e così, con il compimento della reale sussunzione del lavoro al capitale, l’universo capitalistico si chiude e diventa una totalità negativa, non più superabile. Lo scandaloso rapporto capitalistico si eternizza universalizzandosi. Diventa invincibile facendo della classe operaia una parte integrante del suo meccanismo. L’autonomizzazione del valore, che diventa il soggetto automatico della società, costituisce nell’interpretazione di Breuer il garante della stabilità della forma borghese. La teoria marxiana della rivoluzione, la speranza in una fine del rapporto capitalistico, è agli occhi di Breuer ormai solo un corpo estraneo, incompatibile con tutto il contenuto principale della critica dell’economia politica.

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