Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

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domenica, ottobre 20, 2019

Charles Manson vive!

Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi.”(Col. Kurtz)
“-Ei Charles ma che fine hai fatto?!"Figlio mi mancavi!”

L'amore più profondo è l'amore nascosto. Una poesia dice: «Alla mia morte dal fumo conoscerai il mio amore, mai espresso e tenuto celato nel mio cuore». #hagakure #ghostdog 


PS: Una dedica a chi mi ha sfiorato l'anima in questi mesi che valgono anni.



“Dentro, ti sento dentro ad ogni parte di me
e sai che non ho scelto
Dentro, ti sento dentro ad ogni parte di me
e sai che non ho scelto” Ella Nadi Dentro

Le ultime ore del giorno 7 settembre 2018 le ho passato pensando di morire. Morire come il Coraggioso in un snuff movie che assomiglia tanto alla mia vita. Morire sotto i proiettili del fuoco nemico la razza umana. E mi sono messo nel frangente della battaglia in trincea a leggere passi dal Hagakure che non comprendevo e vecchi articoli del anarchico Renzo Novatore /(Le rose dove sono le rose?!) che invece mi illuminavano e avevo scelto di non scegliere quindi resistevo all'ondata che nel mio cervello si abbatteva e sognavo delirando una vita normale. Sognavo l'amore.
La mattinata successiva un flash back come quello che da l'acido lisergico, nella notte in una stanza in una casa maledetta della capitale la casa di un eminenza grigia che tiene sotto scatto l'intero Paese, lo stato d’eccezione comprato al mercato del lunedì. Ero insieme a mio figlio in quel allucinazione e c'è stata la rivincita dei perdenti. E stato un massacro come quello che facevano i pellerossa per vendicare la loro estinzione da parte dei visi pallidi. IL rosso era tutto rosso, le pareti, i letti i mobili il rosso il colore che da la vita perché è quello del sangue. E noi due come vampiri abbiamo bevuto il sangue del capo, caprone della mafia di Stato. Una strage? Si direbbe ma invece è stato un happening di allegri burloni che una volta urlavano serietà nemmeno per scherzo. E’ stata anche una cerimonia antica dettata dalla vecchia religione usurpata e oltraggiata dai frankisti per decenni che sembrano secoli. Un sacrificio umano per i nostri Dei. E’ stata anche giustizia per noi ultimi pariah che quando camminavamo volevamo realizzare un sogno, una favola un illusione comune.
La fine del racconto è come l’inizio della fine.


PS: i ritorni #battistipanella avevo deciso di togliere questo post per chiedere scusa ad una persona ma ho capito che il mercato delle indulge è ancora in piedi e oltre non guadarsi le spalle e non nascondersi bisogna dire il vero come raccontava Socrate ai suoi astanti.

venerdì, febbraio 27, 2015

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination


       In this ambitious book, Moishe Postone undertakes a fundamental reinterpretation of Marx's mature critical theory. He calls into question many of the presuppositions of traditional Marxist analyses and offers new interpretations of Marx's central arguments. These interpretations lead him to a very different analysis of the nature and problems of capitalism and provide the basis for a critique of "actually existing socialism." According to this new interpretation, Marx identifies the central core of the capitalist system with an impersonal form of social domination generated by labor itself and not simply with market mechanisms and private property. Proletarian labor and the industrial production process are characterized as expressions of domination rather than as means of human emancipation. This reformulation relates the form of economic growth and the structure of social labor in modern society to the alienation and domination at the heart of capitalism. It provides the foundation for a critical social theory that is more adequate to late twentieth-century capitalism.

Moische Postone Time, Labor, and Social Domination PDF

giovedì, febbraio 19, 2015

Moishe Postone: Per una teoria critica del presente

Quello che non dobbiamo fare

da una conversazione di Silvia Lòpez con Moishe Postone

imm045Silvia Lòpez: La prima serie di domande ha a che fare con la "Neue Marx Lektüre". Il tuo libro, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato recentemente tradotto in spagnolo, nel 2006, e ha ricevuto molta attenzione. Però, a livello europeo, in generale, la discussione circa una nuova lettura di Marx si è sviluppata a partire dagli anni sessanta. Si potrebbe collocare il tuo lavoro in relazione a questa nuova lettura, soprattutto in rapporto ad alcuni tuoi contemporanei, come Michael Heinrich o l'ultimo Robert Kurz? In che misura consideri il tuo contributo diverso dal loro, e che cosa lo differenzia? Quali sono state le circostanze sociopolitiche concrete che ti hanno portato a leggere e a teorizzare un nuovo Marx?
Moishe Postone: Quando incappai in Marx per la prima volta, erano gli anni sessanta, rimasi molto impressionato dal giovane Marx, il Marx della teoria dell'alienazione. La sua successiva critica dell'economia politica mi sembrava disperatamente vittoriana, un pamphlet positivista contro lo sfruttamento dei lavoratori. Come molte persone, compresi molti marxisti, pensavo che Marx avesse elaborato conseguentemente la critica dell'economia politica classica per dimostrare l'esistenza e la centralità dello sfruttamento.
E, sebbene simpatizzassi politicamente con un tale proposito, mi sembrava troppo limitato per spiegare in maniera ricca e completa i problemi centrali della società contemporanea. Credevo che l'opera del giovane Marx offrisse un modello di critica più opportuno, però, non avendo compreso totalmente la sua teoria dell'alienazione, lo consideravo soprattutto un critico culturale. In questo senso, Marx mi appariva un critico culturale come altri; la differenza stava nel fatto che era progressista, mentre molti degli altri erano conservatori. Quello che cambiò fondamentalmente la mia comprensione e che si rivelò essere una svolta dal punto di vista concettuale, fu la mia scoperta dei Grundrisse, Quello che mi colpì particolarmente furono le famose sezioni del manoscritto che dicevano chiaramente che, per Marx, la categoria del valore è una categoria storicamente specifica. Per me questo aveva delle implicazioni enormi. Era una chiave per capire il Marx maturo, una leva per mezzo della quale ho cercato di liberare dalle sue catene la comprensione tradizionale di Marx. La mia conclusione è stata che la teoria di Marx era completamente diversa dalla lettura che ne aveva fatto il marxismo tradizionale. Per esempio, l'idea che il valore è storicamente specifico significava che il superamento del capitalismo non voleva dire la realizzazione del valore, come sosteneva molta gente. Molti concepivano il valore alla maniera della sinistra ricardiana, ossia, come una categoria che dimostra che la classe lavoratrice è l'unica fonte di creazione della ricchezza sociale (e qui la ricchezza viene intesa in forma trans-storica). Di conseguenza, una società giusta sarebbe quella in cui la ricchezza sociale apparterrebbe alla classe che la produce. Tale società rappresenterebbe la realizzazione del valore. Tuttavia, l'affermazione marxiana per cui il superamento del capitalismo richiederebbe l'abolizione del valore non solo implica che la questione fondamentale non si trova al livello della remunerazione dei lavoratori per quello che producono, sebbene la questione oggi torni certamente a ricoprire una certa importanza, ma implica anche che tanto meno si tratta di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. I Grundrisse indicano che, per Marx, il post-capitalismo è post-proletario. Questo, tuttavia, fa sì che il rapporto fra riforma e rivoluzione diventi ancora più problematico. Non può essere visto come un rapporto fra le riforme che cercano di migliorare le condizioni dei lavoratori dentro il capitalismo ed una rivoluzione che mira a rovesciare il capitalismo abolendo la borghesia. Ma piuttosto, l'abolizione del capitalismo richiede, come condicio sine qua non, l'abolizione del lavoro proletario. La riforma, pertanto, deve perseguire quest'obiettivo. E questo apre nuovi modi di intendere la nostra situazione storica attuale, compreso l'emergere di movimenti post-proletari. Tuttavia, ciò pone anche serie difficoltà politiche e concettuali, dal momento che non c'è una continuità lineare fra la difesa degli interessi dei lavoratori ed il superamento del capitalismo. La questione dell'auto-abolizione del proletariato è stata storicamente messa all'ordine del giorno; tuttavia, allo stesso tempo, vengono erose le conquiste fatte dai lavoratori negli ultimi 150 anni.
(...)

S.L.: Possiamo tornare agli anni sessanta e all'inizio dei settanta, alla tua scoperta dei Grundrisse e alle tue riflessioni sul valore?
M.P.: La mia intenzione era quella di contribuire alla ricostituzione di una teoria critica della modernità capitalista. Permettimi un commento a margine sulla questione della modernità: in questo senso non mi trovo d'accordo con quelli come Michael Heinrich, e concordo molto di più con Lukács, Adorno e Horkheimer. Il capitalismo non è solamente un modo di produzione, inteso in senso stretto, ma è ciò che struttura una forma di vita cui a volte ci riferiamo come modernità, e questa strutturazione avviene tanto nella sua dimensione soggettiva quanto in quella oggettiva. Habermas non sembra comprenderlo. Sembra che consideri la comunicazione intersoggettiva nella modernità come qualcosa che si fondi su sé stessa, mentre nelle società pre-capitaliste detta comunicazione sarebbe strutturalmente determinata dalle forme politiche e religiose. Come dire, Habermas rileva la configurazione sociale delle strutture comunicative quando si verificano in forma palese, come avviene nelle società pre-capitaliste, ma si dimentica della brillante analisi di Marx quando si accorge che, nel capitalismo, la forma di costituzione sociale funziona in modo che quello che si costituisce socialmente, per esempio l'individuo, non appare come sociale, ma piuttosto come "naturale", come qualcosa che si fonda su sé stessa e che è apparentemente decontestualizzata. Ossia, Habermas non stima che ciò che caratterizza la contestualizzazione capitalista sia proprio l'apparenza di essere decontestualizzato. In tal senso la comprensione habermasiana della razionalità comunicativa cade preda di una forma feticcio. E credo che anche Heinrich consideri la critica dell'economia politica in modo troppo limitato, come se fosse riferita unicamente alla produzione e all'economia. Perde di vista la dimensione soggettiva e culturale delle categorie. Credo che ciò sia insufficiente ed insoddisfacente. Non è il tipo di teoria di cui abbiamo bisogno.

S.L.: Sì. In un certo senso è come un ritorno a prima di Lukàcs, il quale stava già cercando di leggere Marx a partire da una certa nozione di modernità. E cosa succede con altri come Robert Kurz? Negli ultimi dieci anni ha proposto una critica del valore che presenta delle evidenti somiglianze con la tua, per lo meno a livello teorico. Cosa pensi del suo contributo? Oggi, nei gruppi Exit! e Krisis, ci sono una serie di autori che hanno seguito i suoi passi.
M.P.: Penso che la morte prematura di Kurz sia una grave perdita. Quando ci siamo incontrati per la prima volta con il grupo Krisis, non sapevo niente di loro, e non credo che loro sapessero qualcosa di me. E, tuttavia, i nostri lavori avevano delle forti coincidenze, soprattutto per quel che riguarda la critica del valore e la critica del lavoro. Non sono completamente d'accordo con il modo in cui Kurz pone l'idea della crisi, affermando che, o uno crede che il capitalismo crollerà, oppure crede che potrà continuare all'infinito. Non condivido questo punto di vista, che mi sembra fortemente dicotomico. Credo anche che il mio lavoro sia più aperto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, di quanto lo sia il lavoro di Kurz, e che si occupi più di queste cose.

S.L.: Potresti svilupparlo un po' di più?
M.P.: Sì, non credo che l'interesse di Kurz fosse tanto di capire i cambiamenti nelle soggettività che si producono insieme ai cambiamenti nel capitale stesso. Ho cercato di elaborare questo, nei miei lavori sull'antisemitismo, cercando di sviluppare una teoria non-funzionalista di questa visione del mondo, in modo diverso da come lo fa la maggior parte delle cosiddette teorie materialiste della soggettività. La mia analisi si relaziona assai di più alle forme feticistiche. Non sono sicuro che il gruppo Krisis, o Krisis ed Exit!, si occupino tanto di questioni di soggettività e feticismo come faccio io, ma forse sono ingiusto nel dire questo. Certamente, fra tutte le nuove letture di Marx, il suo lavoro è quello che ha più parallelismi e somiglianze con il mio.

S.L.: Per me, come latino-americana, quando ho scoperto il tuo lavoro e quello di Kurz, la cosa più suggestiva è stata che eravate arrivati, in modo indipendente, a conclusioni simili circa il valore in Marx. Questo confermava una rigorosa lettura dell'ultimo Marx in riferimento al valore. Il marxismo ortodosso non poteva contribuire ad una tale comprensione. Forse la questione non sta tanto nel fatto che queste letture di Marx, fatte dalla Germania, non si interessino tanto alle questioni di ideologia, soggettività e coscienza, ma piuttosto che la loro teoria di sviluppa ad un tale livello di astrazione che c'è appena spazio per elaborare una teoria critica della società.
M.P.: Non ne sono sicuro. C'è stato un periodo, poco dopo che ho lasciato la Germania, durante il quale avevo una percezione molto precisa di quello che stava succedendo lì, ma oggi non ne sono sicuro. Quello che potrebbe accadere è che, nella sinistra tedesca, molti di coloro che sono interessati alla soggettività sono rimasti seguaci ortodossi della Scuola di Francoforte, in particolare di Adorno. E credo che, come me, i membri di Krisis e di Exit! pensino che la comprensione della critica dell'economia politica da parte di Adorno, per quanto fosse ricca, non andava abbastanza lontano. Perciò potrebbe essere che, dentro il contesto specificamente tedesco, abbiano deciso di rimanere ai margini della questione della soggettività. dal momento che i seguaci più ortodossi di Adorno si sono concentrati su quello.
(...)

S.L.: ... rispetto al tentativo di gettare le basi di una teoria critica della società. Come concili il tuo lavoro rigoroso su Marx con lo sviluppo di una teoria critica della società oggi?
M.P.: Deduco dalle tue parole che quanto ho detto prima potrebbe essere stato male interpretato. Apprezzo enormemente i brillanti sforzi di persone come Lukàcs e Adorno, con tutte le differenze che li separano dall'interpretare la soggettività come intrinsecamente unita all'oggettività sociale, facendo coincidere soggettività ed oggettività come due dimensioni della medesima cosa, che non possono essere comprese a partire dal modello base/sovrastruttura, ed ancor meno in termini di interesse. Per dirlo in altre parole, per loro teoria critica della cultura e teoria critica della società erano intrinsecamente relazionate, e credo che questa sia una comprensione enormemente valida che non dobbiamo perdere. Per quel che riguarda Foucault, non ho mai capito perché la gente creda che Foucault avesse una teoria della soggettività: non c'è soggettività reale in Foucault. Inoltre, Foucault non poteva dare teoricamente conto delle possibilità della sua teoria. Cioè, come lo strutturalismo, il post-strutturalismo fallisce sulla questione dell'auto-riflessività. Naturalmente, chiunque sottoscriva le sue posizioni negherà che questa sia una questione rilevante, però, nella mia opinione, l'assenza di auto-riflessività rende incoerente una teoria. Credo sia una vergogna che il post-strutturalismo si sia tanto diffuso in Germania. In Francia, almeno, si poteva dire che il marxismo dominante era quello del Partito Comunista Francese, che era possibilmente il partito più ortodosso dell'Occidente. E, a quanto io ne sappia, è lì che Foucault incontra Marx.
(...)
M.P.: Prima hai menzionato qualcosa su cui mi piacerebbe tornare, ma prima voglio affrontare alcune delle questioni relative alla soggettività, Foucault e Adorno. Dicevi che Foucault era incapace di spiegare il cambiamento storico. Credo che la questione della storia sia uno degli aspetti più contraddittori dal punto di vista formativo del pensiero di Foucault. Da un lato, Foucault afferma che la storia è contingente, e perciò usa la parola genealogia. Tuttavia scrive un libro dietro l'altro indicando trasformazioni potenti che avvengono più o meno nello stesso momento, all'inizio dell'Età moderna europea. E, ciò nonostante, non problematizza le trasformazioni che descrive. Quindi quello che dice di fare e quello che fa sono due cose molto diverse. Per me, uno degli argomenti centrali dell'analisi di Marx è quello che distingue veramente il capitalismo e che ha una dinamica storica intrinseca. Questa è una delle ragioni per cui non sono d'accordo con chi si concentra troppo sulla sfera della circolazione, cosa che possibilmente fa anche Heinrich. Poiché così si perde di vista il carattere non-teleologico, complesso e direzionale della dinamica capitalista. Marx, nelle sue opere della maturità, interpreta non solo il valore ed il lavoro, ma la stessa storia, come cosa storicamente specifica, nel senso che questa è dotata di una dinamica direzionale intrinseca. Se la storia, intesa come tale dinamica concreta, è una caratteristica storicamente specifica del capitalismo, non può essere applicata alla specie umana come un tutto, o a tutte le società, ma solamente al capitalismo. Però questo significa che non si può dare per scontata questa dinamica e, partendo da qui, dirimere questioni a proposito del libero arbitrio e del determinismo: questi sono solamente argomenti teologici vestiti con i panni del linguaggio moderno dell'agenzia e della struttura. Piuttosto, la prima domanda dovrebbe essere come spieghiamo, come fondiamo la straordinaria dinamica del capitale, una dinamica che genera una traiettoria complessa. Mi sembra che il post-strutturalismo non può neanche avvicinarsi a trattare simili questioni.

S.L.: In effetti, il post-strutturalismo non elabora una teoria del capitalismo, ma piuttosto delle descrizioni strutturali del funzionamento delle diverse istituzioni, che sia la prigione o il manicomio, che controllano e dominano la popolazione, ma non spiega queste strutture sociali o istituzioni in relazione alla realtà di base del capitalismo in ciascun momento specifico: questo sembra che intervenga in differenti momenti della storia, però non c'è una teoria del perché questo avvenga o che cosa si deve.
M.P.: Infatti. E ciò è dovuto in parte al fatto che le teorie del capitalismo restano implicitamente intese come teorie dello sfruttamento, teorie della proprietà e teorie della distribuzione diseguale del potere e della ricchezza. E la dinamica storica del capitalismo viene vista come un assunto metafisico proveniente dalla filosofia, di Hegel, ma non è realmente parte della teoria.

S.L.: Questo è un assunto molto interessante. Prima hai menzionato il tema della ricchezza. Comprendo perfettamente la distinzione fra ricchezza e valore, ma mi domando quale nozione di prassi politica si propone alla luce di questa teoria, in un momento in cui si continua a creare ricchezza e la ricchezza viene distribuita in forma diseguale. Questo non toglie importanza alla distinzione teorica fra ricchezza e valore, ma le tue riflessioni teoriche hanno implicazioni per la comprensione della prassi politica. Cosa puoi dire in proposito?
M.P.: Si tratta di una domanda enorme che si riferisce ad un problema enorme. Mi piacerebbe poter dare una risposta chiara, ma temo di non averla. Però qui, di nuovo, c'è una sovrapposizione fra il mio approccio e quello di Kurz. Se torniamo indietro di quarant'anni, una delle ipotesi inespresse di molti movimenti identitari dell'epoca, centrati intorno alle questioni della razza e del genere, era che il tipo di crescita economica che aveva caratterizzato i decenni dopo la guerra sarebbe continuata. Usando una metafora assai comune negli Stati Uniti, la torta da dividersi cresceva, e i diversi gruppi reclamavano la loro parte. Queste domande non erano solo economiche e, in tal senso, oggettive, ma erano anche soggettive: si trattava di gruppi che reclamavano riconoscimento. Credo che uno dei modi per comprendere le continue crisi degli ultimi quarant'anni è che non è così chiaro che il lavoro salariato sia in aumento. Questo ha modificato gli effetti e le conseguenze per molti movimenti identitari, che si vedono coinvolti in lotte per una torta che non sta crescendo e che, a volte, perfino diminuisce. C'è chi crede che il lavoro salariato continui ad espandersi in altri luoghi, come per esempio la Cina, l'India o il Bangladesh, che i posti di lavoro siano stati semplicemente dislocati in altri luoghi. In parte è così. Tuttavia, la mia interpretazione è che il cambiamento tecnologico abbia svolto un ruolo molto più importante e che, anche in Cina, il lavoro salariato è stato livellato. L'epoca dell'accumulazione che implicava la continua espansione del lavoro proletario potrebbe essere arrivata alla sua fine. E non disponiamo di un immaginario adeguato per confrontarci con una tale situazione - nel senso di idee su come potrebbe essere una società post-capitalista, oppure un senso della politica adeguato a muoverci in quella direzione. Prima, essere socialista era concettualmente semplice, dal momento che l'obiettivo sembrava relativamente chiaro: se si aboliva la proprietà privata e si faceva una pianificazione razionale dell'economia, il risultato sarebbe stata una società migliore. E si pensava che una classe operaia radicalizzata avrebbe lottato per un tale obiettivo. Il dibattito si concentrava sulla natura dei rapporti di potere esistente e su come motivare i lavoratori per incamminarsi sulla strada del socialismo. Se è vero che oggi la società capitalista sta entrando in crisi perché sono state erose le sue basi che poggiavano sul lavoro proletario, questo ci pone davanti a problemi molto diversi. E si pone la questione di cosa significhi vivere in una società che non è più basata sul lavoro. Usando un'analogia storica non troppo buona, la differenza fra il proletariato romano ed il proletariato moderno poteva essere sottolineata dicendo che il proletariato moderno era una classe lavoratrice, mentre il proletariato romano doveva arrangiarsi per conto proprio e la pace sociale veniva garantita mediante "Panem et circenses". In un certo qual modo stiamo entrando in una fase storica in cui il proletariato si sta avvicinando più al modello romano, dove il lavoro superfluo viene ridefinito strutturalmente come popolazione superflua. Il precariato ne è un esempio; credo che le gigantesche popolazioni delle baraccopoli, in gran parte del mondo, ne siano un altro esempio. Forse, un antropologo che studia le persone che sopravvivono a malapena, raccogliendo la spazzatura nelle discariche di Rio, può mostrarci come questa gente riesca a sopravvivere, e come questo abbia un suo proprio sistema significante. Però credo che tutto ciò trascuri la grande questione della crisi della società del lavoro, per la quale non abbiamo delle risposte.

S.L.: Sì, credo che circa un abitante del pianeta su tre viva in slum e baraccopoli, ossia, in comunità marginali ...
M.P.: Mi sorprende che la cifra sia così bassa. Mi sarei aspettato una percentuale ben maggiore.

S.L.: Si tratta di popolazione eccedente che non può essere incorporata nel processo produttivo, anche se gli antropologhi hanno modo di collegare queste popolazioni. Voglio dire che, soprattutto in Brasile, le connessioni fra le favelas e la città sono dinamiche. La gente vive nelle favelas, ma lavora come personale di servizio nell'industria alberghiera, così le economie sono organizzate in modo particolare ...
M.P.: E' vero. Tuttavia, la situazione non assomiglia a quella che si venne a creare in Europa durante le fasi precedenti al capitalismo, quando la popolazione rurale eccedente emigrava in altri paesi o veniva assorbita dal settore manifatturiero in espansione. Certo, oggi abbiamo emigrazioni di massa, ma di tipo molto diverso. Penso che le reazioni xenofobe nei confronti degli emigranti, così comuni nelle metropoli, non sono solo un segno del fatto che la popolazione sia irrimediabilmente razzista, ma che, fra l'altro, sia anche un segno del fatto che si sente minacciata poiché il tipo di espansione che prevaleva prima non esiste più.

S.L.: Quest'espansione non esiste, se guardiamo alle cifre della disoccupazione in Spagna, per esempio, vediamo che quasi il 45% della popolazione fra i 18 e 1 25 anni è disoccupata ...
M.P.: Sì, il numero dei disoccupati in Spagna è incredibile.

S.L.: ... oppure un 23% di disoccupazione generale fra i lavoratori adulti. Un aspetto centrale della crisi riguarda il come questa popolazione possa reincorporarsi nell'economia di mercato. Se osserviamo le cifre delle diverse economie europee, inclusa la Germania, possiamo vedere un processo di disciplinamento attraverso il quale si abitua la popolazione a percepire salari di mille euro al mese o di accettare di lavorare per i programmi del governo tedesco alla tariffa di un euro l'ora, mentre si percepisce anche l'indennità di disoccupazione, per esempio. Si tratta di forme di impoverimento di una popolazione che non può più essere incorporata come forza lavoro, come quando si dava crescita. Se guardiamo alla popolazione europea in generale, non solo in termini di analisi macroeconomica della situazione, si può pensare che la situazione in Europa sia una sorta di piccolo laboratorio il quale sembra confermare la tua analisi del capitalismo, nel senso che il valore non può continuare ad essere valorizzato come lo era prima.
M.P.: A quel livello, sicuramente. Ad un livello superficiale, la situazione si complica per la peculiare struttura europea che combina sovranità nazionale e moneta comune. Ma, in fondo, credo che tu abbia ragione. E anche se i giornali, almeno negli Stati Uniti, parlano solo di un nord prospero e di un sud in declino, la crisi c'è anche in Germania, per esempio per la classe media. In Germania, i tagli sono cominciati da decenni, nell'istruzione. Il settore dell'istruzione si era ampliato enormemente alla fine degli anni sessanta, come era accaduto anche in Francia, e con la crisi iniziata negli anni settanta si smise di finanziarlo. Questa è stata una delle prime cose che hanno tagliato per poter continuare a finanziare altri programmi sociali. Ma negli ultimi anni il cambiamento è stato ancora più austero; ci sono molti tedeschi che stanno affrontando un periodo di penuria, cosa che era impensabile solo fino ad una generazione fa.

S.L.: Infatti, vengono privatizzati i piani pensionistici, di modo che nessuno avrà soldi a sufficienza; in Germania non esiste salario minimo, solo alcuni settori industriali hanno qualcosa del genere, per il resto tutto quanto viene negoziato, così questa specie di disciplina neoliberista che oggi la Troika sta imponendo in molti paesi, ha avuto inizio in Germania dieci anni fa. Si tratta di un paese che è già stato sottomesso a queste politiche, cosa che ci riporta a quanto si diceva prima a proposito della politica e dell'economia in Europa, alla sovranità nazionale in un momento in cui in Europa la politica è sottomessa all'economia. I governi, in termini strettamente formali, non rappresentano più la volontà popolare, nei termini della loro definizione di democrazia, ma rappresentano gli interessi del capitale finanziario e, negli ultimi mesi, la crisi - che si è verificata rispetto alla Banca Centrale Europea e all'acquisto di obbligazioni, discutendo se dovevano essere convertiti in buoni generali europei che collettivizzassero il debito - rivela che in Europa non stiamo solo assistendo ad una crisi economica, ma ad una crisi politica nella quale si stano erodendo completamente i modelli di democrazia sociale e politica che l'Europa ha avuto negli ultimi sessant'anni.
M.P.: Sono d'accordo con te. Tuttavia, credo che uno dei problemi è dovuto al fatto che la configurazione del capitale basata sul primato della politica si è rivelata una semplice fase dentro il capitalismo, e non una soluzione riformista a lungo termine. Questa fase di primato della politica è durata assai più in Europa che in qualsiasi altro luogo, ma dubito che si possa tornare a quella configurazione del capitalismo. Al suo apice, tale configurazione era legata ad una forte organizzazione nazionale delle economie, interconnesse fra loro a livello internazionale. Oggi, invece, il capitale è sempre più sovranazionale, piuttosto che internazionale. Sta sopra il livello dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione, come unità socio-economica e politica, si è trasformato e, come unità nazionale, è entrato in declino da decenni, almeno così è avvenuto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Questa crisi sta colpendo ora tutta l'Europa in forma sempre più evidente. L'Europa ci ha messo di più ad essere colpita perché qui la socialdemocrazia era molto più forte. Ma anche la socialdemocrazia era già stata minata, in modo meno esplicito di quanto mostrassero i programmi della Tatcher e di Reagan. Solo che ora la crisi appare essere globale e l'Europa sembra bloccata in doppio disastro, tanto politico quanto economico. L'unico modo in cui i paesi europei possono effettivamente operare su scala globale, è l'Unione Europea. Le unità nazionali come la Francia, la Germania e l'Olanda si rivelano sempre più inefficacemente piccole su scala mondiale - ancor più che durante il periodo della Guerra Fredda. E con tutto ciò, la politica europea in questi momenti sembra incapace di muoversi, sia in avanti che indietro.
(...)

S.L.: Questo ci porta ancora una volta alla sussunzione della politica nell'economia, in cui gli Stati sono al servizio degli interessi del capitale finanziario e smettono di rappresentare le loro popolazioni, convertendosi in rappresentanti politici degli interessi del capitale.
M.P.: Sono d'accordo, però una delle tante questioni con cui la sinistra di oggi deve confrontarsi è la scomparsa della sintesi fordista-keynesiana nei paesi occidentali e la fine delle economie di controllo verticale nei paesi dell'Est. Per qualche tempo, poteva sembrare che gli Stati fossero arrivati ad essere gli Stati delle loro popolazioni. Ma dobbiamo capire meglio quali erano i limiti di questa configurazione, perché non credo che possiamo tornare ad essa. Gran parte della letteratura degli anni cinquanta e sessanta affermava che i problemi di base della società e dell'economia erano stati risolti, o erano in via di risoluzione: sembrava che si fosse trovata la chiave per farlo. I paesi occidentali e i paesi comunisti rispondevano in maniera differente a questi problemi, ma entrambi erano sicuri di aver dato la risposta. Se non comprendiamo la crisi degli anni settanta, che ha eroso questa configurazione tanto ad Est come in Occidente, non possiamo comprendere quali sono oggi le nostre opzioni. Penso che non si possa tornare ad una situazione come quella degli Stati Uniti nei decenni dopo Roosvelt o alla Spagna come avrebbe potuto essere dopo Franco, o alla Germania socialdemocratica. Ma non sono un profeta, mi limito a segnalare che abbiamo bisogno di più lavoro teorico-politico.

S.L.: Non credi che dovremmo ripensare gli approcci di alcune teorie materialiste dello Stato, come quella di Poulantzas, per esempio, che cercavano di riconcepire lo Stato, non solo come una serie di istituzioni autonome rispetto alla società, ma come una sorta di relazione sociale?
M.P.: Sì, ma credo che, retrospettivamente, ci sono cose che possiamo vedere con maggior chiarezza che negli anni settanta. Nelle risposte a lungo termine, da parte degli Stati, alla crisi dei Settanta, è risultato chiaro che bisognava scegliere fra accumulazione del capitale e benessere sociale delle popolazioni, scelsero l'accumulazione del capitale, perché il contrario avrebbe portato al collasso. Credo che dobbiamo continuare a ripensare il rapporto fra il capitale e lo Stato. Quel che gli anni settanta ci hanno dimostrato è che lo Stato non è un'entità indipendente.

S.L.: Però, anche se non sei un profeta, quali forme di immaginazione e di prassi politica ti spetti e desideri? Su quale forma politica scommetteresti?
M.P.: Ad essere onesto, non scommetterei su nessuna. Però è importante che ci siano molte piccole iniziative differenti che cercano risposte diverse, poiché è a partire dalle iniziative delle persone che possiamo vedere quale funziona meglio, contro quali limiti ci scontriamo, ecc.. Solo così possiamo farci un'idea di fino a dove possiamo arrivare. Una possibilità - e so che questo suona molto tradizionale - è che, anche se c'è una crisi della società del lavoro, possiamo solo delineare i contorni delle possibilità future per mezzo di organizzazioni che intendano contrastare, o per lo meno diminuire, le enorme discrepanze presenti nelle condizioni lavorative, la regolamentazione del lavoro e la sua remunerazione a livello globale. Paesi come la Cina e il Vietnam, luoghi come il Bangladesh, si sono convertiti in immense fabbriche di vestiti per il consumo occidentale, fabbriche dove imperano condizioni di lavoro terribili. E qui vediamo come ideologie che possono aver avuto una dimensione progressista fino ad una generazione fa, si sono convertite in qualcosa di sempre più reazionario. Alcune élite del Terzo Mondo hanno utilizzato l'esistenza, nella sua specificità culturale, per giustificare la repressione politica e raggiungere livelli estremi di sfruttamento. Forse le mie dichiarazioni, o quelle di Robert Kurz, a proposito della fine della società del lavoro sono corrette, ma potremo saperlo solamente attraverso il lavoro che organizza sé stesso. Negli anni novanta, negli Stati Uniti, abbiamo assistito ad un promettente primo passo in questa direzione con il movimento contro il lavoro schiavista, l'anti-sweatshop movement, che fece conoscere le condizioni di lavoro nel Terzo Mondo. Per esempio, resero pubbliche le condizioni che regnavano in fabbriche situate in Indonesia o in Vietnam, le quali producevano scarpe sportive per la Nike. Il movimento evitò di cadere nelle dicotomie proprie della Guerra Fredda, come sarebbe avvenuto se avesse segnalato che le condizioni in Indonesia erano cattive ed avesse ignorato, o giustificato, quelle del Vietnam. Credo che si debba cercare di recuperare una forma di internazionalismo che si è perso a partire dalla prima guerra mondiale. Il supposto recupero dell'internazionalismo nella Terza Internazionale era ideologico: lì, l'internazionalismo significa porsi dalla parte di uno degli schieramenti, che è in realtà cosa ben diversa. Uno degli schieramenti finì per essere immune a qualsiasi critica, e la cosa ebbe effetti disastrosi per la politica e per il pensiero critico. Credo che oggi ci siano forme di anti-imperialismo che riprendano queste abitudini e che si sono convertite in ideologie per la legittimazione di regimi repressivi e movimenti reazionari. Queste forme di anti-imperialismo che diventano reazionarie sono una delle cose che dobbiamo combattere, e dobbiamo combatterle in nome di un internazionalismo progressista. E credo che dobbiamo combatterle nel quadro della capacità di ripensare il lavoro. Non credo che possiamo glorificare la miserabile condizione del precariato, e mi sembra che il modo per cui si cerca di creare nuove comunità non sia la soluzione. Però potrebbe dare una prima idea di come le cose potrebbero essere diverse. Non so come stiano le cose in Spagna, rispetto alle idee della controcultura, ma negli Stati Uniti, almeno negli anni sessanta, insieme al sorgere di una nuova sinistra apertamente politica, c'era anche gente che sperimentava nuove forme di vita. Ma, per la più parte, il loro immaginario consisteva in una forma di vita nuova separata dalla società: non era un modello per il resto della società, né voleva esserlo.

S.L: Credo che l'interessante di questo nuovo immaginario in Spagna sta nel fatto che è differente da quello che c'era nei Sessanta nei paesi cosiddetti industrializzati, come gli Stati Uniti. C'è una coscienza auto-riflessiva sui limiti del lavoro, e questo non perché la gente abbia letto diciamo il Manifesto contro il lavoro, o i tuoi testi, o quelli di Kurz, ma perché credo che la gente in Spagna, ad esempio, può ricorrere alle tradizioni anarchiche e ad altre forme di prassi politica. Oggi in Spagna ci sono comunità di scambio e di moneta alternativa - dozzine di valute alternative che funzionano in piccole comunità -, banche del tempo dove le persone disoccupate si riuniscono e danno inizio ad una banca delle ore, depositando ore del loro tempo. Cioè a dire, se tu coltivi verdure in un orto, io in cambio posso accudire tuo padre anziano, di modo che tutte le attività siano in condizione di uguaglianza nel processo di interscambio. Non si tratta di comuni private come quelle che ci sono in Germania o negli Stati Uniti, ma che funzionano realmente nel campo del sociale, a livello locale, in piccole cittadine. Si tratta di forme di immaginazione di un mondo senza denaro, un mondo senza lavoro, dovute alle condizioni per cui uno spagnolo su quattro è disoccupato e deve sopravvivere. Queste forme sperimentali di vita, sono oltre il lavoro?
M.P.: Sì. Personalmente, mi aspetto che qualcuno, oltre questi esperimenti, provi anche a pensare a delle opzioni praticabili su scala più ampia. Anche se il mondo rimane diviso in giganteschi blocchi globali, ciò senza dubbio costituisce una possibilità (nel caso che fossimo sull'orlo di una Terza Guerra mondiale), dobbiamo cercare di trovare forme nuove. I tuoi esempi rivelano come, a livello locale, la situazione appaia promettente. Ma il vero problema è come allacciare il locale al globale. Non lo dico come una critica, ma credo che sia una questione che dobbiamo tenere presente.

S.L.: Tornando nuovamente alla riflessione teorica, è passato un po' di tempo da quando il tuo "Tempo, lavoro e dominazione sociale" è stato pubblicato in inglese; in Spagna la lettura del tuo libro è cosa più recente. Hai avuto tempo di riflettere sul tuo contributo alla lettura di Marx dalla pubblicazione del tuo libro? Quali credi che siano le sfide teoriche per il futuro, quali sarebbero gli elementi chiave per ricostruire una teoria critica della società basata su questa nuova lettura di Marx?
M.P.: Qualcosa che credo stia già avvenendo, e che verrà accentuata in futuro, è che dobbiamo concentrarci di più sul capitale e meno di cercare di trovare il soggetto rivoluzionario. Il tentativo di individuare un soggetto rivoluzionario dapprima si è concentrato sulla classe lavoratrice e più tardi alcuni lo hanno trasferito alle forme diverse di terzomondismo. Credo che sarebbe importante lasciarci tutto alle spalle e cercare di recuperare un internazionalismo critico, invece delle forme ideologiche attuali di nazionalismo che si dichiarano internazionaliste. Questo nuovo internazionalismo deve cercare di affrontare il capitale globale in modo da riuscire a capire sobriamente lo sviluppo del capitale e le possibilità che questo genera (anche se il capitale inizia a perdere la possibile realizzazione di queste possibilità) invece di limitarsi a demonizzarlo. Credo che sia estremamente importante, poiché sebbene la sinistra sia molto sensibile alla xenofobia, ed è bene che sia così, è assai meno sensibile alle ideologie reazionarie di carattere anti-finanziario, anti-statunitense e antisemite. E queste tre ideologie sono in relazione fra di loro. Penso che siano forme feticiste di opposizione che alla fine indeboliscono la sinistra e la portano ad avvicinarsi a fondersi con movimenti che io considero reazionari. Dovremmo liberarci dalle nostre nozioni politiche inconsce, quali il socialismo in un solo paese, o di un post-colonialismo che si fa passare per internazionalismo, e recuperare una forma di internazionalismo reale che possa affrontare la fine della società del lavoro. Tutto questo è molto modesto da parte mia, perché quello che sto suggerendo è che la teoria ci offre assai bene delle direttive chiare circa quello che non dobbiamo fare, piuttosto che di quello che dobbiamo fare. Ma evitare di fare quello che non dobbiamo fare è già un passo importante in direzione della lotta per quello che dobbiamo fare.
pubblicata sulla rivista Constelaciones n°4. Madrid, dicembre 2012
 
FONTE: http://www.sinistrainrete.info/

sabato, dicembre 13, 2014

“Ciò che ti distrugge, non va riparato!”

Ciò che ti distrugge, non va riparato!


Pamphlet per la buona vita

a cura della redazione della rivista Streifzüge (tradotto dal tedesco da Massimo Maggini)

1.
Non si può costruire alcuna alternativa attraverso la politica. La politica non ci aiuta a realizzare le nostre possibilità e capacità: con essa tuteliamo solo gli interessi legati al nostro ruolo nell’ordine esistente. La politica è un programma borghese. Ogni sua mossa ed ogni sua azione è sempre in relazione allo Stato e al mercato. Essa modera la società, il suo medium è il denaro. Segue regole simili a quelle del mercato. Qui come là vi è, al centro, la pubblicità; qui come là ne va della valorizzazione e delle sue condizioni.
Il soggetto moderno ha completamente interiorizzato i vincoli di valore e denaro, non può nemmeno immaginarsi senza di essi. È veramente il “padrone” di se stesso, Signore e servo si incontrano qui nello stesso corpo. La democrazia non significa niente più che l’auto-controllo del ruolo sociale che ci è stato imposto. Dal momento in cui siamo sia contro il governo che contro il concetto di popolo, perché dovremmo essere proprio per il governo del popolo?
Essere per la democrazia, questo è il consenso totalitario, il credo collettivo del nostro tempo. È insieme appello e soluzione. La democrazia viene vista come il risultato finale della storia, che può essere solo migliorato, ma oltre il quale niente più si può dare. La democrazia è parte del regime del denaro e del valore, dello stato e della nazione, del capitale e del lavoro. La parola è vuota , tutto può essere introdotto ed evocato in questo feticcio.
Il sistema politico va sempre più verso lo sfascio. Non si tratta solo di una crisi dei partiti e dei politici, ma di una erosione della politica in tutti i suoi aspetti. Ma è proprio necessaria la politica? Per quale motivo, ma soprattutto a che scopo? Nessuna politica è possibile! Anti-politica significa che gli esseri umani lottano contro i ruoli sociali loro imposti.
2.
Capitale e lavoro non sono in alcun modo antagonisti, sono piuttosto un unico blocco di valorizzazione per l’accumulazione del capitale. Chi è contro il capitale, deve essere contro il lavoro. La professata religione del lavoro è uno scenario di autolesionismo e autodistruzione, nel quale ci troviamo catturati e intrappolati. Il disciplinamento al lavoro è stato ed è uno degli obiettivi dichiarati della modernizzazione occidentale.
Mentre la prigione del lavoro rovina, la fede in esso cresce e diventa fanatismo. È il lavoro che ci rende stupidi e malati. Le fabbriche, gli uffici, i grandi magazzini, i cantieri, le scuole, sono tutte istituzioni di distruzione. Le tracce del lavoro, le vediamo ogni giorno nei volti e corpi.
Il lavoro è la voce principale del consenso. È considerato come necessità naturale ma non è altro che allestimento capitalista dell’attività umana. Essere attivi è un’altra cosa, se non è fatto per i soldi e il mercato, ma come un dono, regalo, contributo, creazione per noi, per la vita individuale e collettiva degli individui liberamente associati.
Una parte significativa di tutti i prodotti e opere serve esclusivamente per la moltiplicazione del denaro, costringendo a tormenti non necessari, sprecando il nostro tempo e minacciando i fondamenti naturali della vita. Alcune tecnologie sono da intendersi solo come apocalittiche.
3.
Il denaro è il feticcio di noi tutti. Non c’è nessuno che non voglia averne. Non lo abbiamo mai deciso noi, ma così è. Il denaro è un imperativo sociale e in nessun modo uno strumento manipolabile. Come una forza che costringe costantemente a calcolare, a spendere, a riscuotere, a risparmiare, a indebitarci, a fare credito, ci umilia e ci domina ora per ora. Il denaro è un inquinante senza pari. La coazione a comprare e vendere è sempre il contrario di ogni liberazione e autodeterminazione. Il denaro ci rende concorrenti, se non nemici. Il denaro mangia la vita. Lo scambio è una forma barbarica di condivisione.
Non è solo assurdo che una miriade di professioni si occupino solo di esso, anche tutti gli altri lavoratori intellettuali e manuali sono in modo permanente impegnati a calcolare e speculare. Siamo macchinette automatiche per il calcolo. Il denaro ci taglia fuori dalle nostre possibilità, ci permette solo quello che è calcolabile secondo l’economia di mercato. Noi non vogliamo che il denaro stia a galla, ma che sparisca.
Merce e denaro non sono da espropriare, ma da superare. Esseri umani, case, mezzi di produzione, la natura e l’ambiente, in breve: niente deve essere una merce! Dobbiamo smettere di riprodurre le condizioni che ci rendono infelici .
Liberazione significa che gli esseri umani fanno pervenire liberamente gli uni agli altri i loro prodotti e i loro servizi. Che essi si relazionano direttamente gli uni agli altri e non si affrontano, come ora, in base ai loro ruoli e interessi sociali (come capitalisti, lavoratori, compratori, cittadini, persone giuridiche, inquilini, proprietari ecc.). Stiamo già ora vivendo momenti liberi dal denaro, come nell’amore, nell’amicizia, nella simpatia, nell’aiuto. Qui ci doniamo qualcosa, mettiamo insieme le nostre energie esistenziali e culturali, senza calcoli. Sentiamo che qui, in alcuni momenti, che non c’è alcun comando, alcuna “Matrix”.
4.
La critica è più che mera analisi radicale, essa desidera la sovversione delle condizioni date. La sua prospettiva cerca di immaginare come i rapporti umani possano divenire tali da non aver più bisogno della stessa critica, l’idea di una società in cui la vita individuale e collettiva possa e debba essere reinventata. La prospettiva senza critica è cieca, la critica senza prospettiva è impotente. “Trasformazione” è esperimento sul fondamento della critica nell’orizzonte della prospettiva. “Ripara ciò che ti distrugge!” non è la nostra formula.
Si tratta di niente di meno che dell’abolizione del dominio, è uguale se questo si manifesta in dipendenza personale o con vincoli strutturali. Non è accettabile che degli esseri umani siano sottoposti ad altri, oppure che siano abbandonati al loro destino o ad anonime strutture. L’auto-dominio, così come l’autocontrollo, non ci riguardano. Il dominio è più che capitalismo, ma il capitalismo è fino ad oggi il sistema di dominio più sviluppato, complesso e distruttivo. La nostra vita quotidiana ne è così condizionata, che riproduciamo capitalismo ogni giorno, ci comportiamo come se non ci fossero alternative.
Siamo bloccati, soldi e valore si attaccano al nostro cervello e intasano i nostri sentimenti. L’economia di mercato funziona come una grande “Matrix”. Negarla e superarla è il nostro obiettivo. Una vita buona e appagante presuppone la rottura con il capitale e il dominio. Non si dà alcuna trasformazione delle strutture sociali senza il cambiamento delle nostra basi mentali, e nessun cambiamento delle basi mentali senza il superamento delle strutture sociali.
5.
Noi non protestiamo, per ciò da cui siamo già fuori. Noi non vogliamo reinventare la democrazia e la politica. Noi non lottiamo per l’uguaglianza e la giustizia, e non ci affidiamo ad alcun libero arbitrio. Non vogliamo neanche puntare sullo stato sociale e sullo stato di diritto. E di certo non vogliamo andare in giro a spacciare valori. Alla domanda su quali siano i valori di cui noi abbiamo bisogno, è facile rispondere: nessuno!
Noi siamo per la totale svalorizzazione dei valori, per la rottura con il repertorio degli schiavi – generalmente denominati “cittadini”. Questo status è da respingere. Idealmente abbiamo già licenziato il rapporto di dominazione. La rivolta , che abbiamo in mente, rassomiglia ad un salto paradigmatico.
Dobbiamo uscire dalla gabbia della forma borghese. Politica e Stato, democrazia e diritto, nazione e popolo sono forme immanenti di dominazione. Per la trasformazione non ci sono categorie né partiti, nessun soggetto e nessun movimento.
6.
Si tratta della liberazione del tempo della nostra vita. Solo così è possibile più agio, più piacere, più felicità. Buona vita significa avere tempo. Abbiamo bisogno di più tempo per l’amore e l’amicizia, per i bambini, per riflettere o oziare, ma anche per occuparci intensamente ed in modo eccessivo di ciò che ci piace. Noi siamo per il dispiegamento a tutto tondo del godimento.
Vita liberata significa dormire più a lungo e meglio, e soprattutto anche dormire più spesso e più intensamente l’uno con l’altro. Nell’unica vita ne va della buona vita, l’esistenza deve avvicinarsi ai desideri, i bisogni sono da spingere indietro e il gradevole da ampliare. Il gioco e la gioia, in tutte le loro varianti, richiedono tempo e spazio. La vita deve cessare di essere la grande assente .
Non vogliamo essere quello che siamo costretti ad essere
***
pubblicato nel sito web di Streifzüge
http://www.streifzuege.org/2014/ci-che-ti-distrugge-non-va-riparato

martedì, novembre 04, 2014

A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz di François Bochet

 
Per Bordiga, nel socialismo il valore non esisterà più - così come non esisterà la moneta, il salariato, l'impresa, il mercato -, laddove c'è valore, come in Unione Sovietica, non ci può essere socialismo. Anselm Jappe - già autore di un "Guy Debord", apparso nel 2001 - ha scritto un libro ambizioso ed interessante, "Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore", Denoêl, 2003; dove fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato - un Marx che si interessa ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica al Programma di Gotha - ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell'Economia politica, dei Grundrisse, dell'Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe (pag.11) che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale - cosa innegabile - e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della ripartizione del denaro, della merce e del valore senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. - cosa che è insieme falsa e vera - e lui, Jappe, si propone di "ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso" (pagina 15). Rimprovera giustamente a Rubel di avere edulcorato il linguaggio hegeliano di Marx, nella sua edizione delle opere di quest'autore, e di avere chiamato opere "economiche" delle opere "anti-economiche" (molto tempo fa, Paul Mattick aveva fatto la stessa critica al "Trattato di economia marxista" di Ernest Mandel). Jappe afferma - insieme al collettivo tedesco riunito attorno alla rivista Krisis ed al suo principale teorico, Robert Kurz, cui egli è legato - la scomparsa del proletariato ; cosa che non gli viene perdonata dai teorici del proletariato rivoluzionario.
Ma - ed è questo il punto - egli cita come precursori del suo lavoro (a pagina 20), Lukacs e la sua "Storia e coscienza di classe", gli Studi sulla teoria del valore di I. Roubin, così come i lavori di Adorno, di Hans-Jurgen Krahl, di Lucio Colletti, di Rosdolsky, di Perlman e del trotskista J.-M. Vincent. Lungi da noi l'idea di negare l'importanza di tutti questi teorici - anche se associare dei teorici notevoli all'infelice Colletti, o anche a Vincent, ci pare curioso, una sorta di confusionismo, confusionismo interessato per parlare come l'Internazionale Situazionista - ma un'osservazione si impone immediatamente:
delle due l'una, o Anselm Jappe è un ignorante, ed ignora Amadeo Bordiga, Jacques Camatte ed i loro lavori (per non parlare di riviste come Le mouvement communiste, Négation o Théorie Communiste, all'inizio degli anni settanta del secolo scorso; Jappe cita la rivista  Socialisme ou Barbarie, la quale non ha mai sviluppato una critica del valore, non più dell'Internazionale Situazionista - al contrario di quel che pretende Jappe - che ha criticato, al seguito di Lukacs, solo la merce), cosa che facciamo fatica a credere, oppure allora è in mala fede - per non dire peggio - e vuole nascondere ai suoi lettori alcune opere per delle ragioni che possiamo facilmente immaginare. In ogni caso prende in giro tutti. Eliminando quei teorici, evidentemente diventa facile per Jappe sfilare, mostrando la nullità pretenziosa e crassa di un Pierre Bourdieu, della costellazione di Attac, o di un Antonio Negri. Aggiungiamo che se Bordiga ha sempre messo al primo posto, dopo la seconda guerra mondiale, nella sua definizione di comunismo, la soppressione del valore, del denaro, della merce e dello scambio, non è affatto la stessa cosa della corrente consiliarista - chiamata così per semplificare - della sinistra tedesco-olandese. (E qui almento Debord ed i situazionisti fecero opera salutare reclamando, seppure in modo molto ambiguo, la soppressione della merce; non parlarono però affatto di valore). Da qui lo scandalo e la sorpresa che, nel 1972, provoca il testo di Jean Barrot, alias Gilles Dauvé, "Contributo alla critica dell'ultra-sinistra. Leninismo e ultra-sinistra", e l'ostracismo di cui fu vittima il suo autore da parte di quegli ambienti consiliaristi che non potevano tollerare quella critica, e soprattutto il tentativo di Dauvé di integrare elementi della teoria di Bordiga, il quale era stato ridotto assai rapidamente, da quelle correnti consiliariste, ad un teorico ultra-leninista. Serge Bricianer, per esempio, uno dei rappresentati di quest'ambito consiliarista, curatore di un'antologia assai interessante di scritti di Pannekoek (Pannekoek ed i consigli operai), nella sua introduzione alla "Risposta a Lenin" di Gorter difende, così come faceva il GIK olandese, non già "l'abolizione del lavoro salariato e del denaro", ma "la messa in atto di modalità di ripartizione non più fissate arbitrariamente, e sulle quali i lavoratori non possono niente, ma che al contrario vengano determinate da essi e con l'aiuto di appropriati strumenti contabili". Il valore dunque sussiste, bello e buono, e si crede di comprendere che la sua soppressione darebbe luogo alla creazione di un regime come quello dei Khmer Rossi in Cambogia.
Jappe ha il merito di ricordare l'opera di Alfred Sohn-Rethel, il cui libro "Lavoro intellettuale e lavoro manuale" è apparso a Francoforte nel 1970, per il quale le forme di pensiero astratto sono, per semplificare, dei prodotti della forma valore (o, più esattamente, c'è una corrispondenza fra le due cose), e dunque le categorie del pensiero occidentale non sono né universali né a-storiche (cosa che già aveva cominciato ad affermare Lukacs, in Storia e coscienza di classe), solo il valore e lo scambio (che non sono possibili se non attraverso un enorme processo di astrazione, per cui bisogna prima fare astrazione delle qualità per poi poter comparare due oggetti a priori totalmente differenti, e quindi quantificarli per trovare una misura comune) possono a loro volta consentire l'astrazione, ma allora si pongono ulteriori problemi che Sohn-Rethel non ha affrontato (senza contare che 1. per lui l'alienazione proviene dallo scambio di merci, la produzione rimane neutra, e che 2. la separazione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale non ha, nella definizione di capitale, quel posto centrale accordatogli da Sohn-Rethel): si potrebbe conquistare l'astrazione (senza cui ogni riflessione appare impossibile) senza passare per la deviazione del valore, si può trovare un modo di vita ed una rappresentazione, una volta abolita la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che impedisca all'astrazione di rendersi autonoma e di ritorcersi contro la vita? Come abbiamo detto, Lukacs aveva affrontato questo problema in Storia e coscienza di classe - Lukacs, dopo la sua rottura con lo stalinismo, continuerà ad affermare che il valore è ancora in vigore sotto il socialismo, in particolare in uno dei suoi ultimi scritti, "Il processo di democratizzazione" - e Adorno riprenderà tale intuizione, allora che si lega a Sohn-Rethel. E' certo che il valore ed il capitale sono delle forme a priori del pensiero umano nelle quali siamo ingabbiati, in quanto specie e in quanto individualità, più terribilmente che nelle caverne di Platone, da delle forme che ci hanno modellato, degli schermi che ci impediscono di prendere contatto con la realtà naturale, intermediari obbligati e deformanti, comunità terapeutiche contro-natura e dispotiche.
Per finire, diremo che Jappe - così come fa l'antologia di Marx realizzata da Robert Kurz (Leggere Marx, 2002) - allontana la questione dell'accettazione da parte di Marx dei principi fondamentali della "erranza", la quale si esaspera, ma non comincia col capitalismo e la rivoluzione industriale: l'esigenza dello sviluppo infinito delle forze produttive, la volontà di dominare la natura, di separarsene, la scienza, l'abbandonarsi al divenire e la distruzione dei limiti, ecc.. Se si vuol fare un bilancio dell'opera di Marx, la quale ha un'immensa importanza in ogni caso, bisogna affrontarla nella sua totalità, non certo ridurla, ma nemmeno occultare le sue dimensioni mondane (nel senso di "facente parte di quel mondo"), non inventarsi un Marx fantasmatico che non è mai esistito.
Nel "Manifesto contro il lavoro", il gruppo Krisis - Robert Kurz, Ernst Lohoff et Norbert Trenkle ed altri - intende riprendere la critica laddove, dicono, l'Internazionale Situazionista l'aveva lasciata - cosa questa che limita fortemente la loro teorizzazione. Per loro, e noi lo condividiamo, non c'è più una classe emancipatrice, la lotta di classe non permette di uscire dal capitalismo, è solo una lotta all'interno del capitale, della quale il proletariato è una componente fra le altre. Ma gli autori parlano ancora, se non di rivoluzione, quanto meno di emancipazione sociale e lanciano degli appelli ai proletari (per esempio alla fine del libro). Allora? Criticano il lavoro, ma ci preoccupa la loro rivendicazione di un'estensione massiccia del tempo libero, rivendicazione aberrante - parola d'ordine pubblicitaria dell'industria dell'intrattenimento - perché non si tratta più di rivendicare il lavoro o il non-lavoro ma di considerare l'attività in maniera del tutto differente; così come ci preoccupa lo slogan inquietante "Prendiamoci quello di cui abbiamo bisogno!" (pag.95), e poi, che cosa può significare quell'appello ad "organizzare il legame sociale stesso" e a trovare delle "nuove forme di movimento sociale" (pag.106)?!
Ne "Il fantasma della teoria" (apparso sulla rivista di Jean-Marc Mandosio, "Nouvelles de nulle part" n°4, settembre 2003), Jaime Semprun, a sua volta, fa qualche osservazione critica al libro di Anselm Jappe. Comincia col domandarsi, anche lui, se una teoria rivoluzionaria sia ancora possibile, e critica Lukacs - anche lui - per avere scritto in "Storia e coscienza di classe" che solo il proletariato poteva accedere alla conoscenza ed alla totalità, identificando in questo modo coscienza di classe e partito leninista. Ma che Lukacs avesse fatto quest'identificazione, era solo un fatto secondario, la follia risiede assai più fondamentalmente nella sua teologia proletaria e rivoluzionaria (il proletariato come messia soggetto-oggetto della storia). Fondamentalmente, anche Semprun rimprovera a Jappe di non rimettere in causa lo sviluppo industriale, scientifico e tecnologico, di restare fedele all'escatologia marxista fondata sullo sviluppo delle forze produttive e sulla credenza mistica nel sorgere miracoloso di una società altra a partire dalla "lunga agonia della società delle merci", dalla devastazione rivoluzionaria in atto. Un emergere che lo stesso Jappe non osa più chiamare veramente rivoluzione. Come il gruppo Krisis (vedi a pag.39 della stessa rivista, le "Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis" dello stesso Semprun), Jappe parla effettivamente di produzione senza evocare la natura di quello che viene prodotto - e l'importante non è solo come si produce ma anche ciò che si produce - parla come se ci fosse ancora, anche se ammette la scomparsa del proletariato, un'umanità che non sarebbe stata desustanzializzata, che non sarebbe imprigionata in queste categorie a priori che ha pur tuttavia messo in evidenza.
In breve, come dice Semprun in altri termini, Jappe non sembra comprendere il carattere catastrofico della situazione attuale e l'urgenza di un cambiamento di prospettiva totale e radicale. Scrive Semprun: "Quando la nave cola a picco, non è più tempo di dissertare sapientemente sulla teoria della navigazione: bisogna imparare velocemente a costruire una zattera", così raccomanda di coltivare l'orto e afferma che "un buon manuale di orticoltura (...) sarebbe senza dubbio più utile, per attraversare i cataclismi che arrivano, piuttosto che degli scritti teorici nei quali si persiste a speculare imperturbabilmente, come se stessimo bene all'asciutto, sul perché e sul come del naufragio della società industriale".
Noi siamo del tutto convinti circa l'utilità di coltivare il proprio orto - cosa che va di pari passo con la fuga dalle città, non sempre facile, con il rifiuto della dipendenza, con la terapeutica, con l'inizio della riconquista della salute, dell'habitat, ecc. - e dunque di un buon manuale (citiamo, ad esempio, "La Guida del giardino biologico" di Jean-Paul Thorez), ma non pensiamo affatto - malgrado la presenza dei cataclismi - che lo studio teorico sia inutile, al contrario è più che mai indispensabile; dobbiamo fare soprattutto il bilancio dell'attività teorica e pratica dei rivoluzionari, e studiare il loro contributo alla costruzione del terribile mondo nel quale siamo imprigionati e dove difficilmente riusciamo a trovare l'aria per respirare. 

martedì, ottobre 07, 2014

Robert Kurz Il Medio Oriente e la sindrome dell’antisemitismo


(Cap. IV del libro LA GUERRA PER L’ORDINE MONDIALE, Robert Kurz, Gennaio 2003)



Nel processo di barbarie e di autodistruzione del sistema mondiale dominante esiste un punto focale in cui si aggrovigliano in modo speciale la globalizzazione distruttiva capitalista, la storia e la costituzione ideologica del mondo moderno nei suoi limiti sistemici storici – è il Medio Oriente, con Israele e il cosiddetto conflitto della Palestina al centro. A prima vista sembra trattarsi del campo più importante dell’imperialismo occidentale del petrolio. Il che è certo, mettendo in conto il grezzo interesse della cultura della combustione capitalista. Ma questo conflitto non è circoscritto affatto a questo aspetto; al contrario, esso include anche un’altra dimensione essenziale, completamente differente, che è la logica dell’antisemitismo quale ideologia centrale della crisi capitalista, e la relativa costituzione dello Stato di Israele, Stato che per questa ragione non è uno Stato come gli altri.

La religione della combustione capitalista e i regimi del petrolio

Tuttavia, il quadro sarebbe incompleto e fuorviante se ignorassimo totalmente lo sfondo degli interessi dell’imperialismo occidentale del petrolio. Come il Medio Oriente, per motivi naturali e geografici dovuti alla localizzazione dei giacimenti, è e continua a essere la fonte principale di combustibile per la macchina mondiale capitalista, è qui che si deve concentrare l’intervento dell’"imperialista globale ideale" quale polizia mondiale. Questo è un aspetto non trascurabile della definizione culturalista del nemico applicata all’Islam; poiché è proprio insieme alle sorgenti sacre della religione della combustione capitalista, dove il fine in sé irrazionale della “valorizzazione del valore”, per così dire, si materializza in termini energetici, che i prodotti islamici dell’imbarbarimento indotto dalla globalizzazione vengono inevitabilmente percepiti come particolarmente “inquietanti” e pericolosi (molto di più, per esempio, che in Pakistan o in Indonesia).

Come in ogni altro aspetto, l’”imperialismo globale ideale”, anche e soprattutto su questo terreno specifico della globalizzazione e d’intervento di un’auto-proclamata polizia mondiale, si avvolge in contraddizioni inestricabili che lasciano intravedere, dietro il pragmatismo della razionalità dell’obiettivo, il delirio oggettivato nel sistema e nei suoi protagonisti.

Si tratta innanzitutto del posizionamento di fronte al mondo arabo e musulmano. Un’aperta dittatura occidentale su tutta l’area principale dell’estrazione del petrolio consisterebbe in uno stato d’emergenza difficilmente sostenibile in forma duratura e avrebbe con ogni probabilità ripercussioni catastrofiche sul fragile edificio-Babele costituito dal capitale finanziario transnazionale. Perciò, la polizia mondiale dell’imperialismo globale deve prodigarsi in ogni sforzo, secondo un criterio ben  tradizionale, per attrarre alla sua sfera di influenza i regimi autoctoni della regione, allo scopo di utilizzarli come sotto-sovrani legittimi, “porta-aerei” e sceriffi militari ausiliari.

Nel calderone bollente di uno spazio in cui vivono centinaia di milioni di individui, i quali sempre più sono tutti gli anni socialmente schiacciati sotto le ruote della Juggernaut della globalizzazione capitalistica, tale strategia di sorveglianza mondiale non può finire non dando pessimi risultati. La ricchezza del petrolio, che per il suo statuto speciale nella struttura del sistema mondiale è un oggetto speculativo materializzato a un livello di prezzi soggetti a imprevedibili oscillazioni, ha un carattere estremamente propizio all’esclusione: la maggioranza oppressa degli arabi è spinta a un livello di povertà e di miseria, mentre la minuscola classe superiore della ricchezza dell’energia di crisi si presenta come un’eccezione oscena perfino nel terzo mondo. I “progetti di sviluppo” della politica economica interna dei diversi regimi petroliferi arabi, specialmente nelle regioni del Golfo che contano da tempo i maggiori livelli di estrazione di riserve, malgrado la loro immensa forza di capitale, perlopiù non vanno oltre le dichiarazioni e la cosmetica, poiché la maggior parte dei “petroldollari” è stata e viene orientata senza indugio verso i mercati finanziari transnazionali, invece di essere applicata agli investimenti reali, costituendo un segmento di “capitale fittizio” nella sovrastruttura speculativa della terza rivoluzione industriale.

Visti nel loro insieme, i regimi petroliferi del Medio Oriente, inclusi i paesi arabi e l’Iran, si suddividono in due forme differenti ancora oggi visibili, anche se in forma mitigata, e che risalgono a punti di partenza diametralmente opposti. Da un lato abbiamo i vecchi regimi della modernizzazione in ritardo, con progetti di industrializzazione falliti senza eccezione ma che un tempo furono portati avanti in tutta serietà, i quali presentano una costituzione repubblicana e un dittatoriale “culto del leader”, di cui Saddam Hussein e Gheddafi sono esempi. Dall’altro lato abbiamo monarchie formalmente arcaiche, che costituiscono regimi di terrore clerico-feudale e che sembrano uscite da una versione hollywoodiana delle “secoli bui” o dalla fantasia adolescenziale di un Karl May. Se i regimi repubblicani e dittatoriali della modernizzazione, come in Egitto, in Iraq, in Algeria etc, sono stati di regola laici, le monarchie (tutte sunnite), i sultanati, gli emirati etc, con le loro bizzarre linee di prìncipi hanno costituito fin dall’inizio “teocrazie” sintetiche, con una legittimazione islamista arci-reazionaria, la cui espressione religiosa non risale in alcun modo all’Islam premoderno, ma al contrario risulta dal suo inserimento assurdo e intrinsecamente contraddittorio nella modernità e nel mercato globale capitalisti.

Ciò è particolarmente vero per il regime del deserto saudita che nella sua forma statale attuale sorse appena nel XX° secolo. La dinastia saudita deriva dal movimento sunnita Wahhabita, fondato nel XVIII° secolo dal leader della setta Abd-al-Wahhab e alla quale aderì lo sceicco del deserto Ibn Saud. I Wahhabiti si impegnarono fin dal principio nel “ritorno” reazionario a una fantasmagorica “forma originale” dell’Islam, concepita come interpretazione rudemente letterale delle scritture e associata ad aspetti esteriori rituali estremamente rigidi, un dominio dei carnefici fortemente rigido e un’oppressione esacerbata delle donne. Nella forma della monarchia saudita, questa delirante costruzione religiosa – una versione musulmana precoce delle sette quasi politiche e religiose che oggi si espandono su scala globale come movimenti di massa nell’ambito del processo di disgregazione postmoderno – ha assunto la forma esteriore di uno Stato moderno, sostenuto dalla ricchezza del petrolio mediata dal capitalismo.

Una posizione intermedia tra i regimi della modernizzazione laici falliti e le teocrazie monarchiche e reazionarie, che dall’inizio costituirono solo forme di nicchia politico-religiose e allo stesso tempo un segmento del tutto dipendente dal capitalismo finanziario globale, è quella del regime dell’islamismo sciita in Iran, sorto dalla deposizione violenta della monarchia dello Scià (1979): qui si intersecano tentativi di modernizzazione, in forma di progetti industriali, con una teocrazia retrograda, così come un regime formalmente repubblicano con una costituzione quasi religiosa, il che ha impedito (a parte la consacrazione più religiosa che politica della figura di Khomeini) la formazione di un culto del leader come nel caso delle dittature laiche.

Ora, nel processo di crisi della globalizzazione, anche in Medio Oriente i tentativi indipendenti di modernizzazione sono finiti  completamente nella rovina e nella devastazione, tanto che in tutti i regimi della regione è iniziato un processo di inselvatichimento e riconversione. Gli ultimi dittatori-dinosauri dell’industrializzazione fallita, che allo stesso tempo ora si vedono impossibilitati a oscillare tra le superpotenze come durante la guerra fredda, diventano imprevedibili e si prestano ad avventure fantasmagoriche, come per esempio Saddam Hussein; sotto le facciate caduche delle forme dello Stato, come nel resto del mondo, si va stabilendo il dominio dei clan e delle bande armate; e l’ideologia sociale si va spostando sempre di più verso la forma della follia pseudo-religiosa militante.

In questo contesto, la religione, collocata nella base della produzione di merci capitalista e del mercato mondiale, non può tornare a costituire la riproduzione della società come nelle società agrarie premoderne, né può sostituirsi alla politica moderna; piuttosto si converte, in Medio Oriente in una forma più estrema che altrove, in un’ideologia di crisi distruttiva e assassina che, lungi dal superare l’insostenibile regime delle relazioni capitaliste della concorrenza, lo intensifica in forme e dimensioni spettrali, dando espressione alla pulsione di morte della ragione moderna nel momento del suo fallimento globale. Dal momento che il Medio Oriente costituisce per molti aspetti un fuoco di contraddizioni del capitalismo mondiale attuale, allora è lì che la manifesta pulsione di morte assume proporzioni sociali particolarmente drastiche. In questo senso tutti i paesi mussulmani del Medio Oriente, anche quelli che finora sono stati laici, scivolano verso un processo di decomposizione islamista e si caricano di idee di odio pseudo-religiose.

E’ eloquente il fatto che l’imperialismo del petrolio e securitario di tutto l’Occidente sotto l’egida degli Stati Uniti ha, fin dal principio, tentato di cimentare il suo dominio su questo spazio eminentemente strategico appoggiandosi in prima linea alle teocrazie monarchiche reazionarie. Riguardo la scelta dei sotto-rappresentanti autoctoni, non si è certo data preferenza ai regimi laici della modernizzazione, che a prima vista erano molto più prossimi allo stile di via occidentale, ma piuttosto ai regimi dell’incubo politico-clericale della monarchia saudita, dei sultanati, degli emirati e dei regni della tortura, perfettamente disfunzionali quanto alla modernizzazione; e questo è accaduto non malgrado, ma proprio perché nella loro essenza si presentano come particolarmente sinistri e, allo stesso tempo, assolutamente incapaci di un’indipendenza sia economica che militare. E non è stato in alcun modo per caso che, d’altro lato, Stati come l’Iraq, la Libia e la repubblica sciita dell’Iran sono stati dichiarati “Stati canaglia”, anche se è provato che in questi paesi, per esempio, ancora oggi la posizione della donna è relativamente migliore che nelle monarchie teocratiche reazionarie.

L’"imperialismo globale ideale" ha scelto per "potenze amiche" della regione petrolifera centrale, con una mira infallibile, i regimi della follia e del terrore più instabili e più assurdi, come fossero usciti da fiabe sanguinarie. In forma indiretta e inconfessata, si tratta di una duplice confessione: in primo luogo, del fatto che la pretesa occidentale di domino è nella sua essenza essa stessa maligna e irrazionale; e, in secondo luogo, che lo “sviluppo” e la “modernizzazione” in realtà non sono mai stati previsti per la regione più importante dell’estrazione del petrolio, contrariamente all’ideologia ufficiale. Sono stati necessari patti diabolici con i peggiori e più reazionari mostri feudali, caratterizzati dal fanatismo islamico e dal regno del terrore di una “Charia” interpretata in modo arcaico, per coprire le spalle al vile e pseudo-razionale materialismo degli interessi della cultura della combustione capitalista nella regione petrolifera centrale. Quanti più paesi l’Occidente definisce come “Stati canaglia”, più i suoi stessi amici e aiutanti nelle regioni della crisi assomigliano a cattivi hollywoodiani o a figure partorite dall’immaginazione di Hieronymus Bosch.

La nemesi di questa specie di mostri con legittimazione imperiale non si è fatta attendere. Nelle fratture e sotto l’impatto della globalizzazione, che hanno destabilizzato o spazzato via le basi economiche e sociali di tutti i regimi del Medio Oriente, i regimi clerico-feudali amici dell’Occidente costituiscono precisamente il seno da dove germinano i demoni dell’islamismo “anti-occidentale”, senza alcuna prospettiva di vita emancipatoria. A somiglianza di quel che accade in tutto il mondo e al suo interno, qui sono soprattutto le stesse creature dell’”imperialismo globale ideale” che, di fronte alla nuova qualità dei processi di decomposizione sociale, fuggono dai loro laboratori politico-strategici per errare con particolare intensità attraverso l’impero del petrolio, come “fattori perturbatori” che spargono un terrore cieco.

Non è certo un caso che proprio la versione Wahhabita dell’Islam, un credo settario particolarmente primitivo e brutale che allo stesso tempo costituisce la religione di Stato del regno saudita, è diventato il terreno da dove è nato gran parte del sottomondo del terrorismo islamico e delle sue varie correnti. I principi del terrore, guidati dal famigerato Osama bin Laden, i loro ideologi e collaboratori più vicini, sono al 90% discendenti degli stessi clan clerico-feudali a cui l’Occidente si appoggia, così adeguando alle migliori figure dell’orrore la propria pretesa di dominio imperiale. Nel decorrere della crisi economico-sociale però, che sempre più sfugge a qualsiasi controllo, i demoni della propria creazione rapidamente diventano molto più imprevedibili e pericolosi dei dinosauri dei regimi della modernizzazione fallita. L’Occidente, come le società segrete del terrore, Wahhabiti e affini, riceve non solo quel che si merita, ma anche ciò che esso stesso ha alimentato ed educato.

L’antimperialismo e l’ideologia di crisi antisemita

Dal momento che i regimi petroliferi, nel modo del tutto anacronistico clerico-feudale quanto allo stesso tempo del capitalismo finanziario, hanno sempre costituito un sostegno comunque troppo pericolante, c’è voluta una seconda e differente potenza ordinatrice nella regione petrolifera centrale; e non è un segreto che lo Stato di Israele, come prezzo amaro della sua esistenza, sebbene in grande misura non senza contraddizioni, debba esercitare questa funzione di manganello dell’”imperialismo globale ideale” occidentale puntato contro i luogotenenti insicuri dei regimi arabi, minacciati nei loro paesi dai risentimenti anti-occidentali. E’ solo per questo che Israele è stata protetta dagli Stati Uniti e ha ricevuto quantità generose di armi ad alta tecnologia e appoggio materiale massiccio dagli Stati occidentali. Di per sé, Israele da sola ancora oggi non sarebbe economicamente sostenibile, o in ogni caso non sarebbe al livello di vita attuale che, con i suoi elevati standard in stile occidentale (benché con le stesse disparità interne tra ricchi e poveri che nel frattempo si diffondono in Occidente) si distacca in maniera spiccata dai paesi arabi circostanti.

Questi fatti economici e politico-militari sono stati e continuano a essere portati come argomenti, spesso sconsideratamente, contro Israele, con sintomi di un’aggressività furiosa a partire dalle posizioni tradizionali della sinistra “antimperialista”; un’identificazione del nemico che si radica nel contesto del paradigma, da tempo fallito, della “liberazione nazionale”, quale forma di modernizzazione in ritardo nella periferia sud del mercato mondiale. Fino a oggi, in tutto il terzo mondo Israele è stato tenuto in conto come boia dell’imperialismo e come “Stato illegale” che in fondo nemmeno dovrebbe esistere. Gli interessi propri difesi da Israele in questo contesto sono percepiti come una mera pretesa sub-imperiale o quasi coloniale; il nazionalismo di Israele e il suo espansionismo attraverso i movimenti dei coloni e la conquista militare sono considerati quasi l’incarnazione del nazionalismo puro e duro, mentre la definizione etnico-religiosa dello Stato di Israele (inclusa la discriminazione ufficiale e giuridica dei cittadini non-ebrei) è considerata come l’incarnazione del peggior razzismo.

La contro-superpotenza sovietica, che aggregava i ritardatari storici della periferia del mercato mondiale, munita di un’ideologia di legittimazione “marxista”, si è sempre sforzata di forgiare un’alleanza con i regimi arabi laici della modernizzazione e ha costruito, sotto la sigla del  "sionismo", un’immagine del nemico anti-israeliano che rifletteva specularmente l’alleanza di Israele con il capitalismo e l’imperialismo occidentale  – "Israele è stata, durante la guerra fredda, un alleato militare stimato (degli Usa), le sue forze armate ne testavano i sistemi di armamento e i suoi servizi segreti erano disponibili per operazioni di cui la CIA non riusciva a venire a capo" (Birnbaum 2002). Nell’epoca della guerra fredda, gran parte della sinistra politica mondiale si adattò a questa immagine del nemico sotto la parola d’ordine dell’"antisionismo". Israele fu interamente sussunta alla costellazione del conflitto allora prevalente dei movimenti antimperialisti “rivoluzionari nazionali” del terzo mondo contro l’impero occidentale della pax americana. Il prezzo che Israele deve pagare all’imperialismo per la sua esistenza è stato convertito in argomento “antimperialista” contro la sua stessa esistenza.

Ciò ha fatto si che rimanessero offuscati un aspetto completamente differente e una dimensione molto più essenziale dello sviluppo del capitalismo mondiale, che l’antimperialismo tradizionale, con la sua prospettiva riduttiva, non ha potuto neanche  percepire. Ciò che sfuggiva a questo modo di vedere il mondo era il ruolo decisivo dell’antisemitismo nel contesto della costituzione ideologica borghese e, di conseguenza, un piano di contraddizione centrale dell’imperialismo stesso. Sebbene la sinistra avesse sempre segnalato Auschwitz e l’olocausto come un grande crimine paradigmatico dei nazisti, essa ha sempre minimizzato il ruolo dell’antisemitismo e non lo ha mai voluto comprendere come elemento essenziale o costituente del nazional-socialismo in particolare e del capitalismo in generale.

Questa mancanza specifica di concetti e di comprensione, d’altra parte, si spiega in ultima istanza con il deficit generale patito dalle sinistre marxiste, dal movimento operaio e antimperialista, tanto nel centro come nella periferia, e che consiste nel permanere circoscritte alle categorie sociali della relazione del capitale (del moderno sistema produttore di merci): ossia, proprio questa opzione per un’equiparazione, partecipazione e co-governo giuridico-politici della “classe operaia” e delle sue istituzioni come cittadini dello Stato, da un lato; e l’opzione per la cosiddetta modernizzazione in ritardo e partecipazione indipendente al mercato mondiale come soggetto economico nazionale e stato-nazionale, dall’altro. Sotto questa prospettiva, nella quale un limite e una crisi oggettive delle categorie sociali capitaliste sembravano impensabili (tanto ai socialisti quanto ai leninisti), l’attenzione doveva concentrarsi sui contenuti e gli orizzonti dell’interesse socio-economico e politico apparentemente razionale delle elaborazioni ideologiche. In altre parole: l’ideologia era associata al contenuto dell’interesse dei soggetti del sistema produttore di merci – la “classe operaia” contro la “classe capitalista”, la “liberazione nazionale” contro l’”imperialismo”.

L’antisemitismo moderno è stato quindi, nella migliore delle ipotesi, interpretato come una specie di manovra di diversione ideologica secondaria della “classe dominante”, o come ideologia dell’interesse concorrenziale specifico della “piccola borghesia”, che avrebbe avuto lo scopo di distrarre la “classe operaia” o i “popoli oppressi” dai loro reali interessi (teoria della manipolazione). Quel che rimaneva completamente fuori era la dimensione ideologica della connessione della forma sociale, che va oltre le classi e le nazioni ed è oggettivata in termini storici nel lavoro astratto, nel valore, nella forma merce, nel denaro, nella produzione in regime economico imprenditoriale, nel mercato (mondiale) e nello Stato. Piuttosto, questa connessione della forma si presentava, sia in termini teorici che in termini pratici, come fondamento ontologico insormontabile di ogni vita sociale.

Così veniva ignorato che cercando di superare il moderno sistema produttore di merci, smascherando e rivestendo in questa modo “interessi” apparentemente e superficialmente divergenti, accade che dalle contraddizioni e dalle crisi della costituzione formale moderna comune, cioè inclusiva di tutte le categorie sociali, sorgono anche creazioni ideologiche comuni, trasversali alle classi, che sono molto più essenziali e pericolose della trasparente e superficiale legittimazione degli “interessi” costituiti nel capitalismo dalle varie classi, ceti e funzionari. Tutti le “visioni del mondo”, i modelli di spiegazione e le idee guida dell’azione non suscettibili di deduzione nell’ambito della sociologia delle classi, furono così fraintesi e disprezzati come mero inganno e manovre di diversione.

Così, la sinistra del movimento operaio e marxista, così come ancor di più la sinistra radicale (e non di meno la sinistra anarchica), nemmeno si resero conto che avevano esse stesse interiorizzato positivamente parti essenziali dell’ideologia borghese, come “eredità” della storia ideologica e intellettuale protestante e illuminista nella formazione del sistema produttore di merci. Tra cui in particolare la canonizzazione dell’astrazione “lavoro” che, con il suo carattere di fine in sé repressivo, era passato direttamente dalle idee del protestantesimo e del cosiddetto illuminismo del XVIII° secolo all’ideologia del movimento operaio. Nell’invocare precisamente il “lavoro” come punto di riferimento centrale presumibilmente opposto al capitale, la sinistra non fece altro che giocare uno stadio di aggregazione del capitale contro l’altro. In questo modo, il “lavoro” non si presentava come quello che di fatto è, ossia, la forma di attività specificatamente capitalistica (il “lavoro astratto” in Marx), pertanto un concetto interamente appartenente al capitale e una relazione reale corrispondente, ma come una categoria ontologica dell’umanità.

Da questa comunanza ideologica centrale con il capitale, definito come avversario in modo meramente superficiale e ideologicamente troncato, dovevano per forza nascere, da un lato, altre caratteristiche in comune inconfessate, così come, d’altro lato, la totale sottostima delle ideologie di crisi e di distruzione che sono il razzismo e l’antisemitismo. Una volta che il movimento operaio occidentale, i regimi della modernizzazione in ritardo dell’est e i “movimenti di liberazione nazionale” del sud si limitarono ad agire entro l’ambito delle forme sociali comuni, affermando con il “lavoro” la forma di attività capitalista, furono capaci solo di formulare una critica troncata della relazione del capitale, arretrata rispetto alla concezione di Marx del capitale come una relazione di feticcio irrazionale. In parte ci si lamentava solo della mancanza di capacità di regolazione statale del sistema produttore di merci a causa della sua rappresentanza borghese, in parte si criticava la subordinazione del “lavoro produttivo” al “capitale finanziario”, senza capire il legame intrinseco, mediato (e sempre più in crisi) tra il “lavoro produttivo” e il “capitale finanziario” (capitale monetario che rende interessi e speculativo).

Notoriamente, questa critica del capitalismo ha sempre presentato punti di contatto con l’ideologia antisemita. Poiché l’antisemitismo poté ascendere allo statuto di una pericolosa ideologia di crisi della modernità proprio per il fatto di esteriorizzare e naturalizzare in termini socio-biologisti le contraddizioni interne della società costituita in forma capitalista e di tutti i suoi soggetti: "gli ebrei" divennero la rappresentazione negativa del capitalismo finanziario “improduttivo” e l’incarnazione di tutte le manifestazioni distruttive della moderna società produttrice di merci, intrecciandosi con le attribuzioni originarie di questo genere già dell’Età Media e dei primordi della modernità (come fu il caso, per esempio, delle invettive di un Martin Lutero). A cui si doveva contrapporre, come polo opposto e positivo, il “lavoro onesto” e il “capitale produttivo”; nel caso dei nazisti, ciò accadde, com’è noto, nella forma della contrapposizione del capitale "rapace" ("ebraico") al capitale "creatore" ("tedesco" o "nazionale"). In luogo della critica delle forme reali, trasversali alle classi, del sistema produttore di merci, sorge così la colpevolizzazione maliziosa imputata a un gruppo specifico di soggetti, definito per la “razza”, secondo il motto: il “lavoro”, il valore, il denaro e la forma del capitale sarebbero una meraviglia e una benedizione se non fosse per gli ebrei. Questa attribuzione, che fingeva di “spiegare” la relazione sistemica,  già di per sé irrazionale, con il ricorso a una dimensione addizionale di irrazionalità, ascese a statuto di spiegazione del mondo ideologicamente assassina per eccellenza.

E’ vero che l’ideologia del movimento operaio e dei “movimenti di liberazione nazionale” anticoloniali prese sempre le distanze dalle correnti apertamente antisemite invocando, invece della fantasmatica “opposizione tra razze”, l’opposizione sociale tra le classi e l’opposizione nazionale di interessi tra economie o Stati nazionali, coloniali o post-coloniali e l’imperialismo occidentale.

Tuttavia, in primo luogo, anche questa “ideologia della liberazione” sociale, apparentemente più razionale, si limita, in modo somigliante all’antisemitismo, al piano soggettivo delle mere relazioni di volontà e di potere, senza affiorare al piano della costituzione di questi soggetti (ossia, il modo in cui questi sono stati formati dalle categorie del sistema produttore di merci). Non è stata la negatività della relazione formale comune, cioè, della forma-soggetto dell’individuo stesso, ciò che divenne il bersaglio della critica, ma solo il “potere” negativo di “soggetti contrari”: nel caso degli antisemiti, era il potere putativo e il male della “contro-razza ebraica”; nel caso dei “movimenti di liberazione nazionale”, il potere soggettivo e il potere di ingerenza globale delle potenze imperiali centrali.

Dal momento che paradossi come l’antisemitismo rimanevano sullo stesso piano logico di una soggettività della volontà "stabilita" solo per definizione e non derivata dalla relazione della forma sociale, piano, questo, risultato di una critica del capitalismo troncata simile (sebbene non identica), il movimento operaio, il “movimento di liberazione nazionale” e la sinistra radicale non giungevano a percepire i loro punti di contatto impliciti con l’antisemitismo. Stesso discorso, e a maggiore ragione, per  l’ontologizzazione e l’adorazione del “lavoro produttivo”, che ugualmente condividevano con gli antisemiti.

Così però, e in secondo luogo, doveva rimanere incompresa anche la pericolosità trasversale alle classi dell’ideologia antisemita. La riduzione all’orizzonte sociologico delle classi d’interesse costituito nel capitalismo e l’ontologia sovrastorica del “lavoro”, diedero adito all’illusione che la “classe operaia” e i “popoli oppressi”, a causa dei loro interessi imposti dal capitalismo e della loro ontologia esistenziale, già fossero “in sé” (indipendentemente dalla loro coscienza reale) forze trascendenti, la cui potenza presumibilmente sostitutrice del sistema necessitava di essere canalizzata attraverso le “lotte” sociali. La forma della concorrenza, inerente alla loro forma costituita di soggetto, parve essere solo un comportamento imposto da fuori, dal “contro-potere” soggettivo, “non autentico”, in fondo alieno; stando così le cose, anche l’antisemitismo figurava essere un’ideologia “estranea alla classe”, semplicemente imposta per errore o manipolazione.

Doveva passare completamente al lato di questo pensiero che l’emancipazione sociale dalla relazione del capitale, benché fosse possibile di principio, in nessun modo si incontra prefigurata “in sé” dalla posizione “oggettiva” di determinate classi o di altri soggetti moderni nella struttura del sistema produttore di merci; si tratta qui di un’illusione oggettivista che lo stesso Marx aveva formulato, in contrasto con la sua stessa teoria critica della modernità quale relazione di feticcio sociale. Al contrario, tutti i soggetti di questo sistema e senza eccezione, vale a dire la stessa “classe operaia” e gli stessi “popoli oppressi” etc si trovano, a causa della loro forma costituita dal sistema (forma di riproduzione e del soggetto), ben lungi dal passaggio verso l’emancipazione da questa forma sociale negativa. La formazione di una coscienza radicalmente critica contro questa forma (coscienza, questa, a cui la sinistra radicale fino a oggi non si è avvicinata, e ancor meno i movimenti sociali) è possibile; ma unicamente dalla trasformazione delle esperienze negative di sofferenza e vergogna in seno a questa forma, e non grazie a una qualche base ontologica positiva. Non esiste nessuna determinazione ontologica presumibilmente “fuori” o “sotto” il sistema (per esempio nella forma del lavoro) che possa servire da leva obiettiva per rovesciare la relazione sociale repressiva e distruttiva.

Perciò, le “lotte” sociali e altre non sono di per sé emancipatrici, né le stesse “lotte” della classe operaia, dei gruppi e delle minoranze oppresse etc. Al contrario, la “lotta”, sotto la forma della concorrenza, è la forma generale del movimento del sistema capitalista. Lo stesso vale per le diverse forme di continuazione della concorrenza con altri mezzi, particolarmente la violenza immediata.

Andare al di là della forma della concorrenza, cioè andare al di là della propria forma-soggetto esige, come una volta si espresse Marx, una “coscienza enorme”, cosa che in nessun modo è vicina allo stato delle cose. Piuttosto, ciò che si sviluppa spontaneamente è la concorrenza fino alle ultime conseguenze nell’ambito della forma costituita comune del soggetto. In questo contesto, la concorrenza tra lavoratori salariati e entità rappresentanti del capitale (amministrazione, associazioni imprenditoriali etc) costituisce soltanto un livello delle molteplici dimensioni di sviluppo della concorrenza. Qui si inquadra evidentemente la stessa concorrenza tra i vari capitali, tra i vari rami, tra le fazioni e i raggruppamenti dei lavoratori salariati, tra le economie e gli Stati nazionali etc, ma anche le connotazioni “etniche” e razziste delle relazioni della concorrenza e, infine (come reazione estrema), la trascendenza apparente dell’antisemitismo.

Proprio questa connessione di una rete complessa di multiple linee della concorrenza non ha in alcun modo una base soggettiva e manipolatrice, ma piuttosto una base obiettiva nella forma generale del soggetto del sistema produttore di merci, attraverso il lavoro, il denaro e lo Stato, mentre la rottura emancipatoria della “gabbia di ferro” di questa forma non può avere una base oggettiva nel senso di una determinazione del comportamento. Prendendo come presupposto il sistema produttore di merci e la sua forma di attuazione astratta e irrazionale come definizione ontologica insormontabile, può benissimo essere l’interesse “obiettivo” dei lavoratori salariati a fornire alla concorrenza una connotazione nazionalista, razzista etc o il voler sottrarsi fantasmaticamente a questa ricorrendo a un’ideologia antisemita.

Va da sé che anche nella storia del movimento operaio è esistito qualcosa come un disegno trascendente di liberazione dal gioco della concorrenza, disegno di una società solidale oltre il sistema moderno. Tuttavia, questi momenti stravaganti dovevano rimanere senza risposta, proprio perché i movimenti sociali della modernità non arrivarono a raggiungere un concetto di questa trascendenza, né perciò ad agire conseguentemente.

La critica limitata del capitalismo all’ambito delle forme dello stesso capitale s’impantanò inevitabilmente nelle forme di sviluppo della concorrenza. Il massacro reciproco dei lavoratori salariati nelle due guerre mondiali non fu perciò un tradimento né un comportamento contrario alla loro natura ontologica, ma piuttosto la conseguenza della loro stessa forma-soggetto, affermata invece che criticata. Né i partiti politici operai né i sindacati (già solo questa divisione in una rappresentazione politica e in un’altra sociale rimanda alla forma della costituzione borghese del movimento operaio) riuscirono mai a sviluppare una forza solidale che andasse oltre le relazioni della concorrenza. Il superamento della concorrenza rimaneva parziale e limitato al motivo dell’eguaglianza borghese, mentre l’inserimento nelle relazioni della concorrenza continuava ad essere universale.

Così come già nella lotta quotidiana degli interessi, regolamentata in forma istituzionale, i movimenti sociali erano immersi nella logica della concorrenza, lo stesso accadde nell’esplosione di violenza delle guerre mondiali tra potenze imperiali nazionali. In questo quadro, il rischio sociale della concorrenza universale divenne immediatamente manifesto come rischio di morte, e con esso divenne evidente la conseguenza ultima della forma-soggetto generale della modernità. Lo stesso si può dire riguardo al potere dell’antisemitismo e alla sconfitta del movimento operaio europeo di fronte al fascismo e al nazional-socialismo. Anche questa catastrofe è stata una conseguenza del coinvolgimento nel sistema della concorrenza internazionale. Esiste perfino una relazione diretta tra la continuazione della concorrenza delle guerre mondiali e l’emergere dell’antisemitismo in tutte le classi e ceti sociali.

I sindacati, i partiti marxisti e la stessa sinistra radicale furono concepiti solo per risolvere il conflitto di interessi, presumibilmente “razionale”, nell’involucro formale del sistema produttore di merci. Anche l’intensificazione militante della lotta non lasciò mai lo spazio della razionalità borghese. La sinistra si chiuse al carattere irrazionale in sé del sistema e perciò nelle crisi si rendeva regolarmente vulnerabile all’eruzione poderosa di questa irrazionalità. Mentre la sinistra, anche nel mezzo delle crisi più gravi, continuava a voler mantenere un piede nell’”interesse razionale” ormai non più realizzabile in forma borghese malgrado il crollo temporaneo di questa forma, l’antisemitismo affermava la propria irrazionalità dell’interesse come volontà di esclusione e annichilimento, e quindi otteneva un potente effetto sociale.

L’antisemitismo non è (contrariamente al razzismo comune) una figura della concorrenza tra le altre, ma piuttosto l’ultima ratio della concorrenza nella situazione in cui la risoluzione immanente e apparentemente razionale della concorrenza smette di essere sostenibile. In tale situazione, la stessa forma del soggetto borghese generale rischia di rompersi. L’antisemitismo promette una via d’uscita senza porre in questione questa forma del soggetto comune del sistema, esteriorizzando il problema in una forma irrazionale e assassina. E’ così che, nonostante e proprio a causa del suo carattere intellettualmente elementare, può esercitare un’attrazione trasversale alle classi su una gran massa di individui costituiti dal capitalismo, dal disoccupato al direttore, dall’agricoltore senza terra del terzo mondo al principe del petrolio, dal fabbro meccanico al banchiere investitore, dalla madre solitaria all’indossatore, dallo studente dell’istituto professionale all’intellettuale di formazione accademica.

In altre parole: la sindrome antisemita costituisce l’ultima ed estrema riserva ideologica di crisi del sistema produttore di merci moderno. L’antisemitismo è in agguato nella forma stessa del soggetto borghese generale; esso è invocato regolarmente quando la crisi erompe, e lo è in un modo tanto più massiccio quanto più violentemente si manifesta la crisi. Così, l’epoca delle due guerre mondiali e della grande crisi economica mondiale fu accompagnata da un’ondata di antisemitismo senza precedenti. In Germania, che nella storia specifica della sua costituzione capitalista come nazione aveva incubato una versione particolarmente aggressiva ed eliminatoria della sindrome antisemita, con un particolare effetto di profondità sociale, questa ondata sommerse le stesse istituzioni dello Stato; qui, l’antisemitismo, nella situazione della crisi mondiale, non solo fu impiegato come valvola di sfogo per l’aggressività sociale accumulata dalle relazioni della concorrenza, ma fu elevato a dottrina dello Stato e realizzato nella forma del crimine contro l’umanità dell’olocausto.

Non fu in alcun modo per caso che il nazional-socialismo tedesco rappresentò una formazione sociale in cui la pulsione di morte della forma vuota della soggettività capitalista si manifestò in una dimensione fin allora mai vista. Questo perché la logica dell’antisemitismo e la pulsione di morte e di annichilimento della soggettività capitalista sono strettamente vicine l’una all’altra; il latente e irrazionale disegno di distruzione del mondo nel vuoto metafisico del valore e del suo movimento di valorizzazione come fine in sé si esprime nell’acutizzazione estrema come disegno di annichilimento diretto contro gli ebrei e contemporaneamente come disegno di auto-annichilimento, come disegno di distruzione di qualsiasi esistenza fisica in generale. 

In termini puramente esteriori, militari e di potere politico, i nazisti persero la seconda guerra mondiale; ma nel senso più ampio di realizzazione del disegno di annichilimento del mondo che si annida nel cuore del capitale, essi ebbero un enorme successo nell’identificazione tra l’annichilimento industriale degli ebrei e l’auto-annichilimento organizzato. La sinistra, aggrappata alla superficiale razionalità borghese, e che non poteva avvicinarsi alla critica delle forme fondamentali del capitalismo, e quindi neanche alla critica né all’abbandono della sua stessa forma-soggetto costituita in modo capitalista, dovette così necessariamente passare al lato del vuoto di questa forma e del potenziale demoniaco della pura irrazionalità che gli è inerente, così come delle sue conseguenze distruttive, e così anche al lato dell’essenza dell’antisemitismo moderno.

Il rovescio di questa catastrofica insufficienza è stato, dopo la seconda guerra mondiale, l’altrettanto carente e spensierato antisionismo della sinistra, che non volle riconoscere la dimensione dello Stato ebraico quale conseguenza dell’antisemitismo moderno nella storia mondiale e nel capitalismo mondiale, ma che sussume Israele al paradigma antimperialista dei movimenti rivoluzionari nazionali del terzo mondo, la cui critica del capitalismo era molto più pesantemente riduttiva di quella del movimento operaio occidentale.

Lo Stato di Israele e il suo statuto paradossale nel mondo capitalista

Certamente anche allo Stato di Israele, che evidentemente è parte integrante dell’economia mondiale capitalista, può essere attribuita la forma dello Stato moderno e del sistema produttore di merci moderno con tutti i suoi attributi negativi. Ma, a causa del suo carattere singolare, poiché consiste in ultima istanza un prodotto involontario dei nazisti e della logica di annichilimento della soggettività capitalista nella sua intensificazione finale, questo Stato è il primo, l’ultimo e l’unico a contenere un momento decisivo di giustificazione che è mancato fin dall’inizio a tutti gli Stati rivoluzionari nazionali del terzo mondo (i quali, in fin dei conti, cominciarono molto rapidamente tutti ad assumere una brutta faccia). Si tratta di uno Stato capitalista che si, è espressione della forma-soggetto capitalista, ma che allo stesso tempo e in un modo paradossalmente articolato rappresenta l’estrema necessità e l’ultima legittima difesa contro questa stessa forma-soggetto.

Ed evidentemente,  in linea di principio, può valere contro il sionismo – che era, dopo tutto, al livello di idee, un prodotto della formazione nazionalista europea del XIX° secolo e dell’inizio del XX° secolo – lo stesso tipo di critica di quella contro il nazionalismo moderno in generale; tuttavia questa critica è possibile solo se ignoriamo il contesto specifico della sua genesi e lo analizziamo in modo perfettamente astratto ed isolato, come poco più di un nazionalismo al pari di tanti altri. Ora, il sionismo non stava sullo stesso piano dei restanti nazionalismi. Al contrario, era eminentemente un prodotto secondario dell’esperienza della grande sofferenza ebraica, con particolare rilievo riguardo l’esclusione sentita in Germania e in Austria, determinata dal fatto che le nazioni europee non possedevano né la volontà né la capacità di integrare gli ebrei, ma piuttosto necessitavano dell’antisemitismo come costruzione dell’”altro” (dell’alterità), per poter autodefinirsi come identità nazionale positiva.

Questa definizione dell’alterità assunse anche altre espressioni, come il razzismo coloniale e la delimitazione culturalista delle nazioni europee tra di loro; ma l’antisemitismo costituì la sua espressione più estrema. Così, ciò che vale per lo Stato ebraico in quanto Stato, vale anche per il nazionalismo sionista in quanto nazionalismo: in quanto legittima difesa contro lo stesso nazionalismo europeo primordiale e la forma nella quale questo definì l’alterità, esso può essere solo ciò che è, in un’articolazione paradossale con la sua stessa negazione.

Lo stesso vale per le componenti socialiste del sionismo, componenti queste che rimasero insufficienti dal momento che non trascesero decisivamente il moderno sistema produttore di merci. Evidentemente, queste permasero ugualmente troncate e integrate nel sistema di riferimento dello Stato-nazione, così come la critica del capitalismo del movimento operaio occidentale (le cui idee ed elementi socialisti furono in effetti presi in prestito) e, ancora di più, la critica dei movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo. In collaborazione con l’apparato dello Stato e con il pathos nazionale, il socialismo sionista, così come i partiti operai del resto del mondo, dovette approssimarsi a questa tendenza di regolamentazione sociale che accompagnava la costituzione delle nazionalità europee e che, dalla fine del XIX° secolo fino alla seconda guerra mondiale, determinò la storia generale dei centri capitalistici; così accadde, per esempio, durante lo Stato sociale di Bismarck e la successiva partecipazione della socialdemocrazia al governo, e in generale nella formazione delle burocrazie del lavoro e sociali, del welfare state etc  – sviluppo questo che, com’è noto, caratterizzò, nella forma della regolazione fordista, il fascismo e il nazismo. E’ tuttavia un perfido travisamento recriminare specialmente al sionismo la sua quota-parte specifica in uno sviluppo strutturale generale e inclusivo, associando allo stesso tempo il momento socialista troncato al socialismo nazionale degli assassini nazisti.

Tutto questo comincia ad aver senso se visto in una prospettiva rovesciata. Per quanto riguarda la qualità socialista del sionismo (o meglio: del cosiddetto sionismo laburista) se ne può constatare, in termini empirici, un aspetto emancipatorio particolare: sotto la forma del kibbutz, questo momento in Israele finì per non assumere una forma capitalista di Stato e repressiva come in ogni altro luogo, ma assunse una forma cooperativa e di autogestione che in nessun altro luogo riuscì ad acquisire un significato simile. Evidentemente, anche questa forma ancora permaneva legata al sistema produttore di merci; tuttavia, nell’aspirazione a una relazione interna che fuggisse alla forma merce, nei suoi aspetti di riproduzione al di là del denaro e dello Stato, conteneva un elemento trascendente, per quanto associato a un’ideologia comunitaria per molti aspetti gretta.

Così, tutto quello che si può dire contro il nazionalismo in generale si applica solo al sionismo in modo condizionale e paradossalmente articolato come il suo contrario. Malgrado le sue relazioni quasi coloniali e la situazione nella regione mondiale del Medioriente, Israele non è essenzialmente un progetto coloniale, come tante volte è stata considerata dal discorso rivoluzionario nazionale dei movimenti terzomondisti, esso stesso da molto tempo fallito; piuttosto è, soprattutto, un progetto di emergenza e di salvezza di fronte alla sindrome antisemita associata alla moderna forma-soggetto.

E’ per questo che da un punto di vista emancipatorio non si può instaurare il processo a Israele per il fatto che nella realtà deve tanto la sua fondazione quanto la sua esistenza e la sua sicurezza militare all’imperialismo del petrolio occidentale. Esattamente al contrario, c’è da constatare quanto sia vergognoso e deprimente che il diritto all’esistenza di Israele non abbia altra garanzia che questa infamia; vergogna inevitabilmente per la sinistra del mondo intero, la quale non è mai stata capace di concedere a questo diritto all’esistenza una garanzia migliore, o anche solo un appoggio, considerato che si è sempre sottratta al porre il riconoscimento di questo diritto all’esistenza come una questione di principio. La critica troncata, superficiale del capitalismo, agendo in modo irriflessivo all’interno della forma-soggetto e dell’interesse capitalista, formulata dal movimento operaio, dai movimenti di liberazione nazionale e dal radicalismo di sinistra fino ad oggi, ha costituito essa stessa una condizione storica per cui Israele non aveva altra scelta per raggiungere il suo diritto dell’esistenza che appoggiarsi all’imperialismo del petrolio occidentale.

Tuttavia, proprio una garanzia di questo tipo è estremamente contraddittoria e per questo insicura. L’”imperialismo globale ideale” dell’occidente non appoggia l’esistenza di Israele sulla base di una coscienza del vero legame tra l’antisemitismo e il sionismo, cosa che del resto gli è perfettamente indifferente. Di più: una volta che l’antisemitismo costituisce allo stesso tempo l’ultima riserva ideologica del sistema, la motivazione dell’imperialismo del petrolio, da un lato, e la tolleranza della sindrome antisemita o perfino il suo scatenamento per la “gestione della crisi”, dall’altro, entrano in una contraddizione che non può essere mediata.

In una situazione globale esacerbata non è di certo impensabile (benché attualmente nulla miri a questo) che l’”imperialismo globale ideale” lasci cadere Israele e apra la valvola dell’antisemitismo in considerazione delle sue contraddizioni interne. Del resto, nella misura in cui l’attenzione occidentale si volge verso le riserve del Mar Caspio, anche il piano dell’interesse volgare minaccia di far cadere la precaria garanzia del diritto all’esistenza di Israele. Un’altra variante di abbandono di Israele potrebbe consistere nel fatto che l’Occidente, nel caso di una crisi petrolifera che minacciasse il capitalismo mondiale nella sua esistenza (per esempio per una destabilizzazione grave che provocasse il rovesciamento delle monarchie del petrolio), getterebbe Israele in pasto ai mostri feudali arabi del capitale allo scopo di salvare la sua economia mondiale.

La fine dei “movimenti di liberazione nazionale” e il fantasma della fondazione dello Stato palestinese

La critica di sinistra e antimperialista del sionismo (il concetto di critica è in questo contesto fuori luogo; si tratta semmai di un odio che cuoce a fuoco lento, spesso nutrendosi anche dell’intuizione del carattere dubbio delle proprie ragioni) deve così passare completamente al largo della vera natura del problema. Tutto quello che i cosiddetti movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale del terzo mondo sono stati in grado di presentare come argomenti contro il sionismo, si applicava in primo luogo a essi stessi in forma potenziata; e, in secondo luogo, gli mancava completamente questa dimensione più profonda di giustificazione che per il sionismo decorreva necessariamente dal potenziale antisemita del capitalismo mondiale, in special modo del crimine tedesco contro l’umanità. La legittimazione -  del resto ormai da molto tempo dimostratasi illusoria – di una partecipazione come economia nazionale e come Stato-nazione quale soggetto nel mercato mondiale non è stata solo molto più debole di quella invocata per il sionismo, ma sin dall’inizio e in tutte le aree del terzo mondo (indipendentemente dal colore ideologico) si è andata associando a situazioni di costrizione repressiva dall’aspetto tipico del capitalismo di Stato e ad estremi profondamente anti-emancipatori come il culto del “leader”.

Dopo che il paradigma della "liberazione nazionale" antimperialista è rimasto senza sostegno a causa delle condizioni della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione, e dopo che gli stessi regimi, o movimenti corrispondenti, sono da tempo scivolati verso processi barbarici di decomposizione, anche il relativo discorso di sinistra e marxista ha perso la sua ragion d’essere, oppure ha assunto tratti apertamente antisemiti in relazione al sionismo e alla critica del capitalismo, ed è rifuggito invece dalle intenzioni emancipatorie originarie: sviluppo questo che, comunque, era latente nella concezione categoriale troncata e negativamente immanente del pensiero antimperialista e socialista e che adesso, nel momento della sua caduta, si rende manifesto.

La fine ingloriosa del paradigma della rivoluzione nazionale antimperialista nell’era della globalizzazione è caratterizzata da molteplici manifestazioni di squallore morale e imbarbarimento dei regimi sviluppisti crollati nel mercato mondiale, dalla trasformazione dei leader rimanenti di una guerriglia che un tempo rivendicava ideali di sinistra in volgari signori della guerra dell’economia del saccheggio, baroni della droga, sequestratori in cerca di riscatti etc. In quei paesi in cui l’aspirazione alla costituzione di uno Stato basato in una rivoluzione nazionale è rimasta incompiuta, ma malgrado tutto è mantenuta, benché lo sviluppo del capitalismo mondiale l’abbia ormai da tempo superata, l’inselvatichimento e l’abbrutimento di questa pretesa assurda assume forme particolarmente drastiche e orribili. 

Ciò si applica in maniera del tutto indipendente dalle caratteristiche specifiche nazionali e dalle differenze culturali, sia nel caso del movimento dei curdi che dei ribelli ceceni, o dei separatisti tamil, solo per citare alcuni esempi. Questo non può giustificare né la repressione barbara da parte dei grandi Stati dal passato imperiale come la Turchia e la Russia, essi stessi perfettamente resi instabili dal mercato mondiale, o da un regime etnico come quello dei cingalesi in Sri Lanka, né gli interventi non meno barbari della nuova polizia dell’imperialismo globale. Ma nelle condizioni globali modificate, i "movimenti di liberazione nazionale" non costituiscono più un'alternativa, nemmeno illusoria, il che significa che ormai nessuna "modernizzazione" può essere portatrice di pretese emancipanti, dal momento che la base del moderno sistema produttore di merci e dello Stato-nazione da esso generato non ha più sviluppo possibile, restando solo la disintegrazione sociale e la barbarie.

Questa situazione storica modificata in nessuno dei non realizzati progetti rivoluzionari nazionali restanti della vecchia epoca si rende tanto evidente come nel caso palestinese, che si trova paradossalmente legato a Israele in un’intimità ostile. Se gli Stati realmente fondati sulla scia dei movimenti tricontinentali (Asia, Africa, America Latina; n.d.t.), e che un tempo erano carichi di ideali borghesi e illuministi più che comunisti, sono intanto falliti sul mercato mondiale e nella loro stessa costituzione e forma del soggetto borghese, il progetto palestinese diventato irreale, al di là di questo orizzonte di realizzazione, assume tratti orrendi. Si tratta di un progetto zombie di un’epoca defunta a cui non rimane nessun momento emancipatorio e che ormai inquieta il mondo come un sosia maligno.

La pietrificazione dell’OLP, incarnata da Yasser Arafat quale figura tragica di un non-morto storico, risale intanto al carattere da sempre negativo delle presunte emancipanti costituzioni statali della modernizzazione in ritardo. Dopo che questa illusione è definitivamente svanita nel decorso della globalizzazione capitalista, si rivela anche che il “diritto a uno Stato proprio” o il “diritto di fondare uno Stato” rappresenta l’esatto opposto della liberazione nazionale. Sotto le condizioni dell’inizio del XXI° secolo, questa parola d’ordine può manifestarsi solo come il “diritto” a capitolare in forma “autonoma” di fronte alle leggi della logica della valorizzazione capitalista globale, e di “potere” eseguire per propria mano il processo di degrado sociale. Con la stessa logica si può reclamare il "diritto a un curatore fallimentare proprio" o il "diritto a un torturatore proprio" della stessa carne e sangue etnici.

In questa misura, la visione dello Stato dell’OLP costituisce realmente uno degli ultimi fortini dell’ideologia borghese dell’Illuminismo, che si mostra fino al riconoscimento del suo contenuto profondamente repressivo e distruttivo. Quello che manca ai palestinesi non è uno “Stato proprio”, ma piuttosto l’accesso autonomo alle risorse materiali, sociali e culturali che oggi sono oggetto di restrizioni tanto rigide quanto insensate imposte dalla forma “Stato”, proprio in nome del terrore economico globalizzato. L’insistenza nell’opzione dello Stato-nazione già da tempo obsoleta, che nel caso degli abitanti della Palestina è una costruzione ideologica tardiva di un rivestimento istituzionale e culturale del sistema produttore di merci e pertanto il più trasparente in termini storici, assume tratti profondamente patologici.

Lo Stato-fantasma palestinese è di conseguenza il primo che, già prima della sua fondazione ufficiale, è entrato in un processo di decomposizione e putrefazione. La costituzione di uno Stato e la sua decomposizione coincidono qui immediatamente, il che costituisce un paradosso storico. Ancor prima che possa svilupparsi un apparato statale completo, con una propria legittimazione e una propria storia, prendono il suo posto strutture di clan, signori della guerra e strutture mafiose.

Contemporaneamente lo Stato secolare palestinese è schiacciato dall’islamizzazione pseudo-religiosa ancor prima della sua fondazione. Come residuo degli impulsi verso una modernizzazione laica, l’OLP frena una lotta persa in anticipo. I movimenti islamisti di Hamas e della Jihad cominciano a sostituirla e, ora che l’OLP si vede costretta a fare concessioni a entrambe, il suo progetto di fondazione di uno Stato va sempre più perdendo la legittimazione stabilita nella politica della modernizzazione.

Quel che resta è l’irrazionalità pura dell’odio cieco senza alcuna prospettiva politico-sociale. La costruzione ideologica moderna del “popolo” formata sulla base di criteri etnico-politici trova nella versione palestinese la sua orrenda decostruzione reale: nel rifugiarsi nell’universalismo astratto della guerra religiosa e nel mandare i propri figli alle “accademie del suicidio”, questo “popolo” costruito ammette coi fatti che ormai non ha alcuna speranza nel futuro, che ormai ha smesso di costituire un “popolo di Stato” per convertirsi in una massa amorfa di disperati senza obiettivo.

Questa versione palestinese di una società postmoderna al collasso, e che ormai nemmeno è una società, è anche permeata dalle strutture della violenza maschile senza freni e dall’”inselvatichimento del patriarcato”. Da un lato, non smette di costituire il cumulo dell’individualizzazione postmoderna delle “opportunità”, tanto che l’uno o l’altro adolescente palestinese ormai spreca la sua vita non vissuta come kamikaze (ed è il cumulo di inselvatichimento del patriarcato che è stato addestrato a questo da uomini barbuti). Ma, ancora, l’identità palestinese distruttiva e auto-distruttiva non smette di essere essenzialmente quella della soggettività concorrenziale di sesso maschile.

In questo clima di assoluta caduta di obiettivi e di futuro, nell’impossibilità di pensare oltre la costituzione di una nazione, l’antisemitismo che da tempo anima l’odio palestinese (trattati nazisti di ogni specie circolano nel “sistema educativo” palestinese così come l’ineffabile pamphlet della falsificazione dei cosiddetti “Protocollo dei Savi di Sion” etc) è di natura differente dall’antisemitismo europeo e tedesco. Nel processo di costituzione nazionale, che soprattutto nel caso della Germania degli inizi del XIX° secolo, in ritardo storicamente, fu accompagnata da un’ideologia etnico-culturalista e biologista che risale a Herder e Fichte, l’antisemitismo (eliminatorio in Germania e in Austria) costituì il fermento di questa formazione “etnica” dello Stato-nazione, rappresentando l’ebreo come alterità negativa.

Tuttavia, nella versione palestinese questo fermento non può più avere effetto, neanche con una connotazione culturale differente, perché il parto statale della costruzione nazionale palestinese nell’epoca della globalizzazione e del capitalismo di crisi potrebbe solo dare origine a un nato morto. La formazione “etnica” sta già cadendo a pezzi nei suoi prodotti di decomposizione post-nazionali (in questo caso islamici) prima di potersi affermare a livello istituzionale. L’antisemitismo nella sua versione attuale arabo-palestinese ormai non contiene alcuna forza di formazione sociale, trasformandosi quindi direttamente, molto più apertamente che nel caso dei nazisti, nel momento della pulsione di morte di una soggettività capitalista completamente disorientata; per questa ragione si manifesta immediatamente come ossessione degli attentati suicidi.

La distruzione fisica dell’infrastruttura palestinese, già scarsa, a causa della guerra condotta da Sharon, potrà contribuire alla creazione di leggende di una “lotta eroica”; tuttavia, non sono stati necessari i crimini di guerra dell’esercito israeliano e dell’odiosa politica israeliana di frammentazione in relazione al territorio potenzialmente palestinese per rovinare completamente lo Stato della Palestina ancor prima della sua fondazione. Ormai da sé, uno Stato palestinese, con le sue proprie forze (si legga: capacità di partecipazione al mercato mondiale, ormai nient’altro conta) è ancor meno capace di sopravvivere di quello israeliano, anche a un livello medio arabo di povertà. In assenza di possibilità di sviluppo reali, l’apparato dell’OLP sin dall’inizio si è visto ridotto al rango di un destinatario delle elemosine dalla lega araba (com’è ovvio soprattutto dai principi del petrolio), dall’Unione Europea, dagli Usa etc (approssimativamente in quest’ordine) e come tale, facendo fede di innumerevoli testimonianze, è totalmente marcito nella corruzione. Prima dell’ultimo capitolo dell’Intifada, le sparatorie e gli omicidi su commissione tra gruppi rivali erano ormai talmente quotidiani come in qualsiasi altra regione in disgregazione. I “regolamenti di conti” interni palestinesi eseguiti dai propri prodotti di imbarbarimento poco o nulla si devono alla repressione israeliana, e solo la politica di guerra di Sharon li ha fatti passare temporaneamente in secondo piano.

Il fatto che non solo gli stessi palestinesi ma anche l’Unione Europea, gli Stati Uniti e l’”imperialismo globale ideale” dell’Occidente, e perfino in parte la politica israeliana, abbiano insistito nell’opzione del tutto obsoleta della fondazione di uno Stato palestinese dimostra solo il grado di disorientamento e allontanamento dalla realtà a cui è giunto il “realismo” ufficiale. Nessuno vuole accettare come vero che le vecchie formule dell’emancipazione, dello “sviluppo”, della democrazia etc sono del tutto svalutate e invalidate. Mentre non sorge un movimento di opposizione sociale qualitativamente nuovo, radicalmente anticapitalista e, nella sua propria auto-comprensione, transnazionale e post-statale, la fatalità dei processi di dissoluzione e di autodistruzione può solo seguire il suo percorso; e in Palestina in un modo letteralmente suicida e senza prospettive più che in qualsiasi altro luogo. Gli enunciati spaventosamente  isolati e senza concetti dei pochi rappresentanti rimasti dell’intelligenza critica nello spazio palestinese e arabo in nulla potranno alterare questa realtà, dato che sono solo espressione del fatto che fino ad ora neanche l’afflizione estrema ha spinto a incoraggiare il pensiero a liberarsi dai paradigmi obsoleti di un’epoca transitata.

Israele come "alieno" nel mondo capitalista e il neo-antisemitismo arabo

Israele non costituisce di certo un’eccezione di questa diagnosi amara. Ciò è tanto più tragico perché Israele non è esattamente uno Stato tra gli Stati e un concorrente dello Stato palestinese virtuale, ma è soprattutto un paradigma di riferimento per il mondo intero contro l’antisemitismo inseparabilmente legato alle forme capitaliste di riproduzione e , nonostante il suo coinvolgimento nella struttura imperiale occidentale, è allo stesso tempo un potenziale di resistenza contro l’ultima riserva ideologica di crisi del capitale mondiale. La semplice esistenza di Israele costituisce una specie di garanzia che la marcia del sistema produttore di merci ancora non può finire nella barbarie; non perché lo Stato di Israele sia immanente a una qualità metafisica in sé speciale, ma proprio al contrario, perché l’esistenza reale di Israele è inconciliabile con le ultime conseguenze della metafisica reale capitalista.

In questo senso il significato (involontario) di Israele rispetto alla crisi mondiale capitalista merita un’analisi molto più dettagliata di quella per esempio della società palestinese o di qualsiasi altra società in crisi nella periferia; perché nel caso dello sviluppo israeliano, sebbene si tratti di un processo di crisi analogo, questo è caricato di un significato addizionale che influenza in forma diretta il destino del mondo intero.

Tuttavia, Israele può sopravvivere solo per quello che è, nella sua esistenza statale moderna,  intanto che non ha coscienza dell’essenza di questa esistenza nell’ambito della storia mondiale. Il paradosso di questa esistenza trova la sua base nell’esistenza capitalista degli ebrei in generale. In un modo tanto irriflessivo come tutti gli altri individui nel quotidiano (o, nel campo del pensiero concettuale, in un modo tanto troncato come tutti i teorici moderni), anche loro, nella loro falsa immediatezza, non vogliono null’altro che “lavorare”, “guadagnare denaro”, “essere scienziati” etc ed acquisire in qualsiasi modo un’identità capitalista normale. Tuttavia, l’antisemitismo profondamente radicato nella modernità non lo permette. Quanto più normali vogliono essere gli individui ebrei, più crudelmente sono contrariati dalla definizione aliena che li tratta come un cumulo di alterità. La loro pura volontà di normalità si scontra con la pura anormalità o mostruosità della relazione del capitale.

Il conformismo ebraico, anche nella sua forma di Stato membro dell’ipocrita “comunità delle nazioni” (cioè: la comunità concorrenziale e assassina dei mostri nazionali e statali), si vede sempre più confrontato con il problema, malgrado ogni sforzo di adattamento, anche sovradeterminato, di essere allo stesso tempo definito a priori come un “alieno”. Questa rappresentazione dell’ebreo come mostro, rappresentando diabolicamente l’autocontraddizione lacerante della soggettività capitalista, ve ben oltre le relazioni concorrenziali, rivalità e razzismi “normali” e anche oltre l’”esotizzazione” culturale colonialista.

In tutte queste relazioni negative e definizioni di alterità, comunque, l’umanità formata nel capitalismo si riconosce attraverso tutti i conflitti nella sua umanità borghese e negativa. L’antisemitismo, però, è l’altro della stessa concorrenza: essa stabilisce una stranezza assoluta che altro non è se non l’auto-alienazione sociale dell’essere produttore di merci, che come soggetto metafisico della forma vuota del valore non è di questo mondo senza smettere di stare in questo mondo; ed essa proietta questa auto-alienazione assoluta nella figura dell’ebreo, come l’assolutamente altro e l’inconciliabilmente strano, ossia, come colui che non può essere mediato o pacificato politicamente.

Lo stesso vale anche per lo Stato di Israele in quanto Stato. Per cui gli israeliani possono essere un popolo di Stato e uno Stato tra gli Stati solo se allo stesso tempo rappresentano per tutti gli altri l’assolutamente altro come negatività astratta, piaccia o meno. Questa situazione è stata spiegata e con tutto l’acume del caso da autori ebrei, tanto dentro come fuori Israele, com’è il caso di Nathan Glaser nel  1975: "La maggior parte del tempo, gli ebrei hanno voluto essere come tutti gli altri. La fondazione dello Stato di Israele è stata ironicamente frutto dello sforzo per far si che gli ebrei potessero essere uguali a tutti gli altri: da ora in avanti avrebbero avuto uno Stato e così avrebbero smesso di essere uno strano popolo senza patria per essere un popolo come tutti gli altri. Ma non è questo che è accaduto. Israele ha rafforzato lo statuto speciale degli ebrei, non lo ha ridotto. Nessun altro Stato sa in una forma tanto definitiva che una guerra perduta significherebbe la sua distruzione e la sua scomparsa (Eisenstadt 1987/1985, 576).

In questo contesto si deve tuttavia distinguere tra lo “statuto speciale” degli ebrei, nel senso della posizione dello Stato di Israele nell’ambito della storia e della politica mondiale nel contesto dell’antisemitismo moderno e della sua funzione sociale, per un lato, e la relazione concorrenziale specifica e immediatamente ostile verso tutti i suoi vicini arabi, dall’altro, che in nessun modo era associata dal principio all’antisemitismo moderno (principalmente occidentale). Perciò l’ostilità araba verso Israele, almeno ai suoi inizi, non può essere equiparata in modo immediato allo “statuto specifico” degli ebrei nella società mondiale, neanche quindi all’antisemitismo eliminatorio dei nazisti.

In origine, il non riconoscimento di Israele da parte degli arabi (soprattutto quando ufficiale) si riferisce solo all’esistenza come Stato e non all’esistenza fisica o sociale degli esseri umani che lo compongono. In altre parole: agli ebrei in Palestina non si riconosce (all’inverso del problema palestinese) il “diritto a uno Stato proprio”, ma non gli si nega il diritto alla vita. L’idea è vivere come cittadini di un immaginario Stato arabo-palestinese, secondo la prospettiva subalterna e chiusa del “bantustan”, come è il caso dei palestinesi sotto la sovranità israeliana. Ciò significherebbe evidentemente che Israele smetterebbe di esistere come luogo di rifugio per i perseguitati dall’antisemitismo globale. Ma questo lato del problema non ha mai interessato il lato arabo-palestinese. I rappresentanti palestinesi parlano di sé stessi, nel migliore dei casi, come “vittime delle vittime”, senza voler riflettere sul contesto della società mondiale capitalista e delle sue contraddizioni distruttive.

Ma questo atteggiamento fin dall’inizio non è la stessa cosa dell’antisemitismo eliminatorio dei nazisti o dell’antisemitismo occidentale in senso generale. Nello spazio arabo, gli ebrei non si trovano in partenza definiti come alterità assoluta nel processo nazionale di costituzione di uno Stato e della modernizzazione. Tutt’ora esistono, nella maggior parte dei paesi del Medioriente, comunità ebraiche con sinagoghe e con possibilità di vivere relativamente tranquilli, anche nella repubblica islamica dell’Iran. La pressione migratoria in direzione di Israele, che evidentemente esiste, non si deve a grandi ondate di persecuzioni, ma ha origine in altre ragioni (culturali e soprattutto sociali). Anche allo stato attuale dell’escalation di odio, una sconfitta militare di Israele, benché comporterebbe le tradizionali catene della vendetta, saccheggi ed espulsioni, il che sarebbe abbastanza orribile, probabilmente non condurrebbe, oltre alla perdita della sua esistenza come Stato, anche a un assassinio industriale degli ebrei secondo il modello dei nazisti, che non era in ultima analisi il risultato di un tipico moderno conflitto di interessi in un’area di confluenza e attrito di contraddizioni reali, ma ha avuto la sua origine direttamente nelle viscere della metafisica generale del soggetto capitalista – ossia, si trovava a un livello di astrazione completamente differente e proprio per questo fu eseguito in modo tanto estremo quanto sprovvisto di sentimenti. La singolarità di Aushwitz non è superata dall’inimicizia araba nei confronti degli ebrei.

Se il potenziale di odio arabo-palestinese verso Israele si carica intanto realmente di momenti dell’antisemitismo importato dall’Europa e dall’Occidente, per esempio nelle invettive di alcuni media palestinesi e nel “sistema educativo” dell’autorità autonoma, ciò non si deve tanto alla contraddizione reale causata dai conflitti d’interessi riguardo il possesso della terra, dell’acqua etc, quanto all’identificazione negativa di entrambe le parti in conflitto con il processo distruttivo della globalizzazione capitalista, che trasforma la realtà del conflitto in quel che tocca gli interessi in qualcosa di irreale o surreale e che rende obsoleta la forma del soggetto insieme a tutti gli interessi.

Ma anche quando si trattasse di antisemitismo moderno, gli arabi, come parte integrante del mondo capitalista, in un certo modo arrivano in ritardo. Essi ormai non potrebbero mobilitare questa riserva ideologica di crisi, a emulazione dei nazisti, in un processo di formazione sociale. Nelle condizioni della globalizzazione, la spiegazione irrazionale del mondo e della crisi attraverso l’antisemitismo non può più assumere la forma statale di un programma di annichilimento organizzato su scala sociale, e molto meno in Palestina. Proprio per questo l’impulso eliminatorio è in questo caso immediatamente auto-aggressivo (attentati suicidi); si confonde, in pratica, con le relazioni elementari della concorrenza capitalista della riproduzione materiale in loco e, ideologicamente, con i prodotti politico-religiosi della decomposizione dello Stato: anche questo costituisce una differenza in relazione ai nazisti; senza contare la differenza tra il primo e il terzo mondo che si manifesta anche nello spazio formalmente omogeneo della globalizzazione e che tinge i modelli ideologici.

Dal sionismo al dominio degli ultras: la crisi interna della società israeliana

Israele a sua volta, come Stato capitalista tra Stati capitalisti, oltre a non liberarsi dall’alterità assoluta, è anche soggetto agli stessi processi di crisi come tutti gli altri Stati capitalisti nello spazio capitalista planetario; e con particolari potenziali di rischio in confronto all’occidente, dovuti alla sua esistenza sovvenzionata e precaria. Tuttavia, una volta che Israele, per poter esser uno Stato capitalista, non deve conoscere la sua vera legittimazione, o la può conoscere solo in un modo completamente superficiale (in un modo positivo, come luogo di rifugio per gli ebrei perseguitati dall’antisemitismo, ma solo in una comprensione superficiale e troncata della natura di questo antisemitismo), deve reagire alla crisi in un modo tanto regressivo e perverso come tutti gli altri, in relazione ai quali è definito come alterità assoluta: l’ansia degli ebrei per la normalità borghese si riproduce anche in forma negativa. Israele, stabilito come alterità, di fatto e com’è ovvio non può mobilitare l’antisemitismo come ultima riserva interna della soggettività borghese, ma in realtà sta in questo mondo ed è di questo mondo, essendo parte integrante del suo sviluppo e dunque del suo sviluppo verso la barbarie.

L’alterità imposta non fa di Israele un’alternativa storico-sociale positiva, né degli esseri umani che la compongono persone differenti. Se il razzismo anti-arabo permane in Occidente una manifestazione razzista tra le altre nell’ambito dell’autodistruzione imminente del soggetto borghese e non serve come proiezione dell’auto-alienazione in un oggetto esteriore, in Israele deve servire da espediente e sostituto per la forma di crisi antisemita della soggettività capitalista, che qui non è possibile. In questo modo, Israele traccia il suo cammino verso la barbarie, che comunque poco o nulla si differenzia dai suoi vicini arabi quanto alle loro forme di manifestazione.

Come ovunque nel mondo, anche in Israele la mobilitazione politico-religiosa reazionaria si rivela come genuino prodotto del crollo della soggettività capitalistica e di Stato; solo che qui è caricata di proiezioni anti-arabe. E anche in Israele il processo di imbarbarimento conseguente al processo di globalizzazione ha una preistoria; più precisamente: antagonismi interni antichi e apparentemente perduti nel passato sono ridiretti e, proprio in questo caso speciale, aggressivamente amalgamati con quelli esterni. Il distaccato sociologo e storico israeliano Shmuel N. Eisenstadt (Università ebraica di Gerusalemme) ha presentato a metà anni ’80 una completa indagine sulla “Trasformazione della società israeliana” (Eisenstadt, 1987/1985) che, da questo punto di vista, può essere considerata estremamente delucidativa.

Qui è decisiva la circostanza per cui il secolare sionismo laburista ha urtato fin dal principio, nelle comunità ebraiche,  con la resistenza trincerata dei religiosi ultraortodossi, tanto nelle diverse regioni del mondo come all’interno dello Stato di Israele. Di fatto, gli ultraortodossi (i cosiddetti Haredim), che in Israele non costituiscono di certo una piccola minoranza, così come i gruppi palestinesi più militanti e gli Stati islamici, fino a oggi non hanno riconosciuto lo Stato di Israele. Questo conflitto interno ebraico viene da molto lontano; esso si è sempre nutrito del furore dei reazionari clericali contro la secolarizzazione moderna e contro la politica interna capitalista degli interessi  – corrispondendo in un certo modo alla versione ebraica dell’”anti-modernità moderna”, vale a dire, del contro-illuminismo borghese meramente regressivo e autoritario, senza alcun momento di critica emancipante.

Tuttavia, a differenza del mondo occidentale, queste forze autoritarie e reazionarie in Israele non si sono integrate semplicemente nella politica borghese come una corrente radicale di destra. Costituiscono partiti e partecipano alla politica, ma in modo del tutto esteriore e puramente tattico, considerato che di principio si mantengono anti-statali. Tuttavia, ovviamente, non anti-statali in un qualche senso di emancipazione anarchica, ma puramente e semplicemente come programma di una subordinazione diretta della vita al feticismo specificamente religioso, con una mobilitazione politica quasi religiosa.

Come risalta dall’investigazione di Eisenstadt, nel corso dello sviluppo israeliano gli ultraortodossi sono stati considerati una specie di dinosauri dell’ebraismo, che presto o tardi avrebbero dovuto estinguersi. Sotto l’impressione dell’olocausto, essi ricevettero come immigrati ampie concessioni istituzionali, di modo che potessero vivere in Israele, malgrado la negassero in quanto Stato. Niente di tutto questo dovette apparire gravoso o funesto, in quanto Israele, malgrado la sua posizione particolare nella storia mondiale e malgrado il coinvolgimento dell’ostilità araba, si poté sviluppare come Stato capitalista tra gli Stati capitalisti nel contesto dell’accumulazione fordista globale. La posizione degli ultraortodossi si presenta, tuttavia, in modo completamente differente nel contesto della globalizzazione e della crisi capitalistica mondiale. A ogni scoppio della crisi postmoderna, questa forza sociale reazionaria si rivela sempre più come fermento di autodistruzione sociale interna ad Israele. Lungi dall’estinguersi poco a poco, questo segmento politico-religioso della società israeliana, che si presumeva solo grottesco, ha cominciato ad assumere le proporzioni di un tipico fondamentalismo religioso postmoderno.

Due momenti hanno dato a questa tendenza una forza particolare. Da un lato, gli ultraortodossi non dovevano inventarsi da zero quali rappresentanti dello “Stato teocratico”; così come i Wahhabiti dell’Arabia Saudita, gli ultraortodossi non sono mai stati disposti a coltivare la loro nicchia nello spazio della tolleranza religiosa borghese, ma, al contrario, sono stati in attesa di imporre alla società secolare la sua “legge di Dio” come movimento militante. D’altro lato, si sono resi sempre più capaci di farlo in termini istituzionali grazie alle concessioni statali; al contrario della maggioranza dei loro fratelli spirituali islamici, essi non si sono visti obbligati – ancora una volta a somiglianza di quanto accaduto in Arabia Saudita – a formarsi a partire dalla clandestinità. Sotto la protezione dell’onorato cavaliere di Stato “…essi hanno insistito sempre sull’autorità superiore delle loro proprie istituzioni, dei loro centri studio e delle decisioni del loro Consiglio degli Anziani, di fronte al quale erano responsabili i suoi deputati in parlamento. Allo stesso temo presentavano allo Stato numerose richieste, di ordine di principio e religiose; da un lato dovrebbero essere imposte alla popolazione tante limitazioni religiose quanto più possibile, dall’altro, però, hanno chiesto anche diverse concessioni e donativi terreni per le loro necessità, soprattutto per il loro sistema scolastico separato… Inoltre hanno chiesto determinati privilegi e una specie di immunità limitata di fronte alle leggi statali…" (Eisenstadt, op. cit., p. 531).

In altre parole: gli ultraortodossi hanno costituito all’interno dello Stato di Israele fin dalla sua fondazione uno Stato teocratico separato, nemico per principio del sionismo laico; una posizione che, nelle condizioni della nuova crisi mondiale capitalista, si presta ottimamente a dare inizio al processo postmoderno e post-statale di barbarie. Il parallelismo con i vicini nemici di questa regione del mondo non potrebbe essere più chiaro e imbarazzante. Per poter funzionare come fermento di questo processo distruttivo, le forze ultraortodosse devono uscire dall’isolamento senza abbandonare le loro pretese reazionarie clericali e contaminarsi con le altre tendenze sociali che operano nella stessa direzione. 

In primo luogo  è avvenuta “… in connessione stretta con la tendenza generale nella diaspora…una forte espansione dei gruppi ortodossi in Israele. Comunità ultraortodosse e circoli ortodossi di ogni specie sono cresciuti di numero e si sono resi più visibili" (Eisenstadt, op. cit., p. 533). Così come nel resto del mondo in forme diverse, anche in tutto il mondo ebraico e in Israele sono cresciute in termini quantitativi le forme politico-religiose e settarie di lotta con le manifestazioni della crisi sociale.

Sotto questa pressione, non sono tardate a comparire rotture all’interno del sionismo fondatore dello Stato nella sua composizione precedente. Originariamente il sionismo era formato da un’ala laica e socialista e da un’altra nazionale e religiosa. I nazionalisti religiosi, diversamente dagli ultraortodossi, riconoscevano lo Stato di Israele come tale e quindi anche la sua manifestazione secolare; essi agivano come forza politica di partito con vesti ideologiche religiose, come per esempio i democratico-cristiani in Europa. Ma sotto la pressione della crisi tanto all’esterno quanto all’interno e sotto la pressione del forte sollevamento degli ultraortodossi, l’”Alleanza Storica” dei religiosi nazionalisti con la corrente principale laica del sionismo laburista ha cominciato a disfarsi a vista d’occhio. I nazionalisti religiosi si sono avvicinati agli ultraortodossi e viceversa, il che ha significato che ai primi è cominciato a essere imposto il fanatismo religioso e ai secondi il nazionalismo militante. Già solo questa convergenza ha costituito un detonatore della società israeliana, con effetto esplosivo tanto all’esterno quanto all’interno.

Si sono in seguito aggiunti altri fenomeni distruttivi, venuti sulla scia dell’immigrazione degli ebrei verso Israele. Se delle ondate migratorie furono protagonisti, soprattutto al tempo dell’olocausto e immediatamente dopo, soprattutto gli ebrei dell’Europa centrale e orientale (Ashkenaziti), in maggioranza di orientamento laico e occidentalizzato (il che, al dunque, corrisponde all’ideologia sionista), poco a poco il grosso dell’immigrazione ha cominciato a essere costituito da immigrati asiatici e africani, i cosiddetti “orientali” (Sefarditi). La maggior parte di questi nuovi arrivati, in un’epoca di accumulazione capitalista in raffreddamento globale, non ha tardato a costituire la classe sociale inferiore della società israeliana. La contraddizione sociale da qui emersa, comunque, è stata sempre più articolata, non in modo socio-economico, ma piuttosto “etnico-politico”, così com’è tipico del culturalismo postmoderno. Questa etnicizzazione del sociale, specifica dentro Israele, non si è conclusa con un semplice multiculturalismo, ma si è trasformata, sotto la crescente pressione interna ed esterna, in una tendenza in favore di una militante “orientalizzazione” della società israeliana, accompagnata da una mobilitazione dell’odio contro il sionismo laico europeo: è così che già all’inizio degli anni ’80 si vedevano “nelle periferie…a nord di Tel Aviv, molti graffiti con la parola ‘Asquenazi’ (una congiunzione di Asquenaze con nazi) …" (Eisenstadt, op. cit., p. 783).

Come non poteva non accadere, la reazionaria mobilitazione politico-religiosa, nel corso della fusione tra fanatici ultraortodossi e ultranazionalisti religiosi, ha cominciato a legarsi con l’”orientalizzazione” etnico-politica: una miscela di fondamentalismo religioso, nazionalismo estremista ed etnico-politica in un legame unico; a rigore, un esempio paradigmatico dell’attuazione distruttiva della politica di imbarbarimento nelle zone di crisi.

Quantomeno altrettanto problematico, è stato l’arricchimento della società israeliana con un secondo potenziale razzista con motivazione differente, cioè attraverso l’immigrazione catapultata dalla Russia e dagli Stati del C.S.I dopo il collasso dell’Unione Sovietica. “Tutti i giorni si può vedere nell’aeroporto Ben Gurion un aereo dell’Aeroflot o della Trans-Aero depositare un carico di immigrati dalle classi più basse dall’ex-Unione Sovietica” (Kampfner, 2002). Il carattere “ebraico” (del resto un costrutto storico come tutte le altre definizioni etniche e, come lo Stato di Israele, legittimato solo dall’antisemitismo esistente in tutto il mondo) di molti di questi immigrati è più che dubbio; al dunque, le condizioni sono talmente orribili in molti luoghi della società ex-sovietica al collasso che perfino l’immigrazione nella minacciata Israele si presenta come un’occasione sociale. D’accordo con la legge israeliana del ritorno, gli immigrati devono “dimostrare di avere un avo ebreo. Nella maggior parte degli Stati ex-sovietici, i documenti necessari possono essere facilmente acquistati in cambio di denaro" (Kampfner, 2002). Così come nel caso dell’emigrazione dei cosiddetti russi con ascendenza tedesca verso la Germania occidentale, qui si mostra il carattere ambiguo e la doppiezza dei criteri “etnici” in generale; questi sono sempre suscettibili di acquisire un contenuto razzista di significato duplice, tanto includente quanto escludente.

Gli immigrati russi con ascendenza ebraica reale o falsa, in maggioranza originari della classe inferiore russa dei cosiddetti “sovs", hanno modificato ancora di più il profilo della società israeliana: "Oggi costituiscono un sesto della popolazione totale. Influenzati per generazioni dalla dittatura sovietica e mentalmente condizionati in modo conforme, questi “sovs” poco sapevano riguardo Israele e molto meno riguardo gli arabi. Mentre prima odiavano i “negri” delle repubbliche sovietiche del sud o dell’Asia centrale e transcaucasica, ora virano il loro odio contro i palestinesi e contro i paesi musulmani che circondano Israele… Gli unici sovs che hanno contatti regolari con i palestinesi sono i membri  delle organizzazioni criminali dediti ad attività molto redditizie come la ricettazione di automobili rubate o il traffico di armi verso la Cisgiordania e verso la Striscia di Gaza. Le armi le ottengono dai soldati israeliani che così finanziano il loro consumo di droga” (Kampfner, 2002).

Quasi tutti gli immigrati "sovs" sono di orientamento fortemente laico e non hanno nulla a che fare con l’allucinazione religiosa degli ultraortodossi. Ma in nessun modo hanno modificato la parte laica degli israeliani in un senso emancipatorio. Poiché ciò che portano con sé, e riorientano, è il residuo razzismo laico dei ceti inferiori del capitalismo che si fonde contraddittoriamente con il razzismo su base religiosa: “Non è la religione che li muove. La maggioranza dei sovs non possiede alcuna religione. Essi costituiscono con gli altri gruppi della società israeliana un’informale e diabolica alleanza che ha modificato profondamente il panorama politico" (Kampfner, 2002).

Quello che deve inevitabilmente contribuire quale aggravante addizionale è il fatto che Israele, come parte integrante della società mondiale capitalista, è evidentemente sottoposta alle sue tendenze economiche ed ideologiche principali. Sotto l’egida globale del neoliberismo, coi suoi principi fondamentali di privatizzazione, deregolamentazione e globalizzazione, tutti i momenti socialisti del sionismo dovevano perdere la loro forza agglutinante. In particolare l’idea del kibbutz non è stata rinnovata in accordo coi tempi, né in termini intellettuali né in termini pratici, ma ha sofferto un declino quantitativo e sostanziale. Alla ristretta ideologia della comunità non si è sostituita alcuna critica avanzata della forma del soggetto capitalista ma, come in tutto il mondo, la progressiva capitolazione di fronte a due manifestazioni postmoderne strettamente interrelate, quali, da un lato, l’individualizzazione astratta per la coercizione del mercato e della concorrenza, e, dall’altro, il culturalismo religioso o etnico militante.

In termini a prima vista politici, tutti questi sviluppi non hanno tardato molto a provocare un cambiamento completo delle relazioni di potere in Israele: il laico sionismo laburista è stato sempre più messo con le spalle al muro; è avvenuta una “crescita inizialmente lenta ma continuativa del Gachal, che più tardi ha dato origine al blocco del Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 526), il centro politico della tendenza reazionaria all’imbarbarimento con tutta la coda di cometa dei partiti ultra-religiosi, ultra-nazionalisti, etnico-politici, gruppi scissi, sette e organizzazioni di lotta fanatiche che oggi costituiscono, come minimo, l’ago della bilancia per la costituzione del governo: Il governo Likud di Ariel Sharon si poggia sugli immigrati sovietici, sugli ebrei sefarditi e sugli ultra-ortodossi" (Kampfner, 2002).

Questi fatti sullo sviluppo politico-sociale di Israele a maggior ragione gettano una luce incandescente sulla sconvolgente ignoranza dell’”antimperialismo” tradizionale della sinistra: mentre questo continua a urlare le sue parole d’ordine “antisioniste”  (da sempre con una carica antisemita che oggi si mostra ovvia), in realtà è ormai da molto tempo che il sionismo laico è stato fiaccato dalle stesse forze antisioniste e anti-civilizzatrici postmoderne di Israele. Anche da questo punto di vista, l’antimperialismo “rivoluzionario nazionale” ormai è meramente anacronistico. La salita del blocco Likud è stata accompagnata da una delegittimazione sistematica del pensiero sionista originario e ha equivalso in larga misura a un processo di erosione della società israeliana orientato tanto verso l’esterno che al proprio interno.

Per quanto riguarda l’orientamento verso l’esterno, la posizione difensiva di fronte agli arabi si è convertita in ostilità militante, arroganza culturalista e idee aggressive di conquista. Questo orientamento ideologico degli ultras per guadagnare visibile influenza si è riflettuto nella pratica di un programma di colonizzazione nuovo formato da estremisti di destra. Il Gush Emunim ("Blocco dei credenti"), fondato nel 1974, ha predicato un nuovo ideale di "pionierismo", ormai non socialista, ma religioso e nazionalista, con l’obiettivo di espellere i residenti arabi e, in ultima istanza, incorporare ad Israele le aree occupate: “La politica dei coloni in Giudea e Samaria si è incamminata infatti in una nuova direzione dopo l’arrivo al potere del governo Likud… Il processo di colonizzazione sotto il governo Likud ha mostrato alcune caratteristiche tipiche. La prima è stata la sua enorme dimensione. Mentre tra il 1967 e il 1977 furono fondate circa quaranta nuovi insediamenti, tra il 1976 e il 1983 ne sono sorti quasi il doppio… La seconda caratteristica del processo di colonizzazione sotto i governi Likud riguarda la localizzazione dei nuovi insediamenti. Ai tempi del blocco laburista, gli insediamenti furono collocati in aree senza residenti arabi o con molto pochi di loro… La scelta del luogo per i nuovi insediamenti è mutata profondamente sotto il governo Likud. L’obiettivo era ora quello di ottenere il massimo della presenza ebraica in tutte le parti della Cisgiordania. Invece di risparmiare le regioni con una densa popolazione araba hanno preferito esattamente queste aree per la fondazione di insediamenti, arrivando perfino a collocare insediamenti in grandi città arabe come Nablus, Ramallah e Hebron. La localizzazione esatta dei nuovi insediamenti si è orientata in base all’identificazione di una determinata località con un villaggio biblico…" (Eisenstadt, op. cit., p. 754 sg.).

Questa colonizzazione non obbedisce più a un qualsiasi tipo di ideale universale, come nel caso del sionismo laburista, e dunque non esprime più, implicitamente, l’esigenza che si abbia un luogo per tutti i perseguitati e che inoltre tutti gli esseri umani possano insediarsi in qualsiasi luogo, basta che non sia a scapito di altri. Ben al contrario, il Gush Emunim rappresenta una politica di "purga" ed espropriazione etnico-politica, con un fondamento di legittimazione del tutto irrazionale  (biblico). A questo paradigma, l’ora capo del governo israeliano ha corrisposto già dai primi anni ‘80: "La politica generale di colonizzazione…era sotto la direzione dinamica di Ariel Sharon…" (Eisenstadt, op. cit., p. 757). Non per caso sotto la direzione di Sharon, quale ministro della difesa, nel 1982 è stata condotta l’incursione in Libano, per la prima volta puramente aggressiva e non imposta dall’esterno, culminata nel famigerato massacro di Sabra e Chatila, vicino Beirut: qui le milizie cristiane alleate di Israele hanno assassinato più di 800 civili palestinesi sotto lo sguardo dell’esercito israeliano, con l’evidente tacita approvazione di Sharon.

Quanto all’orientamento verso l’interno, come in qualsiasi altra parte del mondo, la svolta a destra della società israeliana è stata accompagnata in misura crescente da casi di corruzione e soprattutto da un’inconciliabile scissione, che già negli anni ’80 ha condotto a una retorica della violenza sempre più aggressiva della destra contro la sinistra israeliana: “Queste tendenze di scissione si sono associate in una misura considerevole a una violenza quantomeno verbale e a illegalità a diversi livelli che…in molte aree della vita si sono prolungate nel tempo. Ciò si è manifestato nelle relazioni quotidiane, nel traffico stradale e nell’alto tasso di incidenti. In stretto legame con questa violenza c’era la crescente intolleranza contro gli avversari, inclusa la tendenza a coprirli con designazioni estremamente sprezzanti… Questi sentimenti di discordia e ostilità, espressi con veemenza, si sono incontrati soprattutto nei gruppi prossimi al Likud" (Eisenstadt, op. cit., p. 745).

La delegittimazione del sionismo laburista non ha risparmiato nessun aspetto, sia i kibbutz sia la Centrale Sindacale Histadrut: "Di particolare importanza sono state le invettive d’odio improvviso… contro i kibbutz, questo simbolo centrale del modello sionista…" (Eisenstadt, op. cit., p. 735). Così come i kibbutz, anche il movimento sindacale ha sofferto sotto la duplice pressione della crisi capitalistica e della globalizzazione neoliberale, da un lato, e dell’odio politico religioso dei radicali di destra, dall’altro: “In generale, l’Histadrut stava perdendo sempre più il suo posto come partner del governo nella formulazione della politica economica. Molto spesso è stata emarginata…" (Eisenstadt, op. cit., p. 771). Nemmeno il ruolo storico dell’Hagana sionista, il nucleo militare della fondazione dello Stato di Israele, è stato risparmiato in questo processo di delegittimazione: “Anche la storia della lotta contro gli inglesi e per l’indipendenza è stata riscritta – soprattutto con l’obiettivo di minimizzare il ruolo di Hagana in tutto questo processo” (Eisenstadt, op. cit., p. 767).

Alla fine della sua indagine, Eisenstadt manifesta la speranza che Israele, malgrado questo sviluppo, possa raggiungere un nuovo "equilibrio dinamico" e superare le tendenze verso l’autodistruzione. Purtroppo gli anni ’90 hanno dimostrato esattamente il contrario. L’omicidio del primo ministro Yitzhak Rabin nel novembre del 1995 per mano di un giovane fanatico ebreo nazionalista-religioso ha costituito solo la punta dell’iceberg che minaccia di far naufragare Israele a causa del suo imbarbarimento fondamentalista. In questo senso, l’indagine di Michael Karpin e Ina Friedman "La morte di Yitzhak Rabin" (1998), pubblicata in originale con il titolo d "Murder in the name of God [Assassinio in nome di Dio]", si legge come un’inquietante prosecuzione dell’analisi di Eisenstadt. Karpin e Friedman, che sono tra i più conosciuti giornalisti israeliani, mostrano con audace chiarezza quanto sia progredita nel frattempo la distruzione fondamentalista religiosa e nazionalista radicale di destra della società israeliana, e, ancora una volta, tanto verso l’esterno quanto al proprio interno. Il fatto che con Yitzhak Rabin fosse arrivato al potere più volte un governo laico-sionista poteva essere attribuito alla volontà di pace e di conciliazione della maggioranza degli israeliani; ma la fine sanguinosa di questa politica, per quanto sia rimasto un semplice episodio, risale al potere ormai maturato dalla tendenza fondamentalista.

Tanto prima come dopo l’omicidio di Rabin, era visibile un rafforzamento, che si prolunga fino a ora, della politica di colonizzazione ed espropriazione militante contro la popolazione araba, la cui dimensione ha preoccupato frequentemente perfino i negoziatori statunitensi. Già Eisenstadt ha rilevato, nell’ultima parte della sua indagine, il carattere razzista dell’ideologia della colonizzazione e del suo appoggio da parte delle alte sfere della società israeliana; come egli scrive, “alcuni gruppi religiosi giustificavano un comportamento estremamente xenofobo che invocava le accuse bibliche contro Amalek" (Eisenstadt, op. cit., p. 787). Il primo ministro del governo Likud, Begin, disumanizzerà pubblicamente i palestinesi come “animali a due zampe”; e, nella stessa misura in cui la maggioranza dei rabbini ortodossi di Israele sempre più apertamente propagandavano lo “Stato teocratico” ebraico, anche questo razzismo è salito di tono. Il rabbino Yitzhak Ginsburg, uno degli estremisti della linea dura, ha pubblicato un decreto “secondo il quale sangue ebraico e sangue non ebraico non sono identici” (Karpin/Friedman, 1998, p. 18). E il famoso rabbino Meir Kahane, uno degli ideologi della destra fondamentalista, egli stesso assassinato nel 1990 in un’apparizione pubblica a New York, “ha definito…tutti gli arabi come un’epidemia di batteri che ci avvelena” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 69).

Ormai da più di dieci anni, gente di quest’epoca era tanto “emarginata” in Israele quanto più o meno un Jörg Haider in Austria; per il funerale di Kahane a Gerusalemme “sono venute più di 15.000 ospiti e il discorso funebre è stato pronunciato niente di meno che dal rabbino capo di Israele Mordechai Eliyahu… Tra i presenti a rendere l’ultimo saluto a Kahane vanno inclusi anche due ministri e una serie di deputati di destra alla Knesset" (Karpin/Friedman, 1998, p. 70).

La motivazione razzista è diventata il propulsore per una serie infinita di atti di violenza dei coloni israeliani. E’ stato il caso, per dare solo un esempio, dell’assalto nell’estate del 1983 di un gruppo di estremisti mascherati all’Università di Hebron, che hanno ammazzato tre palestinesi e ferito molti altri col fuoco di fucili e bombe. In seguito è stato perpetrata un’innumerevole quantità di attentati con le bombe contro presidenti arabi della camera. Sono stati pianificati grandi attentati contro la moschea Al-Aksa di Gerusalemme e altri simboli islamici, anche se evitati in tempo. Perfino conosciuti leader politici di destra hanno partecipato personalmente ad atti di violenza, come nel caso del membro della “centrale d’azione” della destra contro Rabin, Gadi Ben-Zimra. Nel quotidiano sono stati proprio i gruppi dei coloni più esposti, frequentemente minuscoli, che, sotto la protezione dell’esercito, hanno terrorizzato i vicini palestinesi, rovesciando le loro vendite di ortaggi, mirando alle loro case, distruggendo le loro auto etc. Spaventoso è stato l’attentato suicida del medico Dr. Baruch Goldstein, del famoso insediamento di Kiryat Arba, vicino ad Hebron, che nel 25 febbraio del 1994 ha ammazzato 30 palestinesi con un fucile automatico durante l’orazione del mattino per poi finire linciato dai sopravvissuti inferociti. Goldestein ha raggiunto lo status di “martire” in ampi circoli ortodossi e nazionalisti, nei quali è arrivato ad essere definito “vittima del terrore arabo”, e nello stesso “equiparato alle vittime dell’olocausto nazista” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 104, 177).

Tutte queste violente eruzioni di odio razzista-nazionalista e di allucinazione religiosa sono state organizzate e non atti isolati. I coloni hanno costituito milizie private proprie, con armi fornite dall’esercito su mandato del governo  Likud, e rapidamente hanno cominciato ad autonomizzarsi dalla stessa amministrazione Likud, e ad agire illegalmente e arbitrariamente come “resistenza clandestina armata”: ancora una volta, ciò è accaduto in palese analogia con i loro vicini arabi e palestinesi. La distruzione interna di Israele ormai raggiunge il livello dei signori della guerra. La stampa laica israeliana così non ha tardato a definire “i fuochi di violenza dei coloni come confine del selvaggio west…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 64).

Paradossalmente, gli haredim e gli ultra-nazionalisti, nella stessa misura in cui hanno esautorato e distrutto l’autorità e le istituzioni dello Stato di Israele, hanno reinterpretato radicalmente il fondamento legittimatorio di questo Stato: mentre il loro attivismo fondamentalista ha distrutto lo Stato al suo interno, questo ha dovuto assumere verso l’esterno la sproporzionata dimensione di una “grande Israele”. Da luogo di rifugio secolare dei sionisti si è trasformato nel luogo biblicamente mistificato di una promessa di salvezza nazionalista e religiosa; e da questo punto di vista di un’”antipolitica” fondamentalista religiosa dei radicali di destra, l’insediamento delle frontiere non può essere nemmeno il risultato di negoziazioni.  Invece di queste, la convinzione fanatica afferma che “c’è solo una direttiva per fissare i confini: la promessa di Dio al patriarca Abramo (!): Io darò ai tuoi discendenti la terra che va dal fiume d’Egitto al grande fiume Eufrate (Moisés I, 15,18). Tali frontiere comprendono oggi la maggior parte del Medioriente, dall’Egitto fino all’Iraq (!)…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 15).

Nel processo di fusione di fondamentalismo religioso, nazionalismo secolare, razzismo e politica etnica, la dottrina della salvezza dal Messia si è trasformata in un costrutto post-politico, che si autodefinisce come “rivoluzionamento” politico-religioso della società israeliana: “La rivoluzione neo-messianica è stata imposta dalle sinagoghe e dalle scuole degli insediamenti. Le sinagoghe ormai non erano luoghi di preghiera, ma centri di indottrinamento politico, le scuole talmudiche non erano più i luoghi dell’erudizione, ma forgiavano i quadri del movimento della grande Israele… E’ stato costruito un enorme apparato di propaganda, sotto l’apparenza di associazioni presumibilmente apolitiche, favorite dall’esenzione fiscale… Un risveglio di questa dimensione non accadeva nel mondo ebraico dall’ascesa del sionismo un secolo prima…" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 291).

Il movimento teocratico neo-messianico in favore di una spettrale grande Israele ha agito con la stessa violenza crescente, legittimata dalla teologia talmudica, verso l’interno così come verso l’esterno. Anche questa violenza interna, diretta soprattutto contro la sinistra laica, è cominciata presto, in parallelo con la violenza razzista dei coloni nelle zone occupate. Il pretesto è stato dato da un incidente nel febbraio del 1983: "Yonah Abrushmi, un giovane guidato dalla retorica sfrenata della destra, lanciò dalla sede della presidenza del consiglio dei ministri una bomba a mano contro una moltitudine di manifestanti del movimento Pace ora. Nell’attentato morì un uomo, Emil Grunzweig, e altre undici persone rimasero ferite" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 155).

La violenza e la retorica della violenza della destra teocratica e/o nazionalista, in forme in parte esplicite, in parte subliminali, non sono diminuite da allora. L’assassinio di Rabin è stato preceduto da una lunga campagna di agitazione in cui varie volte la sua morte è stata reclamata pubblicamente; nei giorni seguenti,  "turbe spettrali" di rabbini fondamentalisti hanno declamato in un modo pseudo-medievale, di fronte alla sede del loro governo, d’accordo con la cosiddetta Din Rodef, la sentenza di morte talmudica verso gli ebrei traditori. E per una parte spaventosamente grande della società israeliana, questo assassinio è stato in parte accettato passivamente, in parte motivo di giubilo mascherato e in molti casi perfino aperto. L’assassino, Jigal Amir, è stato considerato un “eroe” da molti teenagers e ha ricevuto una massa di congratulazioni per posta etc. E l’approvazione più o meno tacita o, quantomeno, la banalizzazione di questo omicidio penetra profondamente nei più alti circoli della destra politica: “Quasi due anni dopo l’assassinio, Sharon, come ministro del governo di Netanyahu, ha ripetuto l’affermazione dei radicali di destra e dei rabbini estremisti: colpa di Yitzhak Rabin della propria morte, dovuta alla sua testardaggine" (Karpin/Friedman, ob. cit., p. 301).

In analogia con la cultura globale dell’amoque [attentatore-suicida; n.d.t.], con il suo amalgama di aggressività e auto-annichilimento, anche la destra nazionalista teocratica di Israele, come gli islamisti, ha elaborato giustificazioni dell’attentato suicida, di cui il caso dell’omicidio di massa per mano di Goldstein ha costituito un precedente. E così come nel caso degli islamisti, la reinterpretazione militante dei concetti religiosi è servita a questa impresa: "Kidush ha-Shem, piuttosto che essere associato al fervore messianico dei coloni di Gush-Emunim, era un martire che sceglieva la morte invece della conversione forzata... La trasformazione aggressiva di questo martirio in Goldstein è stata rapidamente lodata dai fanatici ebrei... In un libro intitolato Baruch ha-Gever (Uomo benedetto) si elogia il suo martirio come la più elevata espressione di convinzione religiosa e si esorta ad imitarlo. Il rabbino Elitzur Selga... ha scritto che i santi rabbini non hanno mai condannato il modello di missione suicida di Goldstein. Evidentemente una morte ancor più certa, per esempio quando una persona si fa esplodere con i suoi nemici con una bomba, è ugualmente lodata come un atto nobile..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 67). Non si poteva dire con più chiarezza che l’acuta e manifesta pulsione di morte della ragione capitalista può indossare qualsiasi veste ideologica.

Anche dal punto di vista culturale e politico-sociale, si è intensificata negli anni ‘90 la pretesa teocratica radicale di fronte alla società israeliana e contro la sinistra laica; e ciò accade di nuovo con un’imbarazzante analogia con i loro vicini nemici arabi. Così come i Wahhabiti e tutti gli altri islamisti, anche le forze ultraortodosse nazionaliste religiose oggi non solo fulminano verbalmente “la cultura vuota dell’occidente” (Karpin/Friedman, op. cit., p. 23), il materialismo moderno, l’erosione dei valori patriarcali etc, ma pretendono di sottomettere la società ai loro comandamenti irrazionali come mai prima. Esattamente come tra gli islamisti, emerge qui in primo luogo un’ostilità militante nei confronti della sessualità. Gli stessi ortodossi moderati sono atterriti dalla pressione istituzionale che gli haredim puritani esercitano nel frattempo in questo senso. Così citava per esempio nel 1997 il professore Jehuda Friedländer, retore dell’Università di Bar-Ilan, "esempi delle mutazioni nella propria cerchia familiare... E’ strettamente osservata l’etichetta esterna in modo che si vietano alle ragazze i calzini corti... La lunghezza della gonna e l’altezza dello spacco sono rigidamente vigilate... E’ stato proibito ai padri di recarsi alla cerimonia di laurea delle loro figlie perché qui si esibiva un coro di ragazze... Il preside della scuola elementare di suo figlio ha proibito al giovane di frequentare in estate un campo di ferie scientifico organizzato dall’università ebraica... Cento anni fa non frugavano (negli affari privati), oggi si gettano sulle più piccole minuzie, per quanto personali siano..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 73).

Il potere istituzionale dell’ortodossia e dell’ultraortodossia dei rabbini domina ampi settori del diritto civile, dal momento che non sono mai stati secolarizzati. Questo potere comporta seccature insopportabili alla vita personale, anche per coloro che non hanno nulla a che vedere con la religione: "Per gli ebrei di Israele questo significa che essi sono controllati dall’establishment religioso ortodosso e che, con il passare degli anni, questa regolamentazione ha avuto un effetto devastante sui diritti civili di innumerevoli cittadini. A causa dell’asfissia dei clericali ortodossi, nessun ebreo israeliano, nemmeno l’ateo più consolidato, può sposarsi fuori dalla loro fede... Alle migliaia di bambini israeliani che sono stati adottati dall’estero è vietata la conversione all’ebraismo perché i loro genitori non professano lo stile di vita ortodosso. E’ severamente proibito alle donne deporre davanti al tribunale rabbinico, al quale si deve ricorrere per il divorzio..." (Karpin/Friedman, op. cit., p. 76).

Anche il disprezzo e la repressione delle donne da parte dei rabbini sono del tutto identici a quelli degli islamisti (e naturalmente anche a quelli dei cristiani tradizionali e in generale ai patriarcati e neo-patriarcati delle ideologie di crisi in tutto il mondo). Nelle comunità dei credenti rigorosi il comportamento misogino è la legge pratica del quotidiano che cade come il gelo sulle relazioni della vita degli individui, come per esempio mostra l’angosciante film di Amos Gitai, "Kadosh". E questa pseudo-arcaica legge quotidiana della repressione delle donne si estende in molti modi, con l’intermediazione del potere istituzionale, sulla vita secolare israeliana.

Lo stesso vale per il disprezzo e la persecuzione dei gay, diffusi tanto dai credenti ultraortodossi quanto dai razzisti laici "sovs". Gli attacchi di odio a Rabin, prima del suo assassinio politico, includevano regolarmente lo slogan "Rabin è gay" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 113). La stessa omofobia militante degli islamisti non si trova solo tra gli ultras israeliani, ma anche tra i loro sostenitori e mentori nella diaspora ebraica, non da ultimo negli Usa, dove i gay sono apertamente considerati dubbi. E’ stato così che il rabbino radicale di New York Abraham Hecht (un eroe anche per la destra israeliana) ha appoggiato con invettive demagogiche anti-gay l’elezione del sindaco Giuliani, che più tardi ha guadagnato notorietà attraverso misure draconiane contro i poveri. “Quando egli ha appoggiato Giuliani nel 1989, ha annunciato che il suo candidato avrebbe pulito finalmente una città corrotta da mali come il sesso prima del matrimonio, gli aborti e i crimini dell’omosessualità (!), e ha sostenuto (così come la sezione locale del Ku-Klux-Klan) la pena lieve a un assassino da un giudice del Texas perché le vittime erano effemminate, secondo le parole del giudice" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 220).

L’ideologia neo-arcaica, aggravata dal razzismo e dal nazionalismo, è accompagnata da un comportamento rituale compulsivo, di nuovo analogo all’islamismo, così come alle sette sincretiche occidentali. Per esempio, dopo i devastanti attentati suicidi palestinesi, i fanatici ultraortodossi cercano di separare “etnicamente” i resti dei corpi, così che ogni pezzo del corpo del suicida dell’altra “razza” non venga per errore a essere sotterrato insieme con i corpi degli ebrei. Contro la volontà della popolazione laica, sono imposti dalla destra religiosa sempre più vincoli religiosi alla vita quotidiana, i quali man mano traboccano al di là dell’immediata competenza istituzionale degli ultraortodossi.  Il volto di Israele va cambiando a ogni nuova concessione ai partiti religiosi attraverso la tecnica della politica di coalizione. Da un lato, quanto al suo sistema politico, il paese è una democrazia capitalista di impronta occidentale, che, tuttavia, come già osservato, non è ma stata riconosciuta dagli haredim; dall’altro, il quotidiano israeliano eguaglia sotto molti aspetti quello di uno Stato teocratico secondo il modello dei talebani.

E’ perfettamente chiaro che qui si prepara un catastrofico confronto decisivo tra due progetti di mondo e di vita che si escludono a vicenda. Se Eisenstadt, nella sua inchiesta storico-sociale del 1984, ancora concludeva con la speranza di un compromesso interno, ormai la valutazione dello stato interno di Israele per Karpin/Friedman, 14 anni più tardi, è nera come la pace: "Gli israeliani vedono il paese sempre di più come un barile di polvere esplosiva con la miccia accesa. La maggiore minaccia per loro non è il terrorismo fondamentalista, né la guerra con i vicini, ma la dissoluzione interna... Quando in un sondaggio Gallup per il giornale Ma’ariv nel secondo anniversario dell’attentato, si è domandato agli intervistati se il paese sarebbe più vicino all’unità o alla guerra civile, più del doppio degli israeliani (56 contra 21%) ha risposto che sarebbe più vicino all’omicidio fratricida che alla pace interna" (Karpin/Friedman, op. cit., p. 427).

Se l’imminente scarica violenta delle contraddizioni interne è stata finora ritardata in Israele, ciò è da attribuire in prima linea all’aggravamento della situazione all’esterno con i palestinesi, dall’inizio della cosiddetta Intifada di Al-Aqsa. I proclami di odio antisemita, gli attentati suicidi e le formazioni quasi militari delle milizie dei signori della guerra palestinesi non solo hanno portato in primo piano le contraddizioni esterne, ma hanno anche deviato per ora verso l’esterno l’energia razzista, fondamentalista e nazionalista della destra israeliana, tanto più che al momento questa destra costituisce il mainstream sociale e tiene fermamente in mano il timone istituzionale.

Anche il procedere dell’esercito israeliano nei territori occupati sotto il governo di Sharon è corrispondente, e ormai non può essere interpretato come atto di autodifesa da parte di un potere largamente superiore in termini tecno-militari. Naturalmente, così come in tutto il mondo, le tendenze dell’estrema destra della società si sono impiantate con maggiore forza nell’esercito. Quando le relazioni dei giornalisti occidentali, così come dei gruppi di opposizione e delle organizzazioni umanitarie israeliane, riportano tutta una serie di crimini di guerra dell’esercito israeliano, non si tratta solo di disinformazione della propaganda palestinese.

Così, sono state deliberatamente distrutte case private, monumenti storici e obiettivi senza alcun interesse militare: "A Ramallah i soldati hanno devastato il centro di salute dell’Unione Europea, distruggendo la sezione ottica, l’ufficio delle attrezzature mediche e il centro giovanile… Il ministero della Cultura di Ramallah... è stato evacuato dagli occupanti solo il 2 maggio. Hanno lasciato dietro di sé uffici devastati, sudici  e pieni di terra, computer distrutti e scaffali vuoti… perfino i sanitari del bagno sono stati distrutti. Nell’amministrazione della città di Ramallah i soldati hanno fatto esplodere le casseforti delle finanze locali e hanno spaccato tutti i dischi rigidi dei computer. Al Ministero dell’Educazione… hanno fatto sparire i documenti per i vicini esami finali e i timbri di convalida dei certificati d’esame; per concludere la loro opera, hanno arato i giardini con i loro carrarmati. Secondo le informazioni fornite dal ministro dell’Educazione Abderabboh, i soldati hanno rubato tutti i documenti del registro catastale sulla proprietà della terra, il che è un’amara perdita, alla luce della crescente espropriazione a favore dei coloni ebrei… Secondo numerose testimonianze… i soldati hanno anche causato distruzioni e sottratto oggetti di valore  e denaro nelle scuole e in molte residenze private" (Neue Zürcher Zeitung, 8.5.2002).

Le relazioni sulle perquisizioni e sui saccheggi nei grandi centri commerciali, non solo a Ramallah, sull’assalto ai civili etc, sono talmente numerose e concordanti che si possono considerare veritiere. Si dice, riguardo gli equipaggi dei blindati israeliani, che questi  "si fermavano davanti a negozi, gioiellerie, banche e case di computer e le saccheggiavano" (Wieland/Schäfer 2002). Con il pretesto della ricerca di armi, studenti sono stati espropriati del portafogli. Parte dell’esercito israeliano si comporta nella “terra del nemico etnico” corrispondendo perfettamente a tutto lo sviluppo globale; il procedimento nelle zone palestinesi comincia a diventare parte dell’economia del saccheggio sociale.

Ma non si è trattato solo di ruberie e saccheggi. Nell’aprile del 2002, i portavoce di otto gruppi internazionali dei diritti umani hanno presentato, in una conferenza stampa a Gerusalemme, relazioni su esecuzioni extra-giudiziali e torture effettuate dai soldati israeliani. "Si è saputo di un gruppo di dieci donne che si sono avventurate in strada dopo una sparatoria: con le braccia in alto, hanno implorato i soldati per poter assistere i feriti indifesi. La loro leader, il medico Dott.ssa Kadah, è stata abbattuta a vista, le altre donne sono state gravemente ferite" (Neue Zürcher Zeitung, 17.4.2002).

La Corte Suprema israeliana ha proibito espressamente la tortura dei prigionieri palestinesi, il che equivale a una confessione del fatto che la tortura a diversi gradi già in passato faceva parte del quotidiano in Israele, così come nelle dittature militari del terzo mondo. Carmi Gillon, ambasciatore israeliano in Danimarca, ha provocato proteste quando ha difeso pubblicamente la tortura ai prigionieri palestinesi anche dopo questa sentenza. Il fatto che l’accusa di tortura è stata formulata di nuovo, in forma massiccia e con dettagli, anche nel caso della più recente offensiva militare israeliana, dimostra che queste pratiche continuano a essere utilizzate. Del destino di Marwan Barghuti, membro del Consiglio Esecutivo palestinese, che è stato detenuto dall’esercito israeliano nell’aprile del 2002, se ne può leggere nelle relazioni della stampa: "Barghuti è vittima della tortura del sonno applicata dal servizio segreto interno israeliano Shin Beth... Inoltre è ripetutamente legato per molte ore a una sedia coperta di chiodi. Ha le mani e i piedi fissati in modo che non può stare dritto. Ha ricevuto ferite talmente gravi alle spalle e alle mani che è stato portato in un’infermeria. E’ stato qui che è avvenuto il contatto con i rappresentanti delle associazioni dei diritti umani. I torturatori hanno minacciato Barghuti di uccidergli il figlio, prigioniero nella città israeliana di Ashkelon" (Neue Zürcher Zeitung, 25.5.2002).

Eventi quali i crimini di guerra, torture etc non possono essere attribuiti solo a trasgressori individuali, come unici colpevoli, tanto più che questi crimini di regola non sono oggetto di condanna, o lo sono solo come “crimini d’onore” (in Israele come in Russia, nel resto della Jugoslavia e in altri luoghi); questi crimini, in realtà, sono sempre anche lo specchio della società da dove provengono. Le atrocità dell’esercito israeliano, che non possono essere giustificate con l’imbarbarimento della società palestinese, si riferiscono all’imbarbarimento della società israeliana stessa, che proprio in questo aspetto è parte integrante della società mondiale capitalista.

Se la contraddizione interna di Israele ancora non si è manifestata in forma violenta in grande scala, ciò non si deve attribuire solo all’”esportazione” della violenza e dei potenziali di odio radicale di destra e teocratici attraverso il rinnovato confronto esterno con gli avversari palestinesi complementarmente imbarbariti. Un fattore addizionale è il declino della sinistra secolare e anche delle forze laiche in Israele. Non c’è da stupirsi se il partito dei lavoratori ha seguito già da molto temo il cammino di tutte le società socialdemocratiche. L’assassinio di Rabin non ha liberato alcun potenziale di critica, ma ha spinto, piuttosto, verso destra i resti del sionismo dei lavoratori, da molto tempo indebolito; a somiglianza dell’evoluzione di tutte le socialdemocrazie all’inizio della prima guerra mondiale. Anche allora, nonostante tutti i leader socialdemocratici fossero morti assassinati per mano dei radicali di destra (ciò che accadde in Francia, con Jean Jaurès), la politica delle tregue continuò.

Inoltre, la coscienza della gioventù israeliana laicamente orientata, soprattutto dalla sinistra, così come dei loro coetanei europei e nord-americani, è fortemente impregnata dall’individualizzazione astratta edonista del consumo di merci della cosiddetta postmodernità, che ha pochi argomenti da opporre all’avanzamento dell’altra faccia della stessa tendenza, il fondamentalismo etnico-culturalista. Una sinistra inoltre completamente disarmata di idee dalle teorie postmoderne, che rende inoffensivi il capitalismo e la barbarie come semplici “eventi del discorso” (eventi linguistici), deve diventare essa stessa inoffensiva, il che naturalmente si rivela fatale, particolarmente nelle regioni di crisi, come constata il professore universitario israeliano di sinistra Ren HaCohen: "Questi giovani israeliani si considerano radicali, orientati alla pace, contro l’occupazione e tuttavia condannati a vivere sottomessi a fanatici retrivi. Allo stesso tempo però la stessa struttura della coscienza gli rende possibile adeguarsi all’occupazione… La moda intellettuale del cosiddetto postmodernismo – in occidente ormai in declino, ma ancora vivissima nella provinciale Israele – gioca qui un ruolo importante… Dal momento che non esiste alcuna verità, non possiamo opporre una qualsiasi resistenza a nulla senza appoggiare realmente nulla. Le parole sono più importanti delle azioni. Il linguaggio è il fondamento di tutto, l’analisi del discorso la chiave per tutto… Il caso di Israele rappresenta un’impressionante dimostrazione di quanto pericolosa sia questa ideologia" (HaCohen 2002).

In queste circostanze è possibile che ormai l’esclusione dell’indebolita sinistra laica proceda a freddo. E’ quel che dice, per esempio, la direttrice dell’Istituto Cohn nell’Università di Tel Aviv, Rivka Feldhay, sulla situazione degli intellettuali laici e di sinistra nelle università: “La ministra per le questioni dell’educazione in Israele, l’ultranazionalista Limor Livnat, cerca di isolarci e di boicottarci. La ricerca e l’istruzione in Israele sono finanziate da un consiglio per l’istruzione superiore. La nuova ministra ha ricomposto questa commissione per indebolire le università a beneficio degli scienziati vicino al governo. Ha avuto un buon successo… Ci troviamo nella necessità di chiedere aiuto agli europei. Non con i boicottaggi. Ma perché mettano il loro buon nome sul piatto della bilancia per protestare contro la politica del governo” (Feldhay 2002).

Anche nella vita di tutti i giorni, i rappresentanti della sinistra laica devono fare i conti sempre di più con molestie ed insulti; artisti e intellettuali si sono gradualmente ritirati da determinati quartieri dominati dagli ultraortodossi, a Gerusalemme e in altre città. Ciononostante, l’opposizione di sinistra ancora porta centinaia di migliaia di manifestanti in strada. Secondo le informazioni dell’organizzazione Yesh Gvul (“Esiste una frontiera"), fondata nel 1982 (come reazione all’invasione del Libano ordinata da Sharon), dall’autunno del 2000 più di mille soldati israeliani, tra cui alti ufficiali, hanno rifiutato di prestare servizio sotto il governo di Sharon nelle regioni occupate: “Non è la prima volta che gli israeliani rifiutano il servizio armato, tuttavia mai tanti membri delle unità di combattimento – ufficiali e soldati di riserva – si sono pronunciati pubblicamente per l’obiezione di coscienza nelle zone occupate" (Dachs 2002).

Questa resistenza, che tutt’ora si mantiene, non cambia comunque il fatto che la sinistra nel suo insieme è indebolita e che ha da temere per il suo futuro sociale e istituzionale, e per la stessa propria propria vita, nel caso di una regressione interna ai potenziali di aggressione nazionalista e teocratica. L’accrescimento delle contraddizioni interne minaccia di scatenarsi non per ultimo attraverso una crisi economica catastrofica che è all’orizzonte. Israele che, insieme alla Palestina, come molte altre regioni del mondo, malgrado tutti gli appoggi, ha già grandi difficoltà a causa del processo della globalizzazione capitalista e della dipendenza dall’entrata del capitale finanziario transnazionale, si rovina sommamente con gli enormi costi militari che si ripercuotono nella riproduzione sociale. Anche il governo di Sharon sta seduto sopra un barile di polvere da sparo economico-sociale. La crisi economica, che porta a periodiche crisi di governo, pone inesorabilmente la questione di quale parte della popolazione israeliana debba essere socialmente passata per le armi. E per i partiti degli ultras ormai è diventato inequivocabilmente chiaro che devono essere tutti i ceti secolari, che a loro non piacciono; un disegno che può essere scatenato dai potenziali di odio interno.

La conoscenza di questo sviluppo si riflette in un "voto coi piedi": centinaia di migliaia di israeliani secolari emigrano o pensano di farlo: “Mai si è avuto tanta emigrazione nella storia recente di un paese di immigrazione tradizionale… Non solo il Canada, l’Australia e gli Stati Uniti hanno attratto molti israeliani come una calamita: perfino Vanuatu, ex-Nuove Ebridi, Stato insulare repubblicano nell’oceano pacifico… A Tel Aviv... 2.000 famiglie già si sono iscritte alla cooperativa ‘Mondragon’ che per 4.500 dollari vende porzioni di terreno di 3.000 metri quadri a Vanuatu. Questo è solo l’inizio, poiché la ‘Mondragon’ ha affittato circa 80.000 ettari di terra per 150 anni da ripartire e vendere agli israeliani desiderosi di emigrare. Il che dà più di 50.000 porzioni, cioè uno spazio per più di un milione di persone" (Landsmann 2001).

C’è qualcosa di profondamente deprimente e commovente nel modo in cui sempre più ebrei secolari voltano le spalle al presunto luogo di rifugio e alla presunta patria di Israele, spinti tanto dai comandi terroristi palestinesi quanto dalla funesta alleanza interna di fanatici religiosi, ultranazionalisti, politici etnici e razzisti secolari. Quanto più la sinistra secolare di Israele si dilegua con questo tragico esodo, più rapido procede necessariamente il collasso e l’imbarbarimento della società israeliana.

Naturalmente si pone la questione di valutare questo triste sviluppo in relazione all’”imperialismo globale ideale” del centro capitalista. In nessun caso una posizione emancipatoria e anticapitalista può consistere in un’”equidistanza” tra israeliani e palestinesi, nel senso di riferirsi solo all’imbarbarimento complementare delle due società mutuamente interrelate nel contesto della crisi generale della globalizzazione. Questo sarebbe avanzare ben poco, perché con tale positivismo di crisi sarebbe offuscata la funzione dell’antisemitismo a livello mondiale e, con essa, il significato particolare dello Stato di Israele.

Israele è sempre entrambe le cose allo stesso tempo: da un lato, uno Stato capitalista periferico sotto le condizioni capitaliste in una regione centrale della crisi; dall’altro, un prodotto specifico della resistenza contro l’ultima riserva dell’ideologia di crisi dell’imperialismo, di segno antisemita. Dunque l’esistenza di Israele, come già osservato, ha una qualità differente da tutti gli altri Stati. Mentre ormai non può più rappresentare un orizzonte di emancipazione sociale  il fatto che i palestinesi costituiscano uno Stato proprio, poiché ormai qui è divenuta attuale la prospettiva post-statale di liberazione, l’esistenza e difesa dello Stato di Israele rimane una condizione decisiva per sostenere la costituzione di un movimento di emancipazione globale e transnazionale di tipo nuovo, che non lasci disperdere l’ansia di libertà attraverso l’apertura della valvola di sfogo dell’ideologia antisemita. In altre parole: di tutti i paesi, Israele è l’ultimo a poter lasciarsi dietro l’esistenza statale e “nazionale”, nel quadro di un nuovo movimento emancipatorio.

L’esistenza in un certo modo duplice di Israele, come volgare Stato capitalista di crisi e come punto di riferimento globale dell’ideologia della crisi capitalista, esige di conseguenza una duplice approssimazione della critica sociale radicale. La difesa di Israele deve essere incondizionata verso una nuova critica del capitalismo; poiché questa difesa costituisce una conditio sine qua non per il contenuto emancipatorio della critica. La difesa incondizionata di Israele, allo stesso tempo, non può astrarre dal reale sviluppo sociale di Israele come una regione capitalista di crisi. Poiché la riduzione dello sviluppo sociale a sfera ideologica e, con essa, la riduzione della critica a critica dell’ideologia, magari ulteriormente ristretta alla sindrome antisemita, manderebbe a gambe all’aria la relazione tra la società e l’ideologia e trasformerebbe la stessa critica dell’ideologia in ideologia.

In questa misura è anche errato, nella prospettiva della critica radicale, sussumere gli avvenimenti in Medioriente esclusivamente allo sbocciare dell’ideologia di crisi dell’antisemitismo in Occidente e soprattutto in Germania, e così, con il pretesto che la tematizzazione dell’evoluzione sociale in Israele “serve” solo all’antisemitismo, nascondere questo sviluppo reale o tingerlo di rosa.

L’antisemitismo non può essere analizzato e combattuto indipendentemente dal suo fondamento sociale, il moderno sistema produttore di merci. Slegata dalla realtà sociale, la critica si trasforma in affermazione, come dimostra la discussione sull’antisemitismo ideologicamente ridotta dentro la sinistra radicale. Se la teoria critica ha sempre sottolineato il nesso interno essenziale tra il capitalismo e l’antisemitismo, tra Auschwitz e la storia tedesca del capitalismo, ora si vorrebbe esattamente al contrario stigmatizzare la critica del capitalismo in quanto tale perché macchiata di antisemitismo, così da costringere la sinistra al silenzio. Una sinistra che ceda a questa pressione deve desistere da sé stessa: il riduzionismo nella critica dell’ideologia, cioè la totale sussunzione della critica sociale a critica dell’antisemitismo, si rivela allora come banale difesa del capitalismo mondiale imperiale globale, sotto il falso pretesto di una critica dell’antisemitismo, che proprio per questo in sé stessa deve smettere di essere vera.

Il ruolo della teoria critica non può essere quello di inventare “piani di pace” per il Medioriente sulla base del  "realismo" capitalista. Su questa base, in qualsiasi modo, non si avrà pace mai, da nessun lato. Il ruolo della critica è l’analisi incorruttibile delle relazioni sociali, dalla quale risulta come conseguenza immanente la critica radicale di queste relazioni. In questo senso, relativamente alle complesse relazioni tra l’ideologia di crisi antisemita (in tutto il mondo, in Occidente e specialmente in Germania e in Austria), l’evoluzione sociale in Israele e il cosiddetto conflitto della Palestina, si può solo trattare di legare la difesa dell’esistenza di Israele all’appoggio della sinistra secolare israeliana e a una lotta comune contro il processo di imbarbarimento del sistema produttore di merci a livello mondiale.

Questa necessaria connessione ha il suo contenuto obiettivo primario proprio nella difesa di Israele, in quanto esistenza diventata Stato di resistenza contro la sindrome globale dell’antisemitismo; poiché questa esistenza si trova minacciata non solo dall’esterno ma anche dall’interno. Negli anni ‘90 è avvenuta una rottura nella società israeliana, al punto da mettere in discussione il riferimento comune alla memoria dell’olocausto. Così ha dichiarato il rabbino ultrà Chaim Miller: "La nostra intenzione è quella di una netta separazione tra credenti e non credenti sulla questione dell’olocausto" (cit.: Der Spiegel 8/1995). Il capo del partito ultra-religioso Agu-dat-Israel, Mosche Feldmann, "ha preteso l’istituzione di un luogo della memoria alternativo per i credenti" (ibidem). Questa dissociazione minaccia gli ebrei secolari vittime dei nazisti di essere eliminati dalla memoria: le “vere” vittime ormai sarebbero allora solo gli strettamente religiosi, così come i “veri” ebrei vivi devono essere solo gli ultras. Una tale delegittimazione interna del progetto sionista mette in discussione il luogo storico di Israele, dal momento che i criteri di inclusione e di esclusione sono sostanzialmente  spostati e il fondamento (negativo) della legittimazione cessa di essere l’antisemitismo globale, per diventarlo il nazionalismo etnico positivo, escludente la sinistra ebraica secolare.

Non si prevede che nel breve o medio periodo Israele possa essere vinta militarmente in senso tradizionale dal mondo arabo, che è rimasto molto indietro in termini capitalistici. Invece di ciò, Israele è messa in discussione dalla pulsione di morte della ragione capitalistica, sia fuori che all’interno; dai comandi suicidi, magari con cariche esplosivi atomiche o biologiche, così come dall’autodistruzione teocratica e razzista. Il calcolo dell’imperialismo occidentale del petrolio potrebbe accettare esattamente una distruzione violenta della società israeliana dall’interno per una riorganizzazione regionale, che allo stesso tempo lascerebbe libero il cammino all’ideologia di crisi antisemita nello stesso occidente.

(Cap. IV del Libro La Guerra per l’ordine mondiale, Robert Kurz, 2003)

traduzione by lpz