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sabato, luglio 19, 2014

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin
traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti
Questo frammento, databile alla metà del 1921, è tratto da: Walter Benjamin, Sul concetto
di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi 1997. Una nuova e bella traduzione
del solo frammento con testo a fronte è stata pubblicata di recente da Il Melangolo
a cura di Carlo Salzani.


Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente
all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta
un tempo le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo, non
solo di una conformazione condizionata religiosamente, come pensa Weber, bensì di un
fenomeno essenzialmente religioso condurrebbe ancora oggi sulla cattiva strada di una smisurata
polemica universale. Non possiamo chiamare in causa la rete in cui ci troviamo. Più tardi
tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea.
Però tre tratti di questa struttura religiosa sono già al presente riconoscibili. In primo luogo
il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. Tutto in
esso ha significato solo in relazione diretta al culto, esso non conosce alcuna dogmatica
particolare, alcuna teologia. Da questo punto di vista l’utilitarismo assume la sua colorazione
religiosa. A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo:
la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve
et sans merci. Qui non c’è nessun “giorno feriale”, nessun giorno che non sia un giorno di
festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno
dell’adorante. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente,
il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo
sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un’immensa coscienza della
colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa,
bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere
Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. Quest’ultima non
la si deve qui attendere nel culto stesso, e nemmeno nella riforma di questa religione, che
dovrebbe potersi attenere a qualcosa di sicuro in essa, né nel rinnegarla. Inerisce all’essenza
di questo movimento religioso, che è il capitalismo, il perdurare fino alla fine, fino alla
finale, piena colpevolizzazione di Dio, il raggiunto stato di disperazione del mondo che per ora
ancora si spera. In questo risiede lo storicamente inaudito del capitalismo, che la religione non
è più riforma dell’essere, ma la sua distruzione. L’espansione della disperazione a stato religioso
del mondo dal quale si debba attendere la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta.
Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo. Questo passaggio del pianeta
uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine della sua orbita è l’ethos
che costituisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione
capitalistica inizia ad adempierla. Il quarto tratto di essa è che il suo Dio dev’essere
tenuto segreto, ci si può rivolgere a lui solo allo zenit della sua colpevolizzazione. Il culto
viene celebrato davanti a una divinità ancora immatura, ogni idea, ogni pensiero rivoltole
ferisce il mistero della sua maturazione.
La teoria di Freud appartiene anch’essa al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata
in modo totalmente capitalistico. Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia,
ancora da chiarire pienamente, il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio.
II tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di
Nietzsche. L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione,
nella purificazione, nella penitenza bensì nell’incremento apparentemente
costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. Perciò sono inconciliabili l’incremento
e lo sviluppo nel senso del non facit saltum. Il superuomo è l’uomo storico arrivato
senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo. Questo far esplodere il cielo per mezzo di
umano intensificato, che religiosamente è e rimane (anche per Nietzsche) produzione di
colpa, lo ha pregiudicato Nietzsche. E analogamente Marx: il capitalismo che non si converte
diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in quanto tali funzione della
colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo.
Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.
II capitalismo – come dev’esser da dimostrare non solo nel calvinismo, ma nelle restanti direzioni
cristiane ortodosse – in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e
in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.
Confronto tra le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e le banconote di diversi stati
dall’altro.
Lo spirito che parla dell’ornamentio delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto. Sorel Reflexions sur la violence p. 262
Superamento del capitalismo tramite la migrazione Unger Politik und Metaphysik p. 44
Fuchs: struttura della società capitalistica o s.
Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie 2. Bd. 1919/20
Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. 1912)
Vedi innanzitutto la letteratura citata in Schönberg sotto II Landauer: Aufruf zum Sozialismus
p. 144
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza
spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti.
Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice
di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono
nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-
materiale.
Il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è
tramutato nel capitalismo.
Metodologicamente si dovrebbe innanzitutto indagare quali collegamenti con il mito abbia
istituito il denaro nella storia, fino a che dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così tanti
elementi mitici da poter costituire il proprio mito.
Guidrigildo / Thesaurus delle buone opere / compenso che è dovuto al prete. Plutone come
dio della ricchezza.
Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit 1816 p. 56 ss.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura risolutiva, per noi in questa [sua]
qualità al tempo stesso redentiva e omicida, del sapere: il bilancio come il sapere redentivo
e liquidatorio.
Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione il richiamare alla mente che il
paganesimo originario di sicuro ha concepito in primo luogo la religione non come un interesse
“superiore”, “morale” bensì come l’interesse più immediato, pratico, che cioè, in altre parole,
proprio come l’odierno capitalismo, non è stato affatto in chiaro circa la propria natura
“ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità
vedeva un membro certo di essa, proprio nel senso in cui la borghesia odierna lo vede nei
suoi appartenenti non produttivi.

Un commento, oggi di Giorgio Agamben

1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei
cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca
che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà
a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici,
semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo
americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro
in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che
aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno
delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a
partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio
sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di
…” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo
senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe
fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo)
non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un
biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente
autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano,
che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come
è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua
capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel
debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze
del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e
ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste
monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie.
La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento
coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia
Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto
la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il
denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito
che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di
Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da
Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX
e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”).
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione
della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso,
che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della
modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema
e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento
di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione
di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di
festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide
con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione
di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non
espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione
si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale…
e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel
destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza,
ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del
mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i
tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con
esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio
del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso
è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che
comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana
appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa…
è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitali-
smo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma
immediatamente in socialismo”.
3. Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione,
come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che
cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con
questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e
gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a
un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes
pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di
trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco
di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire:
pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode
presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione
che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che
non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il
nostro credito e la nostra parola. Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è
ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione
fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci
alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè,
quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”:
“Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere…
Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides
in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo
riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla
fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi,
da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun
oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief ) – cioè:
nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto
altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire
credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e
gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.
4. Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità
in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile
alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare
– in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria
fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno,
cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è
un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che
“sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli
ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate.
Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo,
prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo
“come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora
immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista,
di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata
annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in
senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un
mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.
5. Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a
vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario
contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali
e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla
luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio
della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno
in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era
naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non
aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta,
al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio
tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo
con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997,
p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale
aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito
dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per
così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione
futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione
capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che
non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso,
sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato
atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento
della religione capitalista: il credito-debito.

FONTE: http://www.lostraniero.net/

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