Parte seconda
Il viandante e la sua ombra
L 'ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene
un'occasione.
Il viandante: Parla — dove? e chi? E quasi come se sentissi parlare me stesso, solo
con voce più debole della mia.
L'ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un'occasione di parlare?
Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la
sento, ma non ci credo.
L'ombra: Accettiamolo e non pensiamoci oltre, tra un'ora sarà tutto finito.
II viandante: Pensai proprio così, quando in un bosco vicino a Pisa vidi prima due e
poi cinque cammelli.
L'ombra: E bene che ambedue siamo ugualmente indulgenti verso di noi, se per una
volta la nostra ragione tace: così anche nel nostro colloquio non ci adireremo e non
metteremo subito le manette all'altro se la sua parola ci suonerà incomprensibile.
Se proprio non si sa rispondere, basta già dire qualcosa: questa è l'equa condizione
alla quale io mi intrattengo con qualcuno. In un dialogo un po' lungo, anche il più
savio diventa una volta pazzo e tre volte babbeo.
Il viandante: Le tue modeste pretese non sono lusinghiere per colui al quale le
confessi.
L'ombra: Debbo dunque lusingare?
II viandante: Pensavo che l'ombra dell'uomo fosse la sua vanità: ma questa non
chiederebbe mai: «debbo dunque lusingare?».
L'ombra: La vanità umana, se ben la conosco, non domanda neppure, come io ho
già fatto due volte, se può parlare: parla sempre.
Il viandante: Solo adesso mi accorgo quanto sono scortese nei tuoi confronti, mia
cara ombra: non ho ancor neppure fatto parola su quanto mi rallegra di ascoltarti, e
non solo di vederti. Lo sai, io amo l'ombra come amo la luce. Perché esistano la
bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere,
l'ombra è necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: anzi si tengono
amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l'ombra le scivola dietro.
L'ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci
della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e
scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell'ombra che tutte le cose
mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza — io sono anche
quell'ombra.
Il viandante: Credo di capirti, anche se ti sei espressa in modo un po' umbratile. Ma
avevi ragione: i buoni amici si dicono talvolta una parola oscura, come segno
d'intesa, che dev'essere un enigma per ogni altra persona. E noi siamo buoni amici.
Perciò basta con i preamboli! Centinaia di domande premono il mio animo, e il
tempo in cui tu potrai rispondervi è forse troppo breve. Vediamo su che cosa
incontrarci in fretta e pacificamente.
L'ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non dirai a nessuno come
abbiamo parlato insieme!
Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? II cielo mi guardi da lunghi ed
elaborati dialoghi scritti! Se Platone avesse avuto meno gusto a elaborare, i suoi
lettori avrebbero più gusto a lui. Un dialogo che nella realtà delizia è, se
trasformato in scrittura e letto, un quadro con prospettive del tutto false: tutto è
troppo lungo o troppo corto. — Tuttavia potrò forse comunicarti su che cosa ci
siamo accordati?
L'ombra: Questo mi basta; perché tutti vi riconosceranno solo le tue opinioni;
nessuno si ricorderà dell'ombra.
Il viandante: Forse ti sbagli, amica! Sinora nelle mie opinioni si è vista più l'ombra
che me.
L'ombra: Più ombra che luce? È possibile?
Il viandante: Sii seria, cara matta! La mia prima domanda esige subito serietà!
8.
Nella notte. — Non appena scende la notte, cambia la nostra percezione delle cose
più vicine. C'è il vento che si insinua per vie proibite, bisbigliando, come se
cercasse qualcosa, turbato perché non la trova. C'è la luce della lampada, dal cupo,
rossastro bagliore, che guarda stanca e resiste malvolentieri alla notte, schiava
impaziente dell'uomo che veglia. Ci sono i respiri del dormiente, il loro ritmo
raccapricciante al quale un sempre ritornante affanno sembra scandire la melodia;
noi non la udiamo, ma come il petto del dormiente si solleva, sentiamo una stretta
al cuore e quando il respiro si abbassa, quasi estinguendosi in una quiete mortale, ci
diciamo: «riposa un poco, povero spirito travagliato!» — a ogni vivente
auguriamo, poiché vive così oppresso, una pace eterna: la notte induce alla morte.
Se gli uomini rinunciassero al sole e conducessero la lotta contro la notte al chiaro
di luna o al lume dell'olio, quale filosofia li avvolgerebbe nel suo velo! Già fin
troppo si nota dalla natura intellettuale e spirituale dell'uomo, come essa venga
complessivamente offuscata da quella metà di oscurità e assenza di sole che ricopre
la vita.
9.
Da dove ha origine la dottrina della libertà del volere. — Su uno la necessità grava
sotto forma delle sue passioni, su un altro come abitudine ad ascoltare e obbedire,
su un terzo come coscienza logica, sul quarto come capriccio e malizioso piacere
dell'avventura. Da questi quattro, comunque, la libertà del volere viene cercata
appunto là dove ognuno di loro è più strettamente legato: è come se il baco da seta
cercasse la libertà del suo volere proprio nel tessere. Da dove viene ciò?
Evidentemente dal fatto che ciascuno si ritiene più libero là dove è più grande la
sua sensazione di vita, quindi, come abbiamo detto, ora nella passione, ora nel
dovere, ora nella conoscenza, ora nel capriccio. il singolo individuo ritiene
istintivamente che ciò che lo rende forte e lo stimola debba anche essere sempre
l'elemento della sua libertà: egli considera dipendenza e ottusità, indipendenza e
sensazione vitale come abbinamenti necessari. — Viene così erroneamente traslata
all'estremo campo metafisico un'esperienza che l'individuo ha fatto nel campo
sociopolitico, dove l'uomo forte è anche l'uomo libero, dove il senso vitale di gioia
e di dolore, l'intensità della speranza, l'audacia del desiderio, la potenza dell'odio
sono pertinenza dei dominanti e degli indipendenti, mentre l'assoggettato, lo
schiavo vive oppresso e ottuso. — La teoria della libertà è una invenzione delle
classi dominanti.
10.
Non sentire nuove catene. — Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci
riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia
presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e
riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto
che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse,
sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento. — E se invece fosse vero
il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero
quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per
le nuove catene egli soffre ancora: — «libertà del volere» non significa altro che
non sentire nuove catene.
11.
La libertà del volere e l'isolamento dei fatti. — La nostra abituale, imprecisa
osservazione prende un gruppo di fenomeni come una unità e lo chiama un fatto:
fra questo e un altro fatto essa si figura uno spazio vuoto, essa isola ogni fatto. Ma
in verità tutto il nostro fare e conoscere non è una sequenza di fatti e di spazi vuoti,
intermedi, ma un flusso continuo. Ora, proprio la fede nella libertà della volontà è
incompatibile con l'idea di un fluire continuo, omogeneo, indiviso e indivisibile;
essa presume che ciascuna singola azione sia isolata e indivisibile; è un atomismo
nell'ambito del volere e del conoscere. — Proprio come comprendiamo
inesattamente i caratteri, così facciamo con i fatti: parliamo di caratteri uguali, di
fatti uguali: né gli uni né gli altri esistono. Ora, noi lodiamo o biasimiamo, ma solo
in base a questa falsa premessa che vi siano fatti uguali, che esista un ordinamento
graduato di generi di fatti al quale corrisponda un ordinamento graduato di valori:
quindi noi non isoliamo soltanto il singolo fatto, ma anche i gruppi di fatti ritenuti
uguali (azioni buone, cattive, pietose, invidiose eccetera) — in entrambi i casi
erroneamente. — La parola e il concetto sono il motivo più evidente per cui
crediamo a questo isolamento di gruppi di azioni: con essi noi non designiamo
soltanto le cose, noi intendiamo originariamente afferrare con essi l'essenza delle
cose stesse. Con parole e concetti veniamo ancor oggi continuamente tentati di
immaginare le cose più semplici di quello che sono, separate l'una dall'altra,
indivisibili, ognuna esistente di per sé. Nel linguaggio si nasconde una mitologia
filosofica che, per quanto si possa essere prudenti, sbuca fuori a ogni istante. La
fede nella libertà del volere, e cioè nei fatti uguali e nei fatti isolati, trova nel
linguaggio il suo fedele evangelista e avvocato.
13.
Dire due volte. — E bene esprimere subito una cosa due volte e darle un piede
destro e uno sinistro. La verità può si stare in piedi su una gamba, ma con due
camminerà e andrà in giro.
14.
L'uomo, il commediante del mondo. — Ci dovrebbero essere creature più di spirito
di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel
fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si
ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio
ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di
divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla
terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo.
Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per
trovare, nei gesti tragico-orgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma
soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa creatura, la sua gioia —
quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più
spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito. — Persino qui, dove la nostra
umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno
scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione,
qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel
mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca
talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la
goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del
mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni
simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi — ma francamente
neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il
germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di
questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una
vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé — quindi, in nessun
caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza. Forse la formica del bosco è
altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco,
come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente
la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo
a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un
crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato
non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante
sepolcro dell'umanità.
16.
Dove è necessaria l'indifferenza. — Nulla sarebbe più assurdo del voler attendere,
come tanto spesso viene consigliato, ciò che la scienza stabilirà definitivamente
circa le cose prime e ultime, e del pensare (e soprattutto credere!) fino a quel
momento nel modo tradizionale. L'impulso a voler assolutamente avere in questo
ambito solo certezze è una inclinazione religiosa, nulla di meglio, — una forma
nascosta e solo apparentemente scettica di «esigenza metafisica», abbinata al
pensiero recondito che ancora per molto, molto tempo non vi sarà alcuna
prospettiva di ottenere queste certezze ultime e che fino ad allora il «credente» avrà
diritto di non preoccuparsi dell'intero settore. Queste certezze sugli estremi
orizzonti non ci sono affatto necessarie per vivere un'umanità piena e valida: non
più di quanto siano necessarie alla formica per essere una buona formica. Assai più
dobbiamo invece chiarire a noi stessi da dove effettivamente provenga quella fatale
importanza che per tanto tempo abbiamo attribuito a quelle cose: e a tale scopo ci
serve la storia dei sentimenti etici e religiosi. Infatti solo sotto l'influsso di questi
sentimenti sono diventate così rilevanti e terribili per noi le più spinose questioni
della conoscenza: si sono trascinati negli estremi settori, dove l'occhio spirituale
ancora giunge ma senza penetrarvi, concetti come colpa e punizione (e
precisamente punizione eterna!): e questo tanto più incautamente quanto più oscuri
erano questi settori. Dai tempi più remoti si è fantasticato con temerarietà laddove
non si poteva stabilire nulla, e si sono indotti i posteri a prendere queste fantasie
come cose serie e vere, da ultimo con l'esecrabile espediente che il credere valga
più del sapere. Ora, a proposito di quelle ultime cose non è necessario opporre il
sapere al credere, ma piuttosto l'indifferenza circa il credere e il preteso sapere in
questi campi! Tutto il resto ci dev'essere più vicino di ciò che finora ci è stato
predicato come più importante — intendo quegli interrogativi: perché l'uomo?
quale sorte avrà dopo la morte? come si riconcilia con Dio? o comunque possano
essere formulate queste curiosità. Non più di questi interrogativi dei religiosi ci
interessano le questioni dei dogmatici filosofici, siano essi idealisti, materialisti o
realisti. Tutti quanti ci spingono a prendere una decisione in campi nei quali non è
necessario né il credere né il sapere; persino ai più grandi appassionati della
conoscenza è più utile che intorno a tutto ciò che è ricercabile e accessibile alla
ragione si stenda una fascia acquitrinosa, nebulosa e illusoria; la fascia
dell'impenetrabile, dell'eternamente fluido e indefinibile. Proprio dal confronto con
il regno dell'oscurità ai margini della terra del sapere aumenta continuamente di
valore il chiaro e vicino, vicinissimo mondo del sapere. — Dobbiamo ridiventare
buoni vicini delle cose prossime e non distogliere così sprezzantemente lo sguardo
da esse, come abbiamo fatto sinora, verso le nuvole e i mostri notturni. In selve e
caverne, in zone acquitrinose e sotto cieli coperti — qui l'uomo è vissuto troppo a
lungo come su gradini di civiltà di interi millenni, e vissuto miseramente. Qui ha
appreso a disprezzare il presente e i vicini e la vita e se stesso — e noi, abitanti dei
più luminosi campi della natura e dello spirito, riceviamo ancora, per eredità, nel
nostro sangue qualcosa di questo veleno del disprezzo per cose che è prossimo.
19.
Immoralisti. — oggi i moralisti debbono accettare di venir additati quali
immoralisti, perché sezionano la morale. Ma chi vuol sezionare deve uccidere:
tuttavia solo perché si possa meglio conoscere, meglio giudicare, meglio vivere;
non affinché tutto il mondo sezioni. Ma purtroppo gli uomini continuano a credere
che ogni moralista debba essere anche in tutto il suo agire un esempio che gli altri
debbono imitare: essi lo scambiano per il predicatore della morale. I primi moralisti
non sezionavano abbastanza e predicavano troppo spesso; da questo derivano
quella confusione e quelle spiacevoli conseguenze per i moralisti attuali.
35.
Casistica del vantaggio. — Non esisterebbe una casistica della morale se non
esistesse una casistica del vantaggio. L'intelligenza più libera e sottile spesso non
basta a scegliere tra due cose in modo che la sua scelta implichi necessariamente il
vantaggio maggiore. In tali casi si sceglie perché bisogna scegliere, e dopo si soffre
una specie di mal di mare del sentimento.
37.
Una specie di culto delle passioni. — Voi, uomini tetri e bisce filosofiche, per
accusare il carattere di tutto il mondo parlate del carattere terribile delle passioni
umane. Come se ovunque ci sono state passioni, ci sia anche stata questa terribilità!
Come se nel mondo dovesse sempre esserci questa terribilità! — Per aver
trascurato le cose piccole, per non aver osservato voi stessi e coloro che debbono
essere educati, avete fatto assurgere le passioni a mostri tali che oggi già alla parola
«passione» siete presi da paura! Stava a voi e sta a noi togliere alle passioni il loro
carattere terribile e prevenirle in modo che non diventino torrenti devastatori. —
Non bisogna gonfiare i propri errori a fatalità eterne; lavoriamo piuttosto
onestamente a trasformare tutte le passioni dell'umanità in gioia.
39.
Origine dei diritti. — I diritti risalgono in massima parte a una tradizione, e la
tradizione a un accordo accaduto una sola volta. Un tempo si fu dapprima
soddisfatti da entrambe le parti per le conseguenze dell'accordo raggiunto, e poi si
fu troppo pigri per rinnovarlo formalmente; così si continuò a vivere come se
l'accordo venisse sempre rinnovato, e gradualmente, quando la dimenticanza ne
coprì con le sue brume le origini, si credette di possedere una situazione sacra e
immutabile, sulla quale ogni generazione doveva continuare a costruire. La
tradizione divenne allora costrizione, anche se non recò più quell'utile in base al
quale si era originariamente stipulato l'accordo. — I deboli vi hanno trovato in ogni
tempo la loro solida rocca: e tendono a eternare quell'accordo di una volta, quella
concessione di grazia.
40.
Importanza del dimenticare nel sentimento morale. — Le stesse azioni che
all'interno della società primitiva furono dapprima dettate dall'utilità comune, sono
poi state compiute dalle generazioni successive in base ad altri motivi: per timore o
rispetto verso coloro che le esigevano e consigliavano, o per abitudine, perché sin
da bambini le si era vedute compiere intorno a sé, o per benevolenza, perché il farle
causava ovunque gioia e visi consenzienti, o per vanità, perché venivano lodate.
Tali azioni di cui è stato dimenticato il motivo fondamentale, quello dell'utilità,
vengono dette poi morali: non perché vengano compiute in base a quegli altri
motivi, ma perché non sono compiute per consapevole utilità. — Da dove proviene
quest'odio per l'utilità, che qui diviene visibile, dove ogni agire degno di lode si
separa formalmente da ogni agire in base a un'utilità? — Evidentemente la società,
focolare di ogni morale e di ogni lode per l'agire morale, ha dovuto combattere
troppo a lungo e troppo duramente contro l'utile personale e l'egoismo del singolo,
per non stimare moralmente più alto ogni altro motivo che non sia l'utilità.
S'ingenera così l'apparenza che la morale non sia nata dall'utilità; mentre in origine
essa è l'utilità della società, che a gran fatica si è affermata contro tutte le utilità
private e si è fatta considerare superiore ad esse.
44.
Livelli della morale. — La morale è innanzitutto un mezzo per conservare in
genere la comunità e scongiurarne la decadenza; poi è un mezzo per mantenere la
comunità a un certo livello e in una certa bontà. I suoi motivi sono la paura e la
speranza: e tanto più rudi, potenti e grossolani, quanto più forte è la tendenza
all'errore, all'unilateralità, all'individualismo. Debbono qui operare i mezzi di
intimidazione più terribili, sinché non vorranno agire mezzi più miti e non si possa
raggiungere in altro modo quella duplice specie di conservazione (tra i suoi mezzi
più forti è l'invenzione di un aldilà con un inferno eterno). Allora dovranno esserci
torture dell'anima e aiutanti del boia. Altri gradi della morale e quindi mezzi per lo
scopo indicato sono i dettami di un dio (come la legge mosaica); gradi ulteriori e
più elevati, i dettami di un'idea assoluta di dovere con il «tu devi» — gradini, tutti,
ancora rozzamente sbozzati ma larghi, perché gli uomini non sanno ancora posare
il piede su quelli più sottili e stretti. Viene poi una morale dell'inclinazione, del
gusto, e infine quella della conoscenza — la quale sta al di sopra di tutti gli
illusionistici motivi della morale, ma ha compreso come per lungo tempo l'umanità
non abbia potuto averne altri.
47.
Cloache dell'anima. — Anche l'anima deve avere le sue determinate cloache nelle
quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la
patria oppure il mondo oppure infine — per quelli molto boriosi (voglio dire i
nostri cari «pessimisti» moderni) — il buon dio.Contenuto della coscienza. — Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che
negli anni dell'infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da
persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel
senso del dovere («questo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché
debbo? In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un «perché», l'uomo agisce
senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. La fede nelle autorità è la fonte
della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell'uomo, ma la
voce di alcuni uomini nell'uomo.
74.
La preghiera. — Solo con due premesse il pregare — quest'usanza dei tempi
antichi non ancora completamente estinta — avrebbe un senso: dovrebbe esser
possibile persuadere o dissuadere la divinità, e chi prega dovrebbe saper meglio di
ogni altro di che cosa abbia bisogno, che cosa per lui sia veramente da desiderare.
Ma queste due premesse, accolte e tramandate in tutte le altre religioni, furono
negate proprio dal cristianesimo; se esso tuttavia conservò la preghiera, nonostante
la sua fede in una ragione divina onnisciente e onniprevidente, la quale appunto
rende in fondo la preghiera priva di senso, anzi sacrilega, — anche in questo
mostrò ancora una volta la sua ammirevole astuzia di serpente; perché un
comandamento chiaro, «non pregare», avrebbe portato i cristiani per noia a un noncristianesimo.
Nell'ora et labora cristiano, l'ora tiene il posto del piacere: e che
cosa avrebbero fatto senza l'ora quegli infelici che si negarono al labora, i santi! —
ma intrattenersi con Dio, chiedergli ogni sorta di cose piacevoli, e divertirsi persino
un po' sul fatto di esser tanto folli da avere ancora desideri, nonostante un padre
così eccellente, — questa fu per i santi un'ottima invenzione.
78.
Credere nella malattia in quanto malattia. — Solo il cristianesimo ha dipinto il
diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel
mondo. La fede nei rimedi che esso ha offerto contro di esso è stata a poco a poco
scossa sin nelle sue più profonde radici: ma tuttora esiste la fede nella malattia che
esso ha insegnato e diffuso.
81.
La giustizia del mondo. — E possibile sconvolgere la giustizia del mondo — con la
teoria della totale irresponsabilità e innocenza di ognuno: ed è già stato fatto un
tentativo nella stessa direzione proprio in base alla teoria opposta, della totale
responsabilità e colpevolezza di ciascuno. Fu il fondatore del cristianesimo a voler
abolire la giustizia terrena e cancellare dal mondo il giudizio e la punizione. Egli
infatti intendeva ogni colpa come «peccato», ossia come offesa nei confronti di Dio
e non come offesa nei confronti del mondo; d'altra parte riteneva tutti in
larghissima misura e quasi sotto ogni rispetto come peccatori. Ma i colpevoli non
debbono essere giudici dei loro pari: così sentenziò la sua equità. Tutti i giudici
della giustizia terrena erano dunque ai suoi occhi colpevoli quanto i condannati, e
la loro aria di innocenza gli appariva ipocrita e farisaica. Inoltre egli guardava ai
motivi delle azioni e non agli esiti, e riteneva che solo uno avesse l'acutezza
necessaria per giudicare sui motivi: lui stesso (o, come si esprimeva: Dio).
82.
Affettazione nel congedo. — Chi vuol separarsi da un partito o da una religione
pensa che ora gli sia necessario confutarli. Ma questo è un pensiero assai superbo.
Necessario è solo che egli comprenda chiaramente quali appigli lo tennero legato a
quel partito o a quella religione, e che essi non lo fanno più, quali propositi lo
hanno spinto verso di quelli e ora lo portano altrove. Noi non abbiamo aderito a
quel partito o a quella religione per rigorosi motivi di conoscenza: separandocene,
non dobbiamo nemmeno fingerlo.
84.
I prigionieri. — Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile dove lavoravano: il
sorvegliante mancava. Alcuni di loro si misero subito al lavoro com'erano soliti,
altri rimasero inoperosi guardandosi intorno con caparbietà. Allora si fece avanti
uno e disse: «Lavorate quanto vi pare, oppure non fate nulla: è la stessa cosa. Le
vostre macchinazioni segrete sono state scoperte, di recente il sorvegliante vi ha
spiato e nei prossimi giorni vuol pronunciare su di voi un terribile giudizio. Voi lo
conoscete, è duro e vendicativo. Ora però fate attenzione: sinora non mi avete
conosciuto bene: io non sono quel che sembro, ma molto di più: sono il figlio del
sorvegliante e posso tutto presso di lui. Posso salvarvi, voglio salvarvi; ma, beninteso,
solo quelli di voi che credono che io sono il figlio del sorvegliante; gli altri
raccolgano il frutto della loro incredulità». — «Ora», disse dopo un silenzio un
anziano prigioniero, «che cosa può importarti che ti crediamo o no? Se sei
veramente il figlio e puoi fare quel che dici, metti una buona parola per noi tutti:
sarebbe veramente molto buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso sul credere
e sul non credere!» — «E», gridò intanto un giovane, «io non gli credo: si è solo
messo in testa qualcosa. Scommetto che tra otto giorni noi ci troveremo
esattamente come ora, e che il sorvegliante non sa nulla.» — «E se anche sapeva
qualcosa, non lo sa più», disse l'ultimo dei prigionieri che solo allora era giunto nel
cortile, «il sorvegliante è morto ora, all'improvviso.» — «Olà», gridarono tutti
confusamente, «olà! Signor figlio, signor figlio, come la mettiamo con l'eredità?
Siamo forse ora tuoi prigionieri?» — «Ve l'ho detto», rispose quello dolcemente,
«lascerò libero chiunque creda in me, così com'è certo che mio padre vive ancora.»
I prigionieri non risero, alzarono le spalle e lo lasciarono.
85.
Il persecutore di Dio. — Paolo ha concepito il pensiero, e Calvino lo ha elaborato,
che per innumerevoli uomini la dannazione è stabilita dall'eternità, e che questo bel
piano del mondo è stato concepito in modo che vi si manifesti la maestà di Dio;
dunque cielo e inferno e umanità esistono — per soddisfare la vanità di Dio! Quale
crudele e insaziabile vanità deve aver divampato nell'animo di colui che per primo
o per secondo pensò una cosa del genere! — Paolo è dunque pur rimasto Saulo —
il persecutore di Dio.
193.
Le epoche della vita. — Le vere epoche della vita sono quei brevi periodi di sosta
tra il sorgere e il tramontare di un pensiero o di un sentimento dominante. Qui c'è
ancora una volta sazietà: tutto il resto è sete e fame — oppure noia.
194.
Il sogno. — I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e giungono a
completarsi — il sogno di solito è una abborracciatura — , sono concatenazioni
simboliche di scene e immagini al posto di un linguaggio poetico narrante; essi
parafrasano le nostre esperienze o aspettative o relazioni con audacia ed esattezza
poetiche, sicché la mattina nel ricordare i nostri sogni ci meravigliamo sempre di
noi. Nel sogno consumiamo troppa arte — ed è per questo che di giorno spesso ne
siamo così poveri.
218.
La macchina come maestra. — La macchina insegna, attraverso se stessa,
l'interagire di masse umane in azioni in cui ciascuno deve fare una sola cosa: essa
fornisce il modello dell'organizzazione partitica e della condotta bellica. Non
insegna viceversa la padronanza individuale: di molti fa una macchina, e di ogni
individuo uno strumento per un unico scopo. Il suo effetto più generale è insegnare
il vantaggio della centralizzazione.
220.
Reazione contro la civiltà delle macchine. — La macchina, essa stessa prodotto del
più alto raziocinio, mette in moto nelle persone che le sono addette quasi
esclusivamente le energie più basse e prive di pensiero. Essa scatena così una
quantità di forze in genere, che altrimenti dormirebbe, questo è vero; ma non dà la
spinta a salire più in alto, a far meglio, a diventare artisti. Rende attivi e uniformi
— ma ciò produce alla lunga un effetto contrario, una disperata noia dell'anima che
per mezzo suo impara ad aver sete di un ozio ricco di mutamenti.
266.
Gli impazienti. — Proprio colui che diviene non vuole ciò che diviene: è troppo
impaziente per questo. Il giovane non vuole attendere sino a che dopo lunghi studi,
sofferenze e privazioni, il suo quadro degli uomini e delle cose sia completo: così
in buona fede ne accetta un altro, che è pronto e gli viene offerto, come se questo
dovesse anticipargli linee e colori del suo quadro: si getta tra le braccia di un
filosofo, di un poeta, e allora deve stare per lungo tempo a servizio e rinnegare se
stesso. In tal modo impara molto: ma spesso un giovane dimentica così ciò che è
più degno di essere appreso e conosciuto — se stesso, e rimane per tutta la vita un
partigiano. Bisogna ahimè superare molta noia, versare molto sudore prima di
trovare i propri colori, il proprio pennello, la propria tela! — E neanche allora si è
maestri nella propria arte di vivere — ma almeno si è padroni nella propria
officina.
267.
Non esistono educatori. — Come pensatori si dovrebbe parlare solo di
autoeducazione. L'educazione dei giovani ad opera d'altri o è un esperimento
condotto su un essere ancora sconosciuto e non conoscibile, oppure è un
livellamento di principio, volto a rendere il nuovo essere, quale esso sia, conforme
alle abitudini e ai costumi dominanti: dunque in ambedue i casi è cosa indegna del
pensatore; è opera dei genitori e dei maestri, che un coraggioso sincero ha definito
nos ennemis naturels. Un giorno, quando secondo l'opinione del mondo si è già
educati da tempo, si scopre se stessi: allora comincia il compito del pensatore;
allora è tempo di rivolgersi a lui, non come a un educatore, ma come a uno che ha
educato se stesso, che ha esperienza.
269.
Le età della vita. — Il paragone tra le quattro età della vita e le quattro stagioni è
una venerabile sciocchezza. Né i primi vent'anni della vita né gli ultimi venti
corrispondono a una stagione: posto che, in tale paragone, non ci si accontenti del
bianco dei capelli e di quello della neve e simili giochi cromatici. Quei primi
vent'anni sono una preparazione alla vita in genere, a tutto l'anno della vita, come
una specie di lungo capodanno; e gli ultimi venti sono uno sguardo d'insieme, una
interiorizzazione, una riconnessione e armonizzazione di tutto quel che si è vissuto
prima: così come si fa, in piccolo, nel giorno di San Silvestro con tutto l'anno che è
passato. In mezzo sta però effettivamente un periodo che suggerisce il paragone
con le stagioni: il periodo dai venti ai cinquant'anni (per calcolare qui in blocco a
decenni, mentre è ovvio che ciascuno dovrà affinare secondo la propria esperienza
questa rudimentale impostazione). Quei tre decenni corrispondono a tre stagioni:
all'estate, alla primavera e all'autunno — un inverno nella vita umana non c'è, a
meno che non si vogliano definire periodi invernali dell'uomo quei lunghi periodi
di malattia che purtroppo non di rado intessono la sua vita, duri, freddi, solitari,
poveri di speranze, infruttuosi. Gli anni dai venti ai trenta: caldi, fastidiosi,
burrascosi, pieni di esuberanza, stancanti, anni in cui alla sera, quando il giorno è
finito, si esalta questo asciugandosi la fronte: anni in cui il lavoro ci appare duro
ma necessario — questi anni sono l'estate della vita. Gli anni sulla trentina sono
invece la sua primavera; l'aria ora è troppo calda, ora troppo fredda, sempre
inquieta e stimolante: sgorgare di linfa, piena fioritura, profumo di fiori,
dappertutto: molti mattini e notti incantevoli, il lavoro, al quale ci risveglia il canto
degli uccelli, un vero e proprio fervore, una specie di godimento del proprio vigore,
potenziato da speranze anticipatrici di gioia. Infine gli anni dai quaranta ai
cinquanta: misteriosi, come tutto ciò che si arresta; simili a un elevato, vasto
altopiano sul quale spiri un vento fresco; sovrastato da un cielo chiaro e senza nubi,
che notte e giorno guarda con la stessa soavità: il tempo del raccolto e della più
grande serenità del cuore — è l'autunno della vita.
L'ombra: Di quel che hai detto, più di tutto mi è piaciuta una promessa: che volete
ridiventare buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di
noi, povere ombre. Perché, ammettetelo, sinora ci avete calunniato anche troppo
volentieri.
Il viandante: Calunniato? Ma perché non vi siete difese? Avevate pur vicine le
nostre orecchie.
L'ombra: Ci sembrava appunto di esservi troppo vicine per poter parlare di noi
stesse.
Il viandante: Delicato! Assai delicato! Ah, voi ombre siete «uomini migliori» di
noi, me ne accorgo.
L'ombra: Eppure ci avete chiamato «importune» — noi, che almeno una cosa
sappiamo fare — tacere e attendere — nessun inglese lo sa far meglio. È vero, ci si
trova molto, molto spesso al seguito dell'uomo, ma mai come sue schiave. Quando
l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà.
Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l'uomo e allora anche voi lo
abbandonate.
L'ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose
dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre intorno a lui. Pur di
possedere una totale conoscenza dell'uomo, sarei volentieri la tua schiava.
Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente
padrona? Oppure se tu rimarresti schiava ma, disprezzando il tuo padrone,
condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della
libertà, così come è rimasta a te — a te e a me! Giacché la vista di un essere non
libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero,
se qualcuno dovesse dividerle con me, — non voglio sapere di schiavi intorno a
me. Per questo non amo il cane, il pigro e scodinzolante parassita, che è diventato
«cane» solo come servo degli uomini, e di cui essi sogliono addirittura decantare la
fedeltà al padrone e il fatto di seguirlo come la sua …
L'ombra: Come la sua ombra, essi dicono. Forse anch'io oggi ti ho seguito per
troppo tempo? È stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un
attimo di pazienza! Il prato è umido, ho i brividi.
II viandante: Oh, è già tempo di separarsi? E ho dovuto alla fine farti ancora male,
l'ho visto: sei diventata più scura.
L'ombra: Arrossivo, nel colore in cui posso farlo. Mi è venuto in mente che spesso
sono stata ai tuoi piedi come un cane, e che tu allora …
Il viandante: E, in tutta fretta, non potrei farti ancora un piacere? Hai qualche
desiderio?
L'ombra: Nessuno, tranne quello che ebbe il «cane» filosofico davanti al grande
Alessandro: togliti un poco dal sole, ho troppo freddo.
Il viandante: Che debbo fare?
L'ombra: Cammina sotto quei pini e guarda i monti: il sole tramonta.
Il viandante: Dove sei? Dove sei?
FONTE:F. Nietzsche, Umano,, toppo umano, I e II, Arnoldo Mondadori, 2008