INTERVISTA A PAOLO VIRNO – 21 APRILE 2001
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Qual è stato il tuo percorso di
formazione politica e culturale e quali i tuoi inizi dell’attività militante?
Mi sono formato politicamente a Genova, dove
la mia famiglia viveva e io facevo il liceo. Genova era esposta all’influenza
di Torino, dove vi furono le prime occupazioni nel ’67; quindi nell’estate di
quell’anno si mobilitarono gli studenti medi (più vivaci di quelli
universitari, che invece erano in contatto con le organizzazioni tradizionali
dei partiti, UGI e via dicendo). Come studenti medi fondammo dunque il
Sindacato degli Studenti, che nell’autunno del ’67 fece i primi scioperi su
tematiche già sessantottesche, la lotta all’autoritarismo, solidarietà con gli
studenti greci dopo il golpe dei colonnelli e quant’altro. Quindi, questa fu
l’iniziazione. Alcuni di quelli con cui feci politica a quel tempo hanno avuto
i destini più diversi: da Carlo Panella che adesso lavora per Mediaset su
Italia, a Franco Grisolia che sta
nella segreteria di Rifondazione, trotzkista da allora a oggi senza variazione
alcuna (questo hanno di buono i trotzkisti, che si proseguono!). L’anno
scolastico ’67-’68 fu interamente genovese, con questo tipo di esperienza
importante come per tutti gli altri, però fatta nell’ambito di una città
operaia del triangolo industriale, quindi con rapporti con le fabbriche di
Sanpierdarena: comunque, la realtà operaia pesava immediatamente sulle cose
degli studenti. Invece, nell’autunno del ’68, sempre per un trasferimento della
famiglia, sono venuto ad abitare a Roma, e di lì a non molto ho preso contatti
e rapporti con il gruppo che sarebbe diventato Potere Operaio, che allora
sostanzialmente nella capitale era il gruppo delle facoltà scientifiche, del
discorso scienza e produzione, quello del Comitato di base alla Fatme.
Soprattutto quest’ultimo tra l’autunno del ’68 e l’inizio del ’69 fu
un’esperienza di massa che aprì e chiuse alcune lotte vincenti, quindi gli
operai portarono a casa delle cose concrete su cottimo, orario, ritmi e via
dicendo. Questo Potere Operaio a Roma all’origine non si chiamava ancora così,
poi l’esperienza decisiva è quella de La
Classe della primavera del ’69 a Torino. Sono anni della storia italiana in
cui c’è veramente un punto che è storiografico ma anche di paradigma teorico:
mentre sul ’68 si trovano mille voci e altre mille sul ’69, se ne trovano
poche, o comunque poche attente, a quello che accadde fra l’estate del ’68 e
l’estate del ’69, che è invece il punto di massima maturazione delle tematiche
della rivoluzione italiana. E’ l’anno dei comitati di base, delle vertenze
autonome nelle grandi e medie fabbriche. Dunque, l’autunno caldo sono i
consigli di fabbrica del ’69 ecc., il ’68 si sa: mentre questa stagione di
mezzo, che invece è il vero laboratorio, anche da un punto di vista teorico, il
più paradossale, il più complicato da capire, resta in generale perfettamente
ignorata, se non per quei pochi che rivendicano una tradizione critica. Quindi,
io presi contatto con quelli del comitato di base della mia scuola, si tratta
di forme di avvicinamento collettivo anzitutto attraverso le tematiche, quelle
de La Classe, il salario, l’orario,
questo materialismo contro tutte le storie sulla coscienza,
l’antiautoritarismo, cose pelose, cose francofortesi, ineffabili: invece, lì
c’era una radicalità intellettuale, in realtà anche teorica, che però faceva
cortocircuito immediato con le condizioni materiali. Entro in Potere Operaio
dopo gli episodi cruciali della primavera ’69 a Torino, dopo il convegno
nazionale dei comitati di base di fine luglio, e dunque alla fine di agosto del
’69 quando, dopo la rottura con Lotta Continua, si sta per formare realmente
Potere Operaio come organizzazione. Come tanti altri, mi colpì questa apertura
teorica e culturale, il fatto che si prendesse sul serio la grande cultura
borghese, che si prendesse sul serio il pensiero negativo, che si prendesse sul
serio la filosofia classica e la grande economia, Keynes, Schumpeter, in una
situazione in cui viceversa la cultura e i riferimenti correnti nel movimento
erano quelli che si sanno. Ciò naturalmente provocava anche dei vizi
(narcisismo, quelli che…), e ovviamente non tutti i compagni di Potere Operaio
leggevano quelle cose, non è questo il punto: ma una cosa è far finta di aver
letto Schumpeter o Keynes e una cosa è far finta di aver letto il Libretto di Mao. Ovviamente i
comportamenti parodistici e millantatori ci sono stati lì come dovunque, però
francamente di ciò che viene millantato c’è anche una qualità diversa e che
conta. Quindi, c’era questa apertura su Marx e le lotte, in mezzo la grande
filosofia e la grande economia: Marx contro il marxismo insomma, Marx come
strumento anche sociologico, anche empirico. E’ un discorso che poi torna
ancora nell’oggi, quando con Luogo Comune
e le altre esperienze si è sostenuto, anche con una certa amarezza, che le
pagine più avveniristiche di Marx, come quelle del Frammento sulle macchine, si sono realizzate ma senza rivoluzione,
senza crisi: il general intellect, la centralità del sapere e della comunicazione
nella produzione sociale postfordista (o come si vuol dire) si è realizzato,
tanto che quelle pagine risultano al limite un breviario per il sociologo più
che un discorso di tendenza. Ma già allora c’era questo ritenere congrui molti
capitoli de Il capitale, dei Grundrisse e via dicendo con quello che
materialmente avveniva giorno per giorno. Tra l’altro anni dopo (saltando
l’ordine cronologico) io vissi a Milano l’avventura, l’esperienza, la fortuna
di sostituire Oreste per un mese in un lavoro di quelli improbabili che aveva
lui, ossia una supplenza delle 150 ore all’Alfa di Arese. Per un mese feci
dunque da supplente al supplente, cioè ad Oreste. Allora facevo anche
intervento all’Alfa, quindi conoscevo bene tutte le avanguardie, però furono
una cosa curiosa queste specie di lezioni sul Primo Libro de Il capitale (era quello il libro di
testo): ci si può quindi immaginare la lettura del capitolo sulle macchine, del
capitolo sulla giornata lavorativa, fatta in parte con dei compagni, in parte
invece con degli operai qualsiasi, non particolarmente politicizzati. Il che
però era una specie di conferma, qualche anno più tardi (verso la fine del ’73)
di questo assunto generale dell’esperienza operaista, cioè sul carattere
immediatamente applicabile delle pagine più avanzate di Marx alla condizione
materiale dell’estrema modernità.
Sono stato in Potere Operaio dall’inizio alla
fine, dall’agosto-settembre ’69 fino al suo scioglimento e anche oltre. Prima,
a Roma, intervenendo durante l’autunno caldo nelle poche medie fabbriche romane
(come la Vox con 2000 operai sulla
Tiburtina), poi dopo con l’intervento territoriale nei quartieri, le
occupazioni delle case. Ci fu una prima puntata a Torino nell’autunno ’71 con
un’operazione un po’ brutta di Potere Operaio, che aveva fatto il convengo, si
era radicalizzato, c’erano le tematiche di rottura della crisi come si diceva
allora, di rottura dell’andamento della crisi e di forzatura prima che ci fosse
il riassestamento dell’organizzazione capitalista, tutte cose mal riassunte poi
nel termine dell’insurrezione: quindi, ci fu una specie di spedizione politica
che è la cosa meno opportuna rispetto ad una realtà come Torino, una di quelle
cose rapide, di resa dei conti nel gruppo. Fu insomma una cosa che non ricordo
volentieri, comunque per me fu importante questo primo rapporto sia con i
compagni di Torino, sia con l’impatto anche visivo e percettivo con la Fiat.
Questo nell’autunno ’71. Fui di nuovo Roma nel ’72, sono stato più o meno nelle
strutture dirigenti, nel direttivo e nella segreteria della sezione di Roma.
Dal marzo-aprile del ’72 sono nell’esecutivo nazionale. I gruppi si ossificano
e avvengono tutte queste cose che si sanno a memoria. Per esempio, io non sono
uno di quelli che dà un giudizio negativo sui gruppi. Fatemi credito sul fatto
che potrei parlare per due ore sulle parodie, le schifezze, le riprese di
vecchi modelli ecc.; detto questo, ritengo che dopo il ’69 si pone un problema
specifico, non lineare (mettendola in termini matematici) del potere politico.
In termini banalissimi, si potrebbe dire che è il problema dello sbocco
politico di un movimento che per la prima volta (per dirla con Gramsci contro
Gramsci) non cerca la rivoluzione contro Das
Kapital ma cerca la rivoluzione in accordo con Das Kapital: dunque, non contro la miseria e l’arretratezza, ma
contro il rapporto di produzione capitalistico e contro lo stesso lavoro
salariato. E’ una cosa che non ha avuto precedenti e che cercava le sue forme
politiche; ciò era avvertito fra i quadri di base del sindacato, della FIOM,
era un dibattito politico generale. A mio parere le posizioni come quelle di
Capanna a Milano (per dirne una fra le più famose allora, poi ovviamente il
dibattito attorno a metà degli anni ’70 sarà diverso, sarà il dibattito dell’autonomia),
sostenevano: “no, per carità, movimento politico di massa”, poi fiancheggiava
il PCI e faceva da servizio d’ordine di là a poco alla UIL. Quindi, là c’era un
problema, che nelle sue versioni migliori è stato secondo me elaborato e
raccolto da Lotta Continua e da Potere Operaio, poi anche in certa misura e a
loro modo (un modo diversissimo e lontanissimo dal mio) da Avanguardia Operaia
e da altri. Però, mi pare (certamente storiograficamente ma forse anche da un
punto di vista politico-teorico) una semplificazione indebita anche a distanza
di tanti anni dire che si è passato dall’eden delle assemblee del ’68 e dei
comitati di base della primavera del ’69 ai piccoli ritualismi aridi e
inconcludenti dei gruppi: io su quello sarei più cauto e ricorderei qual era la
posta in palio. Che poi sulla posta in palio si sia fallito, è un conto; che
però ci fosse questa posta in palio con la sua specificità, con la sua
discontinuità rispetto all’andamento lineare dei movimenti, secondo me va
ammesso. Ciò mi viene in mente a proposito del fatto che dal ’72 ho partecipato
a una di queste strutture un po’ buffe, ridicole e spesso in Potere Operaio
vissute anche ironicamente, quella dell’esecutivo.
Poi c’è Rosolina, la rottura, sto con la
parte di Piperno. Penso che la discussione non fosse pro o contro le assemblee
di fabbrica di Milano, su queste come riferimento centrale vi era accordo
generale in tutte le organizzazioni, tra tutti i compagni, in tutte le sedi di
dibattito non vi era dubbio alcuno; il punto, in realtà, riguardava alcune
funzioni specifiche soggettive, in particolare rispetto all’impiego della
violenza, un problema teorico e non soltanto un problema pratico di come uno fa
o non fa. Allora, il problema era: c’è già chi in Italia risponde in maniera soddisfacente
a questa questione politica, organizzativa e anche teorica, che sono le
funzioni di rottura o come le si voglia chiamare? Se così è, ovviamente possono
essere delegate a coloro che già le assolvono in una forma essenzialmente
soddisfacente, viceversa resta il problema di elaborare il come, le forme di
queste funzioni. Questo era il dibattito. Naturalmente, chi sosteneva che già
c’erano diceva: “allora lavoro direttamente con le assemblee autonome, a questo
ci pensano altri”. Altri pensavano non che non ci fossero in assoluto, ma che
il modo in cui queste funzioni di rottura venivano elaborate fosse dentro una
linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una
prosecuzione radicale dell’antifascismo militante, della Resistenza rossa, se
si vuole una lotta armata per le riforme (si può fare anche questo, alla fine
il problema della forma di lotta conta ma non è decisivo). Quindi, il dibattito
su Rosolina fu quello, poi naturalmente su tante altre cose: composizione di
classe, andamento della crisi, rapidità della riorganizzazione capitalistica,
che naturalmente era la vera posta in gioco nella rivoluzione italiana. Io
penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel ‘900 ci siano
state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n’è
stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni ’20, sbaglia. Ci sono state
due rivoluzioni fallite e non si capisce niente del secolo (per usare questo
linguaggio un po’ magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e
due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni ’20 (in Germania e altrove),
l’altra la rivoluzione in senso proprio degli anni ’60 e ’70, la prima che è
contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e
di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la
controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti gridassero
parole d’ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi
interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non
esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole di igiene mentale; oppure,
se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio
sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che
cos’è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione
fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo
lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di
produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali.
Questo lungo blocco fra due poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più
in generale, in certi anni e in certi luoghi dell’Occidente capitalistico) c’è
stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita, di situazione
rivoluzionaria: non mi importa assolutamente nulla delle convinzioni, delle
ubriacature, delle ebbrezze, ne parlo in quel senso. E per controrivoluzione
non intendo ritorno all’Ancien Regime, ricostituzione di quello che già c’era;
penso la controrivoluzione come une rivoluzione al contrario, come una cosa
straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte
delle spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano
nutrito di sé la rivoluzione. Dalla fine del ’72, inizio ’73 in poi io vivevo e
facevo politica a Milano: ho lavorato all’Alfa Romeo e all’Innocenti, ho
assistito e partecipato alla rottura dentro Potere Operaio e alla discussione,
che era una discussione anche non banale: alcuni frammenti (i più degni, i meno
angusti) erano in qualche modo un dibattito sui prodromi del postfordismo, o
comunque i prodromi dell’uscita capitalista dal fordismo (ricordo ad esempio i
contributi di Magnaghi sulla fabbrica diffusa che da lì a poco saranno stampati
su Quaderni del Territorio, anche la
discussione con Toni). Il dibattito all’interno di Potere Operaio ebbe anche
dei momenti alti, carichi di presagi su questo passaggio. Là c’è proprio la
labilità e la fragilità dell’esperienza politica: la questione naturalmente è
quella del tempo debito, del tempo giusto, se questo passaggio di uscita dal
fordismo da parte dei capitalisti avviene con tempi da loro decisi e come
passaggio repentino il quadro sociale, il quadro della soggettività è completamente
mutato e tu hai perso; il problema era di stare dentro questo passaggio, non di
avversarlo in nome della bellezza delle linee di montaggio. Insomma, il
problema era quale segno su questo passaggio: c’è una fase delicata di trapasso
e lì si gioca tutto. Quindi, rivendico anche che nella fase finale, che è
quella più livida, quella più carica poi di risentimenti, per tanti aspetti la
più detestabile, però vi era un nucleo vero di discussione.
Successivamente resto ancora a Milano a fare
intervento all’Innocenti, con quel poco che restava di Potere Operaio a Milano
che non era andato con l’Autonomia, ossia pochissime persone. Poi, quando ci fu
la seconda chiamiamola occupazione della Fiat, quella del febbraio-marzo ’74,
vado a Torino dove avevo dei buoni amici e buoni compagni, era una realtà
rimasta più o meno in piedi come sede di intervento; e poi le lotte e
l’intervento sull’autoriduzione e via dicendo. Nell’estate o all’inizio
dell’autunno del ’75 torno a Roma, dapprima credevo provvisoriamente, poi per tanti
motivi invece diventa un restare. Comincia una stagione di mezzo in cui non c’è
più organizzazione, in cui ci sono nuovi cicli di studio e di riflessione, fino
all’autunno ’76 e inizio ’77. In quel periodo c’è in realtà una riflessione
rispetto al ’68 e al ciclo ’68-’73, sul fatto che la forza-lavoro sociale ha
altri canali di formazione, altre espressioni soggettive. Questa discussione
avviene fra un gruppo di compagni romani che lavoravano insieme per motivi
professionali, avevano messo in piedi un centro di ricerche che si chiamava il
Cerpe. Tutti questi compagni ritornano ad avere un ruolo pubblico, far
proposte, attività e lavoro nel ’77 romano, ma senza nessuna forma organizzata.
A quel punto naturalmente c’era stata anche una modificazione nella storia
dell’autonomia, quella che avviene attorno al ’75-’76 milanese che diventa
appunto la forma politica nuova della nuova composizione di classe; mentre
all’inizio, negli anni fra il ’73 e il ’75, era una cosa più angusta, con
ragioni più specifiche, dal ’75 diventa davvero la forma generale della nuova
composizione di classe della forza-lavoro scolarizzata, del lavoro mentale, del
lavoro precario, della nuova giornata lavorativa sociale. Quindi, i vecchi
motivi di divisione rispetto all’area dell’Autonomia vengono meno e ovviamente
si lavora con loro, anche se, ripeto, manca un gruppo organizzativo, una
soggettività organizzata. Nel ’77 c’è proprio un vedere la nascita di qualcosa
di nuovo. In questi discorsi che adesso noi abbiamo rifatto anche negli ’90
onestamente credo che non ci sia una di quelle dimensioni anacronistiche per
cui attribuisci al prima quello che hai pensato dopo: penso che là ci fu
proprio un’illuminazione dentro il decorso concreto del movimento, un dire:
“ecco, questo è il superamento del fordismo, ed è il superamento del fordismo
che avviene in forma di conflitto”. Prima le lotte, poi lo sviluppo: il ’77
come nascita ed esordio del postfordismo, del superamento del fordismo. Cosa
che peraltro è successa tante altre volte nella storia dello sviluppo
capitalistico, gli IWW fanno le lotte negli anni ’10, sono operai dequalificati
e mobili, e in un certo senso sono l’esordio di quello che Taylor e Ford
faranno negli anni ’20 con la dequalificazione sistematica del lavoro. Lì c’era
proprio un’idea in cui il rifiuto del lavoro, la critica del lavoro salariato,
smetteva di essere il cuore della faccenda ma solo in negativo: cioè, venivano
in rilievo, in altorilievo, dense, in positivo, le forme di vita, le forme di
esistenza, le mentalità, le forme di comunicazione del rifiuto del lavoro.
Quindi, il rifiuto del lavoro per me ha questo carattere puramente di contro,
mostrava, secerneva una sua ricchezza. I discorsi sul ’77 poi sono stati al
centro dell’elaborazione subito dopo, delle parti meno effimere di Metropoli e anche, per quello che
riguarda Lucio Castellano e me, di quei due saggi comparsi nei Pre-print della saggistica che
accompagnava la rivista, scritti in realtà da Lucio alla fine del ’76, da me
nel ’78. Metropoli fu un’elaborazione
a caldo, però anche di qualche respiro, delle cose essenziali emerse da quella
inaugurazione conflittuale del postfordismo che è stato il movimento del ’77.
Su Metropoli vi era un leit motiv,
naturalmente schiacciato e velato semmai dagli articoli sul terrorismo, che per
ovvi motivi ebbero maggior clamore: si tratta di un tema fondamentale e
ricorrente quello della sempre maggiore centralità del linguaggio nel lavoro,
per esempio, oppure sulla rottura di tutte le mentalità legate al fordismo.
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Tra Potere Operaio e ben prima di
Metropoli ci fu Linea di Condotta, di cui ne uscì un numero solo, che per molti
aspetti era significativo.
Era significativo perché fu un estremo
tentativo, condotto tra l’autunno del ’74 e l’inizio del ’75, di riconnettere
tra loro alcune delle schegge seguite alla rottura di Potere Operaio. Toni e
gli autonomi, diciamo così, avevano i loro alti e i loro bassi tra il ’73 e il
’75 e, a parte l’ovvio rapporto di continuare a leggere le cose degli uni e
degli altri, non c’era più una relazione diretta. Ma la parte di Potere Operaio
che non aveva fatto la scelta chiamiamola dell’Autonomia (anche se nei termini
in cui ho specificato prima) si ruppe a sua volta, in quel processo di
frazionamento infinito che in biologia si chiama decomposizione (a proposito
dei cadaveri): quindi, vi era Oreste e altri compagni a Roma che avevano
differenziato la loro iniziativa, si erano legati sempre più ad un gruppo, una
frazione radicale di Lotta Continua a Milano, a Sesto San Giovanni, la Magneti
Marelli e via dicendo. Allora, con Oreste e questi altri, alcuni di Roma, ce
n’era qualcuno anche a Torino, il rapporto era molto più ravvicinato, eravamo
stati dalla stessa parte a Rosolina, anche il rapporto personale era più intimo
e più stretto. Quindi, si fa un tentativo di produrre una riflessione insieme,
attraverso due o tre convegni, riunioni, seminari. Era un tentativo di dire:
“va bene, quando è finito il settimanale nel dicembre del ’73 Potere Operaio
effettivamente non c’è più, però ci può essere fra noi una forma politica
nuova”. Dentro questo discorso c’è l’unico numero di Linea di Condotta, il quale poi passa alla storia perché compaiono
dei documenti importanti con cui quelli di Lotta Continua rompono con la loro
organizzazione e alcuni di questi saranno dopo in Prima Linea. Quei documenti
saranno (con buona ragione, ma certamente con sguardo retrospettivo)
considerati la piattaforma generale di un percorso che prima con Senza Tregua, ma poi con Prima Linea
conosce esiti estremi. Il numero di Linea
di Condotta, se ci si pensa, è molto eterogeneo, è molto volenteroso, si
capisce la voglia di questi compagni di fare ancora una cosa significativa
insieme: ci scrive Magnaghi, ci scrive Dalmaviva, ci scrivo io, ci scrive
Daghini, e naturalmente ci scrive, va da sé, quest’altra scheggia che di lì a
poco farà Senza Tregua (sta già per
esserlo credo). Questo spiega anche perché è un numero solo.
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C’era ancora Marongiu?
Mi pare di sì, però la cosa paradossale è che
la stragrande maggioranza della sezione veneta non segue Toni, quindi loro
restano con il troncone di Potere Operaio. Come accadde alla sezione di Torino,
tanto più quella veneta si rinchiude in una realtà locale e regionale: vanno
avanti, continuano le cose di sempre, nell’università, nelle piccole fabbriche,
non al Petrolchimico che è stata l’unica parte del Veneto che era andata invece
con Toni (diciamo così tanto per semplificare).
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Nel ’74, infatti, quando eravate
andati a Torino c’erano i veneti e i fiorentini. Era appena uscito Fuori dalle
Linee.
Li portammo noi. Quello fu un episodio molto
circoscritto, semplicemente c’era la seconda occupazione Fiat e noi pensammo di
potenziarla con questo organo, un volantone quotidiano. E in più andammo a fare
una riunione con i collettivi veneti dicendo: “per questi giorni qui non
sarebbe male, con tutti i difetti del turismo politico, se venite a dare anche
voi un’occhiata”. Loro in maniera volenterosa, come si fa un po’ per le gite
scolastiche, come si fa ora anche con Praga (e non so onestamente tra Praga e
l’occupazione della Fiat dove penda la bilancia, turismo per turismo, anche se
adesso sembra l’unica forma di azione politica), vennero, ma per una settimana.
La cosa secondo me non stupida, anche se vale quello che vale, è che la
tipografia di Potere Operaio a Firenze, che fino al dicembre del ’73 aveva
fatto il settimanale, era ancora nostra ed era ancora in piedi: si chiese per
quattro giorni di fare una specie di quotidiano gratuito che si chiamava
appunto Fuori dalle Linee, ne
uscirono tre o quattro numeri. Per telefono venivano dettati i cosiddetti
articoli (che spesso erano delle urla inconsulte) ai fiorentini, questi li
stampavano e poi in macchina li portavano a Torino per darli alle 6 al primo
turno. Invece, i veneti proseguirono e in realtà restarono; forse furono
presenti tramite Marongiu ancora in quest’unico numero di Linea di Condotta, forse non scrivendo ma lo sentivano come cosa
loro, e ai seminari che precedettero il numero di Linea di Condotta, in cui c’erano Piperno, Oreste, compagni legati
più a lui, quelli del Veneto, ma anche Giairo, Marione, insomma il vecchio
gruppo. Dopo che si capisce che Linea di
Condotta anziché essere un incipit è una fine della fine, i veneti si
chiudono nella loro realtà regionale. Restano quindi in questa dimensione
separata e regionale fino a quando, mi pare nel ’76 o addirittura nel ’77, si
avvicinano a Toni e a Rosso, mentre
prima con Toni avevano rotto nel ’73 restando nel corpo centrale di Potere
Operaio. C’è quindi questa situazione intermedia, che corrisponde a quell’anno
e mezzo o poco più che sono stato a Torino.
Per quanto riguarda poi il periodo di mezzo
prima del ’77, io dalla fine del ’75 o inizio del ’76 sono a Roma e ho già
detto: riflessioni, discussioni, non più una realtà organizzativa, presenza invece del tutto attiva, con una dedizione
totale a tutte le fasi del movimento del ’77 romano, questo senso di una
discontinuità totale nelle forme della soggettività, nelle forme della
produzione, presagio del postfordismo, unità lavoro-comunicazione e via
dicendo. Quindi, cambio di paradigma, però devo dire vissuto in tempo reale,
non che poi adesso, riflettendoci negli anni ’90, uno dice: “allora è cambiata
la composizione di classe, è cambiato il paradigma, sono andati in realtà in
crisi tre secoli di politica moderna, cioè di forme politiche moderne, è
iniziato l’equivalente di quello che allora fu il ‘600 come fondazione delle
forme politiche”. Non è stata solo una riflessione retrospettiva, in
grandissima parte avvenne in tempo reale, da cui ancora l’emozione del ’77,
un’emozione forte, perché le emozioni che durano si legano sempre (o almeno
spesso) a un contenuto cognitivo, e lì vedi proprio che è un cambio di
paradigma. Metropoli dovrebbe nascere
come rivista larghissima, di tutta l’area del ’77, ci sono riunioni con Toni e
via dicendo: poi naturalmente le cose vanno in maniera diversa. E’
comprensibile, ho fatto anch’io per parecchi anni un lavoro di organizzazione e
penso (ho appena fatto la difesa dei gruppi) che nell’organizzazione, anche
nelle sue forme più sciatte, organizzazioni leggere o pesanti, c’è sempre un
contenuto degnissimo; però, è chiaro che chi ha delle organizzazioni ha un
problema di continuità, di influenza, di lotta politica ecc., e, pur avendo
radicalità teorica, è meno disposto a giocarsela come tale ignorando passaggi
tattici, passaggi di egemonia. Insomma, la rivista poi materialmente la si fa
tra il gruppo romano, i senza partito e i senza organizzazione e Oreste, che
invece un partitino e un’organizzazione ce l’ha, ma che dice: “io nella rivista
mi comporto come voi”, cosa che infatti sempre fece lui e quelli che più o meno
ci lavorarono direttamente, De Feo e altri. Una rivista mediatica, ed è il
primo numero, perché sequestrato, perché ne vengono sottolineati solo gli
articoli sul 7 aprile che era avvenuto due mesi prima. Alcuni di noi sono
imputati, io ero presente all’arresto di Oreste e di Zagato nella sede romana
di Metropoli il 7 aprile stesso,
Piperno sfugge all’arresto per pura fortuna due o tre volte nella stessa
giornata: sfugge ogni volta per quelle cose che si vedono nei film di
Fernandel, arriva subito dopo che è arrivata la polizia, da cui poi le
leggende, l’infinita furbizia e la
superiore astuzia; penso che però, come nella storia grande e in quella maggiore
di noi, spesso questa sorta di avvedutezza deriva da una concatenazione
stupefacente di colpi di culo. Quindi, il primo numero di Metropoli si occupa ovviamente delle retate, c’è l’articolo,
peraltro riformista e anglosassone, di Piperno che dice: “prima pagano e meglio
è”, ma non nel senso di sparargli alle gambe, bensì nel senso “prima le
istituzioni si autocorreggono e meglio è”; non che questo fosse il suo modo di
pensare ma aveva deciso di giocare il ruolo del liberal conseguente. Quindi, quelli
sono gli articoli, Metropoli mediatica.
Il secondo numero di Metropoli, dopo
un anno di galera, esce nell’80, però è di nuovo un numero raccogliticcio, con
articoli mandati dal carcere, un numero non pensato nel suo insieme. Metropoli esiste come organo di
riflessione sul postfordismo, sulla crisi della società del lavoro, sulle nuove
forme della soggettività, nell’anno in cui ne escono, in qualità di mensile,
cinque numeri, ed è l’81: escono i numeri 3, 4, 5, 6 e 7. Con tutti i difetti
che ci sono in situazioni spurie, in cui ci sono tanti residui di vecchi
paradigmi che convivono invece con le intuizioni più vitali, è però possibile
trovare il nucleo, il fulcro di questa riflessione. Io, per esempio, credo (ma
naturalmente la cosa è puramente biografica) che le cose non dico
significative, perché i giudizi possono essere diversi, ma quelle
oggettivamente più rilevanti per esempio dell’elaborazione di Luogo Comune siano state una
prosecuzione, un affinamento, anche con maggior peso culturale e teorico, di
cose che erano già espresse inizialmente tutte dentro Metropoli. Io vado in galera, ma in ritardo, a scoppio differito:
siamo arrestati io, Castellano, Maesano e Pace (che però sfugge all’arresto, di
nuovo, giuro, non per sagacia). Noi siamo arrestati il 6 giugno ’79, poi ci
fanno confluire nel 7 aprile, ritroviamo gli altri nel cortile di Rebibbia, nel
braccio speciale, stiamo un po’ di mesi lì, poi c’è la diaspora, cioè il
Ministero ordina di mandare ognuno di questi detenuti in un carcere speciale
diverso, perché ovviamente, tramite avvocati, visite, benché ci fosse il regime
di braccio speciale, quello era diventato una specie di luogo in cui si
elaboravano documenti, lettere a giornali, si faceva campagna politica, c’erano
state delle lotte interne. Quindi, c’è la diaspora, io vado a Novara, Oreste va
a Cuneo, quell’altro va a Favignana, quell’altro ancora da un’altra parte.
Comincia questo giro negli speciali, e ci ritroviamo non tutti ma in parte nel
carcere di Palmi, inaugurato nell’autunno del ’79, carcere per soli politici o
per detenuti comuni completamente politicizzati, una specie di “Kesh”. Là
dentro c’era una situazione curiosa, anche molto spettacolare, perché si
incontrano assolutamente tutti. Infatti, per un primo periodo con i compagni delle
BR o con Alunni o quelli dei NAP, si pensò anche di approfittare di questa
situazione per avviare una discussione larga, di carattere “costituente”: però,
il problema è che anche lì c’è il fatto che i più spregiudicati di loro, come
Curcio, erano d’accordo, avevano capito di aver perso l’essenziale, cioè il
cambio di paradigma del ’77, cioè il fatto che i giovani operai erano non più
riconducibili a quelli del ’69; altri invece no. Comunque, c’era una
disponibilità generale all’inizio. Però, loro erano in un periodo di pieno
sviluppo di quella che chiamavano strategia dell’annientamento, insomma diciamo
di massificazione della lotta armata, e naturalmente è un vincolo materiale
troppo forte il tipo di tattica, di passaggio che stai attraversando per avere la
snellezza mentale di affrontare una discussione così grande. Quindi, c’era una
buona intenzione all’inizio, quasi subito lasciata perdere, e poi invece ci fu
un illividimento dei rapporti sempre maggiore. Io, dopo poco meno di un anno di
galera (11 mesi e mezzo), vengo rilasciato perché declassano il mio reato da
costituzione a partecipazione, e a quel punto avevo fatto già abbondantemente
il carcere preventivo. Poi starò fuori due anni, nell’anno vero di Metropoli, quello in cui è una rivista,
nel bene o nel male, ma è una rivista che vale come tale e non per la sua
mediatizzazione. Peraltro vende tanto, va solo in edicola e non vende mai meno
di 15.000 copie: cosa che si può capire per il primo numero, ma diventa
significativa per quelli successivi.
Riassumendo in breve, la mia detenzione fu un
anno dal ’79 all’80, poi due anni liberi in cui curai la serie continua di Metropoli nell’81, due anni ancora di
carcere, condanna a 12 anni in primo grado, un anno di arresti domiciliari che
sono un buon modo di semplificare il passaggio per certi versi al postfordismo
in generale, sia pure in un aspetto microsociale, oppure il passaggio dalla
società disciplinare alla società di controllo; l’assoluzione (insieme a tanti
altri imputati del 7 aprile) fu nell’87, la conferma nell’88. La vita sospesa,
come sempre accade quando uno è condannato, sia pure ormai a piede libero,
l’Italia cambiata, mentalità completamente modificate, vecchie forme di
comunanza e di contiguità completamente spezzate. Nell’87 si decide con altre
persone di capire i termini della nostra rivincita, cioè di capire come tutto
ciò che aveva trasformato il paese negli anni della controrivoluzione aveva
creato un nuovo tipo umano, oltre che naturalmente diverse forme di produzione,
che potevano ormai cominciare a esprimersi conflittualmente. Si è pensato che
fosse sensato un approccio al postfordismo che muovesse dall’impasto (in
termini arcaici) fra struttura e sovrastruttura, il punto di indifferenza, il
punto perfettamente comune a entrambi di ciò che nella vulgata viene chiamata
struttura e sovrastruttura. Era lo scrutare un modo di essere del lavoro
dipendente, dando un giudizio che il lavoro dipendente contemporaneo non può
essere compreso adeguatamente (proprio nel suo essere produttivo di plusvalore,
beninteso) solamente o principalmente con strumenti economici, e in certa
misura nemmeno con strumenti solo sociologici. Il lavoro contemporaneo, perché
produttivo di plusvalore e non perché disincarnato, richiede una strumentazione
assolutamente larga, in cui vengono tirati in mezzo le forme della sua cultura,
la sua struttura emotiva, le sue convinzioni etiche ed estetiche.
Paradossalmente, la soggettività postfordista, per essere colta nel suo nucleo
più duro, cioè fra le altre cose anche più economicamente rilevante, doveva
essere accostata con questa larghezza di strumenti. C’è una bella frase di un
grande epistemologo francese, che è Gaston Bachelard, il quale diceva che la
meccanica quantistica che suscita tanti problemi e tanti paradossi deve essere
trattata con strumenti molto eterogenei l’uno dall’altro. La meccanica
quantistica ora richiede, in termini filosofici, un concetto di Kant, ora
richiede un concetto di Bergson, ora richiede un concetto medioevale, e poco
male se sono così diversi fra loro, il punto è che si tratta di spiegare sempre
quell’unico problema della meccanica quantistica: così è anche per la
forza-lavoro postfordista, per la soggettività postfordista (non è che io sia
molto contento di questa formula, ma è per capirsi in breve). Questa è
l’esperienza che porta al libro collettivo Sentimenti
dell’aldiqua, che naturalmente vuole essere anche una critica radicale del
pensiero debole, del postmoderno italiano che è stata l’ideologia dei
vincitori, l’ideologia della sconfitta dei movimenti di massa. La quale però,
come tutte le ideologie vere, ha in sé un nucleo di verità, soltanto che esso
non solo è deformato, ma soprattutto è apologetico, cioè tende a pensare che è
così e solo così potrà sempre essere. Invece, la questione era riportare il
cosiddetto pensiero postmoderno alla sua base materiale. La società della
comunicazione generalizzata di cui parla Vattimo è la trasfigurazione deformata
e apologetica di un fatto reale, cioè il plusvalore si produce attraverso il
linguaggio. Quindi, questa era la dimensione del libro, poi come al solito il
testo era povera cosa, le discussioni che c’erano dietro qualche volta sono
ricordate con piacere. C’è dunque un tentativo di lavorare anche con gente
diversa, molti dei soliti, che sono i soliti buoni, però anche molte persone
differenti. Seminari, discussioni, la rivista, alcuni di noi lavorano a Il Manifesto e cercano di fare un Manifesto dentro il Manifesto, cioè fanno le pagine culturali che non hanno nessun
rapporto con le cose un po’ cialtrone che girano invece in tutte quelle
precedenti. Da ciò nasce l’esperienza di Luogo
Comune, ne escono quattro numeri, però è una rivista in cui compare molto
l’aspetto redazionale, di discussione, i seminari ecc. C’era l’ovvio rischio
dell’errore e del dire più di quanto si pensa, mi si permetta il gioco di
parole, perché a volte uno decide coscientemente di dire più di quanto sarebbe
cauto e prudente affermare, quindi di dire più di quanto pensa, semmai per
suscitare discussione e sottoporsi a critica: in realtà era un tentativo di
squadernare un insieme di categorie che potessero rendere conto, questa volta
non in maniera allusiva come alla fine degli anni ’70, dopo il ’77, ma a pieno
titolo, proprio mordendo la carne viva del nuovo, del cambio di paradigma. E
che però potessero predisporre una ripresa politica organizzativa. La prima
cosa è che qualsiasi organizzazione, come sempre, è una cultura: chi non coglie
gli aspetti materialistici e materiali della cultura, cioè che è molto più
materiale l’idea di un portacenere o anche di un milione, rischia di non
comprendere il problema del percorso organizzativo. Il problema era produrre,
anche in maniera un po’ artefatta, affannosa, producendo parole-chiave (general
intellect, linguaggio e produzione, esodo), un panorama mentale (cosa c’è di
più materiale di un panorama mentale?), però per mettere insieme dei gruppi,
dei gruppi di militanti, dei gruppi di militanti intellettuali. E che questi,
con esperimenti cauti, sul reddito di cittadinanza, sulle nuove forme di
produzione, la fabbrica innovata, il lavoro non di fabbrica ecc., potessero
cominciare a disegnare dei percorsi pratici. Naturalmente lì ci sono tutte le
difficoltà, lì ci sono i tempi lunghi, lì c’è lo sbattere la testa e poi
provare in un altro modo. Ma la condizione preliminare era questa rete. Ci
abbiamo provato prima con gruppi vari di intellettuali militanti, ma dal
’91-’92 in poi ci abbiamo provato proprio con i veneti. Per come la leggo io
(poi ognuno dice e polemizza come gli pare), i veneti hanno avuto due passaggi,
non uno: il primo quando ruppero con la continuità con gli anni ’70 e ’80, e
quello secondo me è sacrosanto, lì ebbero un momento di grande effervescenza
che è durato vari anni, di creatività, si sentivano passati da un ambito
risentito, livoroso, nostalgico e continuista, in pieno oceano; poi, invece, il
secondo passaggio è molto più recente, è degli ultimi tre anni, in cui hanno
buttato a mare la tradizione operaista, il che è un altro paio di maniche.
Naturalmente, qual è il problema della tradizione operaista? Come tutte le
tradizioni merita solo di essere buttata a mare, ma il punto è: c’è in essa
qualcosa che permette di pensare, con il massimo di radicalità critica e di
realismo, la critica del capitalismo dopo l’89 e indipendentemente dall’uso del
socialismo reale? Se sì, è l’unica tradizione di pensiero che in un certo senso
aveva metabolizzato fin dagli anni ’60 il Muro, e che forse ha ora almeno
altrettante o più cose da dire di quante ne avesse nel ’69. Solo in questo
senso parlo in termini positivi della tradizione operaista, non per i suoi
trascorsi, più o meno nobili ma nemmeno tanto: dunque, per questa capacità di
tenere insieme quello che gli altri considerano ormai scisso. Il Movimento
Operaio via perché c’è stato il socialismo, oppure viceversa una continuità
becera. Il secondo passaggio di due o tre anni fa è quello che capisco, perché
è un questione troppo scomodo, e
soprattutto che rischia di non darti niente in termini concreti: è la posizione
centrale, è la più forte, l’unica vera, realistica, importante dal punto di
vista del capire le cose, ma se non ti da niente in termini politici non serve.
C’è poi infatti questa mancata coincidenza fra strumenti che sono in realtà gli
unici, ma non dentro il mondo della sinistra e dell’estrema sinistra, bensì gli
unici in assoluto per comprendere a fondo in tutte le sue sottigliezze,
sfumature, complicazioni e paradossi quello che c’è, quello che accade: se però
non ti danno nell’immediato qualcosa di politico, in termini
politico-organizzativi, tu sei in una posizione scomodissima, sei come un uomo
saggio e nudo che resta per un po’ al vento, dopo un altro po’ dice: “beh, non
fa niente”, e fa il secondo passaggio. Il secondo passaggio non è prendersela
con il marxismo del Movimento Operaio, con quello ce l’eravamo presa nel ’67 a
Genova, se per marxismo si doveva intendere quella roba del Movimento Operaio,
il problema non è quello. Il loro passaggio simile a quello del PDS (simile
strutturalmente, non con gli stessi contenuti) è rispetto alla tradizione
operaista, perché essa appunto non gli permette di capitalizzare niente sul
breve e medio tempo.
C’è tutta questa storia, anche di produzione
teorica, a volte anche piuttosto rarefatta, non abbiamo avuto problemi a tirare
dentro Wittgenstein o Heidegger se ci servivano, con il solito strumentalismo
materialista di dire: “se quello che ci serve per questa cosa, benissimo, ci
serve per questa cosa”. Quindi, questa produzione anche rarefatta, questa
produzione teorica fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni ’90 aveva
però questa finalizzazione che io dico organizzativa, in senso largo, poi
semmai sono organizzazioni totalmente ignote rispetto a tutti i precedenti
conosciuti, va bene. Ciò in realtà secondo me finisce attorno al ’94. Intanto,
si capisce che noi non siamo stati sufficientemente tenaci, bravi e capaci; si
capisce però anche che c’è una vera difficoltà in Italia perché il ciclo di
sviluppo postfordista, iniziato alla fine degli anni ’70, possa mostrare ora
l’altra faccia della medaglia, conflitto e forme dell’organizzazione, in quanto
ci sono state una serie di giustapposizioni che lo hanno come bloccato e
deviato, la caduta del Muro, la crisi del sistema politico italiano, che per
tanti aspetti è una crisi che deriva da cose di fondo, è una crisi della
democrazia rappresentativa, quindi qualcosa che in un certo senso
interesserebbe enormemente un pensiero come il nostro. Però, prende viceversa
altre forme, cioè di questa crisi si nutrono altre cose, il partito-azienda, il
leghismo ecc. Quando, a un certo punto, poteva-doveva mostrarsi l’altra faccia
della medaglia postfordista, quella conflittuale, questa ha preso invece una
versione, una torsione di destra, o comunque è rimasta come seppellita dentro
il clamore della crisi del sistema politico italiano; ciò, a parte la nostra
evidente incapacità, talvolta anche poca serietà, ha bloccato per un motivo più
alto e consistente questa possibilità di mostrare le potenzialità nuove sul
piano politico-orgnizzativo della soggettività postfordista. Poi ci sono stati
altri conati, tentativi organizzativi più recenti. Parlando a livello
individuale, attorno al ’94 c’è come il constatare, il toccare con mano
qualcosa che probabilmente si poteva capire anche qualche anno prima: un
tentativo politico-organizzativo totalmente nelle condizioni nuove, cioè che
sia come il risultato della controrivoluzione, che si ponga all’estremo, al
bordo della controrivoluzione invece non ha funzionato, è rimasto come
stritolato per un insieme di motivi. I compagni che poi fanno DeriveApprodi partecipano a Luogo Comune, quindi c’è una continuità.
Da quando smette di esserci Luogo Comune
nel ’93, ora più ora meno, ora più da lontano ora più da vicino, una parte
consistente di quelli che fecero Luogo
Comune collaborano o lavorano a DeriveApprodi.
Ci sono stati tanti piccoli conati di iniziativa politica, anche molto recenti,
ma nel complesso secondo me resta valido il giudizio sul fatto che vi è come un
congelamento, un ritardo, un’inibizione come accade nei sogni, un torpore, e
quindi un tempo lungo, perché si possa dare positivamente, conflittualmente,
con invenzione di nuove forme, di nuovi percorsi, di nuove strutture e teorie
dell’organizzazione, l’altra faccia del postfordismo.
Detto questo, però, non si capisce molto di
quello che ho fatto io se non si considera che da sempre, e dal ’78-’79 in
maniera via via sempre più centrale e massiccia, mi ero occupato di filosofia.
Io ho sempre voluto lavorare su cose filosofiche ma da marxista critico, cioè
ho sempre pensato che un problema fondamentale fosse lavorare su un
materialismo ampio, cioè un materialismo capace di non lasciare fuori di sé
problemi fondamentali come il linguaggio, la comunicazione o altro ancora.
Quindi, ho sempre lavorato su queste cose e naturalmente in misura crescente,
fino a che sono poi un po’ diventate l’aspetto principale della mia attività.
Sarebbe dunque difficile parlare di me stesso dal ’79 in poi senza tenere
presente che, anche quantitativamente, certamente qualitativamente, la parte
maggiore del mio tempo l’ho data a lavorare su problemi e questioni
filosofiche, scrivendo e quindi anche pubblicando cose dove secondo me il
problema nasceva dai buchi neri del marxismo, ma non del marxismo in generale,
bensì del marxismo critico, del marxismo nostro, constatati come veri e propri
punti di catastrofe negli anni ’70, nella ricchezza complessiva degli anni ’70.
Le prime cose riguardarono proprio il problema: c’è una teoria della conoscenza
in Marx? E questa teoria della conoscenza, se c’è, se c’è o se ci fosse,
riguarda solo le cose come stanno o c’è anche un modo di conoscere la tendenza,
di conoscere la traformabilità dell’esistente? Quali sono le categorie per
conoscere non solo il valore di scambio, ma anche la fuoriuscita dal valore di
scambio? Queste furono proprio le primissime cose, che poi misi in gran parte
in Convenzione e materialismo, che fu
scritto sostanzialmente fra l’80 e l’82, anche se poi per ovvi motivi carcerari
uscì nell’87, e così via dopo. Con però anche un’intensità e una centralità del
mio tempo e del mio percorso su cui non mi dilungo, ma che serve a raddrizzare
subito tutto quello che ho detto. Poi naturalmente molte di queste cose si
intrecciano, come per esempio la riflessione su una categoria come quella della
moltitudine, che nel ‘600 fu opposta a quella di popolo, e da quella di popolo
derivano poi le teorie politiche della modernità: noi abbiamo detto in Luogo Comune: “badate che sta tornando perspicua, pertinente alla situazione
attuale la categoria della moltitudine”. La categoria della moltitudine è
difficile non concepirla e pensarla senza tirare fuori una serie di questioni
propriamente filosofiche: quali sono i giochi linguistici, le forme
comunicative della moltitudine? Cosa è la categoria dell’individuale, del
singolare per i molti? L’idea di molti fa pensare a tante singolarità e non
sintetizzabili in quell’uno che è lo Stato e il sovrano. Insomma, questioni che
possono essere pensate (almeno così mi è sembrato e così potevo fare io)
attraverso problemi e categorie di etica, filosofia del linguaggio, filosofia
politica. Quindi, il problema è che ci sono punti consistenti in cui la
riflessione più teorico-politica si lega alla riflessione filosofica, ma ce ne
sono anche altri su cui invece non è così. Il mio problema è in fondo quello di
uno che non ci è mai stato simpatico, Engels; questi a un ceto punto si pose la
questione di dire: “va bene, noi abbiamo detto delle cose materialistiche sulla
produzione, abbiamo detto delle cose materialistiche sulla storia: però, il
materialismo non dovrebbe avere l’ambizione di coprire tutto il campo, quindi
di coprire anche il campo della scienza, il campo della natura, il campo dei
sensi? Non dovrebbe essere anche un sensualismo, un sensismo?”. Quindi, alcune
volte si incrociano, vedi esempio della moltitudine, altre volte ho dedicato
sei anni a ragionare su quale fosse lo statuto materialistico del linguaggio,
quale fosse il rapporto fra il linguaggio e la vita sensibile, quale fosse il
rapporto fra il linguaggio e il mondo materiale. E qui siamo per certi aspetti
vicini e per certi aspetti lontani dal tipo invece di percorso politico di cui
dicevo prima. Menziono queste cose per dire com’è stata realisticamente la
divisione del mio tempo, soprattutto da un certo punto in poi.
-
Nella tua analisi c’è un aspetto
che sicuramente è centrale, ossia l’andare a ricercare i nodi critici aperti o
non affrontati da parte di una tradizione politica che non va né esaltata né
buttata via, ma usata per prendere ciò che ci serve in chiave di rielaborazione
critica nel presente e verso il futuro. L’operaismo è una categoria che qui
intendiamo in senso lato. Tronti, ad esempio, sostiene invece che l’operaismo
politico vada identificato con l’esperienza dei Quaderni Rossi e di Classe
Operaia: dopo di che, coi gruppi, inizia secondo lui un’altra storia che più
nulla ha a che fare con quelle esperienze. In realtà, pur essendoci molte e
talvolta importanti discontinuità, esistono in alcuni percorsi degli anni ’70 e
persino successivi anche delle forti continuità teorico-politiche. Rispetto
all’operaismo Alquati ha formulato una peculiare ipotesi, che non è solo
storiografica ma può essere un’importante chiave di lettura proprio
nell’individuare quei grossi nodi critici ancora oggi aperti. Dunque, Romano
sostiene che l’operaismo si è mosso all’interno di un particolare poligono,
cercando, con alterni risultati, di fare i conti con ognuno dei suoi vertici.
Un vertice è rappresentato dagli operai e dalla loro soggettività, poco o per
nulla affrontata e di cui raramente oggi gli intervistati parlano. Il secondo
vertice è dato dalla cultura, che, per quanto con importanti aspetti critici,
per molti (non certo per tutti) ha finito per tornare ad essere la cultura
esplicita e umanistica di gramsciana memoria. Il terzo vertice è la politica ed
il politico, il grande buco nero delle esperienze operaiste, nei molteplici
percorsi tentati. Il quarto, infine, è la questione generazionale e giovanile.
In parte lo hai già fatto nella tua analisi, ma affrontando la questione nel
suo complesso, quali sono secondo te i grossi nodi critici aperti e oggi
centrali nella rielaborazione politica delle ricchezze e dei limiti dei
percorsi operaisti?
Mi viene in mente la frase di Fabrizio De
Andrè: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato. A me pare che
l’operaismo abbia dato una consistenza, un’articolazione ricca all’idea di Marx
dell’intelletto generale, il general intellect. Questa articolazione ricca se
si vuole si può anche ripercorrerla in alcune sue caratteristiche e soluzioni:
è lo spartito fondamentale di qualsiasi suonata. Secondo me il passaggio
fondamentale è stato quello di lavorare sulla crisi (e sulle ambivalenze di
questa crisi) della legge del valore, riuscendo a mettere a fuoco abbastanza
bene, almeno in alcuni momenti, il doppio carattere, vigente ma non più vero,
della legge del valore stesso. Quindi, il tempo di lavoro del singolo
(astratto, vuoto, dequalificato ecc.) non è più la fonte principale di
produzione della ricchezza, ma è ancora l’unità di misura vigente. Questo è uno
schema che a volte è stato come una specie di barzelletta dei matti che la si
ripeteva in maniera sempre più schematica; molte volte, invece, è stato
articolato, riempito di carne e sangue ed è uno strumento fondamentale. E poi
c’è il general intellect, che come si sa Marx nomina una o al massimo due volte
nei Grundrisse e chissà cosa aveva in
mente, se la polemica con la volontà generale di Rousseau o che altro ancora:
ed è solo un’allusione, mentre invece quella che era un’allusione adesso è una
teoria positiva, completa, una teoria generale. Che questa teoria poi semmai
sia lontana dall’essere sufficiente è un conto, però questa è una produzione
rilevantissima. Penso soprattutto al momento in cui l’operaismo si è sforzato
di non leggere più l’intelletto generale, il general intellect, come capitale
fisso, che è la versione di Marx, la scienza e il sapere riversati, congelati,
rappresi nel sistema di macchine automatizzate. Secondo me in realtà l’operaismo,
in un certo senso fin dal ’69, poi in maniera più consapevole dopo e in anni
recenti, ha cercato invece di pensare il general intellect come lavoro vivo, e
naturalmente non come erudizione del singolo, può anche non aver mai letto in
vita sua un libro il singolo operaio, non è quello il punto: la questione è che
dall’interazione cooperativa vive, in maniera principalissima, addirittura più
che non nel sistema di macchine, l’intelletto generale. Questo poi è un
inveramento nella produzione postfordista anche di ciò che è molto empirico e
visibile: quello che viene richiesto è la mobilitazione non di particolari
conoscenze, ma delle generiche facoltà dell’animale umano, questo è il punto.
Allora, si può parlare dell’intelletto generale che è stato declinato
dall’operaismo come intelletto in generale, quell’in generale è il punto.
Intanto, è stato pensato come lavoro vivo e non capitale fisso; non che non ci
sia l’intelletto generale come capitale fisso, ben inteso, voglio dire che
l’aspetto qualificante è quello cooperativo, relazionale, l’intelletto generale
come attributo della cooperazione. Senza farla lunga, secondo me questo è un
punto di forza rispetto a cui si può usare anche il termine scientifico,
comunque carico di realismo e carico di effetti di verità, di effetti di
comprensione dell’esistente.
Il punto su cui l’operaismo invece lascia
solo buchi neri è nei termini della teoria politica, questo mi pare indubbio.
Nel corso del tempo, dagli anni ’60, con gli esperimenti pratici rivoluzionari
degli anni ’70, poi anche dopo e ancora adesso, ha fatto anche un buon lavoro
destruens, ma ogni volta che si è azzardato ad andare oltre non vi è riuscito.
Naturalmente ci sono stati tentativi importanti, ma il limite dell’operaismo è
quello di non essere mai, neanche lontanamente, riuscito nel suo insieme a
pensare la realtà del general intellect in termini di teoria politica, cioè
pensare il general intellect (con tutte le cose che sono connesse, non voglio
usare anch’io adesso la parola strategitistica, e solo per brevità
stenografica) come base di una teoria politica. Ci sono le cose di Tronti, ma
poi lui difende se stesso, in questi libri, anche ne La politica al tramonto: in qualche modo difende, a costo semmai di
difendere anche Stalin, il fatto che è entrato nel PCI nel ’68. Cacciari non ci
prova nemmeno e quindi lavora con Di Pietro; Tronti, invece, ci tiene a
difendere se stesso e quindi fa questo discorso sulla politica del ‘900. Però,
la mette troppo in generale e perciò perde il punto specifico che invece è
quello, eventualmente anche in termini di colpa e di responsabilità
dell’operaismo, cioè il non aver tratto dall’analisi della composizione di
classe, dei suoi mutamenti, dall’analisi del general intellect, una teoria
politica che fosse finalmente una teoria politica post-statale, senza essere
una teoria parodisticamente anarchica. Ci sono stati tutti gli esperimenti,
anche negli anni ’70, dove c’è stata una vera messe di esperimenti pratici sul
piano organizzativo, e dove certamente l’autonomia ha costituito la forma
generale di organizzazione del nuovo proletariato. Però, ogni volta che la cosa
veniva fissata in termini teorici, o ci sono state aporie terribili che
bloccavano immediatamente, oppure veri ritorni al passato, veri tic da generale
Stranamore sul terreno politico. Dunque, sul terreno politico o aporia o
stranamorismo. Questo detto con uno sguardo molto di insieme. La cosa che
capisco meno nello schema di Alquati è quella sulla cultura: se ciò vale per
quelli entrati nel PCI nel ’68 allora sì, entravano in un partito che concepiva
in questo modo il rapporto fra intellettuali e politica, quindi era automatico
che si conformassero seppure recalcitravano. Per quanto riguarda invece la
parte dell’operaismo che ha mantenuto un carattere più bizzoso, più autonomo,
più estraneo ai partiti tradizionali, ci sono state miserie personali, intoppi,
incoerenze, compromessi, tutto quello che si vuole, ma non direi che ha
riprodotto un modello di intellettuale organico.
-
La questione è in termini diversi.
Il problema che alcuni hanno posto nella seconda metà degli anni ’50 è quello
che hai prima evidenziato nella tua analisi, ossia come uscire da quel circolo
chiuso in cui Marx, con una terribile lungimiranza, va a fare una teoria del
capitale e non di una possibile uscita da esso. Di fronte a questo grosso nodo
ipotetico alcuni si sono mossi cercando non solo fuori dal marxismo, ma anche
fuori dallo stesso Marx delle forme di rottura di quel circolo chiuso: c’è
stata quindi un’iniziale apertura verso la sociologia, la fenomenologia, ma
anche la psicoanalisi e via dicendo. In realtà, però, non si è mai posta la
questione di un controutilizzo critico di certi ambiti disciplinari fino ad
allora trascurati dall’oggettivismo del marxismo ortodosso, in una sintesi
politica complessiva che andasse nella direzione di una scienza altra, che
nella sola enunciazione è poi diventata la scienza operaia. Tutto sommato a
prevalere, almeno in generale, anche tra coloro che hanno girato attorno o
simpatizzato per gli ambiti operaisti, è stato invece il modello della cultura
esplicita ed umanistica.
La questione del general intellect:
secondo te, quanto esso ha una dimensione capitalistica e quanto può essere
ribaltato o addirittura è già in un discorso di trasformazione e di uscita dal
capitalismo?
Tutti e due. E’ totalmente una risorsa
produttiva del capitalismo, sapere, conoscenza, il ricorso a queste facoltà
generiche dell’essere umano; e però ovviamente è anche l’unica base materiale,
concreta, definita del ribaltamento. E’ quello che, con una battuta che dentro
la tradizione dell’operaismo si capisce, si è chiamato su Luogo Comune “il comunismo del capitale”, riferito al socialismo
del capitale di cui si parlava a proposito degli anni ’30, keynesismo, fordismo
ecc. che sono la risposta alla crisi del ’29 e prima ancora al ’17. Il
comunismo del capitale significa appunto che il postfordismo articola a sé quel
general intellect che dimostrerebbe quanto pacatamente realistico potrebbe
essere il ribaltamento comunistico. Nella tradizione operaista si è sempre
opposto comunismo a socialismo, è stata fissa la critica del socialismo, non
del socialismo reale ma anche del socialismo ideale, applicazione universale
equa della legge del valore e via dicendo. Però, gli aspetti discriminanti del
comunismo, critica del lavoro, critica dello Stato e altro, sembrano come fatti
proprio e articolati invece in termini di produzione del plusvalore. In questo
senso c’è questa doppia faccia. Fra l’altro, io credo che il capitalismo
contemporaneo, proprio come postfordista, abbia la caratteristica di tradurre
in termini storici, sociali e anche economici addirittura le caratteristiche
più generali dell’animale umano, quelle che sono sempre state vere, anche per
Omero. Allora, quello che è sempre stato vero, cioè che l’animale umano è fatto
così, si invera: che è un animale linguistico, che ha un certo rapporto fra
vita sensibile e vita cognitiva e intellettuale, che ha certe caratteristiche,
che non ha un ambiente ben determinato per esempio, come ce l’ha la zecca o
l’alligatore o lo scimpanzé, ma ha a che vedere con un mondo indeterminato, nel
quale non si orienta mai bene. Questi fatti, che sono addirittura biologici,
sono invece realtà storico-empirica: in questo senso si inverano, si rivelano,
diventano fenomeno. E’ proprio quello che gli studiosi chiamano
l’antropogenesi: è la genesi stessa dell’uomo, nei suoi caratteri distintivi
dalle altre specie, che è sempre stata vera ovviamente, soltanto che non si è
mai presentata in primo piano come un semplice fenomeno concreto, empirico, a
volte addirittura economico. Quindi, con una costituzione quasi biologica,
diciamo, che diventa invece determinazione storica. Questo aspetto è la grande
forza del capitalismo postfordista, però è sempre stata considerata la base del
comunismo. Paradossalmente, è l’idea che l’uomo potesse vivere direttamente e
senza veli all’altezza delle caratteristiche della sua specie, senza i veli
della religione, delle società tradizionali, del paesino di campagna in cui si
vive per tre secoli nello stesso modo, ma potesse vivere per il fatto che è un
animale indefinito (così usiamo anche una bella definizione). L’uomo come
animale indefinito, mentre gli altri animali hanno tutti i begli istinti
specializzati: per l’uccello non esiste l’albero, esiste un punto di appoggio
che è il ramo perché appunto è ben definito, sa sempre cosa deve fare. L’uomo è
l’animale che non sa cosa deve fare, è l’unico animale che vive
nell’indecisione e nell’incertezza. Si capisce che cose generali che sono? Ma
si pensi come questo suo vivere nell’indecisione e nell’incertezza, questo suo
essere un animale indefinito, è la base del postfordismo. Quando si dice la
relazionalità, la linguisticità, l’essere pronti all’innovazione continuativa:
che altro si dice se non che l’uomo come animale indefinito è messo al centro.
Risalire proprio alla costituzione dell’essere umano come tale è anche la base
dell’idea comunista, depurata da cose del Movimento Operaio, dalle cose
socialistiche ecc. E’ un tiro alla fune in cui la fune è una per tutti: la fune
si può chiamare general intellect, e quando è tirata come oggi pressoché
totalmente dalla parte della grande impresa, della produzione di plusvalore,
ovviamente assume certe caratteristiche. Non è che essa rimanga proprio
materialmente la stessa, quando uno dei due contendenti la tira di più quella
fune prende certe caratteristiche, quando è tirata dall’altra parte ne prende
delle altre. Questa fune si chiama in sintesi general intellect. Però, il
postfordismo è quello che mette al lavoro ciò che l’uomo è sempre stato come
condizione di sfondo, cioè un animale indefinito, l’unico animale indefinito,
questo mi sembra realistico.
-
Cosa ci dici di Enzo Grillo?
Con lui eravamo amici negli anni ’70, era
più grande, però stavamo sempre insieme. Lui era un grande amico di De Caro,
che conoscevamo di meno perché era più riservato, invece Enzo è un
chiacchierone, un uomo da cena insieme. Enzo è coltissimo, afflitto dal fatto
che sapeva tutto e gli era impossibile scrivere. Poi l’ho perso di vista, credo
di non averlo più incontrato. A un certo punto si è proprio isolato, è andato
in pensione a 40 anni, è andato a vivere fuori Roma, non ha mandato la figlia a
scuola e le faceva lui da insegnante. Ha cominciato a fare delle traduzioni
meravigliose e sapeva veramente tutto. Infatti, cercava di organizzare le tesi
di laurea dei giovani compagni di Potere Operaio che facevano l’università,
affinché facessero le tesi su cose che a lui sembravano non essere state ancora
ben sviscerate e quindi potessero servire complessivamente alla scienza
operaia. Il problema è che quando passa il tempo la gente diventa risentita,
quello fa parte dell’animale indefinito.
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Grillo e De Caro avevano fatto nel
’73 una relazione al centro Serantini di Bologna, titolata L’esperienza storica della rivista Classe
Operaia e che era circolata ciclostilata. Dai pochi
frammenti che abbiamo avuto occasione di leggere sembra che loro facessero una
critica a quella esperienza che è in qualche modo ripresa da altri, anche nelle
interviste che stiamo facendo, ossia di una sorta di progressismo implicito di
certi percorsi operaisti. Ciò non riguarda ovviamente tutti, ma se, ad esempio,
si guardano alcuni aspetti del percorso di Negri (si pensi a Posse così come a
precedenti elaborazioni) si vede la teoria di una moltitudine (o prima ancora
chiamata in termini diversi) che va deterministicamente verso una cooperazione
liberata e rispetto a cui l’unico problema è un comando capitalistico che si
presenta nella forma di una semplice incrostazione parassitaria e del tutto
inessenziale. Si ripropone una qualche freccia della storia che va sempre
avanti e sempre verso il meglio.
Non ci hanno avvertito, abbiamo già vinto
senza accorgercene! Toni qualche volta, non che non le conosca benissimo, ma
dovrebbe leggersi con meno insofferenza le Tesi
sulla filosofia della storia di Walter Benjamin, che come si sa sono
perfettamente antiprogressiste. Ogni tanto borbotta che è un pensiero
talmudico, una cosa che non va bene, invece lì c’è appunto un elemento in cui
la catastrofe è sempre possibile. Non la chiamerei progressismo, perché esso
contiene veramente al peggio del Movimento Operaio…
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C’è una sorta di oggettiva
immanenza del bisogno di comunismo destinata a realizzarsi.
Immanente è, però la sua immanenza non toglie
che può rovesciarsi in blocco, paralisi e catastrofe. Ma anche
nell’osservazione della cosa più sociologica, di una giornata alla Fiat di
Melfi, bisogna tenere presente la possibilità della paralisi e della catastrofe,
cioè quelle stesse cose che renderebbero matura una trasformazione radicale
dell’esistente possono invece secernere il male; quando si pensa alla
moltitudine postfordista o a quello che si vuole, è necessario introdurre la
categoria del “male” (inteso chiaramente in un certo modo), del negativo.
Allora, il problema è stato che l’operaismo ha criticato la dialettica, perché
la dialettica era una roba un po’ da imbroglioni; non che Hegel fosse un
imbroglione, però era uno strumento inaffidabile. La critica della dialettica,
però, secondo me non doveva sfociare nella critica del negativo, cioè della
possibilità della catastrofe, che le cose andassero “a puttane”. Io penso che
l’operaismo e non Calvino sia una delle poche cose esportabili dell’Italia del
secondo dopoguerra: esso ha fatto dei passi in questa direzione, ma forse non
sufficienti. Cioè, c’è il pensare che la negatività, il male, il disastro, il
guaio, la cosa da cui non te ne cavi fuori, può avere una forma non dialettica:
non è che perché critichi la dialettica devi criticare anche il negativo. Su
questo infatti uscirà sul numero di DeriveApprodi
un discorso sulla moltitudine e il negativo. La moltitudine può diventare
fascista. Bisogna tenere presente che la moltitudine ha dentro di sé
l’immanenza del comunismo, questa così si può sempre dire, tant’è che parlavo
addirittura di comunismo del capitale, per dire quanto era diventato visibile
ad occhio nudo…
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Però quell’immanenza assume un
aspetto teleologico, cioè un oggettivo destino di realizzazione.
Quella stessa immanenza è talmente poco
direzionata necessariamente che può dare luogo anche al male radicale: uso
ovviamente espressioni del genere che non userei in pubblico, che sono
espressioni un po’ teologiche e non si sa bene cosa vogliano dire, ma insomma
diciamo il negativo assoluto, il fascismo. Marx da qualche parte l’ha scritto
(forse in una lettera ad Engels): tra i due contendenti che si affrontano sul
lungo termine, su quello di più generazioni e non di pochi anni, non è detto
che vinca l’uno o che vinca l’altro, ci può essere anche la catastrofe. Alcuni
pensatori del ‘900, marxisti ma anche non marxisti, l’hanno curata bene ed è
una nozione necessaria. Ripeto, necessaria poi invece anche quando giudichi una
roba che succede a Praga o al Leoncavallo. Il punto è tenere presente che,
oltre alle alternative A o B, ci può essere anche la paralisi, la catastrofe,
l’imputridimento, il male. Una cosa è il male, che so, nella categoria di
popolo, una cosa diversa è il male nella categoria della moltitudine, quindi
devi rilevare le forme specifiche del male nell’uno e nell’altro caso e
rispetto all’una e all’altra categoria: però, male è, c’è questa possibilità.
Quindi, un negativo non dialettico, quello sarebbe un punto da tenere caro. Ci
ha provato Cacciari con quelle cose sul pensiero negativo che, a parte una
certa loro cripticità, sembravano addirittura subire l’ipnosi di questo grande
pensiero borghese, come quello di Kierkegaard, Nietzsche ecc.: quindi, qui
invece sì, negativo non dialettico, ma poi addirittura sposava certe forme. Ci
sono stati vari tentativi, ma certo rimane un nodo aperto. Sì, Toni
probabilmente ha questa specie di ottimismo spinoziano, come dice lui, e
naturalmente questo permette anche di vedere molte cose alcune volte, coglie
aspetti della tendenza, rompe con tutte le mestizie del Movimento Operaio
tradizionale che è sempre lì pieno di nostalgie, che vorrebbe tanto che ci
fosse ancora il fordismo. Questo atteggiamento di Toni o di altre parti
dell’operaismo permette anche di andare più veloci al punto, però poi ha dei
costi notevoli.
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Una figura a cui sei stato molto vicino è quella di Lucio Castellano.
Come lo inquadreresti?
Era un uomo intellettualmente molto vivace
e spregiudicato. Dicevo prima che sull’ultimo Pre-print di Metropoli,
uscito nell’81 ma i cui testi erano in realtà già pronti dal ’78, c’era un suo
saggio su lavoro e non lavoro, che fu scritto nell’autunno del ’76 e
obiettivamente è un ritratto molto convincente e molto preveggente delle
caratteristiche principali del lavoro postfordista e, nell’immediato, del
movimento del ’77. Poi, come altri, alla fine, prima di morire nel ’94, aveva
questa inquietudine sul buco nero della teoria politica, cioè il fatto che non
vi fosse una teoria politica. Nessuno cerca la cosa in cui si dice “lo Stato,
le Regioni…”, no, dico proprio il nucleo più importante della teoria politica,
che non ci fosse: tutte le analisi sulla composizione di classe, il
postfordismo, il general intellect o altre ancora, anche prima, non mettevano capo
a una teoria politica. Ciò naturalmente lo ha portato anche a saggiare
criticamente proprio il paradigma operaista come tale. Questo tempo di mezzo
che abbiamo vissuto negli ultimi 10-15 anni, in cui molte cose si capirono e
molte categorie nuove potevano essere proposte, ma non c’era nessuna
conseguenza politica rilevante, questa marcia nel deserto, fa sì che
psicologicamente dopo un poco non si resiste: e allora o, com’è successo a
compagni pure bravi, come quelli più giovani ad esempio del Veneto, fai
pidiessizzazione della tua esperienza perché non resisti in questa condizione,
oppure, sul piano più solitario e intellettuale, sei attratto da un mutamento
di paradigma che anch’esso però nella sostanza consiste nel lasciare perdere
l’impianto operaista e nel cercare soluzioni eclettiche e talvolta spurie sul
terreno della teoria politica, visto che questa non ti è offerta dall’operaismo
stesso. Questa è stata la dimensione dei primi anni ’90 di Lucio. Lui aveva
finito un libro poco prima dell’incidente, che era un testo non di grandi
dimensioni però compiuto, doveva solo essere rifinito, ed era appunto su questo
problema: se la produzione è così, quale teoria politica dovrebbe
corrispondere? C’è un gap: a questa ricchezza della produzione non segue una teoria
politica minimamente all’altezza. Ricchezza in tutti i sensi, ricchezza
capitalistica, ricchezza come potenziale di soggettività antagonista. Al
carattere complicato che tiene davvero in sé la produzione, il problema è che
c’è una teoria politica che fa schifo, anche nelle sue versioni critiche. Aveva
fatto questo libro, a cui sono stati aggiunti vecchi scritti di Metropoli o anche quello di Pre-print. E poi c’è un libro di ricordi
su di lui. Quindi, l’accordo con Lucio era meno buono negli ultimi anni, anche
dentro Luogo Comune si litigò. Metropoli lo facemmo per un lungo tempo
io e lui soli, perché Piperno e Pace ebbero il passaporto dalla questura
nell’81 con l’obbligo di andare fuori dal paese perché se restavano potevano
essere processati per i reati per i quali la Francia non li aveva estradati; quindi, presero il passaporto e andarono
in Francia, dunque avevano tutte le difficoltà dell’esilio. Restammo qui io e
Lucio, facemmo buona parte di quei cinque numeri della rivista. Poi invece nel
periodo di Luogo Comune non c’era più
sintonia, anzi c’era una forte tendenza al litigio. Lui mi accusava di
continuismo, io lo accusavo invece di semplificarsi la vita, nel senso che si
fa del passaggio, il salto. La cosa più
complicata è in realtà meno continuista (naturalmente ciò era quello che dicevo
io), bisognava capire quante cose erano entrate per esempio nel concetto di
produzione che prima non appartenevano al concetto di produzione: uno può anche
dire che la produzione non ha più una rilevanza centrale, però è una delle
possibilità di vedere la stessa cosa. Puoi dire: “tantissime cose che prima non
avevano niente a che fare con il lavoro sono diventate lavoro”, oppure puoi
dire: “il lavoro è diventato una dimensione inessenziale”: puoi dire entrambe le
cose basandosi sugli stessi elementi. Quindi, su quello c’era un po’ di
disputa. Dal punto di vista dei grandi passaggi, lui è stato dentro i seminari
che hanno prodotto il libro collettivo Sentimenti
dell’aldiqua, quindi dentro la nascita di Luogo Comune come uno dei fondatori, ha scritto e collaborato ai
primi numeri di DeriveApprodi. Luogo Comune teneva insieme gente
veramente molto diversa, cosa che ha contribuito alla sua paralisi. Però, i
grossi passaggi come frequentazione di certi circoli di discussione sono più o
meno gli stessi; anche il periodo della vicenda carceraria è assolutamente
uguale perché avevamo le stesse imputazioni, lo stesso profilo processuale.
Diciamo che lui ha lavorato quasi solo su questo tema della teoria politica,
con il libro Il potere degli altri (edito
da Hopefulmonster), poi anche con quel testo pubblicato postumo dal
Manifestolibri. Quindi, le stesse parole (general intellect come risorsa
politica anziché come elemento fondamentale della produzione, la stessa parola
esodo) erano anche sue ma le declinava in una maniera più antioperaista di
quanto a me sembrasse giusto, e non certo per motivi di affezione alla
tradizione.
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Una domanda che in qualche modo completa quella precedente.
Composizione tecnica, composizione politica e ricomposizione sono tre categorie
diverse che spesso vengono confuse o completamente non considerate in certe
teorie. Anche rispetto al discorso sul general intellect alcuni (Toni, per
esempio) finiscono per guardare soprattutto alla dimensione alquanto statica
della composizione tecnica, interpretandola immediatamente come composizione
politica antagonista, vedendo quindi le capacità lavorative come capacità
immediatamente rivoluzionarie. Spesso si trascurano parecchio proprio le
determinanti soggettive, quelle su cui dovrebbe essere centrata un’analisi
sulla composizione politica e un tendenziale percorso di ricomposizione.
Forse questo era un difetto (se possiamo
definirlo così) di Toni anche nel ’69, non è che sia una cosa nuova. Deriva da
questa sua attitudine a bruciare i tempi, a guardare alla tendenza come già
realizzata e quindi certamente a saltare i passaggi che rendono sempre un
problema arduo, controverso e reversibile quello di composizione di classe.
Però, secondo me alla fine Toni, per forza di cose stando in Francia, dopo la
sconfitta, dopo il carcere, poi anche adesso, ha cercato più che guardare al
centro della scena di tratteggiarne i bordi dello scenario nel suo complesso,
di determinare il campo più che vedere come poi poteva essere attraversato.
Quindi, mostrare proprio i confini anche logici della situazione in cui stiamo,
occupandosi forse di meno di come poteva occuparsi negli anni ’70 dei passaggi
effettivi della ricomposizione di classe, cercando di indicare le stelle polari
della situazione. E su questo si può naturalmente condividere o non
condividere, però il lavoro fatto dalla rivista Futur Anterieur è stato importante. L’analisi di quello che loro
chiamavano il lavoro immateriale, sulla cooperazione e via dicendo sono state
un buon percorso; parallelamente e indipendentemente da noi, avevano lavorato
sulla dimensione linguistico-comunicativa del lavoro, quindi con una critica ad
Habermas che sfiora il problema e lo distorce con la sua dicotomia. Insomma, là
c’è stato un blocco, anche per le forze che hanno coinvolto, cioè per il tipo
di collaboratori francesi e non solo che c’erano. Secondo me la sua attenzione
è sempre più rivolta al capire, a torto o a ragione, alcune stelle polari
piuttosto che a confrontarsi veramente con i processi di ricomposizione di
classe, con la loro ambiguità e il loro carattere non dato, anzi spesso
bloccato.
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Quali sono secondo te le figure e gli autori principali che possono
essere utilizzati per rompere politicamente quelle chiusure della teoria di
Marx di cui abbiamo parlato prima?
Sono grandi autori semmai delle scienze
sociali e della filosofia. Io penso che sia difficile parlare della produzione
contemporanea senza far ricorso anche ad una strumentazione tratta dalla
filosofia del linguaggio. O ci prendiamo sul serio oppure no: se non ci
prendiamo sul serio è solo una boutade dire che il linguaggio è stato messo al
lavoro (o come un altro lo può dire, questo non importa); se ci prendiamo sul
serio ciò vuol dire che una parte delle categorie dovrebbero essere non dico
proprio prese tali e quali, ma rintracciate con un lavorio critico e
naturalmente anche di modificazione in chi l’esperienza linguistica l’ha
pensata più a fondo, Saussure, Wittgenstein. Però questo non è solo un problema
dato dagli studi che ho fatto e dalle cose che ho scritto, non voglio
spacciarla così, ma è un tipo di allargamento indispensabile. C’è la grande
biologia, l’attuale ma anche quella dell’inizio del ‘900, importante per le
caratteristiche dell’animale umano in quanto tale (uso apposta il termine
animale umano per un fatto materialistico): è come se questa sorta di nucleo
essenziale dell’animale umano fosse venuto alla luce soprattutto con il
postfordismo. Nei fatti è diventata per la prima volta vera la definizione
marxiana di forza-lavoro, quando Marx dice: “la somma di tutte le facoltà – si
noti bene, facoltà significa l’aspetto potenziale – fisiche e intellettuali
racchiuse nel corpo e nella corporeità dell’operaio”: questa definizione in un
certo senso non è mai stata completamente vera fino a ora. Allora, se è così, è
importante anche la biologia (in questo senso forte, non di biologie). Poi c’è
un uso critico di avversari, spesso gli avversari sono interlocutori migliori.
Luhmann si può dire che è un avversario, chi lo può negare; per me è
un’avversaria Hannah Arendt, ma quante cose, polemizzando, variando,
correggendo, interloquendo, si possono ricavare da una che comunque pensava con
la sua testa come la Arendt. Certamente in filosofia, ma anche in scienze sociali
e nel pensiero critico in generale, in un certo senso valgono più dei buoni
avversari che non degli alleati o mediocri oppure con i quali sei già
ovviamente d’accordo. La cosa peggiore naturalmente è un avversario che è
innocuo, ma un avversario inquietante, un avversario insormontabile ti dà
grandi possibilità. Lo stesso vale appunto per Hannah Arendt: io la leggo, la
rileggo, non c’è una sola frase che sottoscriverei, e però nell’attrito con
quello che dice lei ne vengono fuori di cose. Lo stesso naturalmente vale per
questi filosofi della comunicazione e del linguaggio, già dicevo di
Wittgenstein e Saussure; vale per i biologi che pensano l’essere umano come una
animale indefinito, è un grande filone. E’ importante scegliersi dei buoni
avversari. Penso che importante sia non Heidegger in generale ma quello di Essere e tempo, che prenda la vita
quotidiana nella società di massa e la analizza come tale, e quindi tira fuori
delle categorie come categorie veramente filosofiche, che però con la filosofia
hanno poco a che fare, apparentemente come chiacchiera, curiosità: queste sono
cose buone, da sviscerare naturalmente contro Heidegger stesso, di nuovo siamo
a un discorso sugli avversari. Io terrei soprattutto una bella lista di
avversari importanti.
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Cosa ne pensi di Arnold Gehlen?
Gehlen è importante, certo: servendosi di
questi biologi come von Uexküll e questi altri qui elabora il massimo grado di
idea del carattere sprovveduto, indefinito, incerto e indeciso dell’uomo. Cosa
serve al postfordismo? Un animale indefinito (flessibilità, plasticità),
indeciso (sempre pronto a diverse alternative) e via dicendo.