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giovedì, ottobre 25, 2012

Saul Newman L'orizzonte dell'Anarchia: Anarchismo e pensiero radicale contemporaneo


Saul Newman




L'orizzonte
dell'Anarchia:
Anarchismo e
pensiero
radicale
contemporaneo



Questo testo, il cui titolo originale è "The Horizon of
Anarchy: Anarchism and contemporary radical thought"è
preso dal sito http://postanarchistgroup.net/ curato dallo
stesso autore e da altri pensatori di questo sviluppo della teoria
anarchica attraverso le riflessioni di pensatori poststrutturalisti.
Saul Newman è infatti tra i più noti anarchici di
questo filone, avendo pubblicato diversi libri in merito tra cui

From Bakunin to Lacan. Anti-authoritarianism and the dislocation of
power, Lanham MD: Lexington Books 2001; Power and Politics in
Poststructuralist Thought. New theories of the political, Londra:
Routledge 2005; Unstable Universalities: Postmodernity and Radical
Politics, Manchester: Manchester University Press 2007

http://greennotgreed.noblogs.org




Abstract-Questo documento esplora la
rilevanza dell'anarchismo per i dibattiti in
corso nella filosofia politica radicale
europea. Esso sostiene che l'anarchismo –
come forma di politica che propone
l'abolizione del potere statale -è il
referente non riconosciuto per la politica
radicale odierna, e che i pensatori
contemporanei come Alain Badiou, Jacques
Rancière e Michael Hardt e Antonio Negri,
tra gli altri, devono situare il proprio
pensiero politico in relazione alle domande
poste dall'anarchismo. In particolare, il
pensiero politico radicale, oggi tende a
convergere attorno a tre configurazioni politica
al di là dell'organizzazione statale,
al di là della politica di partito, e la
soggettività politica al di là della classe ciò
indica l'esaurimento del marxismo-
leninismo e la necessità di nuove forme di
politica egualitaria e libertaria. Ecco, io
sostengo che l'anarchismo fornisca un
modo più coerente di teorizzare la politica
radicale oggi.


L'anarchismo è sempre stato una eresia politica. Il suo
rifiuto dell'autorità politica e della sovranità dello Stato lo ha
relegato ai margini della politica e, a partire dal XIX secolo,
è stato messo in ombra dal marxismo. Tuttavia, forse si può
parlare di una corrente libertaria o sotterranea che
attraversa la politica radicale, anche influenzando gli
elementi del marxismo1.Questo può essere rilevato, vorrei
suggerire, nel recente pensiero radicale dalla tradizione
continentale. Qui troviamo una serie di temi, preoccupazioni
e dibattiti che assomigliano molto a quelli
dell'anarchismo. Tra le rovine del marxismo -o almeno di
una certa forma istituzionalizzata e statalista -c'è un
desiderio, tra molti pensatori di oggi, a sviluppare nuove
categorie e indicazioni per la politica radicale. C'è il
tentativo, da un lato, di trovare nuove forme di soggettività
politica radicale non più basate sul concetto marxista di
proletariato. Vi è un riconoscimento del fatto che tale
categoria è troppo stretta per esprimere le diverse forme di
oppressione, di modi di politicizzazione, e modi di
relazionarsi con il proprio lavoro e dell'esistenza che
compone il mondo contemporaneo. Quello che viene
chiamato un nuovo modo di pensare a come, e con quali
processi, il soggetto diventi politicizzato -come fa il
soggetto a diventare un soggetto egualitario e collettivo?

In secondo luogo, c'è un rifiuto dei modi autoritari di
organizzazione politica -per esempio, il partito marxista-
leninista d'avanguardia che avrebbe portato il proletariato
alla rivoluzione, o i partiti comunisti e socialisti nei paesi
capitalisti che hanno cercato di giocare in campo
parlamentare, abbandonando così ogni speranza di
emancipazione dallo Stato. C'è la necessità poi, come
direbbe Alain Badiou, per una politica senza un partito2-di

1 Vedere la recensione di Daniel Besaid, "On a recent book of John Holloway", in

cui si riferisce ad una corrente libertaria che attraversa da sinistra il pensiero

marxista (Historical Materialism, Vol. 13, 4, 2005: 169-192)

2 Vedere Alain Badiou, Ethics: An Essay on the Understanding of Evil, trans.,

1


nuove forme di organizzazione politica che non sono più
strutturate intorno al modello del partito, come il partito che
ha sempre come obiettivo la riproduzione del potere statale.

In relazione a questo c'è quindi la questione dello Stato
stesso: l'inamovibilità del potere statale, nonostante
programmi rivoluzionari che promettevano la sua
'estinzione', e, inoltre, il carattere sempre più autoritario del
cosiddetto Stato liberale democratico, ci mostrano che lo
Stato rimane forse il problema centrale della politica
radicale. Il pensiero radicale quindi vede sempre più la
politica come se fosse situata al di là dello Stato -c'è il
desiderio di trovare uno spazio per la politica al di fuori del
quadro del potere statale, uno spazio da cui l'egemonia
dello Stato sarebbe stata messa in discussione.

Mi sembra che questi temi e questioni -soggettività politica
al di là di classe, organizzazione politica al di là del partito, e
azione politica al di là dello Stato -riguardino direttamente
l'anarchismo. Se queste sono le nuove direzioni in cui si
muove la politica radicale, allora questo sembrerebbe
suggerire un orientamento sempre più anarchico. Infatti,
questa è una tendenza che viene confermata oggi in molti
movimenti radicali e forme di resistenza. L'emergere del
movimento globale anti-capitalista, in tempi recenti,
suggerisce una nuova forma di politica, una forma che è
molto più vicina all'anarchismo nelle sue aspirazioni e nelle
sue tattiche decentrate, nei modi democratici di
organizzarsi. Inoltre, le insurrezioni in Grecia all'inizio del
2009 -che hanno avuto una esplicita identificazione
anarchica -sono indicative di questo momento libertario
nella politica radicale odierna. Sembrerebbe che la forma
prevalente adottata dalla politica radicale oggi sia antistatalista,
anti-autoritaria e decentrata, sottolineando
l'azione diretta e non la politica del partito di
rappresentanza e di lobbying. Non è forse evidente, inoltre,

Peter Hallward, London: Verso, 2002, pp. 95-96

2


che ci sia un disimpegno di massa della gente comune dai
normali processi politici, uno schiacciante scetticismo soprattutto
a seguito della crisi economica -sulle élite
politiche che presumibilmente governano nel loro
interesse? Non c'è, al tempo stesso, una manifesta
costernazione da parte di queste élite davanti a questa
crescente distanza, a significare una crisi nella loro
legittimazione simbolica? Come misura difensiva o di
prelazione, lo Stato diventa più draconiano e predatorio,
sempre più ossessionato dalla sorveglianza e dal controllo,
esso si definisce attraverso la guerra e la sicurezza,
cercando di autorizzare se stesso attraverso una politica di
paura e di eccezione.

Come può rispondere il pensiero politico radicale a questa
situazione, in ritardo -come spesso accade -alla realtà sul
terreno? La mia tesi è che l'anarchismo -o più precisamente
il post-anarchismo -sia grado di fornire alcune risposte. In
effetti, l'anarchismo può essere visto come il referente
nascosto del pensiero politico radicale odierno: mentre la
sua importanza è scarsamente riconosciuta tra i pensatori di
cui sopra, l'anarchismo può tuttavia offrire risorse critiche
per la teoria politica radicale, permettendo così di superare
molti dei suoi attuali limiti e , anzi, dotandola di un quadro
etico e politico più coerente.

Lo Stato e il Partito

Centrale per l'anarchismo è il ripudio del potere statale. Lo
Stato è stato visto dagli anarchici classici come Pierre-
Joseph Proudhon, William Godwin, Peter Kropotkin e Mikhail
Bakunin, in quanto istituzione di dominazione violenta come
una struttura che sostiene e rafforza altre gerarchie e
relazioni di potere e di sfruttamento, comprese le relazioni
economiche. Nelle parole di Bakunin, "lo Stato è come un

3



grande macello e un cimitero enorme, dove sotto l'ombra e
il pretesto di questa astrazione (il bene comune), tutte le
migliori aspirazioni, tutte le forze vive di un paese, vengono
ipocritamente immolate e sepolte"3. E non è stato sufficiente
-e questo è stato il principale punto di contesa con i
marxisti nel corso dei secoli XIX e XX -per lo Stato, essere
sequestrato da un'avanguardia rivoluzionaria, per essere
utilizzato nel periodo di transizione alla costruire del
socialismo. Immaginare che lo Stato dovrebbe
semplicemente estinguersi era, per gli anarchici, l'ingenuità
più assoluta; il programma rivoluzionario di prendere
piuttosto che smantellare il potere dello Stato porterebbe
solo ad una maggiore concentrazione del potere statale e
all'emergere di nuove contraddizioni di classe. Per gli
anarchici, lo stato è sempre accompagnato da una mentalità
statalista, o logica politica, che afferma l'idea della necessità
e inevitabilità dello Stato, in particolare nei momenti
rivoluzionari, impedendoci, cosi, di pensare al di là di esso.

Tuttavia, pensare al di là dello Stato è qualcosa che
dobbiamo fare. In effetti, lo vedo come il compito centrale
per la politica radicale di oggi. Come riconosce anche
Badiou, lo Stato, e l'incapacità di trascendere o sfuggire alla
sua schiavitù, è uno dei problemi fondamentali della politica
radicale:

Più precisamente, dobbiamo porci la domanda che, senza
dubbio, costituisce il grande enigma del secolo: perché la
sussunzione della politica, attraverso la forma del legame
immediato (le masse), o il legame mediato (del partito) in
ultima analisi, danno luogo alla sottomissione burocratica e al
culto dello Stato?4

Ciò che deve essere spiegato, in altre parole, è il rapporto
che ci lega allo Stato e che porta alla perpetuazione del
potere statale. Come gli anarchici, Badiou vede lo Stato

3 Mikhail Bakunin, Political Phiposophy of Mikhail Bakunin: Scientific

Anarchism, ed., G.P. Maximoff. London: Free press of Glencoe, 1953, p.207.
4 Alain Badiou, Metapolitics, trans, Jason Barker, London: Verso 2005, p. 70

4


come più di un semplice ente o di una serie di istituzioni,
ma anche come un certo rapporto di dominio a cui sono
legate le persone attraverso meccanismi come la
democrazia parlamentare o le organizzazioni come il partito
d'avanguardia. Questo è il motivo, per Badiou, per cui vi è
un certo legame tra il partito e lo Stato -il partito
rivoluzionario è un'organizzazione centralizzata e
disciplinata strutturata attorno al fine della presa del potere
statale; anzi, si riferisce ad esso come se fosse l'unica entità
-.il partito-Stato5. Questa critica dello Stato e del partito ha
risonanze nitide con l'anarchismo. Gli anarchici considerano
il partito come una struttura autoritaria che si organizza
intorno all'obiettivo futuro di conquistare il potere dello
Stato: infatti, il partito è un microcosmo dello Stato stesso,
e un'istanza dello Stato, anche prima che arrivi al potere. Se
la politica radicale è quella di sfuggire alle insidie del potere
statale e al suo autoritarismo inevitabile, allora deve
astenersi anche dalla forma del partito.

Troviamo anche altri paralleli con l'anarchismo nella
comprensione di Badiou dello Stato e del suo rapporto con
la società. Nell'analisi di Badiou, lo Stato è visto come un
certo modo di rappresentare una situazione sociale, un
modo di includere, considerando come unici -dice
attraverso le categorie di pratiche di cittadinanza, come il
voto -gli elementi multipli o le parti di tale situazione. Qui,
Badiou sostiene che lo Stato non ha alcun riguardo per
l'individuo, per le differenze, ma integra semplicemente
l'individuo come un elemento anonimo in una struttura
globale attraverso l'ordinamento e l'assegnazione dei posti e
dei ruoli. Si potrebbe dire, per esempio, che la sorveglianza
dello Stato dei luoghi pubblici, la sua ossessione per
l'identificazione e la raccolta di informazioni, la gestione
delle folle e dei movimenti di persone, sono misure volte a
garantire che ognuno resti fermo, che ognuno sia contato,

Vedere Alain Badiou, Polemics, trans, Steve Corcoran, London: Verso 2006, p.
264

5


che nulla sfugga alla sua incorporazione. Inoltre, secondo
Badiou, mentre lo Stato è una ri-presentazione di una
situazione strutturata da un particolare insieme di relazioni
sociali -dicono quelli della società borghese, con le sue
gerarchie di classe e gli scambi economici capitalisti -al
tempo stesso, è anche distinto e separato da esso,
formando una sorta di escrescenza. Per Badiou, però, il
problema con l'analisi marxista dello Stato è che,
concentrandosi su questo punto di eccesso -nel vedere lo
Stato come apparato coercitivo che può semplicemente
essere sequestrato in una sollevazione rivoluzionaria e poi
soppresso -è che lo Stato è molto più intransigente e
inesorabile di come lo hanno immaginato i marxisti, e che la
rivoluzione porterebbe semplicemente ad un cambio della
guardia: "lo Stato è proprio non-politico, nella misura in cui
non è possibile modificarlo, salvare le mani, ed è ben noto
che c'è poco significato strategico in un cambiamento "6.

Al contrario, la politica radicale deve testimoniare l'evento,
in cui si rivela ciò che Badiou chiama il vuoto della
situazione -ciò che non viene conteggiato o formalmente
incluso nella situazione, il suo eccesso radicale e
destabilizzante.

Tornerò a questa idea della manifestazione e delle sue
conseguenze politiche più tardi, ma sembra che ci siano
alcune analogie con l'anarchismo nell'approccio di Badiou
alla questione dello Stato nella politica rivoluzionaria. L'idea
che la conquista del potere statale marxista si limiterà a
produrre un cambio della guardia era proprio lo stesso
avvertimento dato dagli anarchici nel XIX secolo. Piuttosto
che lo Stato abbia una classe o un carattere 'politico' -in
modo che se la classe giusta controllava il suo carattere
oppressivo, esso sarebbe stato trasformato -lo Stato è,
come dice Badiou, 'non politico', nel senso che non può
cambiare in questo modo. In termini anarchici, questo si

Alain Badiou, Being and Event, trans, Oliver Feltham, London: Continuum
2005, p. 110

6


riferisce alla logica strutturale specifica di dominio e di autoperpetuazione
che ha lo Stato, che non è riducibile alla
classe, e che non può essere spostata semplicemente
perché i rappresentanti di una classe diversa ne sono al
timone. Così, gli anarchici avrebbero condiviso il punto di
Badiou che ciò che è necessario, è una forma diversa di
politica che non è 'guidata' da parte dello Stato -cioè, che
non ha come scopo la conquista rivoluzionaria del potere
statale attraverso il partito d'avanguardia, ma piuttosto che
cerca di superare il potere statale attraverso la costruzione
di un diverso insieme di relazioni. In altre parole, vi è la
necessità di trovare una politica fuori dallo Stato. In effetti,
Badiou parla sulla necessità di una politica che "lo Stato
mette a distanza"7. Questo potrebbe assumere la forma di
organizzazioni politiche non-partitiche che rifuggono la
partecipazione ai processi parlamentari e che si concentrano
su questioni specifiche, quali lo status dei diritti dei migranti
"illegali", o di un comune autonomo in cui sono fatte
possibili nuove relazioni egualitarie, la cui esistenza
costituisce una rottura fondamentale con l'ordinaria società-
Stato.

Il pensiero politico di Badiou, a mio avviso, invoca e si
avvale di un certo anarchismo -anzi, può essere situato su
uno sfondo non riconosciuto dell'anarchismo. E' curioso,
quindi, che Badiou sia così sprezzante della tradizione
anarchica:

Oggi sappiamo che ogni politica di emancipazione deve porre
fine al modello del partito, o di più partiti, al fine di affermare
una politica 'senza partito', ma allo stesso tempo senza cadere
nella figura dell'anarchismo, che non è mai stato altro che la
critica vana, o doppia, o l'ombra, dei partiti comunisti, come la
bandiera nera è solo il doppio o l'ombra della bandiera rossa8.

Forse siamo in grado di rilevare qui un
disagio alla vicinanza della sua pcerto
olitica
senso
proprio
di
7
8
Vedi Badiou, Metapolitics, p.145
Badiou, Polemics, p. 321
7


all'anarchismo; il senso in cui vi è un'inevitabile
associazione con l'anarchismo nella sua idea di una politica
di emancipazione al di fuori dello Stato e "senza
partito". Inoltre, è sicuramente ingiusto caratterizzare
l'anarchismo come un semplice "doppio" o "ombra" del
comunismo. L'anarchismo si allontana radicalmente dalla
tradizione marxista, sviluppando le proprie analisi politiche e
le proprie pratiche rivoluzionarie autonome, che, per molti
aspetti, sono coordinate con l'approccio di Badiou alla
politica. Infatti, mentre la politica di Badiou si fonda su una
tradizione diversa -il maoismo -certi aspetti del suo
pensiero politico potrebbero essere più accuratamente
trovati, o meglio, riposizionati, come una sorta di
anarchismo.

Allo stesso tempo, però, dobbiamo essere cauti per non
identificare troppo facilmente il pensiero di Badiou con
l'anarchismo; per farlo bisognerebbe elidere importanti modi
in cui si rendono problematici alcuni aspetti della narrazione
rivoluzionaria dell'anarchismo classico9. Che cosa si oppone
nel conto di Badiou è l'idea della rivoluzione sociale pura che
distrugge il potere statale in uno sconvolgimento
gigantesco. Il movimento spontaneo delle forze sociali
contro lo Stato si fonda sulla divisione manichea -centrale
per l'anarchismo classico -tra il principio sociale naturale,
artificiale e il principio politico, tra, in altre parole, la società
e lo Stato. Ciò che trascura questa opposizione, secondo
Badiou, è il più profondo rapporto dialettico tra queste due
forze. In una critica di ciò che egli vedeva come il
libertarismo dell'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, con i suoi
poli opposti del flusso e il Sistema, il Nomade e il Despota,
lo Schizofrenico e il Paranoico -in altre parole, di spontaneo
movimento rivoluzionario del desiderio contro strutture
fisse, autoritarie e identità -Badiou sostiene che questo

9 Vedere la discussione di Ben Noy sulle relazioni di Alain Badiou con

l'anarchismo in "Throught a glass darkly: Alain Badiou's Critique of

Anarchism", Anarchists Studies, Vol. 16, n°2, 2008: 107-120

8


semplicemente porta a una politica sterile di resistenza e di
opposizione che lascia intatte le strutture dei potere
esistenti10. La critica a cui ci si riferisce, è stata scritta nel
1970, nel corso più esplicitamente maoista e anche
marxista-leninista di Badiou, e, anzi, è interessante notare il
contrasto principale tra la sua insistenza in merito alla
disciplina ferrea del partito d'avanguardia e il suo progetto
di prendere il potere statale -in opposizione ai "desideratori
anarchici" come Deleuze e Guattari -e i suoi tentativi più
recenti di concepire una politica oltre lo Stato e il
partito. Per tutta la sua critica della tradizione anarchica,
Badiou, a quanto pare, si è mosso in questa direzione negli
ultimi anni; posso solo aggiungere che, rispetto alla sua
feticizzazione precedente del partito d'avanguardia, questa
è una buona cosa.

Tuttavia, c'è qualcosa in questa critica del libertarismo di
sinistra -quello che ha denunciato, al momento, usando il
gergo settario del giorno, come estremismo11 -che è degno
di una più seria considerazione? Quello che penso possa
essere preso da questa critica è una certa
problematizzazione della divisione morale assoluta tra la
società e il potere, che è stata fondamentale per
l'anarchismo classico. Quello che la critica di Badiou ci
costringe a prendere in considerazione è la misura in cui
questo tipo di manicheismo nasconde un rapporto più
complesso tra le due forze, il modo in cui -in senso
foucaultiano -ci potrebbe essere una interazione più intima
tra la società e il potere, una presa di coscienza che in
qualche modo turba la narrazione rivoluzionaria del grande
sconvolgimento spontaneo contro il potere statale. Più in
particolare, gli anarchici sarebbero costretti a confrontarsi
con la realtà del potere: che cosa vuol dire distruggere il

10 Vedere Alain Badiou, "The Flux and the Party: In the Margins of Anti-Oedipus

", p.80
11 Vedere l'articolo di Bruno Bosteel, "Post-Maoism: Badiou and politics",

Positions 13:3, 2005: 575-634.

9


potere statale?, Come può essere concretamente realizzato?
Può il rovesciamento dello Stato essere realizzato in assenza
di un impegno con le altre relazioni di potere?Fino a che
punto la confortevole illusione dell'idea di una rivoluzione
totalizzante contro il potere statale che condanna
l'anarchismo a una sorta di posizione purista, è in realtà una
posizione di impotenza? In altre parole, tali considerazioni
renderebbero difficile per l'anarchismo sostenere una
posizione di pura anti-politica. Si tratta di domande come
queste che richiedono un ripensamento di alcuni aspetti
dell'anarchismo classico, ed è qui che si potrebbe parlare di
un 'post-anarchismo'12 . Tuttavia, non dobbiamo concedere
troppo a Badiou. Sollevare queste domande non è un modo
di squalificare una politica anti-Stato, anti-autoritaria; non si
vuole suggerire, come Badiou fa in questa critica particolare
(anche se, come ho detto, più avanti cambia posizione) che
la politica radicale, per essere efficace, debba abbracciare la
disciplina del partito d'avanguardia e gli attrezzi per la
conquista rivoluzionaria del potere statale. Dire che gli
anarchici devono entrare in contatto con la realtà del potere
non vuol dire che devono lavorare all'interno dello Stato
opponendo la loro posizione. Badiou dice, nella sua critica
della posizione libertaria:

...Lo Stato è l'unica questione politica. La rivoluzione è un
rapporto radicalmente nuovo delle masse allo Stato. Lo
Stato è una costruzione. Una rottura senza la costruzione
è la definizione concreta del fallimento, e il più delle volte

12 Altrove ho sviluppato l'idea di post-anarchismo, attraverso la teoria post


strutturalista, come un modo di pensare l'anarchismo senza fondamenti

essenziali – vale a dire un anarchismo che non si basa su fondamenti

ontologici come la natura umana o una visione organica dell'ordine

sociale. Vedere "From Bakunin to Lacan: anti-authoritarianism and the

dislocation of power, Lanham, M.D.: Lexington Books, 2001". Ciò è

ulteriormente descritto nel mio libro "The Politics of Postanarchism",

Edinburgh: Edinburgh University Press, 2010

10


sotto forma di una strage: la Comune di Parigi, il Comune

di Canton, gli anarchici della Catalogna...13

In opposizione a questo, direi che la questione politica posta
da parte dello Stato non riguarda come si deve prendere il
potere statale, ma come si deve costruire una politica al di
là della sua portata -come si dovrebbe costruire una
politica che, nella sua stessa esistenza, presuppone la
dissoluzione radicale dell'immaginario statalista. Inoltre, la
necessità di una costruzione non comporta la necessità o
l'inevitabilità dello Stato, come se lo Stato fosse l'unico
modo di ottenere una costruzione politica. In effetti,
l'esempio che dà Badiou di rotture senza una costruzione la
Comune di Parigi, i collettivi anarchici in Spagna, e così
via -erano proprio concrete costruzioni politiche non statali,
indipendentemente dalla loro eventuale sconfitta. Suggerire
che hanno fallito perché cercavano una vita autonoma al di
fuori del partito e dello Stato, manca completamente il
punto -che la loro innovazione politica, il modo in cui ci
hanno dato un assaggio di un nuovo modo di vita, un nuovo
modo di organizzare le relazioni sociali e di prendere
decisioni politiche, è stato possibile solo perché erano
autonomi dal partito e dello Stato. Vale a dire, che il loro
valore politico laico è proprio in questa autonomia -un
punto che Badiou stesso sembra in seguito accettare,
almeno per quanto riguarda la Comune di Parigi14 .
Ciò che è veramente in questione qui, è la questione della
concreta organizzazione politica, piuttosto che una
costruzione politica che si impone da, e confina con, lo
Stato. Piuttosto che una ribellione spontanea contro lo Stato
che si verifica in tutto il mondo, tutto in una volta, spinto da
forze che sono immanenti all'interno del corpo sociale, una
politica anarchica richiede una organizzazione cosciente e
paziente: la costruzione e la difesa di autonomi spazi
collettivi al di fuori dello Stato; la sperimentazione di forme

13 Badiou, "The Flux and the Party: In the Margins of Anti-Oedipus ", p.80
14 Vedere la discussione di Badiou sulla Comune di Parigi in Polemics, p. 257-290

11



alternative di processo decisionale democratico e forme
egualitarie di scambio, e anche una forma di disciplina, fino
a quando si tratta di una disciplina imposta volontariamente
e senza coercizione da parte del soggetto su se stesso,
piuttosto che da una leadership rivoluzionaria -un disciplina
che viene, per esempio, con l'impegno di una causa (in
questo caso si potrebbe parlare di una disciplina di
indisciplina, una disciplina anarchica). Una posizione postanarchica
chiama così in discussione l'idea di una rivoluzione
immanente della società contro la politica, ma d'altra parte,
si rifiuta del tutto l'idea che la politica debba avvenire nel
quadro dello Stato e del partito politico (sia che si tratti del
tipo parlamentare o di avanguardia). Al contrario, essa mira,
da un lato, a staccare la nozione di politica da parte dello
Stato, e, dall'altro, a staccare la società da un naturale,
fondamento morale al di fuori della politica. In altre parole,
il post-anarchismo richiama l'attenzione all'invenzione di
uno spazio politico tra società e Stato, tra ordine sociale e
ordine politico.

I dilemmi della politica radicale

La possibilità di una politica che lavori al di fuori delle
strutture dello stato e del partito è centrale per la politica
radicale contemporanea e le sue prospettive future. Come
ho sostenuto, una ri-considerazione dell' anarchismo è vitale
per teorizzare questa forma di politica. In effetti, la
questione dell'anarchismo è sorta in un recente dibattito tra
Simon Critchley e Slavoj Žižek. Critchley ha fatto una
richiesta di ciò che egli chiama "meta-politica an-archica",
qualcosa che richiama -sia pure obliquamente -la
tradizione anarchica: si tratta di una forma di politica che
prende una certa distanza dallo Stato, il che rende le

12



richieste ad esso indipendenti15. Si evita un scontro frontale
con lo Stato, lavorando invece negli interstizi del potere
statale, costruendo spazi al di là della sua portata.

Žižek, da sempre leninista, risponde:

L'ambiguità della posizione di Critchley risiede in una
strana non sequitur: se lo stato è qui per restare, se è
impossibile abolirlo (o il capitalismo), perché ritirarsi da
esso? Perché non agire con (dentro) lo stato?.... Perché ci
si limita ad una politica che, come Critchley dice, chiama
lo Stato nella questione e lo chiama per conto dell'ordine
stabilito, per non farla finita con lo Stato, che è
auspicabile ma che potrebbe essere in un certo senso
utopico, ma potrebbe essere meglio o attenuarne gli
effetti maligni?Queste parole semplicemente dimostrano
che l'attuale Stato liberal-democratico e il sogno di una
"domanda infinita" di politica anarchici sono presenti in un
rapporto di parassitismo reciproco:. gli agenti anarchici
fanno il pensiero etico, e lo stato fa il lavoro di gestione e
regolamentazione della società16

Invece di lavorare al di fuori dello Stato, Žižek sostiene che
una strategia più efficace -come quella esercitata da Hugo
Chavez, o, addirittura, Lenin -è quella di afferrare il potere
dello Stato impiegando la sua macchina spietatamente per
raggiungere i propri obiettivi politici. In altre parole, se lo
Stato non può essere eliminato, allora perché non usarlo per
fini rivoluzionari?

Vi è, in questo scambio, l'eco del dibattito tra il vecchio
Bakunin e Marx nella Prima Internazionale. Questo non vuol
dire che Critchley è un anarchico in senso classico. Tuttavia,
questa risurrezione della controversia sullo Stato mette in
forte rilievo il dilemma di affrontare una politica radicale

15 Vedi Simon Critchley, Infinitely Demanding: Ethics of Commitment, Politics or
Resistance, London: Verso 2007, pp.111-114
16 Slavoj Zizek, Resistance is Surrender, London review of books, 15 Novembre

2007

13


oggi: prendere in consegna i meccanismi dello Stato e
utilizzarli per rivoluzionare la società, o lavorare al di fuori
dello Stato con l'obiettivo ultimo di trascenderlo attraverso
lo sviluppo delle comunità e delle pratichealternative. Abbiamo, con Žižek, un approccio neo-leninista
d'avanguardia, e con Critchley, un approccio alternativo che
tende in direzione dell'anarchismo.

Nonostante le insidie evidenti della strategia avanguardialeninista, si dovrebbe comunque prendere la sfida di Žižek a
Critchley sul serio: che, in altre parole, il problema della
strategia di lavorare al di fuori dello Stato, lasciando
sostanzialmente lo Stato intatto, comportano
un'irresponsabile e anche auto-indulgente politica della
domanda che nasconde un segreto di affidamento sullo
Stato di prendersi cura della gestione quotidiana della
società. C'è del vero in questa affermazione?

Ci sono due aspetti che vorrei affrontare qui. In primo
luogo, la nozione di domanda: fare richieste certe sullo stato
-dicono per salari più alti, pari diritti per i gruppi
emarginati, di non andare in guerra, o la fine della sua
polizia draconiana -è una delle strategie di base dei
movimenti sociali e dei gruppi radicali . Rendere tali
richieste non significa necessariamente lavorare all'interno
dello Stato o ribadire la sua legittimità. Al contrario, le
richieste sono fatte da una posizione esterna all'ordine
politico,che spesso superano il problema della realizzazione
di questa o quella misura specifica. Essi implicitamente
mettono in discussione la legittimità e anche la sovranità
dello Stato, mettendo in evidenza incongruenze
fondamentali tra, ad esempio, un ordine formale
costituzionale che garantisce determinati diritti e
uguaglianze, e le pratiche dello Stato che in realtà le violano
e le negano. Jacques Rancière dà un esempio succinto di
questo quando discute su Olympe de Gouges, che, al tempo
della Rivoluzione francese, chiese che le donne avessero il
diritto di andare all'Assemblea. In tal modo, ha dimostrato

14



l'incoerenza tra la promessa di uguaglianza -invocata in
senso generale e tuttavia negata in particolare dalla
Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino -e l'ordine
politico che è stato formalmente basato su questo: "Loro
hanno agito come soggetti che non hanno i diritti che
avevano e hanno i diritti che non avevano "17. Mentre questa
era una richiesta per l'inclusione all'interno dell'ordine
politico, allo stesso tempo, espone una fessura o
un'incoerenza, che è stata potenzialmente destabilizzante,
in questo ordine, nel tentativo di trascendere i limiti di tale
ordine.

Prendiamo un altro esempio: la richiesta di porre fine alle
misure draconiane di controllo alle frontiere e di garanzia
dei diritti dei migranti "clandestini". Mentre questa è anche
una domanda, in una certa misura, per l'inserimento delle
persone attualmente escluse dall'ordine stato nazionale, si
tratta comunque di un luogo al di fuori di esso -contestare
la prerogativa sovrana dello stato nazionale per determinare
i suoi confini. Evidenzia anche le contraddizioni e le tensioni
centrali all'interno del capitalismo globale e della sua
relazione con lo stato nazione: mentre il capitalismo globale
afferma di promuovere la libera circolazione delle persone
(così come del capitale e della tecnologia) attraverso le
frontiere sembra avere esattamente l'effetto opposto l'intensificazione
dei confini esistenti e la costruzione di
nuovi, per non parlare del controllo più generale e delle
limitazioni al movimento delle persone all'interno dei
territori nazionali.Nel chiedere la fine delle misure di
sorveglianza e dei controlli sempre più brutali alle frontiere,
e nella mobilitazione delle persone intorno a questo
problema, i gruppi di attivisti sono impegnati in una forma
di politica che richiama in ultima analisi, in discussione il
principio stesso della sovranità statale. La questione del
carattere eccessivo o 'irresponsabile' delle richieste

17 Vedi Jacques Rancierè, Who is the subject of rights of man?, The South Atlantic
Quarterly 103.2/3(2004) 297-310

15


dovrebbe essere girata: sono le richieste ad essere guidate
dalla responsabilità "an-archica" per la libertà e
l'uguaglianza degli altri.Mentre una politica radicale odierna
non sarebbe limitata alle articolazione delle richieste, e anzi
cercherebbe di andare al di là di questo con la costruzione di
alternative valide allo Stato, dobbiamo tuttavia riconoscere
il potenziale radicale di fare richieste, la cui posizione di
autonomia è già implicita in questa pratica.

Il secondo aspetto della critica di Žižek è la questione della
misura in cui una politica anarchica al di fuori dello Stato si
basi implicitamente sulla continuità dello Stato. Fino a che
punto questo tipo di politica significa un ritiro o una rinuncia
dalle responsabilità del potere statale, permettendo di
continuare le cose come sono, o addirittura peggiorandole
se, ad esempio, le lontane forze di destra riescono a
ottenere il controllo dello Stato? In risposta a questo, si
potrebbe sostenere che le forze di estrema destra hanno, in
passato, utilizzato sia i mezzi parlamentari sia quelli non
parlamentari per ottenere il potere -e in effetti,
formalmente, la sinistra parlamentare è stata spesso del
tutto inefficace nel prevenirlo. La resistenza alle lontane
forze di destra può essere efficace solo se una vera
alternativa politica è concepibile, e questo richiederebbe la
mobilitazione di persone, non tanto a livello statale -vale a
dire elezioni -ma a livello della società civile. Inoltre, uno
dei modi di dimostrare la capacità di alternative politiche
non statali è lo sviluppo di comunità autonome, collettivi ed
organizzazioni che esistono al di là del controllo dello
stato. Gli innumerevoli esperimenti di politica autonoma che
si svolgono in tutto il mondo -i movimenti squatters, centri
sociali, collettivi indigeni, i movimenti di ri-occupazione della
terra, i blocchi e le occupazioni dei lavoratori, i centri media
alternativi, le comuni, le reti di attivisti numerosi, e così via
-sono la prova di questa possibilità . E 'qui che vorrei
spingere l'argomento Critchley oltre i propri limiti. Critchley
ha ragione a suggerire che lo Stato oggi è troppo potente

16



per gli assalti in scala reale, e che una strategia più efficace
sta lavorando intorno ad esso, negli interstizi del potere
statale. Tuttavia, questo non significa che lo Stato sia
permanente, caratteristica inevitabile della vita politica -.
come sembra suggerire Critchley18 . Se le comunità
autonome e le organizzazioni sono sempre più in grado di
svolgere le funzioni tradizionalmente svolte da parte dello
Stato -ad esempio, il modo in cui a seguito della crisi
economica in Argentina nel 2001, le cooperative e le
assemblee locali fornirono servizi sociali di base, in assenza
di un funzionamento del governo -allora il futuro dello Stato
non è affatto garantito.. Con l'attuale crisi economica, la
mancanza di volontà o incapacità dei governi di fornire
servizi decenti per le loro popolazioni, a mio avviso espone
sempre più l'inadeguatezza generale dello Stato nel
soddisfare i bisogni sociali. E 'qui che forme alternative di
organizzazione sociale diventano immaginabili.

Mentre Žižek solleva importanti interrogativi circa l'efficacia
della politica di fuori dello stato, l'alternativa che offre -la
rivisitazione idee del partito d'avanguardia, la dittatura del
proletariato e il terrore di stato rivoluzionario, che
esaminerò in seguito -è un modello completamente defunto
e superato della politica, se pure per cominciare abbia mai
avuto alcun valore emancipatorio.Come ho suggerito, una
politica radicale sembra essere chiamata oggi esattamente
al contrario, una direzione più anarchica.

Soggettività oltre la classe

La domanda di nuove forme di politica che vanno al di là dei
modelli marxisti e leninisti, pone anche la questione delle
nuove forme di soggettività politica al di là del concetto
marxista del proletariato. Mentre gli anarchici classici

18 Critchley, Demanding Infinitely, pp. 111-112

17


assumono elementi di analisi critica marxiana del
capitalismo, hanno tuttavia messo in dubbio la coerenza e
anche la coscienza rivoluzionaria del soggetto di classe
marxista, sostenendo che gli elementi del proletariato
industriale avevano già assunto valori borghesi e
conservatori, e che altre classi, come i contadini e il
sottoproletariato, dovevano essere parimenti essere definiti
come rivoluzionaria.19L'accento anarchico sulla eterogeneità
e la mancanza di forma 'del soggetto collettivo
rivoluzionario è diventato più rilevante oggi. Molti pensatori
contemporanei radicali cercano di descrivere l'oggetto di
emancipazione in termini diversi da quelli del proletariato
rigorosamente definiti nel senso marxista.

Tuttavia, questa rottura con la classe come elemento
determinante della soggettività politica radicale non vuole
affatto suggerire che la classe non è più importante, o che
le divisioni di classe non esistono più. Né vuole suggerire
che le disuguaglianze economiche, le privazioni, le esclusioni
e gli antagonismi non siano ancora al centro delle lotte
politiche radicali. In effetti, l'emergere del movimento anti-
capitalista in tempi recenti ha mostrano che gli effetti
dislocanti del capitalismo globale sono sempre più al centro
dell'agenda politica radicale. Inoltre, l'idea della
eterogeneità dei soggetti non deve indurre a qualche vaga
nozione di 'identità politica'. Mentre alcune forme di identità
politica -le lotte per il riconoscimento da parte delle
minoranze -hanno svolto e continuano a svolgere, un ruolo
importante nel sostenere la parità di trattamento e di diritti,

19 Bakunin credeva che la piccola elitè che possedeva "coscienza di classe" e che

costituiva le altesfere delle classe operaria, vivesse in una relativamente

confortovole moda semi-borghese ed erano infatti stati cooptati nella borghesia.

Invece del concetto ristretto di classe, che implicava la gerarchia e l'esclusività,

Bakunin parlò di " quella grande marmaglia che essendo quasi non del tutto

inquinata dalla civiltà borghese, nel suo cuore, nelle sue necessità, nelle sue

aspirazioni e nella miseria della sua posizione collettiva, conteniene tutti i germi

del Socialismo futuro.. " (vedi Marxism, Freedom and the State, trans. K.J.

Kenafick, London: Freedom Press, 1984, p.48)

18


il punto è che, in molte società occidentali, almeno, la
semplice affermazione di una differenza di identità culturale,
sessuale o di genere non è più necessariamente radicale, ed
è spesso fin troppo agevolmente alloggiata all'interno del
sistema statale20.Wendy Brown, per esempio, mostra come
le richieste di riconoscimento da parte dei gruppi di
minoranza spesso si legano ulteriormente allo Stato, che li
rende più dipendenti dallo Stato per il riconoscimento di
questa identità e la tutela dei loro diritti, consentendo in tal
modo allo Stato di estendere il suo potere sulla vita. Per
esempio, le rivendicazioni dei diritti di alcuni gruppi
femministi semplicemente riaffermano il loro status di
"vittime" che richiedono la protezione dello Stato. Brown
chiede: "Potrebbe tale protezione essere codificata in legge
per rimediare alla molta impotenza?21

Ciò che limita l'identità politica non è necessariamente il
modo in cui le richieste sono indirizzate allo Stato; come ho
già detto sopra, determinate richieste per il riconoscimento
dei diritti degli altri -migranti "clandestini" per esempio possono
produrre effetti dislocanti sul sistema Stato e
rimettere in discussione il principio della sovranità
statale. Ciò che limita molto l'identità politica è, piuttosto, il
modo in cui essa si fonda intorno a forme di identificazione
che possono essere incorporate nella struttura del potere
nella società "multiculturale" -le differenze di genere, le
differenze sessuali, le differenze religiose, e la richiesta che
tali differenze siano "rispettate" da parte delle istituzioni e
dalle altre persone. L'istituzionalizzazione dello Stato di
questa nozione di rispetto non solo de-politicizza le
differenze, ma anche spesso porta alla restrizione della
libertà degli altri -si pensi, per esempio, alle leggi contro

20 Questo non vuol dire respingere la radicalità di una identità politica in molte

società non occidentali: affermare una identità culturale curca in Turchia, per

esempio, o omosessuale in Iran, è ovviamente una proposta molto più rischiosa

da fare li piuttosto che in USA o Inghilterra.
21 Wendy Brown, State of injury: power and freedom in late modernity, Princeton,

NJ: Princeton University Press, 2005, p.21

19


"l'odio" nel Regno Unito,o la miriade di regole puritane e
coercizioni in materia di molestie sessuali sul luogo di
lavoro, o la violenza discorsiva e il fondamentalismo della
correttezza politica. Forse, ancora più importante,è che
l'identità politica è spesso incapace di politicizzare il
capitalismo, a parte una vaga idea che il capitalismo sia
razzista, sessista o omofobo.

Il terreno della politica radicale si è spostato in questi ultimi
tempi nella direzione di una problematizzazione più esplicita
del capitalismo globale e del potere statale. Ciò suggerisce
nuovi modi di soggettivazione politica che mettono in
discussione i diversi modi in cui siamo subordinati al
capitale, i modi in cui il capitalismo sussume e ricostituisce
le nostre vite di tutti i giorni, le relazioni e le esperienze: dai
vincoli del luogo di lavoro, alla gerarchizzazione delle
relazioni sociali, la razionalizzazione e mercificazione delle
attività quotidiane, la privatizzazione degli spazi pubblici e
l'atomizzazione delle nostre interazioni con gli altri. Esso
suggerisce inoltre le forme di politica e soggettivazione che
mettono in discussione rapporti autoritari, le pratiche e le
istituzioni, in particolare quelli che si concentrano all'interno,
e sono legittimati ed organizzati dallo stato. In effetti,
questa critica etica e politica di autorità, e il desiderio di
vivere senza quest'ultima, è ciò che distingue la posizione
anarchica dall'altra politica di sinistra. La radicale
soggettivazione comporta quindi non solo una critica politica
dello Stato e della sua violenza intrinseca e di dominio, ma
anche una sorta di interrogatorio etico della propria
dipendenza psicologica dello Stato: come Max Stirner
direbbe, "un lavoro che mi porti fuori dal determinato"22.La
soggettivazione radicale potrebbe essere vista in termini di
un'insurrezione del sé contro l'identità dei ruoli imposti su di
noi da parte dello Stato, è il processo attraverso il quale il
soggetto "prende distanza" dallo Stato.

22 Max Stirner, The Ego and Its Own, trans, David Leopold, Cambridge:
Cambridge University Press, 1995, p.280

20


Inoltre, la soggettivazione politica invoca sempre di più una
dimensione universale. Questo non è solo nel senso che le
lotte politiche radicali e i movimenti emergono oggi su un
terreno definito dalla globalizzazione, ma anche nel senso
che vanno al di là della mera affermazione di una particolare
identità, e invece cercano di stringere alleanze, reti e
solidarietà l'uno con l'altro. Una politica che si basa
sull'affermazione di una identità, o cerca un riconoscimento
istituzionale di una differenza specifica, lascia in gran parte
non contestate le relazioni economiche e il potere
istituzionale, così come limitarsi ad un certa particolarità, si
è quindi chiusi dalle lotte e dall'identità esterni di sé. Ciò che
è precluso è una dimensione egualitaria, collettiva,
democratica che incarna una necessaria apertura
all'altro. L'identità politica è spesso una forma di politica
sovrana -l'affermazione di un'identità sovrana,
indipendente nella sua differenza. L'atto di soggettivazione
si fa radicale se il soggetto o gruppo di soggetti capisce la
propria sofferenza e lotta rispetto a quelle degli altri. In
effetti, l'insistenza sull'universalità come dimensione
necessaria in una soggettivazione politica si può trovare
anche, in modi diversi, in Badiou, Žižek, Rancière e
Laclau. Per tutti questi pensatori, vi è l'idea che per la
politica per prendere posto, in parte deve venire a
esprimere -anche se solo temporaneamente o
contingentemente -l'iniquità del tutto e la lotta per porvi
rimedio.

Tuttavia, perché 'il proletariato' non è più una categoria del
tutto sufficiente oggi per capire la soggettivazione
politica? Dire che le strutture e le divisioni di classe sono
state erosi o totalmente frammentate sarebbe troppo
veloce. Ovviamente, anche nelle nostre società "postindustriali",
ci sono ancora settori della popolazione che
fanno il lavoro manuale e che sono soggetti a forme terribili
di sfruttamento -per non parlare dei milioni e milioni di
lavoratori che vivono una esistenza disperata e deprivata in

21



paesi più poveri. In effetti, la globalizzazione capitalista sta
producendo, se non altro, una }ri-proletarizzazione del
mondo intero in cui, sempre più spesso, le condizioni di
lavoro che si sarebbe aspettati di trovare nel Terzo Mondo il
peggior tipo di sfruttamento del lavoro per esempio -si
trovano anche al centro delle economie sviluppate23. Inoltre,
se vogliamo intendere -come lo stesso Marx ha fatto proletari
come coloro che sono stati esclusi dai frutti della
ricchezza che hanno prodotto e la cui privazione è stata la
caratteristica strutturale necessaria del capitalismo, allora si
può certamente mantenere questa denominazione, anche se
il sottoproletariato (o sub-proletariato), o semplicemente i
poveri globali -i sotto-occupati, casualmente impiegati o
quelli completamente esclusi dal lavoro e dal mercato potrebbe
essere un termine più preciso per descrivere
questi milioni di usa e getta.Il problema qui non è il lavoro
in sè o una relazione di lavoro: il lavoro, le sue insicurezze,

o la mancanza assoluta di esso, ovviamente, è ancora
fondamentale per la vita di molte persone. Il problema con il
concetto di proletariato si riferisce al modo in cui è stato
concepito nella teoria marxista ortodossa: sia come
categoria socio-economica che designa una specifica classe
nella società, così come una soggettività politica che
sarebbe stata organizzato e guidata attraverso il partito
d'avanguardia . Il proletariato è una specifica identità
sociologica e politica che è stata costruita nella teoria
marxista e imposta ai lavoratori, i lavoratori la cui vita
quotidiana e le cui esperienze spesso non sono conforme ad
essa: quindi, per esempio, l'enfasi di Marx sul ruolo della
produzione industriale disciplinata, la classe operaia unita;
la visione economica riduzionista di Kautsky di divisioni di
classe, e l'entusiasmo di Lenin per il taylorismo come
strumento per la razionalizzazione sociale del lavoro. Il
proletariato doveva essere prodotto come una coerente,
23 Come fa notare Perry Anderson, la classe proletaria mondiale è di fatto

raddoppiata a 3 miliardi dal 2000. Vedi ‘Jottings on the Conjuncture’, New Left

Review 48 Nov/Dec 2007, 5-37

22


unitaria identità che sarebbe sta guidata alla rivoluzione dai
più illuminati settori della coscienza di classe del movimento
operaio.

Eppure, si potrebbe chiedere se il proletariato sia mai stato
una classe uniforme, e coerente in questo modo: esso
comprendeva più lotte, eterogenee identità spesso
contrastanti -artigiani che hanno cercato di difendere i modi
tradizionali di vita e di lavoro, i lavoratori che si ribellarono
contro le coercizioni e la disciplina del sistema di fabbrica,
impegnandosi in nel rompere le macchine, e altre forme di
sabotaggio industriale, e così via. In effetti, gli anarchici
celebrano di più quelle lotte spontanee e immediate contro il
capitalismo e il processo di industrializzazione, piuttosto che
sottoscrivere la narrazione marxista dei lavoratori che
abbracciano la tecnologia e i processi del capitalismo
industriale, come gli strumenti della loro futura
liberazione. Inoltre, Rancière ci dà uno sguardo sui sogni
libertari e le passioni letterarie dei lavoratori francesi nel
corso del XIX secolo, nel modo in cui hanno resistito e
problematizzato la propria identità semplicemente come
"lavoratori", cercando di fuggire, piuttosto che abbracciare
le "glorie" del lavoro manuale24 . Qui Rancière sposta il
concetto stesso di classe nell'immaginario marxista. Infatti,
la soggettivazione che si svolge qui è proprio un rifiuto della
propria identità stabilita come lavoratore, e invece un attiva
sperimentazione anche utopica nelle modalità di espressione
artistica -in particolare la letteratura e la poesia -che sono
state ritenute 'borghesi' e non idonee per i lavoratori. La
soggettivazione è qui inteso in termini di 'disidentificazione',
uno spostamento del proprio ruolo
socialmente definito -qualcosa che produce una dissonanza

o un'interruzione dell'ordine di identità e dei luoghi
stabiliti. Quindi, anche la classe ai tempi di Marx non è mai
stata un tutto coerente, un'identità coerente e stabile. Non
24 Jacques Rancière, The Nights of Labour: the Workers’ Dream in Nineteenthcentury
France, trans., John Drury, Philadelphia: Temple University Press, 1989.

23



abbiamo alcun motivo di immaginare che la designazione
politica di classe sia tutt'altro che più frammentato, e meno
stabile e coerente, oggi.

L'Anarchismo e le Moltitudini

Se il proletariato non serve più come categoria del tutto
sufficiente per la politica radicale odierna, quali forme
alternative di soggettività possono prendere il suo posto? E
'qui che vorrei esaminare la figura della moltitudine come è
stata costruita da Hardt e Negri.Essi sostengono che
all'interno dell'Impero globale del capitale, vi è la crescente
egemonia di 'lavoro immateriale' -del lavoro che è sempre
più finalizzato alla produzione di informazioni e conoscenze,
piuttosto che di oggetti materiali. Il lavoro immateriale non
è solo un modo di produzione economica, ma anche una
forma di produzione biopolitica in cui nuovi rapporti sociali e
nuove forme di vita sono creati attraverso la proliferazione
di reti di comunicazione e di conoscenza comune.Mentre
queste "cose" sono prodotte in condizioni di capitalismo e di
proprietà privata, a loro volta sono sempre più difficili da
mercificare e tendendo verso un 'essere-in-comune'. Ciò che
sta emergendo con questa forma di produzione è quindi una
nuova forma di soggettività definita dalla possibilità di un
'divenire-comune' del lavoro. Questa comunanza, che Hardt
e Negri definiscono la moltitudine, è un concetto di classe,
ma che, secondo loro, è diverso dalla nozione marxista del
proletariato: si riferisce a tutti coloro che lavorano
nell'Impero, non solo o comunque non in primo luogo i
lavoratori manuali . La sua esistenza, inoltre, si basa su un
potenziale in divenire o immanente, piuttosto che essere
definito da una esistenza strettamente empirica, che
rappresenta una molteplicità irriducibile -una combinazione
di collettività e pluralità -piuttosto che una identità unitaria
come 'il popolo'. Questa molteplicità immanente ha la

24



tendenza a convergere in un organismo comune, una
singolarità, che sarà un giorno in contrasto con l'Impero per
emanciparsi25 .

Ci sono molti aspetti della tesi di Hardt e Negri, relativi alla
moltitudine e all'emergente della politica, che riflettono i
temi anarchici. Mentre insistono sul fatto che "non sono
anarchici ma comunisti"26, il loro argomentare di una rivolta
spontanea della moltitudine, che non è mediato attraverso il
partito d'avanguardia e che si emancipa dal capitalismo
globale e dalla sovranità politica, sembra richiamare
direttamente una forma di anarchismo.Inoltre, il loro
accento sulle nuove forme di comunanza politica basata
sulla rete di comunicazione, l'affinità e la democrazia
diretta, sembra descrivere aspetti del movimento mondiale
anti-capitalista e, in effetti, molti attivisti di questo
movimento hanno riconosciuto la rilevanza delle loro idee.

Tuttavia, il loro approccio pone una serie di problemi. In
primo luogo, la loro idea di moltitudine si basa su un
immanentismo: la moltitudine è venuta alla ribalta in tutto il
mondo, a causa della dinamica dell'Impero e della
prevalenza di 'lavoro immateriale'; nuove forme di
comunanza stanno emergendo attraverso la produzione
biopolitica e la proliferazione di tecnologie. C'è una sorta di
ineluttabilità biologica sulla venuta della moltitudine e la sua
trascendenza dell'Impero attraverso una rivolta generale. In
molti modi l'analisi di Hardt e Negri è parallela al
materialismo storico marxista: come il proletariato si fonde
in una identità e diventa coscienza di classe attraverso la
dinamica del capitalismo industriale, creando un potenziale
rivoluzionario all'interno delle società capitalistiche
attraverso la sua tensione con i rapporti borghesi di
produzione, cosi la forma della moltitudine si fonde in una

25 Michael Hardt and Antonio Negri, Multitude: War and Democracy in the Age of

Empire, New York: Penguin, 2004, p. 101.
26 Michael Hardt and Antonio Negri, Empire, Cambridge, MA.: Harvard

University Press, 2000, p. 350.

25


comunanza attraverso la dinamica del lavoro 'immateriale' e
della produzione, con la creazione di un potenziale
rivoluzionario dentro l'Impero. In ogni scenario, un
organismo sfrutta le forze economiche del capitalismo, al
fine di trasformare e creare una nuova serie di relazioni
sociali.

In secondo luogo, troviamo in Hardt e Negri un'adozione
piuttosto sospetta dell'idea di biopolitica. Per Hardt e Negri,
l'impero del capitalismo globale post-moderno esercita un
controllo biopolitico sulla vita: per esempio, la brevettabilità
del genoma umano, le sperimentazioni aziendali nella
biogenetica e la clonazione, e così via, sarebbero solo gli
esempi più evidenti del modo in cui il capitale sussume e
cerca di prendere il controllo della base biologica della vita
umana. In termini più generali, il potere del capitalismo dei
processi produttivi e la nostra attività di tutti i giorni sul
posto di lavoro è un aspetto del biopotere: un controllo
affermato sui modi in cui la vita riproduce le condizioni della
sua esistenza. L'analisi in parallelo di Foucault del passaggio
dal potere disciplinare al biopotere (il movimento da una
società disciplinare a ciò che Deleuze ha chiamato la 'società
del controllo'), è il passaggio nella teoria di Marx dalla
sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al
capitale -in altre parole, il processo con cui il capitale
investe non solo il dominioeconomico, ma la totalità della
vita sociale27 . Fin qui tutto bene. Ma dove la posizione di
Hardt e Negri diventa più problematica è, a loro parere che
la biopolitica è al tempo stesso il campo materiale di cui
sono costituite le soggettività resistenti. La biopolitica forma
un nuovo campo di produzione, il 'lavoro immateriale', e
questo produce una dimensione sociale e comunicativa del
lavoro vivo, e con questo, nuove forme radicali di
soggettività28. Così, il biopotere è oppressivo e sfruttatore,

27 Vedere il capitolo sulla "Produzione biopolitica" in Hardt and Negri, Empire, pp.

22-41
28 Hardt and Negri, Empire, p.29

26


ma nelle nuove forme di lavoro e di produzione che esso
investe e quindi rende possibile, ma crea anche la possibilità
per la nostra liberazione. La moltitudine, in altre parole, è
un concetto di biopolitica, è un 'organismo' le cui condizioni
sono state create per l'eccesso di vita biopolitica per il
controllo esercitato dal biopotere. Tuttavia, l'ambiguità è
nella misura in cui la moltitudine può effettivamente
ottenere qualsiasi reale separazione o distanza dal biopotere
in questo modo. O sarà sempre definito da esso; Sarà
sempre parte della sostanza del biopotere, senza essere in
grado di costituire una rottura o una discontinuità?29
Foucault, che è stato colui che ha elaborato il concetto di
biopotere come una razionalità di dominio -una forma di
regolazione e governo della vita -sarebbe stato un po
'scettico nel vedere la vita stessa, e in particolare la vita
definita dal lavoro e dalla produzione, come il materiale
terreno di resistenza.

Inoltre, se prestiamo attenzione alle tesi di Agamben che la
biopolitica è sempre legata indissolubilmente con la logica
della sovranità, per teorizzare la politica radicale all'interno
del campo materiale della biopolitica si potrebbe limitarsi a
ciò che egli chiama 'nuda vita' e quindi lasciarsi ancora più
esposti al potere sovrano. E 'forse a causa della
consapevolezza che la moltitudine sarà sempre catturata
all'interno del campo del biopotere, che Hardt e Negri
insistono sulla necessità di una mutazione radicale del
soggetto umano -la formazione di un nuovo organismo
incapace di cedere ai modi dominanti della
normalizzazione,. quindi il loro interesse per le idee cyber


29 Alberto Toscano solleva una questione simile: "..., non è chiaro se la presunta

fusione di domini distinti in un continuum biopolitico possa davvero permettere

di isolare, nell'ambito delle operazioni di produzione e riproduzione della vita,

un soggetto collettivo comunista che non dovrebbe essere attraversata, incitato e

limitato dagli innumerevoli dispostivi di controllo biopolitico" vedi Always

Already Only Now: Negri and the Biopolitical’, The Philosophy of Antonio

Negri: Revolution in Theory, Vol. Two, ed., Timothy S. Murphy and Abdul-

Karim Mustapha, London: Pluto Press, 2007, 109-128, p. 113.

27


punk con le sue mutilazioni estetiche del corpo30 . E' forse
proprio per il timore che la moltitudine biopolitica possa
equivalere a non più di una nuda vita, che il corpo deve
essere ornato (con piercing, protesi tecnologiche, ecc),
mutando in qualcosa di completamente diverso. Quindi, vi è
una feticizzazione del cyborg, una celebrazione della strada
tecnologia che porta ad una mutazione del corpo e una
fusione creativa presumibilmente tra l'uomo e la
macchina. Mentre Hardt e Negri vedono un potenziale
radicale in tali trasformazioni, il cyber-umano
tecnologicamente manipolato non può esprimere tanto una
fuga o esodo dal capitalismo biopolitico, quanto la sua
fantasia finale31 .

Infine, si potrebbe anche chiedere quale sia il terreno sul
quale l'insurrezione della moltitudine emerge. Per Hardt e
Negri, quel terreno è l'impero del capitale globale, una
superficie liscia senza un fuori, un processo in divenire in cui
le divisioni nazionali e economiche sono in un processo di
erosione e di decomposizione. A parte la questione se
l'Impero possa essere il modo più preciso per descrivere la
situazione attuale -e qui credo che il concetto di capitalismo
globalizzato sarebbe sufficiente, senza dover andare
all'estremità della rivendicazione di Hardt e Negri di una
nuova sovranità globale giuridica emergente -il concetto di
Impero come uno spazio liscio definito sempre dal lavoro
immateriale e della produzione minimizza le divisioni
principali e gli antagonismi che continuano ad esistere nel
mondo e che, anzi, aggravano anziché diminuire sotto il
capitalismo. Tali divisioni sono spaziali e territoriali: ad
esempio, la riaffermazione della sovranità aggressiva dello
Stato nazionale nel quadro di misure di una polizia di
frontiera; si dovrebbe puntare qui, come Deleuze e Guattari

30 Hardt and Negri, Empire, p. 216.

31 Ci sono numerose critiche anarchiche sulla tecnologia e i suoi effetti distruttivi

sulle relazioni umane e l'ambiente naturale. Vedi, ad esmepio, il lavoro di John

Zerzan, Running on Emptiness: the Pathology of Civilisation (Feral House,

2008).

28


hanno fatto, per l'oscillazione tra la de-territorializzazione
(attraverso il capitalismo globale) e ri-territorializzazione (la
riaffermazione delle identità fisse, come lo Stato, la
famiglia, la nazione)32 . Queste divisioni sono anche
economiche, facendo riferimento non solo alle differenze tra
ricchi e poveri, ma all'esistenza di economie e modi di
produzione diversi, differenze che non esistono solo tra il
globale Nord e Sud, ma all'interno di molti settori.Non solo
ci sono mondi del lavoro e della produzione enormemente
diversi -i colletti bianchi e i programmatori di computer che
fanno 'lavoro immateriale', accanto a modi di lavoro fordisti
e anche pre-fordisti, compreso il lavoro degli schiavi33-Ma ci
sono anche milioni di persone che sono radicalmente
escluse dal lavoro e dai circuiti capitali di produzione e di
consumi: la gente usa e getta che popola i bassifondi, le
baraccopoli e i campi profughi del Sud del mondo.Alla luce
di queste divisioni, come è possibile parlare di un mondo
comune di vita e di lavoro, in particolare uno che è definito
dal 'lavoro immateriale'? Va notato che Hardt e Negri
vedono la 'spazio liscio' dell'Impero come processo
dell'essere, una realtà immanente che è in corso di
svolgimento, piuttosto che qualcosa che è già
effettivo. Tuttavia, non ci sono prove che suggeriscono che
questo sia anche una tendenza: i processi del capitalismo
globale sembrano essere la creazione di molte divisioni muri,
barriere, confini, antagonismi economici, esclusioni che
loro stanno rompendo. Tutti questo indica la difficoltà di

32 Gilles Deleuze and Felix Guattari, Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia,

trans., Robert Hurley, London: Continuum, 2004, p. 37
33 Vedi la critica di George Caffentzis sulla messa a fuoco di Negri sul "lavoro

tecnico-scientifico" e il "lavoro della conoscenza" che ignora l'esistenza del

modo in cui questi settori ad alta tecnologia dipendono dall'esistenza al loro

fianco di forme di lavoro a bassa tecnologia: "Di conseguenza, 'nuove recinzioni

in campagna' devono essere accompagnate dall'ascesa di un "processo

automatico" nel settore industriale, il computer richiede il negozio di sudore, e

l'esistenza del cyborg si fonda sullo schiavitù "Vedi '‘The End of Work or the

Renaissance of Slavery? A Critique of Rifkin and Negri’, (Spring 1998)



29


costituire una soggettività politica comune: non potrebbe
essere la moltitudine, al contrario, altamente fratturata,
soggetta a divisioni sulla base di una serie di esclusioni -per
esempio, quelli esclusi interamente dal mondo del lavoro, o
quelli che non sono stati impegnati nel 'lavoro
immateriale'? Infatti, come George Caffentzis suggerisce,
ciò che sta dietro al concetto di moltitudine è forse una
sorta di leninismo nascosto, dove i "lavoratori della
conoscenza", dove gli strati più avanzati all'interno della
moltitudine svolgono il ruolo di avanguardia rivoluzionaria34 .

Ciò che troviamo con Hardt e Negri, poi, è davvero una
feticizzazione dell'Impero. Così come per Marx, il
capitalismo era un progressiva forza modernizzante, della
quale preponderanza doveva essere ammirata, così per
Hardt e Negri, l'Impero è uno stadio attraverso il quale
dobbiamo attraversare sulla nostra strada all'emancipazione
e la cui espansione non deve quindi essere ostacolata, ma,
piuttosto, incoraggiata. Tuttavia, proprio come gli anarchici
classici erano critici dell'entusiasmo di Marx per il
capitalismo, l'industrializzazione e la tecnologia -mettendo
in evidenza gli effetti devastanti sulla vita delle persone cosi
noi dovremmo adottare una distanza critica rispetto
all'Impero. Questo non è esterna da ogni nostalgia per le
differenze culturali, o per lo stato-nazione, la cui morte non
può avvenire abbastanza in fretta. Piuttosto, si tratta di una
critica alla teoria marxista delle due fasi, che trova la sua
strada nella tesi Hardt e Negri, una teoria che suggerisce
che l'avvento delle moltitudini globali sarà un momento
inevitabile della storia, e quindi che la diffusione
dell'Impero, con le sue installazioni di tecnologia e nuove
forme di lavoro e di vita, dovrebbe essere promossa35. Ciò
che si trova in Hardt e Negri è una feticizzazione dell'Impero
come una struttura concettuale, una feticizzazione che li

34 Caffentzis, ‘The End of Work or the Renaissance of Slavery?’
35 Vedi la critica alla tesi dell'Impero ‘Barbarians: the Disordered Insurgence’, da


Crisso and Odoteo, http://www.geocities.com/kk_abacus/ioaa/barbarians.html

30


porta a trascurare l'intensificazione delle frontiere e delle
divisioni economiche, o almeno inserirli dialetticamente in
questa struttura concettuale.

Gli eventi e la temporalità politica della lotta

Se l'Impero è un sistema di controllo, sorveglianza e
manipolazione tecnologica che comprende la totalità della
vita, allora dovrebbe essere contrastato e opposto, piuttosto
che accolto. In effetti, se si rifiuta una visione marxista
determinista della storia -e credo che dovremmo -allora
non ha senso, dal punto di vista radicale, il sostegno a una
sempre maggiore integrazione delle strutture politiche,
sociali ed economiche e la crescente biopoliticizzazione della
vita. Piuttosto, dovremmo pensare in termini di momenti di
rottura e separazione dall'Impero, momenti di 'linee di fuga'
di resistenza, di evacuazione dal suo regime di
controllo. Invece di lavorare attraverso l'Impero,
sdovremmo inventare spazi politici al di fuori di esso. Come
ho già detto, questo non vuol dire che dobbiamo tornare alle
idee di sovranità nazionale e di cittadinanza come baluardi
contro l'Impero -uno dovrebbe resistere alla nostalgia, che
si trova ad esempio in Carl Schmitt, per il vecchio
'pluriverso' di Stati nazionali sovrani di fronte a un nuovo
impero universale36 . Un progetto più radicale sarebbe
mirato, invece, a favorire la nascita di nuovi spazi di
autonomia politica, in cui le relazioni comuni e gratuite
possono svilupparsi. Questo dovrebbe portare a una
sperimentazione con i nuovi modi di vita, con le diverse
strutture e pratiche politiche non-autoritarie, e anche con le
economie alternative.

36
The Nomos of the Earth in the International Law of the Jus Publicum
Europeaum, trans., G. L. Ulmen, New York: Telos Press, 2003.

31


Per Badiou, un momento di separazione è essenziale per la
politica radicale, e, inoltre, questo deve essere teorizzato in
un registro ontologico diverso, non quello della storia, ma
quello della manifestazione: "L'idea di un ribaltamento la cui
origine sarebbe uno stato di una totalità è qualcosa di
immaginario. Ogni azione di trasformazione radicale trae
origine in un punto, che, in una situazione, è evenemenziale
"37 . L'evento è un momento di imprevedibilità che, pur
condizionato dalla storia e dalla situazione in cui sorge, non
è determinata da loro e li supera, portando alla nascita di
qualcosa di completamente nuovo. Se prendiamo, per
esempio, la rivoluzione francese come un evento: è emerso
nel contesto di una determinata situazione storica, ma non
poteva essere interamente riportata o spiegata con le
coordinate di tale situazione; ha costituito un momento di
rottura con l'ordine esistente in senso ontologico, creando
un nuovo e irreversibile terreno e per la politica e il
pensiero. In particolare, l'evento -i cui siti privilegiato sono
per Badiou l'arte, la politica, la scienza e l'amore -produce
un nuovo soggetto: il soggetto che partecipa all'evento
diventa lacerato fino in fondo, come se toccato dalla grazia,
per usare un famoso esempio di Badiou di San Paolo , e
dichiara il suo impegno e la sua fedeltà alla manifestazione
come portatore di un processo di verità38 .

Che cosa dovremmo fare di questa ontologia quasi-religioso
della manifestazione, come messa in atto da Badiou? La
nozione di un evento è importante per la politica radicale,
proprio perché la politica radicale cerca una rottura con
l'ordine esistente e implica quindi un momento di
imprevedibilità e distruzione, e l'invenzione di qualcosa di
nuovo e senza precedenti. L'anarchismo, in questo senso, è
una politica che, più che il marxismo, incarna questo
elemento di imprevedibilità: l'enfasi dell'anarchismo è, dopo
tutto, sulla spontaneità rivoluzionaria. Tuttavia, ciò che è

37 Badiou, Being and Event, p. 176.
38 Badiou, Ethics, p. 43

32


discutibile e problematico nella nozione di Badiou della
manifestazione sono la sua grandezza e la sua rarità. Per
Badiou, l'evento politico è una cosa rara, così rara, infatti,
che non accade quasi mai. In effetti, solo pochi istanti storici
raggiungono lo status di Evento: la Rivoluzione francese,
che Badiou fa risalire al 1792 e che comprende come parte
della sua 'sequenza' la Comune di Parigi del 1871, la
rivoluzione bolscevica del 1917, la rivoluzione culturale
cinese del 1966-1976, e, come parte di quest'ultima
sequenza, la rivolta degli studenti e dei lavoratori del
maggio '68 in Francia. Come se tutta la politica radicale
fosse conclusa con la Rivoluzione Culturale. In effetti, gli
eventi più recenti -che a mio avviso sono altrettanto
importanti, come ad esempio la nascita del movimento
globale anticapitalista -sono trattati con uno strano ed
ingiustificato disprezzo da Badiou. La nozione di Badiou
dell'Evento è altamente idealizzata e astratta, portando una
sorta di disprezzo arrogante per il concreto, le forme più
quotidiane della politica.Si potrebbe dire che gli eventi
politici veri si svolgono su una base quotidiana: possiamo
trovare esperimenti originali in una politica radicale
autonom a in tutto il mondo, nei movimenti indigeni, nelle
ri-occupazioni della terra, nelle forme innovative di azione
diretta, nelle dimostrazioni di massa, e nei coraggiosi atti di
disobbedienza civile, tutte cose di cui Badiou sembra sia
ignaro o grandemente indifferente.

Così, mentre l'idea di un evento politico è importante, si
deve resistere alla tentazione di idealizzarla e santificarla
nel modo in cui fa Badiou. Si dovrebbe invece affermare la
'quotidianità' dello straordinaria -l'idea che gli eventi sono
numerosi e possono assumere molte forme. Sono d'accordo
che siano necessarie forme di politica che rompono con
l'ordine esistente e producono nuove pratiche di
emancipazione e identità -e qui credo che l'anarchismo sia
la figura più appropriata oggi per questa politica, proprio
perché cerca una separazione dallo Stato, in un modo che le

33



altre politiche non fanno.Il problema con Badiou è che si
mette ad uno standard incredibilmente alto e astratto per la
politica radicale che quasi nulla nei suoi occhi è all'altezza
della dignità della Manifestazione, che, per lui, è simile al
miracolo paolino39 .

La violenza rivoluzionaria e il Terrore

Infatti, tale è il desiderio da parte di Badiou per affermare
l'assoluta separatezza e la singolarità dell'evento politico che
sembrerebbe che non possa che essere espresso in forma di
violenza e di terrore rivoluzionario, come se il terrore
diventasse il segno ultimo della dell'autenticità
dell'evento. Si trova in Badiou una feticizzazione certamente
particolare del Terrore giacobino del 1793-4, insieme ad un
trattamento favorevole della rivoluzione culturale in Cina, un
evento caratterizzato non solo da una eccessiva violenza
irrazionale, ma anche da culti di leadership nocive. In
effetti, i nomi di personaggi autoritari come Robespierre,
Saint-Just, Lenin e Mao vengono richiamati più e più volte
da Badiou come simboli di una vera fedeltà e passione
rivoluzionaria. Il Terrore diventa, per Badiou, con Saint-Just
in mente, il significante della virtù rivoluzionaria, la sua
garanzia contro la debolezza e la corruzione: "cosa vogliono,
chi non vuole né virtù, né terrore?"40

Si trova una simile, anzi ancora più esplicita, ammirazionedella politica terroristica in Žižek. Per Žižek, l'unico modo
per istituzionalizzare una insurrezione democratica è con il

39 Alain Badiou, Saint Paul: the foundation of universalism, trans., Ray Brassier,

Stanford, C.A.: Stanford University Press, 2003.
40 Citazione di Saint-Just in Badiou, Metapolitics, p.28; vedi anche la discussione

di Bdiou sul terrore rivoluzionario come una massima egualitaria in Logics of

Worlds: Being and Event, 2, trans., Alberto Toscano, London: Continuum, 2009,

pp. 25-27

34


terrore rivoluzionario41. Ancora una volta, il terrore diventa
un segno di autenticità rivoluzionaria, la violenza è un
significante per un tipo di etica dell'atto rivoluzionario,
l'impegno di "andare fino in fondo", come Žižek dice, e per
consolidare la rivoluzione attraverso una brutale repressione
dei suoi avversari. Così, ancora una volta, Lenin, Mao e
Robespierre diventano nomi sacri per Žižek, invocati contro i
suoi obiettivi perenni, i "liberali", che vogliono una
"rivoluzione senza rivoluzione", in altre parole, una
rivoluzione senza le sue conseguenze violente42 .

La questione della violenza e del terrore rivoluzionario
solleva questioni importanti per l'anarchismo, che,
storicamente, è stato estraneo al terrorismo, anche se
questa associazione stereotipata è grossolanamente
esagerata. Cosa dev'essere una risposta anarchica alla
violenza oggi? Pur riconoscendo che certe forme di violenza
-in particolare sotto forma di una difesa contro-violenza
contro la violenza dello Stato -potrebbe essere parte di una
insurrezione anarchica, l'obiettivo di una politica anarchica
oggi dovrebbe essere la trascendenza della violenza. La
non-violenza, o una violenta non-violenta, simile forse alla
nozione di Walter Benjamin di 'violenza divina', dovrebbe
essere il suo orizzonte etico. La ragione di questo è che la
violenza è un autoritario, rapporto sovrano, che viola
l'autonomia dell'altro. Per questa ragione, la violenza non
dovrebbe essere considerata come necessariamente un
segno di autenticità politica43 . Il vero problema, tuttavia,
non è la violenza in sé, ma l'uso della violenza da parte
dello Stato, o meglio la statizzazione della violenza -questo
quando la violenza diventa Terrore nel vero senso della

41 Slavoj Žižek, In Defense of Lost Causes, London: Verso, 2008, pp. 418-419.

42 Slavoj Žižek, ‘Robespierre, or, the “Divine Violence” of Terror’, Introduction to

Virtue and Terror, by Maximilien Robespierre, trans., John Howe, London:

Verso, 2007.
43 Inoltre, molti attivisti considerano oggi la violenza controproducente, e hanno a

lungo sperimentato nuove forme di scontro-diretto non violento. Vedi David

Graeber, ‘The New Anarchists’, New Left Review, 13, Jan-Feb 2002: 62-73.

35


parola. La violenza che viene esercitata da una élite
rivoluzionaria per consolidare il potere -come è avvenuto intutte le forme di terrore venerate dal Žižek e Badiou, dai
giacobini a Lenin e Mao -non è una redenzione di essa; non
può servire come strumento di liberazione, e finisce solo per
consolidare l'elemento più contro-rivoluzionario di tutti, loStato stesso. Žižek è nel giusto quando suggerisce che le
insurrezioni democratiche sono più di una semplice
trasgressione momentanea -che ad un certo punto deve
costruire una identità positiva per se stessa. Tuttavia, egli
sbaglia affermando che questa istituzionalizzazione può
avvenire solo a livello dello Stato e solo attraverso il terrore,
a scapito della libertà individuale e
dell'autonomia. Dobbiamo respingere, in quanto superato il
il paradigma giabonino di una politica radicale proposta daŽižek e Badiou.Invece, dovremmo affermare una politica ed
etica anarchica contro ogni forma di violenza di Stato; anzi,
l'anarchismo è, a mio parere, l'unica forma di politica
radicale in grado di evitare il Terrore.

Inoltre, Žižek è ancora nell'errore nel concludere che il
Terrore giacobino è un esempio di ciò che Benjamin
definisce violenza divina44 . Il Terrore giacobino era
precisamente, nei termini di Benjamin, una forma di legge-
fondatrice di violenza, una violenza che ha stabilito il potere
dello Stato borghese.Al contrario, la violenza divina è una
forma di violenza che rompe questa dialettica di legge e di
violenza del tutto; non è né il processo legislativo, né la
conservazione del diritto, ma il superamento radicale di
questa oscillazione attraverso il quale si riafferma il potere
dello Stato:

Sulla rottura di questo ciclo mantenuto da forme mitiche di
legge, la sospensione del diritto con tutte le forze da cui dipende
in quanto dipendono da essa, infine sull'abolizione del potere
dello Stato, si fonda una nuova epoca storica.45

44 Žižek, ‘Robespierre, or, the “Divine Violence” of Terror’, p. x.
45 Walter Benjamin, ‘Critique of Violence’, Selected Writings, Vol. 1, ed., Marcus


36



La violenza divina invoca quindi un anarchismo: la sua
violenza non consiste nella fuoriuscita di sangue e nel
terrorismo di élite rivoluzionarie, ma nella soppressione
radicale e nella trascendenza del potere statale. In
opposizione al Terrore giacobino, dobbiamo anche ricordare
le parole di Georges Sorel, per i quali la violenza dello
sciopero generale proletario non stava nella sanzione
dell'uccisione e l'imposizione forzata di un nuovo ordine, ma
in una trasformazione dei rapporti tra i lavoratori, alla
ricerca di autonomia da parte dello Stato. Sorel fa una
distinzione fondamentale tra la forza, che è una forma di
violenza borghese -e qui egli ha in mente proprio la
violenza giacobina dei primi anni 90 del settecento -e la
violenza che è non-violenta, la rottura trasformativa dei
proletari:

...Il concetto di violenza deve essere eseguito solo per gli atti di
rivolta, si dovrebbe dire, pertanto, che l'oggetto della forza è
quello di imporre un certo ordine sociale in cui la minoranza
governa, mentre la violenza tende alla distruzione di tale
ordine.La classe media ha usato la forza fin dall'inizio dei tempi
moderni, mentre il proletariato reagisce ora contro la borghesia
e contro lo Stato con la violenza.46[46]

Conclusioni

Ho cercato di tracciare un posto per l'anarchismo all'interno
del dibattito contemporaneo nella teoria politica
radicale. Come ho mostrato, l'anarchismo parla di tentativi
attuali di formulare una politica radicale sulla scia del
marxismo, una politica che non si limita più ai parametri del
partito dello Stato, e della classe. Eppure, a contrastare, da

Bullock and Michael W. Jennings, Cambridge, Ma.: The Belknap Press of

Harvard University Press, 236-252, pp. 251-2.
46 Georges Sorel, Reflections on Violence, trans., T.E. Hulme and J. Roth. New

York: Collier Books, pp. 171-172.

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un lato, l'idea che l'emancipazione è immanente nella
dinamica del capitalismo, e, dall'altra, che l'emancipazione
debba essere ontologicamente fondata sull'eroismo della
Manifestazione e sullo spargimento di sangue del Terrore,
l'anarchismo stabilisce la propria politica ed etica nel terreno
di un progetto di autonomia.

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