LE RAGIONI DEL NICHILISMO
"Tutto quel che sorge è giusto che
rovini" (J.W.Goethe, Faust)
LE RAGIONI DEL NICHILISMO
Il segno più tangibile della nostra epoca è
dato dall’emergere nel sociale di forme della violenza nichilista come fatto
interno alla logica di sviluppo delle società post-industriali dominate dagli
apparati tecnologici del controllo informatico. Ai profondi mutamenti
economici, politici e socio-culturali, apportati alla struttura societaria
dalla rivoluzione tecnologica in atto, ha fatto riscontro una radicale messa in
discussione dei "grandi racconti moderni" e, con essi, di tutte le
ideologie.
L’idealismo, l’illuminismo e il marxismo -che
dei primi due è una mirabile sintesi - si sono rivelati, nel loro realizzarsi
storico, come "grandi falsi", non solo perché si sono contraddetti
rispetto agli originari fini emancipativi, ma perché sono risultati strumenti adeguati
delle classi privilegiate raccolte attorno agli apparati di dominio. Questo, da
un punto di vista rivoluzionario anarchico, è un fatto positivo, mentre non è
positivo il concetto determinista di crisi-dissoluzione irreversibile,
puntualmente rispolverato e immesso nel mercato delle idee da coloro che
passano per i filosofi più critici e meno fossilizzati, in quanto si presentano
sotto le attraenti e creative vesti di filosofi antisistematici. Costoro hanno
applicato quest’ultimo concetto ai "grandi racconti moderni"
concludendo con l’affermazione che nella società dell’informazione non sarà più
possibile alcun loro ricostituirsi sia pure sotto forma di "racconti
post-moderni", come pure non sarà possibile alcuna nuova grande ideologia
chiamata a trasformare deterministicamente il mondo. Come ha scritto M.
Ferraris, "le legittimazioni non saranno più globali, ma locali: si
esamineranno i criteri di cogenza e di opportunità di un determinato sapere in un
campo determinato, senza speranze di fondatezza certa o di totalità
assoluta". Questo fatto segna l’avvenuto passaggio dalla vecchia epoca
modernoindustriale a quella post-moderna tecnologica che, nel dissolvere tutti
i vecchi racconti,frantuma anche la vecchia ragione classica e metafisica la
quale conferiva al pensiero una sua organica totalità di senso. Sulla crisi
della ragione e, con essa, di ogni razionalità istituita, si vanno destituendo
così tutti i valori e i fondamenti stessi su cui si costituiva l’intera
impalcatura teorica della filosofia occidentale, considerati fino ad ieri sacri
ed inviolabili. Dalle loro ceneri emerge una radicale filosofia delle rovine:
il nichilismo. Così si rivalutano Nietzsche e la sua teoria nichilista di
trasvalutazione di tutti i valori, come anche Heidegger e la sua teoria
nichilista della fine dell’essere.
La teoria nichilista è il prodotto, a livello
teorico-filosofico, di una folta schiera di filosofi (Deleuze, Lyotard,
Derrida, Cacciari, Vattimo, ecc.), che nella società contemporanea
postindustrale si sono assunti il compito istituzionale, per conto degli
apparati di dominio, di costruire una nuova teoria del recupero e l’esposizione di una più adeguata
ideologia dominante, e ciò in modo perfettamente funzionale ai loro interessi.
La loro operazione teorico-filosofica parte dal disvelamento della ormai innocua
verità che tutte le ideologie sono false e quindi sono superate dagli attuali
scenari sociali postindustriali, e questo per celare dietro una accattivante
maschera teorica non sistematica le nuove e più profonde falsità e menzogne su
cui si basano le ragioni dell’attuale dominazione.
Se l’idealismo, l’illuminismo e il marxismo
hanno prodotto ideologie di dominio, non c’è dubbio che sul nuovo "grande
racconto" nichilista si impianterà l’ideologia dominante chiamata a
rilevare il posto delle precedenti ideologie adatte al mondo industriale
precedente. Tutto ciò ci spinge a considerare che nei laboratori del capitale e
dello Stato è in atto una ricerca per collocare le ragioni del dominio ad un
livello qualitativo superiore a quello del passato, con contraddizioni meno
evidenti e meno grossolane, il tutto mascherato dietro apparenze che non
richiamino aspetti totalitari. Chiarito il modo in cui si articola la teoria
nichilista che va prendendo il posto delle vecchie teorie dominanti, vediamo
quello che, sul terreno pratico, intende spiegare e recuperare per conto del
potere, partendo proprio dall’avvenuta frammentazione dei significati che
informano le azioni e i legami sociali degli individui in una società post-industriale.
La violenza nella società
informatizzata
Mentre gli scenari politici e socio culturali
nei paesi economicamente più avanzati si fanno sempre più inquietanti, di
fronte all’apparire di un nuovo totalitarismo si verifica l’emergere di forme di
violenza anonima, cioè priva di segno politico, forme che vengono a
caratterizzare l’evolversi delle società tecnologicamente più avanzate. Si
tratta di una violenza che si manifesta tanto a livello di massa che singolarmente,
sotto forma di atti che mancano di senso immediatamente logico, oppure appaiono
del tutto gratuiti o privi di scopo. Questi atti vanno dal ludico saccheggio di
massa realizzato da chi spontaneamente si appropria della merce dei grandi
magazzini in occasione di un improvviso blackout (vedi New York); alle
improvvise rivolte che scoppiano nei ghetti in modo puramente accidentale (vedi
Londra, Liverpool, ecc.), fino all’esplosione di improvvisi raptus di individui
isolati che si divertono senza motivo apparente nell’uccidere persone che
nemmeno conoscono. Simili forme di violenza nichilista sono il prodotto della
modificazione dei rapporti sociali da cui deriva un profondo snaturamento dei
valori costituiti. Ciò libera negli individui i freni inibitori-moralistici e
attutisce in loro la razionalità umanistica, spingendoli a compiere atti che
nessuna persona ritenuta "civile" si sognerebbe di fare. I
gestori-amministratori degli apparati di dominio, superato lo sconcerto iniziale,mostrano
ora di avere ben compreso la pericolosità di tali fenomeni sociali, i quali non
si reggono su alcuna logica catalogabile a priori in quanto si fondano su
incontrollabili reazioni emotive della massa o del singolo. Per cui, al puro e
semplice controllo poliziesco,adesso si accompagnano studi e ricerche e azioni
politiche preventive, il tutto per frenare la situazione, specie nei
quartieri-ghetto delle metropoli. Vi è in tutta questa violenza priva di senso
e gratuita un profondo desiderio-bisogno di autovalorizzazione e di
affermazione di sé da parte di coloro che cercano, sia pure per pochi istanti,
di rompere con la propria monotona vita quotidiana. Ciò denuncia la
sopravvivenza come sistema di morte sociale, sistema che ha ridotto tutto il
vivere e il viversi fra gli individui ad un puro consumo di merci, impoverendoli
e disumanizzandoli in tutti i sensi. Nel vissuto di privazioni e costruzioni,
la vita appare quindi come una continua negazione di se stessa. Gli
intellettuali che sostengono la validità della teoria nichilista contribuiscono
a fornire agli apparati di controllo del capitale e dello Stato gli strumenti
più idonei di comprensione e controllo proprio del fenomeno nichilista. In
questo senso essi sono permanentemente mobilitati nel compito di dare
spiegazioni plausibili ai diversi comportamenti che si concretizzano in forme
di violenza gratuita (o ritenuta tale). Sono sempre loro che indicano le
possibili soluzioni, compatibili con gli interessi degli apparati di dominio,
di controllo e di reperimento del consenso.
Dalla linea politico sociale adottata, i
rackets del riformismo mostrano di riconoscere bene l’endemicità del fenomeno,
che non si può reprimere ma che al massimo può essere controllato nel corso del
suo svolgimento. In questo senso si spiegano le diverse campagne di opinione
promosse dallo Stato contro la violenza di matrice nichilista, specie quella
che si verifica puntualmente negli stadi di calcio.
I filosofi come elementi del
controllo sociale
Ai vecchi specialisti del controllo sociale,
psicologi, sociologi, giornalisti, economisti,politici, intellettuali organici
di partito, managers aziendali, ecc., si è ora aggiunta anche la figura del
filosofo, chiamato dal potere a fornire più profonde spiegazioni sulle cause del
nichilismo contemporaneo. La trasformazione dell’umanista per eccellenza nel
ruolo poliziesco del controllo dei moventi che guidano i comportamenti umani,
indica che anche il filosofo si trova coinvolto e mobilitato nei progetti di
conservazione del dominio del capitale e dello Stato. L’indubbia pericolosità del
filosofo è racchiusa nel ruolo che svolge, essendo il suo campo di lavoro
specifico la decodificazione del comportamento umano e la relativa omologazione
dentro una teoria capace di contenere e sistemare tutti i significati.
Interpretare l’attuale fenomeno nichilista, significa soprattutto dotare di
armi teoriche il dominio, dando a quest’ultimo non la sola possibilità di
possedere e disporre delle semplici braccia di coloro che domina, ma
soprattutto del loro cervello. Si può dunque affermare, rovesciando l’aforisma
di Marx sui compiti della filosofia, che questa non essendo riuscita ieri a
trasformare il mondo, oggi, conscia del suo fallimento, si adopera per la
conservazione. Il recupero dell’opera filosofica di Nietzsche e di Heidegger da
parte dell’apparato culturale dominante è da collocarsi in questa prospettiva: possedere
l’esatta comprensione del fenomeno nichilista, partendo proprio dalle basi
teoriche sviluppate da pensatori che,seppure su prospettive differenti,
seppero, a dispetto dei razionalisti e positivisti loro contemporanei,
prevederlo, anticipandolo come sbocco naturale a cui avrebbe condotto il
moderno progetto umanista.
Nichilismo e religione
Sulle ceneri dei "grandi racconti"
moderni e delle ideologie avanza il nichilismo nel sociale, turbando l’andamento
dell’asettica ed ordinata società informatica, che non possiede più nulla di
umano e di organicamente vivo, dato che in essa domina la vita inorganica del
mezzo elettronico. Basato sulla fredda ed impersonale logica matematica, questo
riduce uomini e cose a pure e semplici unità numeriche da catalogare
all’interno dei suoi milioni di circuiti stampati. E’ il dominio degli apparati
tecnologici ad elevare la vita inorganica del mezzo elettronico a sistema di
vita. La morte è così stata interiorizzata dagli individui che "vivono nel
terrore, sapientemente intrattenuti dal potere, di risvegliarsi a se
stessi" (Vaneigem). Nell’ininterrotto condizionamento, tutto il vissuto di
milioni di individui si riduce alla sopravvivenza eternizzata, ad un vivere di
vuote apparenze, dove la follia ed il suicidio sono le uniche prospettive di
fuga da una realtà divenuta luogo di tutte le disumanizzazioni possibili. Gli
individui, all’interno della società informatica si ritrovano di fronte al
pericolo sempre imminente di una catastrofe che annuncia la loro scomparsa
(pericolo atomico o qualche altro frutto della perversa manipolazione
bio-tecnologica in corso). Le loro reazioni sono diversificate. C’è chi dà corso
ai propri istinti più gelosamente nascosti, attraverso violenze inaudite, che
denunciano nel rancore il loro tragico desiderio-bisogno di vita bruciato in
prossimità del terrore generalizzato della morte. Altri, specie gli individui
più deboli e psicolabili, in preda ai propri fantasmi, colgono il senso di tutto
quello che sta accadendo come il frutto di una maledizione dovuta a qualche
loro mancanza commessa. Da qui nasce il profondo senso di colpa che li sospinge
verso il desiderio di una espiazione purificatrice, verso una redenzione dai
peccati di questo mondo, divenuto infetto nelle loro distorte fantasie. Questo
li porta a concepirsi come malati. La cura più antica e nello stesso tempo
moderna è abbracciare una qualsiasi religione per salvare non il loro corpo
martoriato, ma l’anima. I teologi conoscono bene il nichilismo, dato che la
loro arte, da secoli, consiste nel terrificare l’immaginario delle loro vittime
con l’annuncio dell’imminente apocalisse. Così recuperano le pecore smarrite sottomettendole
all’idea che tutto è stato precostituito nel pensiero divino, Sodoma e Gomorra periranno,
invece si salveranno coloro che sapranno,con fatalistica rassegnazione,
accettare un infame e angusto destino. Il sacrificio della vita garantisce la
salvezza nell’ aldilà. La rinascita e il costituirsi di nuove sette religiose
mistiche o di comunità religiose classiche nella società contemporanea,
conferma questo fatto. La chiesa cattolica, cosciente del fenomeno nichilista,
aspetta come un avvoltoio di mangiare il corpo delle sue vittime e recuperare
l’anima. In questo senso si adopera per gestire per suo conto, senza apparenti
compromissioni, la vita economica, politica e socio-culturale della società
laica.
Bisogna quindi avere chiaro che la teoria
nichilista del recupero viene sfruttata anche dai teologi per tornare ad
insinuare nelle vecchie paure dell’uomo la presenza di forti valori fondati
sulla mistica religiosa. Ogni religione, per quanto ingenua e grossolana possa
sembrare, affonda le sue radici nel più profondo inconscio degli individui
impauriti, i quali vivono la propria esistenza uniformandosi a precisi precetti
che hanno la virtù di liberarli dal pericolo-terrore di non potersi salvare. In
questo modo il non credente, il senza Dio è guardato come il diavolo che cerca
di trascinare gli altri sul ciglio di un baratro senza fondo, verso la
perdizione, ovvero verso l’abbandono di tutti i valori ritenuti superiori. Da
un lato i teorici attuali del nichilismo cercano, per conto del potere, di
controllare e recuperare le forme emergenti di violenza sociale nichilista;
dall’altro lato, le religioni cercano di strumentalizzare il nichilismo per
fare crescere la loro presenza nella società. La religione può essere distrutta
solo se si è capaci di fondare nuovi e più attraenti valori esistenziali, i
quali portino ad una più ampia ricezione della vita rimuovendo tutto quello che
oggi è interiorizzato nella paura degli uomini. L’agnosticismo è una corrente
debole di opposizione alla penetrazione religiosa, corrente che la chiesa
stessa sostiene in momenti di crisi per non sparire del tutto. Serve quindi un
ateismo esistenziale che affondi le sue radici nelle più profonde ragioni che
sostengono la vita.
Religione, ideologia e scienza
La religione si fonda sul riconoscimento che il corpo è infetto,
malato, per cui necessita una cura-soluzione, cioè il sacrificio di ciò che è
ritenuto causa della malattia, cioè la vita. Da qui la grande soluzione-rivelazione:
vivere nella soppressione-espiazione continua rivolti contro la vita ed avere
in cambio la salvezza. L’ideologia, la quale si fonda su ragioni superficiali
ed esterne all’uomo, si presenta anch’essa come una soluzione-cura alla
malattia di cui soffrono gli uomini (i famosi mali sociali). Essa riconosce che
il corpo e la vita degli uomini sono malati, che c’è bisogno di cure, ed in
questa prospettiva emerge la funzione del sacrificio. La scienza, venuta
anch’essa a salvare l’uomo e il mondo dalle loro malattie, concepisce la vita e
il vivere come un male da cui curarsi. Ne derivano altri mali, che nascono
attraverso la cura, il progresso, la cura della natura.
L’uomo e tutto il suo sviluppo non sono stati altro che decorsi di
una più grande malattia: la soppressione della vita. La volontà di potenza è
quindi intesa come rivolta degli uomini che, immaginandosi sani, vogliono
vivere, liberati dalla grande ossessione di immaginarsi malati. La malattia è
il non vivere, la cura è la soppressione della vita. La libertà parte dal
riconoscersi sani, vivi, carichi di desideri da realizzare come godimento. L
’idea della morte, come idea fissa è un’idea da viversi in prossimità di una
malattia. Invece di vivere ci si ossessiona a volere curare la malattia. Le
menti e i corpi malaticci per Nietzsche indicano gli uomini che vivono
nell’idea di essere malati. Anche la democrazia presenta un aspetto molto
comune: la malattia generalizzata fra gli uomini i quali si sentono rassicurati
dal fatto che il vivere malati è di tutti. Nessuno gode, tutti si curano come
meglio credono contro la vita. Tale è l’idea della democrazia: illudere gli
uomini sulla impossibilità di godere, come condizione comune a tutti. Siamo
circondati da un mondo di "igienisti" del corpo e della mente. Sulle
loro ragioni si sono costruite tutte le allucinanti prospettive degli uomini,
volti permanentemente verso un compito di controllo e repressione della vita.
La paura di avere visto la vita senza alcun ordine preciso, ha portato gli
uomini, nel tentativo di dargliene uno, a costruire i propri lager, senza
percepire che la vera destinazione della vita consisteva proprio
nell’estensione di quel suo essere movimento senza alcun fine definitivo, che
non fosse quello stesso che gli uomini si proponevano di realizzare. E questo
fine è la vita così com’è, quando con essa siamo in pieno accordo. La nostra
irresponsabile "follia" consiste nell’attaccare il concetto di
"malattia" e, con questo, il concetto conseguente di
"cura". E’ facendo perno su questa follia che possiamo veramente
attaccare alla. radice tutte le ragioni che sostengono il vecchio mondo, in
quanto si rovesciano così tutte le prospettive dell’epoca attuale, basate
sull’intenzione di mobilitare gli uomini contro se stessi, quindi di mantenere
la dominazione come servità volontaria. Bruciare tutte le prospettive di un
mondo forgiato sulle catene del sapere come potere sugli altri, significa avere
messo a nudo le ragioni del dominio fra gli uomini, le quali si presentano
sempre come ricerca di una soluzione per curare il mondo dei suoi mali. Bisogna
radicalmente rovesciare ogni prospettiva "igienista", dato che fin
quando gli uomini, oggi in catene, non si sentiranno e si percepiranno sani e
forti, di nulla essi potranno mai godere. L’autoliberazione gioiosa di ciascuno
e di tutti non può che forgiarsi sulla liberazione-realizzazione dei desideri
individuali. La malattia è essenzialmente "non vita", sacrificio
operato su noi stessi. Un corpo malato non vive che per curarsi. Non c’è malato
che non sia disposto a sacrificare tutto di se, dietro il pagamento di una
ricompensa che definiamo guarigione o salvezza.
Il volere curare la vita è stato finora il più grande crimine che
abbiamo perpetrato contro noi stessi, poveri malaticci, che continuamente ci
apprestiamo nel sacrificio "a non viverla", prestando soccorso agli
altri nei lazzaretti del sociale, contaminati di appestati di ogni genere.
Ciascuno di noi senza capirlo si porta dietro la sua malattia
interiorizzata,parlandone cerca di diffonderla, dato che è triste sentirsi soli.
E’ tempo di rimuovere le cause, non solo gli effetti. Troppi dottori si sono
alternati al capezzale della vita e i malati cronici, vale a dire gli
sfruttati, sono sempre stati le cavie dei loro allucinanti progetti utopici.
Gli esperimenti di ortopedia sociale non si contano più. E’ venuto il momento
che gli ammalati si alzino dal letto, dato che il mondo non è un ospedale, né
un campo di concentramento, né un luogo di espiazione di colpe, anche se finora
diversi sono stati coloro che hanno lasciato credere tutto ciò, compresi i
rivoluzionari, che si sono presentati come i curatori del male sociale. L
’argomento più profondo, e nello stesso tempo trascurato, è quello del senso
della "malattia", il quale crea la necessità della cura. Su di questa
necessità si sono abbarbicate tutte le ragioni del dominio, come quelle di liberazione
degli uomini, i quali essendosi riconosciuti non ancora abilitati al godere, in
quanto malati (leggi, alienati), avevano bisogno di un grande
medico-pedagogista (il partito) che curasse gli interessi di classe del grande
paziente. Bisogna sopprimere tutto il personale ospedaliero, la dialettica fra
dottore e paziente va vanificata attraverso la distruzione reale dei luoghi
dove si produce e riproduce, in quanto porta a riconoscere implicitamente la
malattia e la necessità di curarla. La vita in realtà non ha bisogno di
stampelle ideologiche, né di scientifici antibiotici, o di altre droghe
mistico-religiose, essa si sostiene bene da sola. Alla vita è estraneo il
concetto di "malattia", quindi non ha necessità di cure, il solo antidoto
contro la "peste" della sopravvivenza è quello di vivere
compiutamente la vita. II dolore, come la gioia, ci restituiscono il vero senso
della vita, che è quello di non averne alcuno, se non quello che ognuno di noi
le attribuisce realizzando quello che vuole. Essere signori della vita, senza
più schiavi, significa essere individui che avendo preso possesso della propria
totalità e di quella del mondo che li circonda, si possono permettere tutto,
anche godendola o dissipandola scioccamente senza freno, dato che non sono più
straccioni, quindi non sono più limitati nel movimento della piena presa di
possesso. Così, non ci sono più schiavi, ma uomini liberi, che si ritrovano di
fatto tutti sullo stesso piano, forti e sani, quindi pienamente rivolti
ciascuno verso il proprio godimento reciproco. Il possessore di schiavi non è
un uomo libero, non è padrone realmente del proprio godimento, ma è un
miserabile accattone il quale si è accontentato delle briciole che ogni tanto
gusta, nei momenti di pausa, cioè quando gli schiavi glielo permettono, e ciò
perché la sua maggiore occupazione non è il piacere ma lo spreco del tempo della
propria vita nell’escogitare sistemi per sottrarsi a coloro che tiene in
catene. Costui non gode mai pienamente di nulla, in quanto non ha che motivi di
sofferenza verso gli altri. Non è un "egoista" materialista. Il
piacere totale si ha in assenza di gerarchie e di autorità, in quanto il
sussistere di queste categorie è una limitazione. Le gerarchie, l’autorità non
presuppongono mai l’ estensione di qualcosa ma la loro reale circoscrizione.
Pochi hanno compreso il discorso di Nietzsche che vede nella piena realizzazione
del grande "progetto umanista" moderno la realizzazione della
"malattia" interiorizzata, da cui deriva il senso del non vivere per
se stessi, del non godere, ma del curarsi della malattia del vivere. Tutti
deboli, storpi, malaticci, con il gusto della sofferenza, tesi a realizzare
l’utopia-cura di mali immaginari, naturalmente in modo democratico, trattandosi
di un male comune a tutti. Le utopie apparvero così come i grandi
laboratori-lazzaretti del sociale, dove si cercava con mezzi radicali di curare
gli appestati. Il malato non può immaginarsi di vivere nel pieno godimento di
se stesso e del mondo che lo circonda, data la sua disgraziata condizione, così
si idealizza un futuro vivere mentre passa il tempo a curare il proprio male.
Ci si aliena volontariamente in questo modo, si vive nel sacrificio che avrà
come ricompensa la tanto agognata promessa del godimento il quale, in questo modo,
si trova sempre al di là della vita degli uomini. Tutte le canzoni
rivoluzionarie cantano il sacrificio nell’attesa di realizzare la "grande
promessa", sempre venuta meno. La religione in quanto rimedio è risultata
il più sottile espediente tra tutti quelli più esterni (ideologia, scienza,
ecc.) escogitati dall’uomo per nascondere la più profonda delle malattie che
esso si porta dentro fin dalla notte dei tempi, quella di cercarsi altrove
rispetto a se stesso. Conoscersi gli fa paura. Ogni religione non è, per lui,
che la proiezione delle sue angosce esistenziali, un modo per sfuggire alle
proprie responsabilità. Una reale affermazione della vita è legata all’azione
rivoluzionaria anarchica, la quale comprendendone il senso si libera dal
concetto di cura, finora sostenuto propagandisticamente.
L ’anarchia quindi non come ideale ma come campo di desiderabilità
in cui diventa di già adesso possibile realizzare i propri desideri.
Movimento rivoluzionario e
nichilismo reattivo
Dopo i due brevi periodi che hanno interrotto
il continuo storico della controrivoluzione permanente, cioè il movimento del
’68 e quello, più ridotto, del ’77, si è avuta la continuazione del corso
tranquillo delle cose, venendosi a smarrire in quasi dieci anni tutto quello
che si era conquistato al prezzo di dure lotte sostenute contro gli apparati di
dominio. II movimento rivoluzionario attuale, o quel che rimane di sopravvissuto
alla tempesta repressiva di questi ultimi anni, vive un lungo sonno in preda ai
fantasmi politicoideologici del passato. Convivono al suo interno diverse
tendenze che si presentano, al di là degli slogans gridati in piazza, in veste
conservativa più che sotto quella di una voglia effettiva di cambiamento. Il
nichilismo politico, espresso in forme reattive da coloro che si muovono nostalgicamente
abbarbicati sulla linea di difesa delle ideologie rivoluzionarie del passato,
non solo è stato omologato nei suoi prevedibili comportamenti sovversivi, ma si
trova demotivato esso stesso (vedere la brutta fine del fenomeno
lottarmatista), per non parlare del fatto che si trova in una situazione clandestina
totalmente gestita negli aspetti informativi dallo spettacolo massificato dei
mass-media. A questa logica di autocontrollo dei propri pensieri e dei propri
moventi, logica operata preventivamente, non sfuggono nemmeno coloro che, più
radicalmente dei primi,mostrano di rifiutare l’ottica rackettistica degli
apparati contrapposti, mentre, nei fatti, si trovano ad accettare i modi di
intervento espressi dai progetti rivoluzionari elaborati in passato. Anche
questi si trovano su di una linea divenuta prevedibile e scontata nei suoi
esiti. Il movimento rivoluzionario nel suo complesso, al contrario degli apparati
di dominio che afferma di combattere, mostra di non avere ancora preso
consapevolezza del fenomeno sociale della violenza nichilista. Gran parte delle
sue attuali debolezze discendono da questo fatto. Come giustificare quei
militanti rivoluzionari che di fronte ad una realtà sociale completamente mutata
rispetto ad ieri, continuano imperterriti ad adottare metodi e logiche legati
ad un mondo che il capitale ha provveduto da per se stesso a sopprimere (come
il mondo operaio) creando condizioni materiali di non ritorno? Questi compagni
vivono ancorati ad una fede, ripiegati conservativamente sulla pura
sopravvivenza di strutture formali che nulla hanno di sovversivo. Adoratori del
sacro, vivono prigionieri dell’ideologia cristallizzatasi, al pari di qualsiasi
altro credente. E’ nella realtà sociale, all’interno dei conflitti, che i
valori che possediamo come verità si approfondiscono, oltre ad arricchirsi di
nuove conoscenze. Man mano che da tale realtà ci allontaniamo, ci accorgiamo di
"non possedere la verità" (Nietzsche) ma una sua rappresentazione cristallizzata.
Le nostre più profonde ragioni vivono e divengono reali solo se si trovano
inserite nel movimento delle relazioni su cui si costituisce la realtà sociale,
in quanto la stessa modificazione di quest’ultima è dovuta a questo fatto.
Verso una più feconda riflessione
sul movimento e i suoi metodi
Non vi può essere riflessione valida e
profonda all’interno del movimento rivoluzionario, se questa non porta a far sì
che questo sia in grado di recidere i sottili fili che lo tengono prigioniero
del passato. Ogni riflessione deve quindi essere diretta a saldare
propositivamente il conto con le molte verità acriticamente accettate da chi ci
ha preceduto, dato che oggi si possiedono molte ragioni di dubbio. L’essere
disposti a rimettere in discussione continuamente l’intero bagaglio di
conoscenze ed esperienze rivoluzionarie, rivela la voglia che si ha di
ricercare più profonde motivazioni su cui situare le proprie ragioni volte a
sostenere il progetto di trasformazione radicale del vecchio mondo.
La nostra ricerca rivela quali siano i
compiti più attuali dell’anarchismo rivoluzionario contemporaneo, che si
riassumono nella costruzione di un "nuovo sapere", capace di farci
diventare più coerenti e più aderenti a quelli che sono i nostri presupposti di
fondo. In questo senso pensiamo sia indispensabile rifiutare tutte le forme di
pensiero che sono state tracciate in forma deterministica, quasi mistica, in epoche
passate, comprese quelle che si basavano su matrici idealiste. In questo modo
si dovrebbe rifiutare ogni posizione che pretenda di dare deterministicamente
gli esiti del movimento della realtà, come ad esempio quelle basate sul metodo
dialettico-scientifico o quelle basate sul più rozzo meccanicismo naturalista,
dato che nella realtà nulla si svolge e si realizza secondo un preciso e
rigoroso ordine prestabilito. Dietro ogni accadimento si cela sempre una buona
dose di imprevisto. Siamo per un metodo materialista, basato sul sapere
criticamente cogliere la relazione che nel movimento irreversibile della realtà
intercorre tra le forze sociali che si contrappongono conflittualmente e il
grado di prevedibile determinismo che coabita con un non indifferente grado di
indeterminazione che la realtà nel suo insieme contiene. E’ la realtà stessa,
nel suo irreversibile movimento, a denunciare che il cambiamento, come pure la
conservazione di un dato ordine costituito, sono essenzialmente opera dell’azione concreta e concertata che gli
uomini svolgono consapevolmente dentro il corso vivo degli avvenimenti, per
mutare indirizzo o per fare in modo che esso continui in una data direzione.
Quindi non si tratta di pensare al conflitto sociale in termini di forze
economiche, sociali, politiche e culturali che si fronteggiano ciecamente in
balia di un perverso meccanismo deterministico. La comprensione di questo fatto
ci restituisce intatte le possibilità che ci legano al cambiamento, senza
aspettare fatalisticamente la venuta di una crisi per agire. La volontà
rivoluzionaria degli uomini gioca sempre, in qualsiasi situazione, un ruolo non
trascurabile nell’affermazione di un reale movimento di liberazione. L’analisi
condotta sulla realtà e sui conflitti sociali deve dare una visione complessiva
del senso unitario del movimento reale, in modo da fornire una conoscenza senza
cadere vittima delle separazioni dovute alle contingenze del momento.
Verso una più reale comprensione
di noi stessi e del mondo che ci circonda
Coloro che si sono divertiti a prevedere come
le cose andavano a finire, all’interno dello scontro di classe, se giudicavano
negativa la situazione si sono limitati a non fare nulla, se la giudicavano
positiva si sono invece gettati verso il sacrificio-martirio, in coerenza con
la propria fede. Questa seconda soluzione è certamente più dignitosa della prima,
anche se non ci sentiamo di sostenerla ne di esaltarla acriticamente. In questo
modo ci si muove sempre all’interno di una logica ideologica che genera allucinanti
prospettive dirette a catturare l’attenzione degli uomini più predisposti a
nutrirsi di facili certezze. Quando consideriamo il divenire della realtà come
un qualcosa di necessitante, che si deve per forza muovere in un unico senso di
marcia diretto verso una precisa direzione tracciata anticipatamente da noi
stessi, ci sentiamo rassicurati circa gli esiti di quello che stiamo
realizzando. In sostanza, però, ci stiamo precludendo le altre possibilità,
siamo vittime della riduzione applicata dalla logica del potere, che consiste
nel sottrarre all’uomo ogni altra eventuale possibilità assoggettandolo a
seguire democraticamente un ’unica direzione. Ragionando in questo modo
poliziesco si è stabilito che l’intelletto deve avere la supremazia sugli altri
sensi e, a questo ordine gerarchico, ne corrisponde un altro ben più visibile
contro cui combattiamo. Non sono le cose ritenute giuste a stabilire i nostri principi,
ma le nostre più vere inclinazioni, le quali di volta in volta ci spingono
verso le cose che danno più soddisfazione ai nostri sensi. Questi, dentro di
noi, operano in senso unitario, senza manifestare alcuna gerarchia
prestabilita. I nostri ragionamenti non sono che un modo esteriore di
manifestare i nostri sensi, in quanto questi sono rivolti essenzialmente a
provare l’indubbia validità racchiusa nelle cose che ci procurano piacere. Siamo
noi, in realtà, a dare un senso alle cose e non viceversa. Ma, se tutto, come è
nella logica autoritaria, compresa la vita nel suo insieme, dovesse ridursi ad
un unico ed omologabile principio razionale da applicarsi in quanto norma
regolatrice della condotta di tutti gli uomini - e con la forza, se necessario
- per molti la vita si ridurrebbe ad un inferno delle costrizioni. Chissà
quanti uomini brucerebbero, dentro di se, sentendosi esclusi dai propri
desideri, condannati ad uniformarsi ad un principio unico ed universale,
estraneo alle loro più vere inclinazioni. Sarebbe la morte della vita stessa. Questo
ragionamento serve a dimostrare che non esistono ragioni universali da istituire
come principi validi per tutti, ma milioni di ragioni particolari, quanti sono
gli individui che, in carne ed ossa, compongono l’umanità e sono, per quanto
assurdo potrà sembrare,degne tutte di reciproco rispetto e considerazione, se
non presuppongono alcun dominio sugli altri. Ci muoviamo così direttamente su
di un piano di libertà estensivamente intesa, che nessun ordinamento politico
finora dato, nemmeno la democrazia diretta, è stato in grado di soddisfare, in
quanto si presenta essenzialmente come richiesta di vita qualitativamente e
totalmente libera, volta ad affermarsi sul cambiamento globale, cioè sulla
soppressione del vecchio mondo.
Verso il cambiamento globale di una mentalità
E’ difficile per molti accettare il dato di fatto che nella realtà
non esiste alcun ordine o principio regolatore prestabilito e che ci si muove
all’interno del suo movimento, nel caos e nell’indeteminatezza. Viviamo l’epoca
della dissoluzione dei "grandi racconti" moderni e dell’emergere
della violenza nichilista. Bisogna aver compreso che alla base della nostra
azione rivoluzionaria ci sta adesso un’intima comprensione di tutto ciò, come
fatto sociale che ci attraversa ed attraversa la società informatica contemporanea
nel suo complesso. Tendere ad attivizzare in senso propositivo tale violenza
nichilista, significa partire da un rifondare "nuovi valori" sociali
libertari dentro ad un movimento rivolto all’autoliberazione totale di ciascuno
e di tutti, in modo tale che il suo stesso costituirsi non permetta, al proprio
interno, alcuna ripresentazione di logiche di dominio. E’ diventata una nostra
intima necessità fisiologica e mentale quella di liberarci dal peso, divenuto
ingombrante, di tutte le ideologie. Vogliamo essere, prima di tutto, noi
stessi, poi rivoluzionari anarchici contemporanei e non ruderi del passato che,
nel loro ruolo di testimoni scomodi, ma del tutto innocui, decantano le proprie
rovinose grandezze rivoluzionarie di ieri ai proletari di oggi. Siamo ormai
consapevoli che noi, come anche i proletari, del resto, non sappiamo cosa
farcene di tutto ciò che è passato, dato che ci interessa (e interessa loro) esclusivamente
il presente e tutto quello che bisogna fare per liberarsi concretamente da
questa inumana realtà sociale in cui viviamo. Non riteniamo quindi in alcun
modo validi ai fini di uno sviluppo attuale della lotta rivoluzionaria
anarchica tutti quei progetti di intervento tratti in blocco dai modelli teorico-pratici
espressi dalle precedenti esperienze rivoluzionarie.
Ciò perché abbiamo chiaro il fatto che nella elaborazione di un
progetto rivoluzionario il problema consiste nel partire dall’esame delle
condizioni sociali in cui versano gli sfruttati e non nel riferirsi ideologicamente
a quanto inscatolato nei vari credo politici. Partendo da questa constatazione,
si possono avanzare ipotesi di lotta insurrezionale concreta, cioè basata sulla
ricerca di obiettivi immediati diretti a soddisfare bisogni proletari
emergenti. Ci sembra altresì scontato dire che all’interno di tali lotte ci si
deve impegnare nel superamento degli ambiti tracciati dalle contingenze; cioè dagli
obiettivi immediati, e questo è legato al grado di coinvolgimento attivo che si
riuscirà a suscitare nei proletari partecipanti alla lotta. Se vuole essere
reale, un progetto rivoluzionario non può modellarsi sulle forme di lotta
espresse ieri, ma deve trarre insegnamento dalle lotte proletarie in corso,
avendo presente che la lotta può svilupparsi estensivamente su tutti i
territori del vivere sociale solo a patto di intenderla come movimento che, nel
proprio generalizzarsi, tende a coinvolgere orizzontalmente l’insieme degli
individui proletarizzati. E’ da questo saper legare fra loro le diverse
condizioni sociali che si vivono che dipende il tradursi progressivamente
concreto del movimento insurrezionalista, il quale, nel proprio generalizzarsi,
porta direttamente i proletari a sopprimere la propria condizione nell’atto
stesso che essi compiono, armi alla mano, la riappropriazione materiale e
globale di se stessi e del mondo che li circonda. Quindi, il movimento
proletario, nel suo movimento di autoliberazione sociale radicale, tende ad
auto negarsi come classe, in quanto tende a sopprimere le proprie condizioni di
oppressione e di sfruttamento che lo qualificano come tale. E’ un vecchio
pregiudizio dei marxisti, ed in genere degli operaisti, l’immaginarsi un
proletariato che, nel suo movimento di liberazione all’interno del processo rivoluzionario,tenda
non a sopprimere direttamente le sue tristi condizioni sociali, ma a
costituirsi transitoriamente come classe dominante prima di autodissolversi. Da
qui discende l’idea, reazionaria, di conquistare il potere, la necessità di
costituirsi in partito dei rivoluzionari,tanto nelle versioni formali vetero
marxiste-Ieniniste o staliniste o troskiste, che in quelle più reali del
marxismo democraticoradicale, versione del partito che, come movimento, si
modella e si sviluppa all’interno della classe (vedi partito dei consigli
operai o del sindacato rivoluzionario, visioni che si collocano come direzioni
della rivoluzione sociale e proletaria). La demagogia pratica della democrazia
diretta, avanzata come pratica rivoluzionaria antistatale, in realtà, non è che
il preludio di quella più razionalmente concepita nelle forme della democrazia
rappresentativa o delegata, essendo essa stessa a creare le condizioni di quest’ultima
nel corso del suo ordinato sviluppo. Per mentalità e per logica rivoluzionaria antiautoritaria,
siamo, nel nostro agire,radicalmente contro ogni dittatura, ma anche contro
ogni forma di democrazia, compresa quella diretta che, come illusione, appare
la più dura a morire nel cuore e nel cervello di tanti rivoluzionari, compresi
alcuni di quelli che si dicono, a loro modo, anarchici. La paura della libertà
porta molti compagni verso un pensare autoritario e autoritativo, creatore di
"nuovi istituti", pervasi come sono dall’idea che bisogna garantire
anticipatamente il corretto sviluppo sociale nella società futura. E così si
apprestano a cingere attorno alla libertà nuove e più insanguinate catene, con
la scusa di difenderla inconsciamente o con piena cognizione di causa, così
prima di metterla in pratica la sopprimono, come è puntualmente accaduto in
passato.
Le ragioni di un superamento
delle vecchie concezioni rivoluzionarie
Il superamento dei limitanti orizzonti
utopico-immaginativi tracciati dalle esperienze rivoluzionarie precedenti, ci
spingono verso la ricerca di più ricche e attraenti prospettive di vita
libertaria. Tutto ciò porta, come conseguenza logica, ad una valutazione
critica e, nello stesso tempo, propositiva di quello che sono state ed hanno
significato le rivoluzioni sociali del passato, in quanto non si tratta più di imitarle,
ma di superarle sul terreno concreto di una più profonda radicalità da
realizzarsi qui, nel presente. In questo modo, sottraiamo queste esperienze
storiche alle mitizzazioni che le hanno inscatolate, cogliendole nel loro
aspetto più autentico. Esse sono state grandi momenti rivoluzionari parziali,
dove le masse proletarie insorte sono riuscite a spezzare, per brevi periodi,
la continuità storica del dominio e, nello stesso tempo, per quanto possibile,
ad abbozzare nuove forme di vita libera sul piano individuale e comunitario. Il
loro limite fallimento sta scritto all’esterno, cioè in quello che gli autoritari
di ogni ordine e colore hanno fatto attraverso la loro azione
contro-rivoluzionaria per sabotarle. Oggi si possiede più consapevolezza dei
propri mezzi rispetto al passato, proprio per le tante difficoltà che
incontriamo nel corso della nostra azione rivoluzionaria, chiamata
continuamente a fare i conti con un apparato di dominio raffinatosi di molto
rispetto al passato. Questo fatto ci spinge da un lato ad affinare le nostre
capacità critico-riflessive e,dall’altro, a percepire l’immane e sconvolgente compito
che ci aspetta: la totale destrutturazione del vecchio mondo. Se non si
sostiene la necessità rivoluzionaria della totale distruzione di tutti gli
apparati di dominio, si ammette che una parte dei modelli organizzativi creati
dal potere sono da ritenersi validi. Si opera, così, un rifiuto preventivo,negando
la possibilità dell’esistenza di un "altro" radicalmente diverso da
quello che esiste nel mondo dato dal dominio. Come se i modelli di produzione e
riproduzione dei rapporti economici e sociali dati dal capitale siano validi a
patto però di cambiare la loro gestione,cosa che equivale ad affermare che la
rivoluzione è solo una questione di organizzazione basata su di una più o meno
equa e razionale distribuzione della ricchezza sociale prodotta e non un
insopprimibile bisogno che sentiamo di affermare il nostro desiderio di vivere
una vita radicalmente differente da quella attuale. Che rivoluzione sarebbe la
nostra se tutto si riducesse ad una questione di cambiamento di gestione? Continueremmo
a vivere le stesse separazioni e costrizioni attuali, prigionieri di un sistema
di dominio socializzato ed interiorizzato dentro di noi che non combatteremo,
vivendo nella illusione, prodotta da noi stessi, che per cambiare la situazione
basta essere garantiti democraticamente sulla possibile intercambiabilità dei
ruoli. Tutto questo è puro gattopardismo travestito da rivoluzione, che
consiste nel cambiare le forme esteriori dei rapporti economici, politici e
socio-culturali, affinché tutto possa restare immutato nella sostanza. Da qui
deriva che quello che ricerchiamo è ben altro, rispetto alle miserie offerte
dal dominio. L ’idea di fondo che concettualmente e praticamente sosteniamo è
quella di una piena consapevolezza rivoluzionaria e libertaria,dirette a unire la
ricerca profonda della totalità dell’individuo con l’esteriorità di un
cambiamento immediatamente palpabile. Bisogna spingere gli individui
proletarizzati ad autoliberarsi, per coinvolgerli dentro un movimento
insorgente che, partendo dal loro interno, vada verso l’esterno, infrangendo
tutte le barriere e tutti i freni inibitori che costituiscono il vivere e il
viversi tra mille separazioni-costrizioni, in modo eternamente mediato dal
potere.
L’utopia reazionaria del
radicalismo operaista
Il progetto rivoluzionario
dell’anarcosindacalismo, del consiliarismo o dell’Autonomia operaia si riduce all’instaurazione
di una società di liberi ed uguali produttori affrancatisi dal lavoro e dal
capitale divenuto sociale a seguito della socializzazione dei mezzi di
produzione. Il cambiamento proposto è quindi un ben misero orizzonte. Il loro
comunismo non sarebbe l’effettiva distruzione del sistema capitalista e dei
suoi rapporti di produzione,ma la sua logica socializzazione che lo fa
diventare più equo e razionale. Per noi non può esistere alcuna logica di
continuità tra capitalismo e comunismo, ma una rottura violenta e radicale.
Allo stesso modo, per noi, l’anarchia non è la continuazione di un integrale liberalismo
unito al radicalismo democratico-sociale (democrazia diretta), ma è una
violenta e totale rivolta operata contro tutti i sistemi politici adottati
finora per amministrare e governare la società, rivolta che persegue la messa
in pratica del concetto di libertà totale nascente dalla soppressione di ogni autorità
o gerarchia. Ecco perché, in quanto rivoluzionari anarchici, non possiamo
accettare progetti che, pur parlando di autoliberazione sociale degli
sfruttati, nel loro realizzarsi, ripropongono di fatto il ripristino sotto
altri nomi delle vecchie istituzioni. Tali progetti si fondano sulla visione di
una società ancora divisa in sfere separate dove permangono tutte le
costrizioni che gli sfruttati vivono, mentre al centro della loro vita ci
sarebbe il "capitale socializzato" e un "nuovo Stato
sociale" camuffati sotto nomi diversi. E’ chiaro quindi che l’immediata ed
effettiva distruzione dello Stato non può prescindere dalla contemporanea
distruzione del capitale e di ogni altra istituzione. Tutti i rapporti di
dominio prodotti dai diversi apparati di
comando-amministrazione della società divisa in classi, sono gli elementi costituitivi
che fanno vivere e man- tengono in piedi il grande Moloch sociale, cioè lo
Stato. Volere mantenere intatto l’involucro economico-sociale di quest’ultimo,
significa una cosa sola, significa volerlo abbattere ricostruendolo su altre
basi. E poi si ammette di volere restare ad un livello di generalizzazione del
proletariato, incapace nel suo movimento insorgente di sopprimere le proprie condizioni,
quindi di autonegarsi come classe sfruttata e ciò perché i proletari, che sono
l’elemento costituente della classe, permangono ancorati alla miseria del
proprio ruolo, vittime dell’impoverimento prodotto dalla famelica macchina del
capitale. Si dichiara così, con strafottente stupidità, che tutti i proletari
sono diventati proprietari di mezzi di produzione del capitale e liberi
produttori, per cui non hanno più padroni, mentre si esalta la figura di
indefesso lavoratore, mentre si mutila l’individuo che umanamente aspira al
possesso della propria totalità e completezza. Sotto questo aspetto non c’è
molto da dire. Non si comprende a cosa sono servite tutte le lotte dirette a
sovvertire il tragico e miserabile destino dell’uomo se questo non sarà mai
padrone di se stesso, ne signore di una vita senza schiavi.
Le nefaste conseguenze cui porta
l’utopia operaista
La mistica dell’autogestione delle fabbriche,
sostenuta dagli anarco-sindacalisti o dai consiliaristi, come dai comunisti di
sinistra consiliari o autonomi, porta a possedere una visione distorta ed assai
limitante di ciò che si deve intendere per condizione proletaria nel suo
complesso, in quanto rivendica una centralità della fabbrica come cuore della
produzione sociale. Ogni lotta per il cambiamento non può, secondo questa tesi,
che partire dall’interno della fabbrica e su di essa ogni altra lotta sociale
deve modellarsi uniformandosi alle decisioni prese dalla classe operaia entrata
in lotta contro il capitale. Su questa preventiva riduzione ideologica della condizione
proletaria si cerca di realizzare una subordinazione all’interno del processo
rivoluzionario di tutte le altre categorie. Si esalta acriticamente la capacità
autonoma ed autorganizzativa della classe proletaria, per poi svalorizzare
queste stesse capacità davanti alla necessità di una guida. Il movimento
proletario viene così immaginato come movimento diretto essenzialmente alla
appropriazione dei mezzi di produzione del capitale. La logica della conquista
del capitale e della sua socializzazione, piuttosto che quella della sua
distruzione, porta ad interiozzare il capitale stesso, trasformando tutti i
soggetti in automi che vivono alienandosi reciprocamente l’esistenza. Tutto ciò
porta al mantenimento volontario della fabbrica,quindi della dimensione del
lavoro e con questo di tutte le gerarchie e i ruoli che conosciamo, anche se i
singoli praticano la rotazione degli incarichi, vittime dell’illusione della
democrazia diretta- la condizione proletaria rimane sostanzialmente inalterata.
Si è di fatto rimasti dentro la sfera dei rapporti di produzione del capitale,
che ha semplicemente cambiato gestione. Il proletariato esiste ancora come
condizione, in quanto esiste il capitale che lo riproduce e lo mantiene organizzativamente.
Su questo terreno, non solo si è perdenti in partenza, ma si fa balenare
l’allucinante prospettiva di un eternizzarsi della condizione proletaria. Per
noi, distruggere lo Stato ed il capitale è una necessità vitale, perché non vi
sarà mai vera libertà fin tanto che gli uomini non saranno riusciti a liberare
i propri desideri dalle catene della necessità. La conseguenza cui porta
l’operaismo, in qualsiasi veste presentato, è quella di non riuscire mai a
superare le vecchie condizioni che delimitano e circoscrivono il capitale, in quanto
esso ne è parte integrante, per cui le sue ragioni non possono che giungere a
sostenere la necessità di conservare il vecchio mondo per mezzo della sua
riforma. E poi, diciamolo francamente, c’è una buona dose di stupidità
congenita in coloro che pensano di volere spingere i proletari verso una rivoluzione
avente il solo scopo di inceppare la macchina statale capitalista per farla poi
funzionare per conto proprio. A liberarci da queste preoccupazioni ha pensato
il capitale stesso che ha mandato in pensione la classe operaia.
Il capitale dissolve la classe
operaia
Il capitale, dopo la rivoluzione tecnologica
apportata ai suoi apparati, si è automatizzato nei suoi cicli produttivi,
sostituendo al lavoro umano svolto da milioni di operai, quello più redditizio
svolto dai robot computers che, adesso, amministrano e controllano il processo
produttivo. Le macchine non creano problemi conflittuali, non si lamentano
della propria condizione,come accadeva al tempo in cui in fabbrica c’era la
classe operaia. Oggi, questa si trova ridotta al lumicino, relegata ai margini
del sistema di produzione delle merci. Sotto questo aspetto, il capitale si è
dimostrato più rivoluzionario degli stessi eversori operaisti. Le posizioni
operaiste sono destinate a scomparire all’interno del movimento proletario
rivoluzionario in quanto non sono altro che vecchie proiezioni utopiche
provenienti da un passato ormai morto e superato. Il cuore del capitale non è
più la fabbrica, se mai lo è stato, ma un apparato organizzativo ben più
complesso, altamente sofisticato dal punto di vista tecnologico che domina oggi
sull’intera società e non più su un semplice spazio definibile e
circoscrivibile nei luoghi di produzione dei beni materiali. Il capitale, nel
suo movimento estensivo, ha invaso tutti i territori del vivere sociale
portando ad un generale impoverimento di ogni rapporto autentico di vita. Il
dominio si racchiude oggi nelle forme di produzione e riproduzione sociale dei
rapporti che gli uomini vivono nella società dominata, in accordo con gli
apparati di controllo dello Stato. Oggi, senza smentita, si. Può affermare che
è lo Stato a creare i nostri bisogni, e che noi viviamo solo per consumare
quanto il mostro ci propone, di volta in volta, attraverso le mode, la
pubblicità e la sua continua creazione di miti. Una folle corsa verso il
consumo massificato e la continua soppressione dei nostri più reali desideri.
Verso una più attraente e
desiderante utopia
Al mondo dei bisogni creato dal capitale è
necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda
sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno
d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato
modo di produzione a definire concretamente una società anarcocomunista. L’atto
del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta
soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto
artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere
artisti e non semplici manovaliartigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione
in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali,
trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in
attività artistica. Al gusto decadente dei borghesi e al gusto rozzo e volgare
della plebe, opponiamo il gusto raffinato degli aristocratici che avevano, nel
viversi senza freni la vita, gustandola fino in fondo, un’arte del saper vivere.
Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità
di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo
produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se
stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle
costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la
realizzazione di tutti i propri singolari desideri. Una società anarchica è, di
per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo
liberati dal peso di tutte le gerarchie interne-esterne e avremo abbattuto
tutti gli ordinamenti statuali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà
posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna
ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti
i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali. E’ logico che questo
modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso
a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica
rivoluzionaria,il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari
e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto
non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo
mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare
qualitativamente le singole diversità. In sostanza, l’utopia anarchica è un
invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da
anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità
non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti
finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può
riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la
propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti. La vita, nel
suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso
nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.
Le ragioni del progetto che
sosteniamo
Le ragioni profonde del nostro progetto
insurrezionalista anarchico stanno scritte nel cuore e nella mente di coloro che non si sono rassegnati a
vivere nell’oppressione e nello sfruttamento che li circondano e ricercano una
strada per spezzare direttamente le proprie e le altrui catene. Attestarsi sul versante
della vita significa atte starsi sul terreno della liberazione; attestarsi sul
terreno della sopravvivenza, significa avere scelto volontariamente il terreno
della conservazione del dominio. Su questo terreno l’equivoco non è più
possibile, dato che nella realtà siamo portati a schierarci da una parte o
dall’altra della barricata. La realizzazione del nostro progetto consiste nel
mettere ciascun proletario nelle condizioni di intervenire direttamente nelle
sue faccende, quindi indichiamo l’azione diretta come presupposto per un agire
consapevole al di fuori di qualsiasi intermediario. Dello sviluppo della lotta
abbiamo una visione orizzontale, diffusa in mille direzioni, ma tutte rivolte
contro il dominio. Il senso dell’autogestione, tende, in concreto, a sopprimere
l’eterno mediatore, cioè il potere, per far sì che gli sfruttati, una volta
liberatisi da questo peso, possano fra loro confrontarsi direttamente attestati
sul versante della vita, ricca e desiderante, cioè sulla fine della miseria
racchiusa nella sopravvivenza. L’omologazione di molte pratiche rivoluzionarie
da parte del potere è data dal tipo di logica da cui alcuni compagni partono.
Ad esempio, portare grandi masse di persone a muoversi nella pratica dei grandi
obiettivi centralizzati, in cui l’azione sfocia nella delega o nella impostura,
è uno dei motivi. Noi sosteniamo l’importanza degli obiettivi diffusi sul
territorio, in quanto pratica rivoluzionaria rivolta a ottenere che i soggetti
ritrovino, di fatto, il modo di intervenire sulle proprie condizioni di vita, muovendosi
fuori dai luoghi rituali ben conosciuti dal potere. Molte altre ragioni, il
compagno che leggerà questo scritto, le troverà da se, importante è che queste
siano fuori dal modo di agire del dominio. Il resto sono solo piccoli dettagli,
semplici punti di vista che ci dividono nel valutare la realtà interna allo
scontro sociale. Il nostro progetto si fonda, sia teoricamente che praticamente,
sul fatto che i sogni sono da realizzarsi qui nel presente e non in un
ipotetico futuro, dato che l’avvenire l’hanno sempre venduto i preti di
qualsiasi religione o ideologia per poterci impunemente derubare. Vogliamo un
presente che meriti di essere vissuto e non semplicemente sacrificato
all’attesa messianica di un futuro paradiso terrestre. Abbiamo per questo
voluto parlare in concreto di un’anarchia da realizzare ora, non domani. Il
"tutto e subito" è una scommessa, una partita che ci giochiamo, dove
la posta in gioco è la nostra vita, la vita di tutti, la nostra morte, la morte
di tutti. Se perderemo,regaleremo al potere solo un mondo di rovine, proprio
come pensava Durruti vedendo lo sfacelo della rivoluzione sociale spagnola,
assediata dall’esterno e dall’interno dai suoi nemici.
Pierleone M. Porcu
IL NICHILISMO DELLA RAGIONE -
“Quando Adamo fu cacciato dal paradiso, anzichè
vituperare il suo persecutore
si affrettò a battezzare le cose:era l'unico
modo di adattarvisi e dimenticarle –
le basi dell'idealismo erano state poste.”
E.M.Cioran (Volti della Decadenza)
Qualcosa di incatalogabile, preme dalle viscere della società
costituita,con ammirevole velocità. Catalogare è un lavoro faticoso,e lo è
ancora di più quando il soggetto da catalogare è sconosciuto. Si può
catalogare qualcosa partendo da un punto di riferimento che darà poi un
suffisso temporale per determinare il suo avvenuto catalogarsi,in antecedente
o posteriore, appunto, relazionato al referente. Si può catalogare per altezza,colore, forma,lavoro,religione ecc.
catalogare quindi per chi ha da difendere l'istituzione, nel senso più
ampio del termine, ha come scopo la preventiva cura-rimedio del male che questo
individuo-oggetto catalogato può compiere rivoltandosi,o per trovare un termine
più idoneo,creare disordine dove l'ordine è un valore. Si perde nel
tempo il continuo sputtanamento, o per meglio dire, snaturamento strumentale da
parte del potere di ciò che l'individuo tende a creare e distruggere con
naturalezza (ma con ciò non voglio dire senza fatica) in quell'eterno
combattimento tra queste due tendenze.
Il tempo in cui viviamo è un presente complottare contro le
ideologie.
Su! Slegate i cani-intellettuali del Papa-Re! Convocate l'innoqua vedova
al cospetto della verità indiscutibile! Tutta la servitù si stà adoperando
dopo la caduta degli dèi a raccimulare nuove forze, un nuovo credo più
materiale,per far ritrovare quella fede che l'individuo-popolo ha perso. Un
dominio più umano. Quello che non strozza ingrassa. E allora ecco qui le
tesi che rivoltarsi in modo estremo da estremisti è controproducente. Immagini
di eterni nemici che si stringono la mano, perchè il peggio è il passato. Il
potere con la sua stuola di trafficanti di falsità ha coltivato la pianta del nichilismo-cristiano
dispensando la ricetta per i mali precedentemente catalogati. ”Siamo
dimenticati...lo Stato non è presente!” “vogliamo più controllo nel territorio
da parte delle forze dell'ordine”, sono queste alcune farneticazioni deliranti
che i civili annichiliti richiedono a pieni polmoni. Che schifo, ”Padre perchè
mi hai abbandonato?”.
L'abbandono,il senso di vuoto, in questo tipo di individuo non
hanno fatto altro che piegarlo invece di rigenerarlo. Come chi in punto di
morte rinnega la sua vita dedicata alla ragione baciando il cristo crocifisso
nella sua estrema unzione. Questo però può succedere e succede a chi non ha
saputo guardare nel senso tutto individuale del suo punto di rottura (superamento
dell'istinto di conservazione). Chi ha raggiunto ciò,il punto di
rottura, diventa imprevedibile. Imprevedibile vuol dire, non riuscire a far analizzare
in tempo la propria mossa all'avversario. La sua mossa insomma non può essere
catalogata in tempo per prevenire la cura (e ciò non toglie che avvenuta
l'azione sia appunto facile da decifrare). Ecco qui che il potere seppur
dall'aspetto inespugnabile è come tutto un essere-entità destinato a perire per
mano dell'individuo imprevedibile.
L'ingerenza ecclesiastica nell'affare sociale è spudorata. Prevedibile
invece la sua opera moralizzatrice che si colloca nel senso di colpa, che
indotto nel momento di crisi,crea nell'individuo quel riconoscersi peccatore o
criminale rispetto al Tutto-idealizzato (infinitamente perfetto, Dio e Umanità)
che blocca la unicità volontaria dell'immediato godimento. La libertà è
idealizzata come ricompensa,tutti la rimandano a tempi migliori, delegando al
Futuro. Ci accorgiamo di questo piano autoritario quando le parole d'ordine
sapientemente elaborate da Partiti(di Governo e di Opposizione) richiamano alla
minaccia incombente di instabilità delle proprietà etiche-materiali della
società (Pubblico) e individuali (Privati) rispetto al Futuro che tutti
aspettano sacrificando il Presente.
Guardate continuamente chi sta peggio vi diranno! e chi sta peggio
guarderà ancora chi stà ancora peggio di lui e così via fino a diffidare di chi da questa catena
del dolore ne vuole uscire. Ma se nella scala delle sofferenze si stà nel
gradino appena sopra di chi è già morto, come risollevare il morale di questo moribondo?
Ecco sorgere dal nulla la fredda paura di morire. Pensiero
insostenibile che và allontanato distraendo l'io.
Non sentite l'assordante rumore dello sfregarsi delle mani dei
vari messia? Tutto concorre per addormentare l'io, se stessi, la propria
unicità. Una umanità devota al suicidio (che non è un suicidio di affermazione
dell'arbitrio libero che sconfigge ogni logica autoritaria).
Il principio dell'autorità parte da una considerazione di
inadeguatezza a vivere la propria vita. L'individuo alienato proietta fuori dal
corpo materiale i mezzi propri adatti per soddisfare se stesso; il
motivo è che solo noi stessi conosciamo le nostre inclinazioni e le nostre
esigenze. Qui bisogna fare una riflessione importante e fondamentale.
L'essere religioso dona volontariamente la suà volontà a chi è
superiore,attribuendo a lui le prerogative che ritiene eticamente superiori
appunto per la sua natura. La propria volontà ,dell'individuo sintende, viene
quindi meno. Se esiste un Dio automaticamente sono un suo suddito,nella maniera
in cui una madre ha potere sul suo figlio appena nato. L'incapacità dovuto
dall'inferiorità che si è accettata riconoscendo l'esistenza di un Dio è al
principio di ogni autorità.In Kirillov, il nichilista suicida, “Dèmone”,
si focalizza questo teorema: ”Dio non esiste, sono dunque io un Dio!”.
Se io non dono più la mia volontà a un altro essere affermo la mia volontà
sopra ogni altra cosa,affermo la proprietà di me stesso.
Prendere coscienza di questa oggettività è vivere pienamente (Volontà)
o immobilizzarsi e morire. E allora con ciò posso affermare che tutto ciò
che mi allontana da me stesso è mio nemico.