Insieme a Alexis Tsipras l’economista Yanis Varoufakis è diventato in
pochi giorni il volto più noto del governo di Syriza. Vi proponiamo la
traduzione integrale di
Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea. Il testo originale lo trovate
qui.
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Confessioni di un marxista irregolare nel mezzo di una ripugnante crisi economica europea
di Yanis Varoufakis
Nel maggio 2013 ho avuto il piacere di trattare quest’argomento durante il sesto Subversive Festival di Zagabria. Solo ora sono riuscito a metterlo per iscritto e ad espanderlo per quanto riguarda alcuni aspetti significativi.
- 1. Introduzione. Una confessione radicale
Nel 2008, il capitalismo ha subito la sua seconda grande contrazione a
livello mondiale, causando una reazione a catena che ha sprofondato
l’Europa in una spirale recessiva che sta tuttora minacciando gli
europei con un vortice di depressione permanente, cinismo,
disintegrazione e misantropia.
Negli scorsi tre anni, mi è capitato di esprimermi sul momento
difficile dell’Europa di fronte a platee estremamente variegate.
Migliaia di dimostranti anti-austerity a Piazza Syntagma ad Atene, staff
della Federal Reserve di New York, europarlamentari dei Verdi al
Parlamento Europeo, analisti della Bloomberg a Londra e New York,
studenti nei sobborghi degradati di Atene e New York, la Camera dei
Comuni di Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, proprietari di fondi
comuni d’investimento a Manhattan e a Londra, la lista è lunga tanto
quanto la progressiva ritirata dei leader europei da principi umanisti, e
la ragione di tali interventi continua a persistere. Nonostante
l’eterogeneità delle platee, il messaggio è stato sempre uno: l’attuale
crisi europea non è solamente una minaccia per i lavoratori, per gli
spossessati, per i banchieri, per gruppi particolari, classi sociali o
persino nazioni. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una seria
minaccia alla civiltà così come noi oggi la conosciamo.
Se la mia prognosi è corretta, e la crisi europea non è solamente
un’altra caduta ciclica che verrà presto superata nel momento in cui i
tassi di profitto aumenteranno in seguito all’inevitabile caduta dei
salari, la questione all’ordine del giorno per i pensatori radicali è
questa: dovremmo accogliere questo stallo totale del capitalismo europeo
come un’opportunità per rimpiazzarlo con un sistema migliore? O
dovremmo esserne talmente preoccupati da intraprendere una campagna per
stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta in questi tre anni è
stata chiara, e la sua sostanza è stata male interpretata dalla
summenzionata lista di diverse platee che ho tentato di influenzare. La
crisi europea è, per come la vedo, gravida non di potenziali alternative
progressiste, ma di forze radicalmente regressive che avrebbero la
capacità di causare un bagno di sangue umanitario estinguendo la
speranza di qualsiasi azione progressista per generazioni a venire.
A causa di tale teoria, da voci radicali in buona fede, sono stato
accusato di “disfattismo”: un menscevico fuori tempo massimo che si
batte senza sosta a favore di analisi il cui scopo sarebbe quello di
salvare un sistema socio-economico europeo indifendibile. Un sistema che
rappresenta tutto quello che un radicale dovrebbe condannare e
combattere: un’Unione Europea anti-democratica, irreversibilmente
neoliberista, altamente irrazionale, transnazionale, che ha possibilità
praticamente nulle di evolvere in una comunità sinceramente umanista in
cui le nazioni europee possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa
critica, lo confesso, mi fa male. E mi fa male perché contiene più di
una parte di verità.
Infatti, condivido la visione di questa Unione Europea come
un’istituzione fondamentalmente anti-democratica e irrazionale che sta
conducendo i popoli europei verso un sentiero di misantropia, conflitto e
recessione permanente. E mi inchino anche alla critica che io mi sto
battendo su un’agenda che si basa sul presupposto che la sinistra era, e
rimanga, sconfitta in pieno. E così si, in questo senso, mi sento
costretto ad accondiscendere al fatto che vorrei che i miei obiettivi
fossero di un altro tipo; vorrei molto più promuovere un programma la
cui ragion d’essere sia la sostituzione del capitalismo europeo con un
differente sistema più razionale – piuttosto che sforzarsi solamente per
stabilizzare il capitalismo europeo che fa a pugni con la mia
definizione di Buona Società.
A questo punto, forse può essere pertinente introdurre una seconda
confessione: confessare che… le confessioni tendono sempre ad essere
egocentriche. In effetti, le confessioni sono sempre molto simili a quel
che John Von Neumann una volta disse parlando di Robert Oppenheimer
dopo aver sentito dire che il suo ex direttore nel Manhattan Project si
era trasformato in un attivista contro il nucleare e aveva confessato di
sentirsi in colpa per il suo contributo alla carneficina di Hiroshima e
Nagasaki. Le caustiche parole di John Von Neumann furono:
“Sta confessando il peccato per rivendicarne la gloria”.
Grazie al cielo, non sono Oppenheimer e, di conseguenza, non sarà
difficile evitare di rivendicare vari peccati come tentativo di
auto-promozione ma, piuttosto, come una finestra da cui dare un’occhiata
alle mie visioni di un capitalismo europeo ossessionato dalla crisi,
profondamente irrazionale e ripugnante la cui esplosione, malgrado i
suoi molti mali, dovrebbe essere evitata ad ogni costo. È una
confessione con cui convincere i radicali del fatto che siamo chiamati
ad una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del
capitalismo europeo allo scopo di guadagnare il tempo di cui c’è bisogno
per formulare l’alternativa.
- 2. Perché sono un marxista?
Quando scelsi il tema della mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi,
intenzionalmente, un argomento altamente matematico e un tema nel quale
il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, più tardi, intrapresi la
carriera accademica, come professore in dipartimenti
mainstream di
Economia, il contratto implicito tra me e i dipartimenti che mi
offrivano di tenere le lezioni era che avrei trattato quegli argomenti
di teoria economica che non lasciavano spazio a Marx. Alla fine degli
anni Ottanta, a mia insaputa, fui assunto all’Università di Sidney in
modo da far fuori un altro candidato di sinistra. Poi, dopo il mio
ritorno in Grecia nel 2000, unii i miei sforzi a quelli di George
Papandreou, cercando di rimuovere il rischio del ritorno al potere di
una risorgente destra ostinata a far tornare la Grecia in un
atteggiamento di xenofobia (sia per quanto riguardava la politica
interna, con un giro di vite contro i lavoratori migranti, sia in
questioni di politica estera). Così come tutto il mondo sa ora, il
partito del signor Papandreou non solo fallì nel combattere la xenofobia
ma, invece, promosse le più virulenti politiche macroeconomiche
liberiste comandate dai cosiddetti piani di salvataggio dell’Eurozona,
causando involontariamente il ritorno dei nazisti per le strade di
Atene. Nonostante io avessi rassegnato le mie dimissioni come
consigliere del signor Papadreou all’inizio del 2006, e fossi divenuto
uno dei critici più insistenti del governo durante la sua pessima
gestione dell’implosione greca post-2009, i miei interventi nel
dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la
Modesta proposta per risolvere la crisi dell’Euro, della quale sono co-autore e per la quale mi sono battuto) non contenevano la minima traccia di marxismo.
In virtù di questo lungo sentiero attraverso le università e i
dibattiti politici in Europa, uno potrebbe essere sorpreso dal vedermi
tirar fuori il proverbiale segreto dal cassetto dichiarandomi marxista.
Tali affermazioni non mi giungono naturali. Vorrei poter evitare le
etero-definizioni (ovvero l’essere definiti in base al metodo e alla
visione del mondo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano,
humiano, sarei naturalmente predisposto a dire che non sono nessuna di
queste cose; che ho trascorso il mio tempo cercando di diventare l’ape
di Francis Bacon: una creatura che raccoglie il nettare da milioni di
fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di
personale, un qualcosa che è debitore di ogni singolo fiore ma che non è
definito da nessuno di essi preso singolarmente. Ma, ahimè, questo
sarebbe falso, e dunque non un buon metodo per iniziare una…confessione.
A dire il vero, Karl Marx è stato responsabile nel formare la mia
prospettiva del mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia al giorno
d’oggi. Non è qualcosa di cui parlerei volentieri molto nella buona
società odierna perché la sola menzione della parola che inizia con M
estingue ogni interesse della platea. Ma è una cosa che non ho mai
nemmeno negato. In effetti, dopo alcuni anni trascorsi ad indirizzarmi a
platee con le quali non condividevo il retroterra ideologico, è sorto
recentemente in me un bisogno di parlare candidamente dell’influenza di
Marx sul mio pensiero. Per spiegare il perché, il perché essere un
marxista impenitente, penso che sia importante resistergli con ardore su
molti argomenti. Essere, in altre parole, eretici nel proprio marxismo.
Se la mia carriera accademica ha largamente ignorato Marx, e i miei
attuali consigli politici sono impossibili da descrivere come marxisti,
allora perché tirar fuori ora il mio marxismo? La risposta è semplice:
persino le mie visioni economiche non-marxiste sono guidate da un
assetto mentale pesantemente influenzato da Marx. Ho sempre pensato che
un teorico sociale radicale possa sfidare il pensiero economico
dominante in due modi diversi: uno è attraverso la strada della critica
immanente. Accettare gli assiomi dominanti e quindi esporne le
contraddizioni interne. Dire: “Non contesto i tuoi presupposti, ma ecco
perché le tue conclusioni non derivano logicamente da quelli”. Questo
era, infatti, il metodo usato da Marx per minare il sistema
dell’economia politica britannica. Marx accettò ogni singolo assioma di
Adam Smith e David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto delle
loro assunzioni, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La
seconda strada che un teorico radicale può perseguire è, ovviamente,
quella della costruzione di teorie alternative a quelle dell’
establishment, sperando che esse verranno prese sul serio (che è ciò che gli economisti marxisti del tardo XX secolo stanno facendo).
Il mio parere su questa doppia alternativa è sempre stato che i
poteri in carica non sono mai perturbati da teorie che partono da
assunti diversi dai propri. Nessun economista dell’
establishment presterà
mai attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano in questi giorni.
L’unica cosa che può destabilizzare e sfidare seriamente gli economisti
mainstream neoclassici
è la dimostrazione dell’inconsistenza dei loro propri modelli. È per
questa ragione che, fin dall’inizio, ho scelto di penetrare nelle
viscere della teoria neoclassica e di non spendere quasi nessuna energia
nel tentativo di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di
capitalismo. Le mie ragioni, lo ammetto, erano piuttosto…marxiste
[1].
Quando spinto a commentare il mondo in cui viviamo, in quanto
contrario all’ideologia dominante sul funzionamento dell’economia
globale, non avevo alternative che tornare alla tradizione marxista che
aveva forgiato il mio pensiero sin da quando mio padre, metallurgista,
aveva impresso in me, quando ero ancora bambino, l’importanza dei
cambiamenti tecnologici e delle innovazioni nel processo storico. Come,
per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro
velocizzò la storia; come la scoperta dell’acciaio accelerò il tempo
storico dieci volte; e come le tecnologie informatiche basate sul
silicio sono discontinuità storiche e socio-economiche di primaria
importanza.
Questo trionfo costante della ragione umana sulla natura e sui mezzi
tecnologici, che serve anche periodicamente ad esporre l’arretratezza
delle nostre sovrastrutture sociali e delle nostre relazioni, è una
prospettiva insostituibile che devo a Marx. Il suo materialismo storico
fu rinforzato nel modo più interessante e inaspettato. Chiunque abbia
guardato l’episodio di Star Trek Voyager intitolato
“In un batter d’occhio”,
riconoscerà una meravigliosa raffigurazione in quarantacinque minuti
del materialismo storico al lavoro: un’impressionante narrazione del
processo per cui lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi
tecnologici che costantemente mettono in discussione la superstizione e
creano impulsi storici che, in maniera non lineare, generano nuove fasi
della civilizzazione.
Il mio primo incontro con i testi di Marx avvenne molto presto nella
mia vita, come risultato degli strani tempi in cui mi ritrovai a
crescere, con la Grecia intenta ad uscire dall’incubo della dittatura
neofascista del 1967-1974. Quel che attirò la mia attenzione fu
l’insuperabile, affascinante dono di Marx nel ritrarre la storia umana
come un’opera teatrale, in cui la dannazione umana è riscattata da una
reale possibilità di salvezza e da una spiritualità autentica. Leggendo
frasi quali…
“la moderna società borghese con le sue condizioni borghesi di
produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, una società
che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di
scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze
sotterranee da lui evocate”. (
Il Manifesto del Partito Comunista, 1848)
…sembrava quasi di presenziare a un incontro fra, da una parte, Faust
e il Dottor Frankestein, e dall’altra, Adam Smith e David Ricardo,
nella creazione di una narrativa popolata da figure (lavoratori,
capitalisti, funzionari, scienziati), che erano gli attori drammatici
della Storia, agenti che combattevano per imbrigliare la ragione e la
scienza allo scopo di rendere più forte l’umanità mentre, contrariamente
alle loro intenzioni, scatenavano forze infernali che usurpavano e
sovvertivano la loro libertà e la loro umanità.
Questa prospettiva dialettica, in cui ogni cosa genera il suo
opposto, e l’occhio acuto con cui Marx individuava il potenziale per il
cambiamento nelle strutture sociali apparentemente più fisse e
immutabili, mi aiutò a cogliere le grandi contraddizioni dell’epoca
capitalista. Dissolveva il paradosso di un’età che generava le
condizioni di benessere più notevoli e, nello stesso istante, la povertà
più nera. Oggi, volgendosi alla crisi europea, alla crisi di
realizzazione americana, alla stagnazione di lungo termine del
capitalismo giapponese, quasi tutti i commentatori non riescono a
cogliere il processo dialettico che si svolge sotto il loro naso.
Riconoscono la montagna di debiti e le perdite delle banche, ma
dimenticano l’altro lato della medaglia, la sua antitesi: la montagna di
risparmi inattivi che sono congelati dalla paura e che dunque non si
convertono in investimenti produttivi. Un’attenzione marxista alle
opposizioni binarie li avrebbe aiutati ad aprire gli occhi…
Una delle ragioni principali per cui l’opinione dominante non riesce a
fare i conti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la
tensione dialettica della produzione congiunta di debiti e surplus, di
crescita e disoccupazione, di benessere e povertà, di spiritualità e
depravazione, per non dire di bene e male, di nuove forme di piacere e
di schiavitù, di libertà e sottomissione: di questo calderone di
opposizioni binarie che gli scritti drammatici di Marx ci indicavano
come le risorse dell’ingegno della Storia.
Fin dalle mie prime riflessioni come economista, giungendo ad oggi,
mi è sempre parso chiaro come Marx abbia compiuto una scoperta che
sarebbe dovuta rimanere il punto centrale di ogni utile analisi del
capitalismo. Questa scoperta era, ovviamente, quella di un’altra
opposizione binaria intrinseca al lavoro umano. Questo è dotato di due
nature differenti: 1) lavoro come creazione di valore (respiro vitale),
attività che non può mai essere specificata o quantificata in anticipo
(e per cui impossibile da mercificare) e, 2) lavoro come quantità
(numero di ore di lavoro), utilizzato per la vendita e trasformato in un
prezzo. Ciò è quel che contraddistingue il lavoro da altre risorse
produttive come l’elettricità: la sua duplice, contraddittoria natura.
Una differenza-contraddizione che gli economisti politici dimenticavano
di fare prima di Marx, e che gli economisti
mainstream rifiutano fermamente di accettare tutt’oggi.
Sia l’elettricità che il lavoro possono essere pensati come merci.
Tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori lottano per mercificare il
lavoro. I datori di lavoro usano tutta la loro ingegnosità, e quella dei
loro manager delle risorse umane, per quantificare, misurare e
omogeneizzare il lavoro. Allo stesso tempo i potenziali impiegati si
dannano l’anima in un tentativo ansioso di mercificare il loro potere
lavorativo, scrivendo e riscrivendo i loro
curricula per
ritrarsi come fornitori di unità di lavoro quantificabili. E questo è il
problema! Perché se lavoratori e datori di lavoro riuscissero a
mercificare completamente il lavoro, il capitalismo morirebbe. Questa è
una prospettiva senza la quale la tendenza del capitalismo di generare
crisi cicliche non potrà mai venire pienamente compresa, una prospettiva
alla quale nessuno, senza una conoscenza di base del pensiero di Marx,
avrà mai accesso.
- 3. La fantascienza diventa documentario
In un grande classico, il film del 1953
L’invasione degli ultracorpi, gli alieni non ci attaccano frontalmente, a differenza, ad esempio, di quel che accade in
La guerra dei mondi di
H.G. Wells. Piuttosto, gli umani sono attaccati dall’interno, fino a
che non rimane nulla della loro anima e delle loro emozioni. I loro
corpi sono tutto ciò che rimane, come gusci che una volta contenevano
una libera volontà e che ora lavorano, attraversano meccanicamente la
vita quotidiana, e funzionano da simulacri umani “liberati”
dall’aleatoria capricciosità della natura umana. Questo processo è
equivalente alla trasformazione necessaria a trasformare il lavoro umano
in una fonte di energia non differente dai semi, dall’elettricità, in
effetti dai robot. Parlando in termini moderni, è quel che sarebbe
accaduto se il lavoro umano fosse diventato perfettamente riducibile a
capitale umano e dunque adatto ad essere inserito nei rozzi modelli
economici.
Provate a pensarci, ogni singola teoria economica non marxista che
tratta gli impulsi produttivi umani e non-umani come se fossero
intercambiabili, quantità qualitativamente equivalenti, adotta il
presupposto che la de-umanizzazione del lavoro umano sia completa. Ma se
tale processo giungesse mai ad essere completo, il risultato sarebbe la
fine del capitalismo inteso come sistema capace di creare e distribuire
valore. Innanzitutto, una società di simulacri de-umanizzati, o automi,
assomiglierebbe ad un orologio meccanico pieno di ingranaggi e molle,
ognuno con la sua propria funzione, e che nel complesso producono un
“bene”: la misurazione del tempo. Ma se questa società contenesse
nient’altro che automi, la misurazione del tempo non sarebbe un “bene”.
Sarebbe un “prodotto”, certamente, ma perché mai un “bene”? Senza esseri
umani reali a sperimentare il funzionamento dell’orologio, non
potrebbero esserci cose come “beni” o “mali”. Una “società” di automi
sarebbe, così come gli orologi meccanici o dei circuiti integrati, piena
di ingranaggi funzionanti, dimostrando una funzione, una funzione che
però non potrebbe venire descritta né in termini morali, né di valore.
Dunque, per ricapitolare, se il capitale dovesse mai riuscire nel
quantificare, e dunque nel mercificare completamente, il lavoro, così
come prova a fare in ogni momento, lo prosciugherebbe anche di
quell’indeterministica, recalcitrante libertà umana che permette la
generazione del lavoro. La brillante rivelazione di Marx riguardo
l’essenza più profonda delle crisi capitaliste era precisamente questa:
maggiore sarà il successo del capitalismo nel convertire il lavoro in
una merce, minore sarà il valore che ogni unità genererà, minore il
profitto e, infine, più vicina la prossima odiosa recessione sistemica
dell’economia. Il ritratto della libertà umana intesa come categoria
economica è un aspetto unico del pensiero di Marx, rendendo possibile
una peculiare e astute interpretazione drammatica e analitica della
propensione del capitalismo a piombare nella recessione, persino nella
depressione, a partire dalle fasi più sfrenate di crescita.
Quando Marx scriveva che il lavoro era il fuoco vivente che dava
forma alle cose, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava
fornendo il più grande contributo che ogni economista abbia mai dato
alla nostra comprensione della profonda contraddizione sepolta dentro il
DNA del capitalismo. Quando ritraeva il capitale come “
una forza
cui dobbiamo sottometterci…che sviluppa un’energia cosmopolita,
universale, che oltrepassa ogni limite e rompe ogni legame, e si pone
come unica regola, unica universalità, solo limite e solo legame”[2],
stava evidenziando la realtà per cui il lavoro può essere comprato
tramite capitale liquido (denaro), nella sua forma di merce, ma porta
sempre dentro di sé un desiderio ostile al capitalista compratore. Ma
Marx non stava solamente facendo un’affermazione psicologica, filosofica
o politica. Stava, piuttosto, fornendo una ragguardevole analisi del
perché nel momento in cui il lavoro (inteso come attività non
quantificabile) si spoglia di tale ostilità, diviene sterile, incapace
di produrre valore.
In un momento in cui i neoliberisti hanno invischiato la maggior
parte delle persone nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando
incessantemente l’ideologia del miglioramento della produttività del
lavoro allo scopo di aumentare la competitività e creare così “crescita”
e così via, le analisi di Marx offrono un potente antidoto. Il capitale
non potrà mai vincere nella sua lotta per trasformare il lavoro in una
risorsa infinitamente elastica e meccanizzata senza distruggere sé
stesso. Questo è ciò che né i neoliberisti né i keynesiani
comprenderanno mai!
“Se l’intera classe dei salariati venisse annichilita dai macchinari” scriveva Marx,
“quanto terribile sarebbe ciò per il capitale che, senza lavoro salariato, cesserebbe di essere quello che è”[3]. Quanto
più il capitale si avvicina alla sua vittoria finale sul lavoro, tanto
più la nostra società si fa somigliante a quella di un altro film di
fantascienza. Un film che era stato presagito proprio da Karl Marx:
Matrix.
Ciò che è unico in
Matrix è che, in esso, la ribellione dei nostri manufatti non è un semplice caso di uccisione del padre creatore. A differenza della
Cosa di
Frankestein, che aggredisce irrazionalmente gli esseri umani a causa
della sua assoluta angoscia esistenziale, o delle macchine della serie
di
Terminator, che vogliono solamente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in
Matrixl’emergente
impero delle macchine vuole conservare l’esistenza umana per i propri
fini: mantenerci in vita in quanto risorsa primaria. L’
Homo sapiens, nonostante
abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza
precedenti nell’infliggere orrori indicibili ai nostri consanguinei,
non avrebbe mai potuto neppure immaginare il ruolo spregevole che le
macchine ci assegnano in
Matrix: bloccati in apparecchiature
che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci
sottopongono ad alimentazione forzata con una miscela di sostanze
nutrienti nauseabonde volte a intensificare la produzione di calore.
Ad ogni modo, ben presto le macchine scoprono che gli umani non
durano a lungo una volta che il loro spirito è spezzato e la loro
libertà infranta. Il nostro curioso bisogno di libertà minaccia
l’efficacia dei loro impianti a energia umana. Così, le macchine ci
imprigionano in quella che Marx avrebbe chiamato “falsa coscienza”. Non
instillano nei nostri corpi solamente sostanze nutrienti, ma anche le
illusioni che il nostro spirito brama. Ingegnosamente, attaccano degli
elettrodi ai nostri crani con i quali percepiscono, direttamente nel
nostro cervello, la vita virtuale, ma profondamente realistica che, come
umani, vorremmo vivere. Mentre i nostri corpi sono brutalmente
attaccati ai loro generatori di potenza, alimentandoli con l’elettricità
scaturita dal calore dei nostri corpi, il software delle macchine noto
come
Matrix riempie le nostre menti con visioni di una vita
immaginaria, illusoria, ma verosimile e “normale”. In questo modo i
nostri corpi, ignari della realtà, possono vivere per decenni, tutto a
vantaggio delle macchine che possono così generare l’energia bastante
per sostenere la loro nuova civiltà. L’oblio dell’umanità costituisce
così un fattore cruciale per la produzione dell’economia di
Matrix.
“Le macchine hanno acquisito il dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti”[4],
così Marx descriveva l’ascesa delle macchine, un incrocio fra un’antica
tragedia greca e una shakespeariana che si svolgeva sullo sfondo di una
rivoluzione industriale in cui i pochi possedevano le macchine e i
molti le facevano lavorare. Il punto centrale di Marx era che,
nell’universo del capitale, siamo già trans-umani.
Matrix non è
futurologia. È parte della nostra realtà già da un pezzo! È il miglior
documentario possibile sulla nostra era o, per essere precisi, sulla
tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle
caratteristiche che gli impediscono di diventare pienamente flessibile,
perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il
suo ruolo è stato quello di fornirci l’opzione della pillola rossa
[5];
una possibilità per guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni
dell’ideologia borghese, la squallida realtà di un sistema che produce
crisi e deprivazione ogni giorno, intenzionalmente e non certo per caso.
Leggete qualsiasi manuale di
management, qualsiasi articolo
in qualsiasi rivista accademica di economia, qualsiasi documento
prodotto dall’Unione Europea sull’istruzione, sulla scuola,
sull’università, i programmi di innalzamento della produttività, sulla
competitività eccetera. Capirete immediatamente che stiamo già vivendo
nella nostra versione di
Matrix. Gli inesorabili sforzi del
capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infestato tutti
questi documenti, che sponsorizzano una società in cui le persone
aspirino a divenire automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica
è la trasformazione del lavoro umano in una versione di energia termica
che permetta alle macchine maggiori margini di funzionamento e la
costruzione di altre macchine che, tragicamente, mancheranno di ogni
capacità di generare…valore.
In questo senso, la nostra
Matrix può essere solo
provvisoria poiché più si avvicina alla perfetta versione del film più
probabile è lo scatenamento di una crisi di dimensioni catastrofiche, e,
con il precipitare dei valori economici, il sopraggiungere di una
Grande Recessione, e il ruolo delle macchine è rovesciato quando gli
investimenti in esse divengono negativi. Da questa prospettiva marxiana,
tornando nuovamente al film, il gruppo di uomini liberati nel cuore
della società delle macchine (che guidano la risorgenza degli esseri
umani) simbolizza la resistenza umana al diventare capitale umano;
l’irriducibile ostilità intrinseca nei confronti della quantificazione
che rimane insita nei cuori e nelle menti persino di coloro che spendono
tutte le loro energie nel cercare di mercificarsi per conto dei propri
datori di lavoro. L’ironia deliziosa in tutto ciò è che proprio
quest’ostilità che il capitale tenta di sradicare nel lavoro è proprio
ciò che rende il lavoro capace di produrre valore e permette al capitale
di accumularsi.
- 4. Cos’ha fatto Marx per noi?
In un’occasione Paul Samuelson denigrò Marx chiamandolo un seguace
minore di Ricardo. Quasi ogni scuola di pensiero, compresi alcuni
economisti progressisti, vorrebbe far finta che, nonostante Marx sia
stato una figura carismatica, molto poco, se non niente del tutto, dei
sui contributi rimanga rilevante al giorno d’oggi. Mi sia consentito di
dissentire.
Oltre all’aver individuato il dramma fondamentale della dinamica
capitalista (vedere la precedente sezione), Marx mi ha fornito gli
strumenti con cui divenire immune dalla propaganda tossica dei nemici
neoliberisti della vera libertà e razionalità. Ad esempio, l’idea che la
ricchezza sia prodotta privatamente e quindi fatta oggetto di
appropriazione da parte di uno stato quasi illegittimo attraverso la
tassazione è un’idea cui è facile soccombere se non si è fatti i conti
con l’acuta osservazione di Marx per cui è vero esattamente il
contrario: la ricchezza è prodotta collettivamente e quindi fatta
oggetto di appropriazione privata attraverso le relazioni sociali di
produzione e i diritti di proprietà che si basano, per la loro
riproduzione, quasi esclusivamente sulla falsa coscienza. Vale lo stesso
per il concetto di “autonomia” che suona così bene nel nostro mondo
“postmoderno”. Anch’essa è prodotta collettivamente, attraverso la
dialettica del mutuo riconoscimento, e quindi fatta oggetto di
privatizzazione. Se solo Marx fosse stato preso sul serio (dai marxisti
prima ancora che dai suoi detrattori, deve essere detto), molta
dell’aria fritta prodottasi nella storia degli annali degli studi
culturali sarebbe stata evitata.
Phil Mirowski ha recentemente
[6] sottolineato,
in maniera piuttosto convincente, il successo dei neoliberisti nel
convincere vasti strati di persone che il mercato non sia solamente un
mezzo utile, ma anche un inalienabile fine in sé. Che mentre l’azione
collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai capaci di fare la
cosa giusta, le operazioni senza restrizioni dell’interesse privato
decentralizzato generano una sorta di laica provvidenza divina che
garantisce la produzione non solo dei risultati voluti, ma anche dei
desideri, dell’indole, dell’etica voluta perfino. Il miglior esempio
della grossolanità neoliberista è ovviamente, il dibattito sul
cambiamento climatico e su cosa fare per fermarlo. I neoliberisti si
sono affrettati ad argomentare che, se proprio si deve fare qualcosa, è
necessario che questo qualcosa prenda la forma di una sorta di mercato
degli “scarti” (come, ad esempio, un mercato di scambio delle emissioni)
poiché solamente i mercati sanno come valutare appropriatamente i beni e
gli scarti. Per capire sia perché una tale soluzione sia destinata a
fallire sia, cosa più importante, da dove giunge la motivazione di certe
soluzioni, è sufficiente acquisire un minimo di familiarità con la
logica di accumulazione del capitale sottolineata da Marx e che Michal
Kalecki ha adattato ad un mondo governato da oligopoli connessi tra
loro.
Nel XX secolo i due movimenti politici che affondavano le loro radici
nel pensiero di Marx erano i partiti comunisti e quelli
socialdemocratici. Entrambi, in aggiunta ai loro altri errori (e persino
crimini) fallirono, a loro danno, nel seguire la guida di Marx su una
questione cruciale: invece di imbracciare libertà e razionalità come
loro parole d’ordine e concetti organizzativi, optarono per uguaglianza e
giustizia, lasciando la libertà al campo dei neoliberisti. Marx era
irremovibile: il problema del capitalismo non è la sua ingiustizia, ma
la sua irrazionalità, perché condanna intere generazioni alla miseria e
alla disoccupazione e trasforma persino i capitalisti stessi in automi
oppressi dall’angoscia, resi schiavi dalle macchine che nominalmente
possiedono, costretti a vivere nella perenne paura di cessare di essere
capitalisti, a meno di non riuscire a mercificare completamente gli
altri umani in modo da sottoporli più efficientemente al servizio
dell’accumulazione di capitale.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è solo perché schiavizza tutti alla maniera di
Matrix, siano
essi lavoratori o capitalisti; sperpera risorse naturali ed umane;
produce in seria infelicità, schiavitù e crisi dalla stessa catena
produttiva che genera notevoli innovazioni e benessere mai visto prima.
Avendo fallito nell’accennare ad una critica del capitalismo in termini
di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva fondamentale, la
socialdemocrazia e la sinistra in generale ha permesso ai neoliberisti
di usurpare il testimone della libertà e di ottenere un trionfo decisivo
sul campo culturale e ideologico
[7].
Rimanendo sulla questione del trionfo neoliberista, forse la sua
dimensione più significativa è quella del cosiddetto “deficit
democratico”. Fiumi di lacrime di coccodrillo sono stati versati sul
declino delle nostre grandi democrazia negli scorsi tre decenni di
finanziarizzazione e globalizzazione. Marx avrebbe deriso fragorosamente
e a lungo coloro che sembrano sorpresi, o turbati, dal “deficit
democratico”. Quale era il grande obiettivo del liberalismo del XIX
secolo? Era, così come Marx non si stancò mai di far notare, la
separazione della sfera economica da quella politica e il confino della
politica nella seconda, lasciando la sfera economica al capitale. Ciò
che stiamo osservando oggi non è altro che lo splendido successo del
liberalismo nell’ottenere quest’obiettivo a lungo perseguito. Date
un’occhiata al Sudafrica odierno, più di vent’anni dopo che Mandela è
stato liberato e che la sfera politica ha abbracciato, finalmente,
l’intera popolazione. La difficile situazione dell’ANC è stata quella
per cui per poter dominare la sfera politica doveva accettare
l’impotenza su quella economica. E se la pensate in un’altra maniera, vi
suggerisco di parlare con le decine di minatori uccisi a colpi di
fucile dalle guardie armate pagate dai loro padroni dopo che avevano
osato chiedere un aumento di paga.
- 5. Perché eretico? I due errori imperdonabili di Marx
Avendo spiegato perché devo ogni comprensione del nostro mondo
sociale che io possa avere principalmente a Karl Marx, voglio ora
spiegare perché sono terribilmente arrabbiato con lui. In altre parole,
vorrei sottolineare come mai sono per scelta un marxista eretico,
dissenziente. Questi errori sono importanti in questo contesto perché
ostacolano l’efficacia della sinistra nell’organizzarsi contro la
misantropia, in particolar modo in Europa.
Il primo errore di Marx, che suggerisco sia dovuto a un’omissione, è
il fatto che egli sia stato insufficientemente dialettico,
insufficientemente riflessivo. Ha fallito nel dedicare una riflessione
sufficiente, e nel mantenere un silenzio giudizioso, sull’impatto delle
sue stesse teorie sul mondo riguardo al quale stava teorizzando. La sua
teoria è narrativamente eccezionalmente potente, e Marx era consapevole
di questo potere. Come mai non si preoccupò del fatto che i suoi
discepoli, persone con una capacità di comprensione di queste potenti
idee migliori di quella del lavoratore medio, potessero utilizzare il
potere dato loro per abusare dei propri compagni, per costruire la loro
personale base di potere, per guadagnare posizioni di influenza, per
approfittare di studenti impressionabili eccetera?
Per fornire un secondo esempio, sappiamo che il successo della
Rivoluzione Russa costrinse il capitalismo, a tempo debito, a compiere
una ritirata strategica e a concedere piani previdenziali, servizi
sanitari nazionali, e persino l’idea di costringere i ricchi a pagare
affinché masse di poveri studenti potessero studiare in scuole e
università costruite per gli scopi dei liberali. Allo stesso tempo,
abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione
Sovietica, rivelatasi in un primo tempo con una serie di invasioni,
diffuse la paranoia tra i socialisti e creò un clima di paura che si
rivelò particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot.
Marx non vide mai il realizzarsi di questo processo dialettico.
Semplicemente non considerò la possibilità che la creazione di uno stato
dei lavoratori avrebbe indotto il capitalismo a divenire più
civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infetto dal
virus del totalitarismo e l’ostilità del resto del mondo (capitalista)
verso di esso sarebbe cresciuta sempre più.
Il secondo errore di Marx, quello che considero di commissione, è
peggiore. È stata la sua supposizione che la verità sul capitalismo
avrebbe potuto essere scoperta nella matematica dei suoi modelli (i
cosiddetti ‘schemi di riproduzione’). Questo è stato il peggior servizio
che Marx avrebbe mai potuto fornire al suo stesso sistema teoretico.
L’uomo che ci ha insegnato a considerare la libertà umana un concetto
economico fondamentale, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione
radicale al posto che le spettava all’interno dell’economia politica, è
stato lo stessa persona che ha finito con il dilettarsi con
semplicistici modelli algebrici, nei quali le unità del lavoro erano,
ovviamente, interamente quantificate, sperando contro ogni previsione di
evincere da queste equazioni altre intuizioni sul capitalismo. Dopo la
sua morte, gli economisti marxisti hanno sprecato intere carriere
indulgendo in simili tipi di meccanismi scolastici, facendo la fine di
quello che Nietzsche una volta descrisse come “pezzi di meccanismo mal
funzionanti”. Immersi completamente in dibattiti irrilevanti sul
problema della trasformazione e sul cosa fare in proposito, sono
diventati alla fine una specie pressoché estinta, mentre la devastante
furia neoliberista distruggeva ogni dissenso sul suo sentiero.
Come ha potuto Marx illudersi così? Perché non ha capito che nessuna
verità sul capitalismo può venir fuori da qualsivoglia modello
matematico per quanto brillante possa essere il modellista? Non aveva
forse gli strumenti intellettuali necessari a comprendere che la
dinamica capitalista viene fuori da quella parte non quantificabile del
lavoro umano, ovvero da una variabile che non può mai venire definita
matematicamente? Ovviamente li aveva, poiché li aveva forgiati lui
stesso! No, la ragione del suo errore è un po’ più sinistra: proprio
come gli economisti volgari che aveva così brillantemente ammonito (e
che continuano a dominare i dipartimenti di Economia oggigiorno), egli
bramava il potere che la prova matematica poteva dargli.
Se ho ragione, Marx sapeva quel che stava facendo. Capiva, o aveva la
capacità di capire, che una teoria comprensiva del valore non poteva
essere contenuta in un modello matematico della crescita, di un’economia
capitalista dinamica. Era, non ho dubbi in proposito, consapevole del
fatto che una corretta teoria economica doveva rispettare il detto di
Hegel per cui “le regole su ciò che è indeterminato sono esse stesse
indeterminate”. In termini economici questo significa riconoscere che il
potere del mercato, e quindi la capacità di ottenere profitto, dei
capitalisti non è necessariamente riducibile alla loro capacità di
estrarre lavoro dai loro salariati; che alcuni capitalisti possono
estrarre di più da un bacino dato di manodopera o da una data comunità
di consumatori per ragioni che sono esterne alla teoria economica.
Ma, ahimè, questo riconoscimento sarebbe equivalso all’ammettere che
le sue ‘leggi’ non erano immutabili. Avrebbe dovuto riconoscere nei
confronti delle voci a lui avverse nel movimento sindacale che la sua
teoria era indeterminata e, quindi, che le sue affermazioni non potevano
essere in maniera ultimativa e non ambigua corrette, ma piuttosto
perennemente provvisorie. Ma Marx provava un irrefrenabile impulso a
domare persone come Citizen Weston
[8] che
osava preoccuparsi del fatto che un innalzamento dei salari (acquisito
attraverso azioni di sciopero) avrebbe potuto rivelarsi una vittoria di
Pirro se i capitalisti avessero di conseguenza alzato i prezzi. Invece
di limitarsi a argomentare contro persone come Weston, Marx era
determinato a provare con precisione matematica che esse avessero torto e
che fossero non scientifiche, volgari, non degne di una serie
attenzione.
Questi erano i tempi in cui Marx aveva capito, e confessato, di aver
sbagliato sul versante del determinismo. Una volta passato alla stesura
del terzo volume del
Capitale aveva capito che, persino una
minima variazione (ad esempio l’ammettere differenti gradi di intensità
del capitale in differenti settori) avrebbe confutato la sua
argomentazione contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio
monopolio sulla verità che passò sopra la questione, in maniera
stupefacente ma troppo brusca, imponendo per legge l’assioma che
avrebbe, alla fine, difeso la sua dimostrazione originale; quello che
avrebbe inferto il colpo fatale a Citizen Weston. Strani sono i rituali
della fatuità e tristi sono quando portati avanti da menti eccezionali,
quali Karl Marx e un numero considerevole di suoi discepoli del XX
secolo.
Quest’ossessione nell’ottenere un modello “completo”, “concluso”, la
“parola finale”, è una cosa che non posso perdonare a Marx. Si rivelò,
alla fine, responsabile di una gran quantità di errori e, ancora di più,
di autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente
responsabili dell’odierna impotenza della sinistra intesa come forza del
bene e di controllo sugli abusi dei concetti di ragione e libertà
perpetrati oggi dalla ciurmaglia neoliberista.
- 6. L’idea radicale del signor Keynes
Keynes era un nemico della sinistra. Amava il sistema di classe che
l’aveva generato, non voleva avere nulla a che fare (personalmente) con
la marmaglia delle classi inferiori, e lavorava duramente e
diligentemente allo scopo di produrre idee che avrebbero permesso al
capitalismo di sopravvivere contro la sua stessa propensione verso
potenziali pulsioni di morte. Spirito libero, aperto di mente, pensatore
liberale e borghese, Keynes aveva il raro dono di non tirarsi indietro
da sfide ai suoi stessi presupposti. Nel bel mezzo della Grande
Depressione, fu abbastanza felice di liberarsi dalla tradizione di
Marshall che costituiva la sua eredità. Notando che più la
disoccupazione cresceva più bassi divenivano i salari, e che gli
investimenti rifiutavano di aumentare persino dopo un lungo periodo di
tassi zero di interesse, fu pronto a strappare il “libro di testo” e a
riconsiderare i destini del capitalismo.
La sua revisione radicale doveva iniziare da qualche parte. Iniziò
quando Keynes ruppe i ranghi dei suoi colleghi facendo l’impensabile:
riprendendo il dibattito tra David Ricardo e Thomas Malthus e prendendo
le parti dell’ecclesiastico. In maniera tutt’altro che ambigua, durante
la Grande Depressione, scrisse:
“Se solo Malthus, piuttosto che
Ricardo, fosse stato il capostipite di tutti gli economisti del XIX
secolo, che posto più saggio e più ricco sarebbe il mondo oggi!”[9] Con
quest’affermazione provocatoria, Keynes non stava adottando né la
posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici né le sue
visioni teologiche sul potere redentore della sofferenza
[10]. Piuttosto, Keynes abbracciava lo scetticismo di Malthus per quanto riguardava a) l’opportunità di ricercare una
teoria del valore che fosse compatibile con la
complessità e la
dinamicità del
capitalismo e b) la convinzione di Ricardo, che più tardi condivise
anche Marx, che una persistente depressione sia incompatibile con il
capitalismo.
Perché Keynes non converse in direzione della posizione di Marx, che
dopotutto era stato il primo economista politico a spiegare le crisi
come costitutive del processo capitalistico? Perché la Grande
Depressione non era come le altre crisi del tipo che Marx aveva
descritto così bene. Nel primo volume del
Capitale Marx racconta
la storia di cicliche recessioni redentrici dovute alla doppia natura
del lavoro e che generano periodi di crescita che contengono in sé
l’ennesimo crollo che, a sua volta, causa la successiva ripresa, e così
via. Ma non c’era nulla di redentore nella Grande Depressione. La crisi
degli anni Trenta era semplicemente questo: una crisi che si comportava
come un equilibrio statico – uno stato economico che sembrava
perfettamente capace di perpetuarsi, con la ripresa anticipata che
rifiutava testardamente di apparire all’orizzonte persino dopo che i
tassi di profitto risalirono in risposta al collasso dei salari e dei
tassi d’interesse.
Il cuore della scoperta di Keynes sul capitalismo era duplice: A) era
un sistema intrinsecamente indeterminato, che presentava quella che gli
economisti di oggi chiamerebbero un’infinità di equilibri multipli,
alcuni dei quali erano coerenti con la disoccupazione endemica di massa,
e B) sarebbe potuto precipitare in uno di questi terribili equilibri in
un batter d’occhio, in maniera imprevedibile senza ragione alcuna,
solamente a causa del timore di una porzione significativa di
capitalisti per un tale evento.
Per dirla semplicemente, ciò significa che, riguardo alla predizione
delle depressioni e del loro superamento da parte delle forze del
mercato, “che ci venga un colpo se ne possiamo sapere qualcosa!”.
Significa che non abbiamo nessun modo per sapere ciò che il capitalismo
farà l’indomani persino quando, nel presente, sembra rinforzarsi sempre
più. Che potrebbe benissimo precipitare all’improvviso e rifiutarsi di
alzarsi nuovamente. La nozione degli “spiriti animali” di Keynes
rappresentò un’idea estremamente radicale, in grado di catturare la
radicale indeterminazione del cuore del meccanismo capitalista. Un’idea
introdotta per la prima volta da Marx, con le sue analisi sulla natura
dialettica del lavoro, ma che, nel processo di scrittura del
Capitale, abbandonò in modo da stabilire i suoi teoremi come prove matematiche e indiscutibili. Di tutti i passaggi della
Teoria Generale di
Keynes questa idea, quella della capricciosità autodistruttiva del
capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per
radicalizzare nuovamente il marxismo.
- 7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Mi trasferii in Inghilterra per frequentare l’università nel
settembre 1978, più o meno sei mesi prima della vittoria della signora
Thatcher che cambiò per sempre il Regno Unito. La visione della
disintegrazione del governo laburista, sepolto sotto il peso del suo
programma socialdemocratico degenerato, mi condusse a un errore fatale:
il pensare che forse la vittoria della signora Thatcher sarebbe stata
una buona cosa, perché avrebbe apportato alla classe media e alla classe
operaia britannica il breve e violento shock necessario a rinvigorire
le politiche progressiste, dando alla sinistra una chance di ripensare
le proprie posizioni e di creare un’agenda nuova, radicale, per un nuovo
genere di efficaci politiche progressiste.
Persino quando la disoccupazione raddoppiò e quindi triplicò, sotto
l’effetto dei radicali interventi neoliberisti della signora Thatcher,
continuai a nutrire la speranza che Lenin avesse ragione: “le cose
devono peggiorare perché possano migliorare”. Mentre l’esistenza si
faceva più dura, e, per molti, più breve, realizzai di essere
tragicamente in errore: le cose potevano peggiorare in perpetuo, senza
migliorare mai. La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la
diminuzione degli standard di vita della maggioranza, la diffusione
della povertà in ogni angolo del paese potessero condurre,
automaticamente, ad una rinascita della sinistra era appunto solo
questo: speranza!
La realtà si stava rivelando, invece, tragicamente differente. A ogni
giro di vite della recessione, la sinistra si ripiegava sempre più su
se stessa, meno capace di produrre una convincente agenda progressista
e, nel frattempo, la classe operaia si divideva fra coloro che venivano
emarginati dalla società e coloro che venivano cooptati del nuovo
assetto neoliberista. Il concetto per cui un peggioramento delle
condizioni oggettive avrebbe in qualche modo dato vita a condizioni
soggettive tali per cui da esse sarebbe sorta una nuova rivoluzione
politica era assolutamente fasullo. Tutto ciò che venne fuori dal
thatcherismo furono trafficoni, finanziarizzazione estrema, il trionfo
dei supermercati sui negozi di quartiere, la feticizzazione della casa
e… Tony Blair.
Invece di radicalizzare la società britannica, la recessione così
attentamente pianificata dal governo della signora Thatcher, come parte
della sua guerra di classe contro il lavoro organizzato e contro le
pubbliche istituzioni di sicurezza sociale e redistribuzione che erano
state fondate subito dopo la guerra, distrusse permanentemente la
possibilità stessa di politiche radicali e progressiste nel Regno Unito.
Infatti, rese inconcepibile la stessa nozione di valori che
trascendessero ciò che il mercato determinava come “giusto” prezzo.
L’amara lezione che mi impartì la signora Thatcher sulla capacità di
una recessione di lungo termine di minare le politiche progressiste e di
instillare la misantropia nelle fibre della società, è una lezione che
porto con me nel mezzo dell’odierna crisi europea. È, infatti, ciò che
determina più di ogni altra cosa la mia posizione in relazione alla
crisi dell’Euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero in
maniera quasi esclusiva in questi ultimi anni. Ed è la ragione per cui
sono felice di confessare il peccato che mi viene attribuito dai critici
radicali della mia posizione “menscevica” sull’Eurozona: il peccato di
scegliere di non proporre programmi politici radicali al fine di
sfruttare la crisi dell’Euro come un’opportunità per rovesciare il
capitalismo europeo, di smantellare l’odiosa Eurozona e di colpire al
cuore l’Unione Europea dei cartelli economici e dei banchieri corrotti.
Si, mi farebbe piacere porre una tale agenda radicale come
prioritaria. Ma, no, non sono pronto a commettere lo stesso errore due
volte. Che vantaggi abbiamo ottenuto nel Regno Unito nei primi anni
Ottanta nel promuovere un programma di cambiamento socialista che la
società britannica disprezzava mentre cadeva a capofitto nella trappola
neoliberista della signora Thatcher? Nessuno. Che bene ne deriverebbe
oggi dal predicare lo smantellamento dell’Eurozona, dell’Unione Europea
stessa, quando il capitalismo europeo sta facendo tutto il possibile per
smantellare l’Eurozona, l’Unione Europea, se stesso persino?
Un’uscita greca, portoghese o italiana dall’Eurozona si
trasformerebbe ben presto in una frammentazione del capitalismo europeo,
producendo una regione in forte recessione a est del Reno e a nord
delle Alpi, mentre il resto dell’Europa giacerebbe in una palude senza
scampo di stagnazione economica e inflazione. Chi pensate trarrebbe
profitto da questa situazione? Una sinistra progressista, risorgente
dalle ceneri delle pubbliche istituzioni europee come una fenice? O i
nazisti di Alba Dorata, i neofascisti vari, gli xenofobi e i maneggioni?
Non ho assolutamente dubbi in proposito. Non sono pronto a spingere per
la realizzazione di questa versione postmoderna degli anni Trenta. Se
questo significa che è compito nostro, dei marxisti eretici, salvare il
capitalismo europeo da se stesso, così sia. Non per amore o
apprezzamento del capitalismo europeo, dell’Eurozona, di Bruxelles o
della Banca Centrale Europea, ma solo perché vogliamo minimizzare i
superflui tributi umani a questa crisi; le innumerevoli vite le cui
prospettive sarebbero ulteriormente distrutte senza un qualsiasi
beneficio per le future generazioni in Europa.
- 8. Conclusione: quale è il compito dei marxisti?
Le élite europee si stanno comportando oggi come una sventurata
compagnia di leader incompetenti che non capisce nulla né della natura
della crisi cui sta presiedendo né delle sue implicazioni per il loro
stesso destino – per non parlare di quello del futuro della civiltà
europea. Spinti dai loro istinti atavici, i leader europei stanno
scegliendo di saccheggiare le ricchezze in diminuzione dei poveri e
degli sfruttati allo scopo di turare le voragini provocate dai loro
banchieri falliti, rifiutando di accettare l’impossibilità del
tentativo. Dopo aver creato un’unione monetaria che A) ha rimosso dalla
macroeconomia europea tutti i possibili strumenti in grado di attutire
gli shock e B) ha assicurato che, all’arrivo dello shock, questo sarebbe
diventato di enormi proporzioni, si stanno prodigando nel negare la
realtà, sperando, irrazionalmente, in qualche miracolo provocato dagli
dei dopo il sacrificio di un numero sufficiente di vite umane
sull’altare dell’austerità e della competizione.
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene,
Dublino, Lisbona, Madrid; a ogni pronunciamento della Banca Centrale
Europea o della Commissione Europea sulla prossima fase dell’
austerity che
dovrà essere messa in pratica da Parigi o da Roma, tornano in mente le
parole di Bertolt Brecht: “la forza bruta è passata di moda. Perché
mandare sicari prezzolati quando gli ufficiali giudiziari possono fare
lo stesso lavoro?”. Il punto è: come resistergli?
Sempre consapevole della colpa collettiva della sinistra per il
feudalesimo industriale cui abbiamo condannato per decenni milioni di
persone in nome di…politiche progressiste, vorrei nonostante questo
formulare un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea.
Nonostante le loro grandi differenze, esse hanno una cosa in comune:
l’uniforme linea di partito che scorre senza soluzione di continuità dal
vertice (il Politburo o la Commissione) alla base (ogni giovane
ministro di ogni Stato membro, o ogni commissario di infima importanza,
che ripete a pappagallo le stesse futilità). Sia l’apparato dell’Unione
Sovietica che quello dell’Unione Europea condividono una determinazione
da setta religiosa ad accettare i fatti solamente se concordi con le
profezie e i loro testi sacri. Il signor Olli Rehn, ad esempio, che è il
membro della Commissione Europea responsabile delle questioni
economiche e finanziarie, recentemente ha avuto l’audacia di accusare il
Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato alcuni errori nel
calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’Eurozona perché una tale
rivelazione
“minava la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni”. Neppure Leonid Breznev avrebbe osato fare pubblicamente una tale dichiarazione!
Con le élite europee allo sbando, volte a negare la realtà con le
teste sotto la sabbia come gli struzzi, la sinistra deve ammettere che,
semplicemente, non siamo pronti a colmare il baratro che un capitalismo
europeo al collasso aprirà con un sistema socialista funzionante, capace
di creare benessere condiviso per le masse. Il nostro obiettivo deve
quindi essere duplice: portare avanti un’analisi del corrente stato
delle cose che i non-marxisti, ossia gli europei sedotti in buona fede
dalle sirene del neoliberismo, possano trovare condivisibile. E dar
seguito a questa solida analisi con proposte per stabilizzare l’Europa –
per porre fine alla spirale recessiva che, alla fine, rinforzerà
solamente gli intolleranti e incuberà le uova dei serpenti.
Ironicamente, noi che aborriamo l’Eurozona abbiamo l’obbligo morale di
salvarla!
Questo è quello che abbiamo cercato di fare con la nostra
Modesta proposta[11]. Indirizzandoci
a platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei
fondi speculativi, l’idea è quella di creare alleanze strategiche
persino con persone di destra con le quali condividiamo un semplice
interesse: un interesse nel porre fine al circolo vizioso tra austerità e
crisi, tra stati in bancarotta e banche in bancarotta; un circolo
vizioso che danneggia tanto il capitalismo quanto ogni programma
progressista in grado di rimpiazzarlo. Questa è la ragione per cui
difendo i miei tentativi per arruolare alla causa della
Modesta proposta gente come i giornalisti di Bloomberg e del
New York Times, membri conservatori del Parlamento inglese, finanzieri che sono preoccupati dalla tragica situazione dell’Europa.
Il lettore mi concederà di concludere con due confessioni finali.
Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale lo scopo del
programma per stabilizzare il sistema che propongo, non pretendo
comunque di esserne entusiasta. Questo è quel che dobbiamo fare, spinti
dalle circostanze odierne, ma mi dispiace dover dire che probabilmente
non farò in tempo a vedere adottato un programma più radicale. Infine,
una confessione di natura più strettamente personale: io
so di
correre il rischio di alleviare, surrettiziamente, la tristezza
dell’abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo nel corso
della mia esistenza indulgendo nel sentimento di essere diventato
“gradevole” agli occhi degli appartenenti ai circoli della “buona
società”. Il senso di soddisfazione personale nell’essere onorato dai
ricchi e dai potenti ha iniziato, di tanto in tanto, a farsi strada in
me. Ed è una sensazione assolutamente brutta, non radicale, che sa quasi
di corruzione.
Il mio nadir personale è arrivato in un aeroporto. Un gruppo danaroso
mi aveva invitato a tenere un discorso di apertura sulla crisi europea e
aveva sborsato la considerevole somma necessaria a comprarmi un
biglietto aereo in prima classe. Sulla strada del ritorno verso casa,
stanco e reduce già da diversi voli, mi stavo facendo strada attraverso
la lunga fila di passeggeri della classe economica per raggiungere il
mio
gated’imbarco. Improvvisamente realizzai, con notevole
orrore, quanto facile fosse per la mia mente venire infettata da questa
sensazione di essere “autorizzato” a sorpassare la massa. Capii quanto
facile fosse per me dimenticare quel che il mio pensiero di sinistra
aveva sempre saputo: che nulla riesce a riprodursi meglio di un falso
senso di potere. Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come
penso dovremmo fare per stabilizzare l’Europa odierna, si corre il
rischio di venire cooptati, di gettare alle ortiche il nostro
radicalismo in cambio della piacevole sensazione di essere “arrivati”
nei corridoi del potere.
Confessioni radicali, come quella che ho appena tentato di fare, sono
forse l’unico antidoto programmatico agli scivoloni ideologici che
minacciano di trasformarci in ingranaggi del sistema. Se dobbiamo
stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale, con i
neoliberisti che, nonostante questo, sono contrari a quella che chiamano
la dittatura delle banche fallite, eccetera), dobbiamo evitare di
diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare il mondo ma
riuscirono a migliorare la loro situazione personale. Il trucco è
evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i
neoliberisti a aggirare qualsiasi opposizione alla loro cattiveria
autodistruttiva ma allo stesso tempo mantenere la nostra visione del
capitalismo come intrinsecamente malvagio mentre cerchiamo di salvarlo,
per motivi strategici, da se stesso. Confessioni radicali possono essere
utili nel mantenere questo difficile equilibrio. Dopotutto, il marxismo
umanista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
[1] Come esempio delle ricerche che sono venute fuori, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[2] Vedere Karl Marx (1844, 1969),
Manoscritti economico-filosofici.
[3] Marx in
“Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sulla
Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849
[diffuso
come conferenza nel 1847]. Rivisto con un’introduzione di Friedrich
Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York,
Labor New Company, 1902.
[4] Vedere Karl Marx (1844, 1969),
Manoscritti economico-filosofici.
[5] Verso l’inizio di
Matrix, un
guerrigliero urbano che aveva appena aiutato Thomas Anderson, detto
Neo, a fuggire da alcuni agenti in borghese, gli offre una scelta
cruciale fra due pillole. Se prenderà la pillola blu, tornerà a letto e
si sveglierà al mattino pensando che l’intera vicenda sia stata un
incubo prima di tornare alla sua vita “normale”. Se invece opterà per la
pillola rossa, apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In
un trionfo dell’incauta curiosità sulla tentazione del semplice piacere,
Neo rigetta la prospettiva di beata ignoranza offerta dalla pillola
blu, optando invece per la crudele realtà promessa dalla rossa.
[6] Vedere Mirowski (2013).
[7] Per approfondire quest’argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998).
[8] Vedere Karl Marx,
Salario, prezzo e profitto, in cui Marx stesso racconta il suo dibattito con Citizen Weston.
[9] Vedere il suo saggio su Malthus,
“Robert Malthus: il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in John Maynard Keynes (1972).
The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London, Macmillan. La citazione appare alle pagine 100-101. Pubblicato originariamente in
Essays in Biography, 1933.
[10] Malthus
deve la sua fama alla previsione per la quale la crescita della
popolazione sarebbe avvenuta più velocemente di quella delle risorse del
pianeta, nonostante I nostri migliori sforzi, e che quindi la fame
costituisce un indispensabile meccanismo di equilibrio. In quanto uomo
di Chiesa, spiegò ciò come parte del disegno divino: la sofferenza delle
masse, le pance turgide dei bambini ridotti allo stremo dalla fame, e i
volti esausti delle madri piangenti erano un’opportunità data da Dio
agli umani per abbracciare il bene e combattere il male.
[11] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K. Galbraith,
A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
BIBLIOGRAFIA
Keynes, J.M. (1933,1972). “Robert Malthus: The First of the Cambridge Economists,” penned in 1933, in
The Collected Works of John Maynard Keynes, Vol. X: Essays in Biography, London: Macmillan.
Marx, K, (1865,1969). “Wages, Prices and Profit’ in
Value, Price and Profit, New York: International Co. (edizione itliana
Salario, prezzo e profitto disponibile on line)
Marx, K. (1844,1969).
Economic and Philosophical Manuscripts, in
Marx/Engels Selected Works, Moscow, USSR: Progress Publishers (
edizione italiana disponibile on line)
Marx, K. (1849,1902). “Wage-Labour and Capital”, first published in the
Neue Rheinische Zeitung,
April 5-8 and 11, 1849. [Delivered as lectures in 1847] Edited with an
introduction by Friedrich Engels in 1891. Translated by Harriet E.
Lothrop, New York: Labor News Company (edizione italiana di
Lavoro salariato e capitale disponibile on line)
Marx, K. (1972).
Capital: Vol. I-III. London: Lawrence and Wishart
Mirowski, P. (2013).
Never Let a Good Crisis Go To Waste: How Neoliberalism survived the financial meltdown, London and New York: Verso
Varoufakis Y. (2013).
Economics Indeterminacy: A personal encounter with the economists’ peculiar nemesis, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y. (1991).
Rational Conflict, Oxford: Blackwell
Varoufakis, Y. (1998).
Foundations of Economics: A beginner’s companion, London and New York: Routledge
Varoufakis, Y., J. Halevi and N. Theocarakis (2011).
Modern Political Economics: Making sense of the post-2008 world, London and New York: Routledge
Varoufakis, S. Holland and J.K. Galbraith (2013).
A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0
[traduzione a cura di Federico Vernarelli e Maurizio Acerbo]
fonte:
Sandwiches di realtà
fonte:
http://www.rifondazione.it