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sabato, gennaio 25, 2014

Alessandro Dal lago introduzione a La vita activa di Hannah Arendt

 Introduzione a Hannah Arendt La vita Activa PDF

LA CITTA' PERDUTA

di

Alessandro Dal Lago.


"Ciò che in un uomo è la cosa più fuggevole, e nello stesso tempo la
più grande, la parola pronunciata e il gesto compiuto una sola volta,
muore con lui, e rende necessario il ricordo che di lui conserviamo.
La memoria trova il compimento nel nostro legame con il defunto
[...] e riecheggia di nuovo nel mondo".

(H. Arendt, "Commemorazione di Karl Jaspers", 4 marzo 1969) (1).





1. Una apolide del pensiero.



Il saggio qui presentato, apparso negli Stati Uniti nel 1958 e tradotto
in Italia nel 1964, è oggi considerato da alcuni come un classico
della filosofia e del pensiero politico di questo secolo. Eppure, non
provocò al suo apparire nel nostro paese alcuna eco particolare. Se
si escludono segnalazioni occasionali e qualche recensione
frettolosa, il libro passò sostanzialmente inosservato nel panorama
culturale italiano, e specialmente in quello filosofico (2). E non
diversamente avvenne in Francia, benché la traduzione fosse
pubblicata nel 1961 (3). Sarebbero occorsi più di vent'anni perché
nella cultura europea si aprisse un vero e proprio caso Arendt, e
"Vita activa" divenisse un punto di riferimento nel dibattito filosofico
(4). Le ragioni di questa fortuna tardiva sono diverse ma facilmente
identificabili. E benché i riconoscimenti postumi non possano


certamente compensare l'ingiustizia verso l'autore misconosciuto -
«la fama postuma è un dono raro e tra i meno ambiti [...] Colui al
quale la fama dovrebbe procurare maggior profitto è morto e quindi
non si lascia comprare» (5), ha scritto la stessa Arendt in un bel
saggio malinconico sul cugino Walter Benjamin - vale la pena
soffermarsi brevemente sulle ragioni principali della sfortuna di
Hannah Arendt: la sua estraneità a scuole di pensiero e a movimenti
ideologici, e quindi la sua scarsa legittimazione filosofica.

All'inizio degli anni Sessanta, Hannah Arendt era nota per un'ampia
e discussa ricostruzione delle origini sociali e politiche del
totalitarismo (6), e aveva già pubblicato, negli Stati Uniti e in
Germania, dei saggi letterari su Rilke, Broch e Kafka, che, insieme a
quelli successivi su Benjamin, Brecht, Heine, Lessing e altri, le hanno
procurato a buon diritto un posto nella grande critica del Novecento
(7). Ma se il suo nome diceva qualcosa ai lettori europei, era
soprattutto per l'inchiesta sul processo Eichmann (8), in cui
venivano affrontati alcuni aspetti controversi della recente
storiografia sullo sterminio del popolo ebraico, e soprattutto la
«soluzione finale» veniva analizzata nei suoi meccanismi procedurali
e burocratici. Mostrando inoltre l'imputato del processo di
Gerusalemme, il criminale di guerra Adolf Eichmann, nei panni di un
ometto insignificante - un piccolo burocrate della macchina nazista -
Hannah Arendt non voleva diminuirne la responsabilità o tantomeno
«assolverlo» (come alcuni intesero allora), ma sollevare il problema
dell'interpretazione storica e politica del nazismo: se gli ingranaggi
dell'apparato di sterminio non erano costituiti da membri degeneri
del ceto degli "Junker" o avventurieri (ciò che vale, in una certa
misura, per alcuni componenti del gruppo dirigente del partito
nazionalsocialista), ma da uomini della strada, da tipici
rappresentanti della società di massa, l'interpretazione storica del
nazismo diveniva più complicata e inquietante. Non ci si poteva
accontentare di analisi stereotipate, di discorsi di comodo sulla follia
di Hitler oppure su una generica inclinazione al delitto dei tedeschi.
Hannah Arendt avanzava l'ipotesi, già formulata nell'opera sul
totalitarismo, che forme estreme e autodistruttive di dittatura, come
il nazismo, fossero in stretta relazione con la natura della società di
massa, e che quindi potessero teoricamente risorgere. (Che questa
posizione fosse lungimirante è confermato, a nostro avviso, dai toni


che ha assunto recentemente in Germania il dibattito sul nazismo, il
cosiddetto "Historikerstreit") (9).

In breve, negli anni Sessanta, il nome di Hannah Arendt era legato a
polemiche ideologiche e storiografiche. Il libro su Eichmann aveva
inoltre sollevato l'indignazione di alcuni esponenti dell'ebraismo,
soprattutto americano, perché non vi erano taciute ambiguità e
debolezze nella lotta contro il nazismo, non solo da parte degli stati
vincitori, ma anche di alcune comunità ebraiche europee (10). E
benché ex deportati prestigiosi come Bruno Bettelheim (11) si
fossero schierati dalla sua parte, "Eichmann a Gerusalemme" costò
ad Hannah Arendt non solo la rottura di molte amicizie, ma anche
un indubbio isolamento dall'ebraismo. D'altra parte, anche la grande
opera sul totalitarismo aveva suscitato equivoci e incomprensioni. In
essa si stabiliva una sorta di continuità sociologica, o idealtipica, tra
nazismo e stalinismo (per quanto riguarda le tecniche e le pratiche
del terrore, la segretezza degli apparati e l'invasione della sfera
privata). Il rilievo attribuito a questi aspetti strutturali - che oggi ben
pochi mettono in discussione (12) - è senz'altro responsabile di
quell'etichetta di scrittrice conservatrice, o comunque
ideologicamente ambigua, con cui Hannah Arendt è stata
contrassegnata per molto tempo in alcuni ambienti di sinistra. E a
questa fama aveva contribuito inoltre il saggio "Sulla rivoluzione"
(13), in cui molti avevano letto sia un'acritica esaltazione dei
"founding fathers" della rivoluzione americana, sia un'adesione al
modello costituzionale e politico degli Stati Uniti. Ma, ancora una
volta, se in queste critiche c'era qualcosa di vero (per ciò che
riguarda una certa idealizzazione della costituzione americana e una
ricostruzione poco realistica del processo rivoluzionario in America)
esse non toccavano il cuore dell'analisi arendtiana: le rivoluzioni
europee, e soprattutto quella francese, avrebbero perso fin da
principio il loro carattere politico (il tentativo di costituire uno spazio
comune in cui tutti fossero eguali) per mettersi al servizio dello stato
e delle sue funzioni riproduttive, e cioè della società come sfera
domestica allargata. (Si noti, tra l'altro, che l'interpretazione
arendtiana della rivoluzione francese anticipava di quasi vent'anni la
storiografia rivoluzionaria affermatasi in Francia alla fine degli anni
Settanta (14).


In breve, le opere di Hannah Arendt conosciute in Europa all'inizio
degli anni Sessanta erano circondate da un alone di sospetto
ideologico e politico. Per alcuni era una transfuga dell'ebraismo, per
altri una tipica esponente della sinistra europea trapiantata negli
Stati Uniti e convertita all'americanismo, per altri ancora una
scrittrice di destra. E se è vero che questo sospetto era il prodotto di
informazioni poco accurate, è anche vero che Hannah Arendt ha
fatto ben poco per dissiparlo. Non c'è scritto (teorico, personale o
autobiografico) in cui non abbia offerto - si direbbe quasi con
orgoglio, se non con compiacimento - un'immagine di sé come
apolide, sradicata, "stateless person" o "pariah", sia in termini
politici che culturali. Filosofa di formazione (aveva studiato, tra gli
altri, con Karl Jaspers e Martin Heidegger, mantenendo con
entrambi, in diverse fasi della vita, intensi rapporti personali) (15),
ha sempre sottolineato la sua estraneità alla filosofia pura - salvo
scrivere, poco prima della morte, una grande opera teorica, "La vita
della mente" (16), che si potrebbe anche leggere come un elogio
appassionato del pensiero filosofico. Ebrea, profuga, sposata a un
ex spartachista, costretta fino all'età di cinquant'anni a vivere di
collaborazioni editoriali, ha sempre avuto un atteggiamento di
completo distacco verso le ideologie laburiste e progressiste - salvo
scrivere un saggio perfino commovente in memoria di Rosa
Luxemburg (17). Estranea a qualsiasi cliché femminista, al punto di
citare con compiacimento alcuni giudizi della Luxemburg sui «veri
uomini» della socialdemocrazia tedesca (18), non scriverà mai sulla
condizione femminile - salvo compiere, nel suo libro più rivelatore e
personale, l'analisi esemplare del destino di una donna ebrea, Rahel
Varnhagen (19).

L'immagine sfuggente dell'autrice può dunque aver contribuito
all'insuccesso di "Vita activa" in Europa. Ma se questo libro è stato
ignorato o frainteso, non è tanto, o soltanto, per motivi biografici o
di sfondo. Piuttosto, esso contraddice alcuni dei luoghi comuni più
radicati della nostra cultura filosofica e politica. Se il libro su Rahel
Varnhagen «nuotava vigorosamente contro la corrente dominante
dell'apologetica ebraica» (20) (come aveva scritto Walter Benjamin
a Gershom Scholem), "Vita activa" colpiva in profondità il nucleo
stesso dell'apologetica moderna e contemporanea del mondo
occidentale, e cioè la sua "mitologia sociale". In breve, il libro qui


presentato contrapponeva a un nucleo di credenze condivise dalle
correnti ideologiche più varie - relative al primato degli interessi
nella spiegazione dell'agire sociale, alla santità o legittimità del
lavoro, alla politica come cura del benessere collettivo,
all'inevitabilità dello stato-macchina - una concezione dell'"agire
politico" nella sua forma pura, e cioè come suprema attività umana.
Come si è già detto, sarebbero stati necessari molti anni per
comprendere che tale rivendicazione di una vera e propria
"necessità della «polis»" - tanto più sorprendente, quanto più
avanzata da un'ebrea apolide - aveva poco in comune con il
"Kulturpessimismus" e con i miti della grecità diffusi negli anni Venti
e Trenta del nostro secolo (21), ma riformulava invece, con rara
originalità, il problema della libertà dell'agire contro gli idoli della
società di massa. Insomma, solo a partire dagli anni Ottanta questo
saggio sarebbe stato letto nel suo significato autentico: una teoria
libertaria dell'azione nell'epoca del conformismo sociale.





2. Dall'antropologia filosofica alla teoria dell'agire.



Prima di entrare nel merito della proposta teorica di Hannah Arendt,
è opportuno premettere che questo libro, benché l'autrice lo
presenti modestamente come un saggio di teoria politica (22),
presuppone un'antropologia filosofica, o meglio degli assunti
teoretici - relativi alla definizione dell'identità umana - che la
moderna riflessione sulla società e sulla politica ha delegato per lo
più alle scienze dell'uomo. Nelle pagine che seguono, tenteremo di
esporre il nucleo dell'antropologia arendtiana; ciò appare tanto più
necessario, quanto più "Vita activa" cela notevoli difficoltà di lettura,
non solo per lo stile adottato dall'autrice - solenne, talvolta tortuoso,
apodittico, più affine ai classici greci e latini su cui Hannah Arendt
tornava instancabilmente, che alla moderna argomentazione
filosofica - ma soprattutto per il carattere eversivo delle tesi
sostenute. Questo è un libro che, pur attingendo alla tradizione
filosofica la terminologia (e non potrebbe essere altrimenti), vuole


sovvertire la tradizione (23). Qui nascono soprattutto le difficoltà e,
come vedremo, i numerosi equivoci che hanno costellato la ricezione
di "Vita activa".

Un primo equivoco può riguardare la stessa nozione di antropologia
filosofica. Tale espressione designa una rappresentazione
dell'essenza dell'uomo (o della sua natura, della sua posizione nel
cosmo, nella storia o rispetto a una divinità) "dal punto di vista della
filosofia", e cioè in una prospettiva che privilegia il ruolo del pensiero
e della conoscenza nella stessa rappresentazione. Le antropologie
filosofiche fanno di solito dipendere l'immagine dell'uomo da una
gerarchia in cui il pensiero nelle sue diverse declinazioni («teoria»,
«coscienza», «conoscenza», «contemplazione») assume il rango più
alto (24). Ciò sembra abbastanza scontato nella grande tradizione
filosofica, da Platone a Hegel e all'idealismo. Ma anche le due ultime
grandi antropologie, sovversive e «materialiste» che il pensiero
occidentale possa vantare, quelle di Marx e di Nietzsche, non
sfuggono, in un certo senso, a tale gerarchia, pur essendosi
proposte esplicitamente di rovesciarla (25). Ciò appare evidente in
Marx: identificare l'essenza umana nel "Gattungswesen", cioè
nell'essere dell'uomo in quanto membro di una specie (negli scritti
giovanili) o nel suo essere sociale (nelle opere della maturità)
significava farla dipendere logicamente da una realtà più profonda,
la natura animale o la società divisa in classi, realtà passibile di
conoscenza scientifica (26). Ma anche in Nietzsche, e in particolare
nelle sue opere della fase «illuministica» (27), lo smascheramento
delle funzioni con cui il pensiero dell'Occidente ha travestito l'essere
dell'uomo (finzioni morali, filosofiche, religiose, estetiche) aveva
soprattutto il senso di enucleare una verità profonda - volta per
volta tragica, vitalistica, polemica - per quanto diversa dalle verità
scientifiche o filosofiche. Il significato di entrambe le antropologie è
stato felicemente colto da Paul Ricoeur con l'espressione «scuola del
sospetto» (28); esse contrappongono alle apparenze (29) e alle
espressioni della cultura una verità nascosta ma impellente, che
potrà rivelarsi all'analisi dialettica o genealogica (30), insomma a
una conoscenza di rango superiore.

A una supremazia della conoscenza, anche quando sono in gioco
supposti superamenti della metafisica, non sfuggono le scienze
umane, ovvero quei saperi tipicamente moderni che hanno come


oggetto le diverse manifestazioni in cui si esprime la natura o
l'essenza umana. Le principali tra queste scienze (psicoanalisi,
antropologia, linguistica, sociologia) sono soprattutto interessate a
riportare le forme della cultura a strutture soggiacenti - istintuali,
archetipiche, inconsce o semiconsce, simboliche, collettive - rispetto
a cui risulta trascurabile o secondaria la varietà di «superficie» di ciò
che gli uomini fanno, dicono o semplicemente sono nelle situazioni
molteplici della loro esistenza. Ora, il problema del realismo
metafisico o post-metafisico di tali dottrine dell'uomo non è tanto,
come si diceva un tempo, il loro riduttivismo (e cioè il privilegio
attribuito a quelle strutture e ai principi fondamentali che le
riassumerebbero), quanto il fatto che delle metafore o metonimie
(31) - l'"inconscio" sta per i processi cognitivi, l'"essere sociale" per
le relazioni tra gli uomini, la "sessualità" per l'erotismo e l'affettività,
così come la "realtà" per le apparenze, l'"essere" per il fare o l'agire
- vengono assunte come spiegazioni scientifiche dell'essenza o della
natura umana. In quanto tali, queste metafore e le rappresentazioni
o narrazioni che da esse provengono sono legittime quanto ogni
altra spiegazione. Ma il rango che l'Occidente moderno ha attribuito,
spesso acriticamente, all'ideale della scientificità, ha fatto sì che
esse, da metafore che erano, divenissero obiettivazioni e
prendessero il posto, nel nostro tempo, delle più antiche e
altrettanto legittime, immagini filosofiche dell'uomo.

A dire il vero, gli ultimi due grandi esponenti della filosofia pura in
Occidente, Edmund Husserl e Martin Heidegger, hanno colto la
fallacia metafisica delle antropologie scientifiche, ma in una
direzione contraria all'interrogazione «chi è l'uomo?». A Husserl
interessava soprattutto la purezza eidetica dell'attività cognitiva e
percettiva, la sua indipendenza dalle obiettivazioni spurie e
illegittime delle scienze naturali e umane, mentre Heidegger poneva
la sua fondamentale domanda sull'Essere indipendentemente da
interessi antropologici o edificanti, come risulta anche dal suo scritto
polemico sull'umanesimo. Un sintomo dell'orientamento
rispettivamente antiscientistico e antiumanistico dei due pensatori è
la loro indubbia avversione per l'antropologismo, ovvero per una
rappresentazione dell'Essere dell'uomo dipendente dai pre-giudizi
scientifici o metafisici della filosofia (32).


Ora, Hannah Arendt (che pure aveva studiato con entrambi i filosofi)
non intende riprendere, nell'opera qui presentata, i problemi
dell'antropologia filosofica vecchia e nuova, né le critiche di Husserl
e Heidegger - benché in "Vita activa" si possano trovare singole
nozioni tratte da esponenti dell'antropologia contemporanea (come
Max Scheler e Arnold Gehlen), e non manchino echi indiretti del
pensiero di Heidegger (33). Hannah Arendt è interessata invece a
una definizione della condizione umana in opposizione sia al primato
scientifico e cognitivo dell'antropologia, sia al primato del pensiero
su cui insistono Husserl e Heidegger. In breve, vuole cercare una
diversa definizione dell'identità umana («"chi" è l'uomo?») e la trova
nella "rivalutazione dell'agire". La concezione della condizione
umana elaborata in questo saggio non sarebbe d'altronde
comprensibile se non si tenesse conto del fatto che essa non è
"filosofica" (non vuole inserire l'agire in una gerarchia dominata dal
pensiero) ma «fenomenologica» (nel senso non tecnico, ma letterale
di questa parola) (34). Per Hannah Arendt, il ruolo dell'agire nella
condizione umana è "evidente", cioè visibile intuitivamente, a patto
che si accettino, come vedremo tra poco, alcune premesse di
carattere teorico e storico.

La più importante tra queste premesse è la "pluralità", sia della
condizione umana sia del mondo in cui l'uomo abita. La condizione
umana è plurale perché diverse e non esclusive sono le facoltà e le
attività umane - pensare, agire, volere, giudicare, amare, creare... -
e il mondo è inevitabilmente plurale perché plurimi sono gli esseri
che vi abitano: «Non l'Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta.
La pluralità è la legge della terra» (35). Ora, il primato dell'agire
risulta dal fatto che solo esso, tra le altre facoltà, presuppone come
indispensabile la pluralità degli uomini. Amare, pensare, volere,
creare sono facoltà possibili, in linea di principio, nell'isolamento. Ma
l'agire (come pure il giudicare, nel senso kantiano del termine) è
impossibile, impensabile e irrappresentabile senza altri uomini che
partecipino, assistano, rispondano, reagiscano o si oppongano
all'atto. D'altra parte, riconoscere il carattere straordinario dell'agire
(e in generale della "vita activa") rispetto alle altre facoltà, che
potremmo chiamare unilaterali, non significa annullarle: sempre nel
corso di questo saggio, Hannah Arendt insisterà sul fatto che l'agire
in pubblico - in cui si realizza la pluralità umana, trasformata da


condizione in "prassi" vivente - sarebbe socialità vuota senza
l'esistenza di una sfera privata, o di in-azione, in cui gli esseri umani
sviluppano le altre facoltà e svolgono le altre attività.

In breve, rivalutare l'agire non significa svalutare le altre facoltà
umane, ma riconoscere il suo rango nell'ambito della pluralità. Cosa
diversa è invece fondare "filosoficamente" tale preminenza, ciò che
Hannah Arendt esclude. Costruire un'immagine filosofica del mondo
logicamente dipendente dall'agire sarebbe un non-senso (e qui
nascono, come si vedrà, le critiche della Arendt sia al pragmatismo
sia alle diverse forme di etica), allo stesso modo in cui la tradizione
dell'Occidente ha subordinato, almeno alle sue origini, ogni facoltà
umana al pensiero e alla vita contemplativa (36). Non si può
insomma fondare legittimamente il predominio di una singola facoltà
o attività sulle altre. Naturalmente, le diverse epoche storiche hanno
conosciuto varie forme di predominio: così, secondo Hannah Arendt,
la cultura greca prima di Platone innalzò l'agire al rango supremo; la
scuola socratico-platonica subordinò l'agire al pensiero; il
cristianesimo svalutò sia l'agire sia il fare rispetto alla
contemplazione; la modernità ha soppiantato il primato del pensiero
con quello della conoscenza obbiettivante, e infine la nostra cultura
ha visto l'avvento e il trionfo di un tipo inferiore di attività, il lavoro
(anche se in forme oggi immateriali, intellettualizzate o
informatizzate). E la filosofia non ha fatto che legittimare questi
diversi primati, tentando ogni volta di trovarne un fondamento.
Hannah Arendt intende interrompere questa tradizione bimillenaria,
e trova la giustificazione del suo tentativo nell'unanime discredito in
cui l'agire è stato tenuto dalla tradizione occidentale del pensiero.

Si tratta di una prospettiva interpretativa sorprendente che, come è
ovvio, non è scientificamente dimostrabile, né filosoficamente
argomentabile in base ai criteri canonici. La posizione di Hannah
Arendt è assiomatica, e si giustifica nella sua capacità di aprire una
nuova possibilità di rappresentare l'identità umana. Ma, alla base di
questa scelta di principio (che si àncora comunque a un esempio
storico, la "polis" greca), c'è anche la convinzione che la tradizione
filosofica - che ha sempre legittimato il primato del pensiero su ogni
altra facoltà umana - sia non meno priva di giustificazioni ultime, o
meglio che anche i fondamenti volta per volta invocati di tale
primato siano arbitrari. Alla domanda se nozioni fondative come le


idee platoniche, la soggettività di Agostino ("quaestio mibi factus
sum") o il "cogito" cartesiano, la coscienza di Husserl o l'enigmatico
Essere di Heidegger siano più legittime di una visione del mondo
basata sul primato dell'agire non c'è risposta - se non il
riconoscimento o il disconoscimento di una tradizione filosofica.
Ponendosi al di fuori di questa (non senza difficoltà e ambiguità)
Hannah Arendt ha accettato il rischio dell'illegittimità, rischio che ha
orgogliosamente rivendicato definendo la propria opera teoria
politica (37). Ora, è forse più chiaro che questo saggio presuppone
un'antropologia filosofica solo nel senso che deve fare i conti con
essa, ma non è una antropo-logia. E' soprattutto l'elogio di un
aspetto della condizione umana che la filosofia ha emarginato fin dai
suoi inizi, e che il nostro tempo ha pressoché dimenticato, fino al
punto di farne apparire il ricordo una pretesa stravagante o
un'illusione romantica.





3. L'agire come essere-nel-mondo.



Se la condizione della pluralità costituisce il presupposto e al tempo
stesso il senso dell'agire, la realizzazione dell'identità umana (in un
senso, beninteso, molto particolare) ne è forse il risultato più
vistoso. Infatti, mentre nelle altre facoltà e attività il "chi"
dell'agente è subordinato a qualcos'altro o a qualcun altro -
all'amato nell'amore, all'oggetto nella creazione artigianale o
artistica, allo scopo nel desiderare o nel volere - e mentre nel
pensare il chi-sono è sempre soggetto al rischio del dubbio radicale
(come è manifesto nel cogito cartesiano) (38), l'agire consente il
rivelarsi del "chi" dell'attore, perché questi per definizione appare
agli altri, e si rende manifesto nella sua identità e nella sua
differenza. L'agire in isolamento è una contraddizione in termini: è
impensabile senza altri che confermino direttamente o
indirettamente, esplicitamente o implicitamente, chi agisce.


E' questa una concezione apparentemente paradossale e si espone a
due obiezioni immediate. In primo luogo, come è possibile che
l'identità dipenda dal riconoscimento degli altri agenti e soggetti, sia
cioè «per gli altri», come direbbe Hegel? Non si tratta forse di una
identità spuria o meramente esteriore - quella di cui parla ad
esempio la psicologia sociale - ben diversa dal "chi" singolare e
irriducibile a cui evidentemente pensa Hannah Arendt? Come il
lettore potrà vedere, "Vita activa" risponde implicitamente a questa
obiezione rovesciando l'argomentazione che la sottende. Infatti,
l'identità non può che essere transitiva; anche il "cogito, ergo sum"
di Descartes - che fonda, secondo la nostra tradizione filosofica,
l'identità nella coscienza - è il prodotto di un riconoscimento: l'io-
sono dipende dall'io-penso, ovvero è quest'ultimo, secondo le
intenzioni di Descartes, che "riconosce" il suo essere. Diversamente
da questo tipo transitivo di riconoscimento, l'identità rivelata
dall'agire è meno aleatoria, proprio perché appare a più esseri
umani, e quindi più che di riconoscimento in senso hegeliano o
fenomenologico - con cui si intende una interazione tra coscienze -
si dovrebbe parlare di partecipazione degli altri all'evento dell'agire.
In altri termini, l'agire mostra la straordinaria facoltà di rivelare il
«chi» dell'agente proprio perché questi si espone alla presenza e
allo sguardo degli altri, senza dipendere necessariamente da un loro
riconoscimento preliminare. L'identità manifesta nell'agire non è una
affermazione del soggetto o della coscienza, ma un evento che ha
luogo "tra" gli altri (39).

Una seconda obiezione potrebbe riguardare il fatto che l'agente si
aliena nell'atto: esso non sarebbe veramente se stesso nel momento
in cui si esteriorizza. A questo tipo di obiezione, familiare in una
cultura ossessionata dall'identità soggettiva, Hannah Arendt
risponde implicitamente che parlare di alienazione non ha senso, in
quanto l'agente non può che essere nell'atto, e che si rivela come
tale "solo" quando agisce. E' questo uno degli argomenti
fondamentali di "Vita activa": l'agire può rivelare l'identità di chi
agisce "proprio perché (e solo se)" l'agire non è confuso con le sue
circostanze, le sue occasioni, i suoi scopi, motivi o interessi. Che le
diverse forme di agire abbiano scopi, motivi o interessi (così come
cause, condizioni o occasioni) va da sé, ma esso non coincide con
questi fattori, o meglio non coincide se rettamente inteso, se


sottratto ai vari tipi di pregiudizi o schemi (razionalistici, utilitaristici,
materialistici) con cui, nella cultura moderna, esso viene fatto
riassorbire dai suoi fattori condizionanti.

Come il lettore potrà vedere, Hannah Arendt ha in mente dei tipi
particolari, o meglio poco ordinari, di agire: «compiere grandi gesta
e pronunciare grandi parole» (secondo il modello omerico dell'eroe),
prendere la parola in pubblico (secondo l'ideale della "polis"),
intervenire nella sfera politica comune (secondo l'ideale sempre
proclamato ma praticamente negato della cultura politica moderna).
Si tratta di forme di agire in cui l'agente si rivela, accettando il
rischio dell'apparizione nella luce spesso impietosa della
"Öffentlichkeit", e in cui l'agire stesso, pur essendo evidentemente
motivato da interessi, motivi o scopi (come Hannah Arendt
riconosce), li "trascende". allo stesso modo in cui l'identità di un
essere umano ("chi è") eccede le sue pratiche ("ciò che fa") pur
essendo inseparabile da esse.

Per chiarire ulteriormente questa nozione di agire (apparsa fin da
principio sconcertante seppure affascinante ai lettori e ai critici di
"Vita activa") possiamo ricorrere a un'analogia, quella del "gioco"
(40), che non ci sembra arbitraria in quanto si applicano ad esso gli
stessi criteri distintivi che Hannah Arendt assegna al suo tipo di
agire. Come questo, infatti, il gioco è caratterizzato da un
"cominciamento" che interrompe il flusso e l'opacità degli eventi
ordinari, da una "pluralità" di attori (senza cui sarebbe impensabile,
che si tratti di partecipanti, di spettatori o di entrambi), da una
"realtà separata o comunque distinta" da quella ordinaria, da una
(relativa) "indipendenza" degli scopi o dai motivi del gioco, infine
dalla possibilità per i giocatori di rivelare una loro "identità", nel
senso di distinguersi dagli altri giocatori.

Sono le due ultime caratteristiche del gioco (e dell'agire), cioè
l'indipendenza e il rivelarsi dell'identità, che possono suonare
sconcertanti. Ora, benché il concetto di gioco sia uno dei più
misteriosi e sfuggenti, è indubbio che proprio l'"indipendenza
formale" dalle motivazioni e dagli scopi caratterizzi gli autentici
giochi. Nel caso dei giochi di "vertigine" (41) o di "mimicry" ciò
sembra evidente (il rischio dell'acrobata e la capacità di trasfigurare
la realtà nel caso di un attore drammatico sono incommensurabili


rispetto ai criteri utilitari con cui si valutano delle prestazioni
professionali); ma anche i giochi "agonali o aleatori", per quanto
innescati dalla possibilità di guadagni monetari o simbolici, non
esisterebbero se il loro senso si riducesse alla possibilità concreta di
procacciarsi dei vantaggi o dei guadagni (che la degradazione degli
sport, cioè dei giochi agonali, sia in relazione con l'enorme peso che
la nostra cultura attribuisce ai risultati, ci sembra indiscutibile) (42);
d'altra parte, se i "gamblers" applicassero alle loro attività solo
qualche tipo di calcolo delle probabilità, il gioco d'azzardo
scomparirebbe. Al tempo stesso, queste forme empiriche di gioco,
proprio perché l'attività ludica è eccedente rispetto agli scopi,
mostrano come vi sia implicata una forma limite di identità. Ciò che
spesso motiva giochi irrazionali, pericolosi o distruttivi è il desiderio
spasmodico di prevalere simbolicamente sugli altri, o in altri termini
il desiderio di rivelarsi diversi (unici) rispetto all'immagine di cui si è
provvisti nella vita ordinaria.

Che l'analogia tra agire (nel senso arendtiano) e gioco non sia
arbitraria è mostrato da un altro aspetto comune, e cioè
l'"imprevedibilità" (43). Benché entrambe le attività siano possibili
solo a partire da regole costitutive, il loro svolgimento non coincide
né con le regole né con le procedure convenzionali. Dal punto di
vista della teoria arendtiana dell'agire, l'imprevedibilità - che
potremmo definire anche come condizione della "libertà" nell'ambito
di determinate regole - è decisiva perché permette di sfuggire alla
cattura della ripetizione, che caratterizza invece le forme inferiori di
attività, in particolare il lavoro. Se l'agire fosse prevedibile (così
come lo intendono le moderne dottrine utilitaristiche e
razionalistiche), si trasformerebbe in comportamento, e cioè in
uniformità, e perderebbe quindi la possibilità di rivelare l'identità
dell'agente. Non solo: poiché l'agire, in questo senso, interviene in
una rete di relazioni umane, cioè nello spazio comune ai diversi
attori, l'imprevedibilità si trasforma in "consequenzialità" (44),
ovvero nella facoltà di produrre conseguenze non calcolabili in
anticipo. All'agire corrisponde, dal punto di vista degli effetti
dell'azione, il re-agire, e così via, e quindi una situazione
potenzialmente tumultuosa. Hannah Arendt sapeva bene che la sua
concezione poteva dar luogo a un'immagine della società e della
politica turbolenta e in un certo senso ne era compiaciuta; questa


immagine corrispondeva infatti a un'idea di libertà politica del tutto
opposta a quella ossessione dell'«ordine» che, da Hobbes (45) in
poi, permea la moderna concezione del politico.

D'altra parte, questa turbolenza non è altro che una metafora
dell'imprevedibile svolgimento dell'agire. Infatti, azioni e reazioni
costituiscono una rete - o meglio una sorta di gioco inter-umano
impensabile senza limiti e regole (l'esercizio della parola in pubblico,
le convenzioni minime accettate in qualsiasi comunità politica, in
breve il «rispetto» come categoria politica prima che morale). Non è
certo l'interazione imprevedibile che "può" costituire una minaccia
all'ordine delle relazioni umane, ma proprio l'"illimitatezza" che
caratterizza una cultura, come quella moderna, che ha surrogato il
libero agire politico con forme di attività finalizzate - la produzione,
l'esplorazione e lo sfruttamento delle risorse naturali, il lavoro - che
perdono facilmente di vista i loro fini supposti (se mai ne hanno
avuti), trasformandosi in minacce per la stabilità del cosmo. Proprio
quando l'agire politico fu bandito dalla società moderna (e questa è
in fondo la funzione che Hannah Arendt assegna alla filosofia
politica) (46), alcune caratteristiche dell'azione (imprevedibilità,
consequenzialità, irreversibilità) si trasferirono nel campo delle
attività lavorative e produttive, come forme di un processo di
manipolazione della natura e del cosmo infinito e senza senso. Non
è la libertà dell'agire che minaccia l'ordine cosmico - come
nell'hobbesianismo a cui è tradizionalmente legata la paura della
politica - ma precisamente la sua scomparsa.

Non ci sembra forzato definire l'agire arendtiano come una sorta di
"estasi", nel senso etimologico della parola, e cioè come esser-fuori
dell'individuo, fuori dalla sua sfera privata di isolamento e di intimità.
Se l'attribuzione di caratteristiche "ludiche" all'agire non è un
travisamento del pensiero di Hannah Arendt, ci sembra allora che
definizioni critiche correnti come «concezione comunicativa del
potere», «neo-aristotelismo», oppure

etichette come «rinnovamento della filosofia pratica» (47) e cosi via
siano, nel caso di Hannah Arendt, parzialmente distorcenti. Benché
l'agire arendtiano sia sostanzialmente discorsivo, sia nel senso della
parola direttamente pronunciata in pubblico sia nel senso della
memoria con cui l'agire viene ricordato e celebrato, ad esso non


conviene la definizione di «comunicativo» (48) nell'accezione
assunta nel nostro tempo da questa parola. Più che la
comunicazione (di senso, di verità, di opinioni) a Hannah Arendt
interessa soprattutto il gioco reciproco della parola, e precisamente
la possibilità che i diversi esseri umani possano esprimersi sugli
affari comuni in uno spazio comune. Noi crediamo che le
connotazioni intime, soggettive e intersoggettive della
comunicazione, così come quelle razionali e argomentative su cui
insistono alcuni filosofi pratici contemporanei, siano sostanzialmente
estranee a una filosofia politica molto più interessata alla libertà
agonale che al consenso. Per precisare la particolare accezione
arendtiana di libertà di parola, è ora opportuno soffermarsi
brevemente sull'esempio storico che conferisce a tale concezione sia
una certa concretezza sia un imprevedibile potere evocativo. Ci
riferiamo all'idea di "polis", su cui, a ben vedere, si fondano le
principali argomentazioni di "Vita activa".





4. La città dimenticata.



Quando, nel 1958, Hannah Arendt propose la sua nozione di agire, il
fatto che un'antica esperienza di associazione politica, irripetibile e
consegnata solo all'interesse di storici e filologi, fosse richiamata
all'attenzione dei teorici politici doveva apparire per lo meno
stravagante. E' vero che due filosofi provenienti dall'immigrazione
tedesca, Leo Strauss ed Eric Voegelin (49), avevano lavorato negli
Stati Uniti su un tema analogo. Ma la cultura politica europea e gran
parte di quella americana erano più interessate a un'idea di
democrazia che funzionasse come antidoto alla teoria e alla pratica
delle dittature europee. In questo senso, la figura demoniaca era
rappresentata da Carl Schmitt, teorico della dittatura e dello stato
d'eccezione pesantemente coinvolto con il nazismo fino alla metà
degli anni Trenta, mentre il suo antagonista Hans Kelsen incarnava
la possibilità di una teoria giuridica dello stato e della società
adeguata al nuovo ordine democratico del mondo. D'altra parte, gli


stessi Strauss e Voegelin - come sarebbe apparso in seguito - erano
più interessati alla riproposizione di una sorta di platonismo politico
(50) (la ricostruzione di un ordine politico trascendente) che al
disseppellimento dell'antica prassi politica greca. Un'idea radicale di
democrazia diretta (per intendersi, alternativa sia al decisionismo
schmittiano sia alla democrazia rappresentativa) sembrava tutt'al più
un'utopia: al pensiero conservatore appariva come un ritorno al
parlamentarismo selvaggio della Repubblica di Weimar, mentre a
quello di sinistra una sorta di rimozione del problema dello stato.

Ma c'era di più. Se la riproposizione del pensiero di Platone e
Aristotele poteva essere legittima nell'ambito accademico della storia
delle idee e della filosofia politica, ricollegarsi all'esperienza storica
della "polis" sembrava a molti un esercizio ermeneutico improprio e
arbitrario. I «greci», al di fuori delle possibilità di lettura consentite
dall'esame dei testi del pensiero antico, non erano che una
nebulosa, o meglio un popolo «diverso da noi» a cui si addiceva
l'interesse storico e antropologico. Prenderli sul serio era come
azzerare una tradizione bimillenaria di progresso e di conquiste
politiche, volgere le spalle ai capisaldi della tradizione politica come
lo stato, la democrazia, la rappresentanza, e tutti i moderni organi di
gestione e amministrazione del potere. Insomma, la proposta
arendtiana appariva nel caso peggiore come un gesto romantico e
arcaicizzante, in quello migliore come un mero esercizio dottrinario.
E poi, proprio nella fase in cui la storia greca si arricchiva di nuove
metodologie, derivate soprattutto dall'antropologia e dalle
innovazioni della scuola delle "Annales", insistere sul significato
«politico» della "polis" poteva sembrare un ritorno alla storiografia
idealistica e tradizionale (51). Che ruolo avevano in questa
immagine gli schiavi, le donne, le pratiche di culto, una religione in
fondo primitiva, insomma quella materialità, per quanto simbolica, la
cui analisi è divenuta il vanto della nuova storiografica greca?

Ora, è probabile che queste e altre critiche avessero il sostanziale
difetto di colpire un bersaglio inesistente. Se Hannah Arendt avesse
avuto l'intenzione anacronistica di fare di un'esperienza storica
limitata e problematica - l'Atene di Pericle - un modello di teoria
politica, quelle critiche sarebbero state ovviamente giustificate. Ma,
come il lettore potrà vedere, "Vita activa" non propone nulla del
genere. La sua prospettiva non è infatti storiografica ma


concettuale, e parte da un assunto difficilmente contestabile: che le
moderne concezioni della politica non abbiano una necessità
filosofica assoluta, ma siano soprattutto la razionalizzazione di una
pratica della politica come amministrazione dei molti da parte dei
pochi (52); un corollario di questo assunto è che la loro legittimità
sia soltanto pratica ed "effettuale". Quando si cerca di giustificarle
filosoficamente, non si può che utilizzare dei miti; limitandoci
soltanto alla modernità, tali appaiono lo stato di natura e lo stato-
macchina di Hobbes, la volontà generale di Rousseau, le varie
declinazioni del contratto nel giusnaturalismo, la dialettica
dell'estinzione dello stato in Marx e perfino l'opposizione amico-
nemico in Schmitt. Miti, non perché non siano capaci di
rappresentare l'effettualità storica o di ri-orientarla (la moderna
costituzione dello stato, la democrazia rappresentativa, la lotta delle
classi nel diciannovesimo secolo o la crisi della democrazia). Miti,
perché è inane il tentativo di trovar loro dei fondamenti eterni e
indiscutibili - tentazione che peraltro permane in tutto il pensiero
politico dell'Occidente. Contro questa mitologia - che ha dalla sua la
forza della realtà - vale il principio della critica e dell'elaborazione
concettuale. L'esperienza greca offre soprattutto la terminologia per
questa elaborazione. Ma la giustificazione fondamentale della mossa
teorica di Hannah Arendt è che quell'esperienza, anche se
ovviamente irripetibile, non è sopravvissuta come lettera morta nella
tradizione dell'Occidente. Essa ha continuato cocciutamente a
mantenersi nel gergo della filosofia e dell'esperienza politica - allo
stesso modo in cui la terminologia filosofica non è che un'infinita
variazione di quella greca; e soprattutto il significato di
quell'esperienza (l'agire libero su cui Hannah Arendt insiste) sembra
rinascere in esperienze come i momenti aurorali delle rivoluzioni
moderne e dell'Ottocento o la democrazia consiliare del Novecento
(53). Se si sospettasse nell'accentuazione di tale sopravvivenza (che
non è certamente una continuità, ma un'affinità elettiva) un
idealismo antistorico, si dovrebbe ricordare che qualsiasi tipo di
pensiero che non pretende di ripartire ogni volta da se stesso deve
presupporre un'affinità analoga. Solo la singolare permanenza dei
concetti (ad esempio la possibilità nonostante tutto di comprendere
Platone, pur non illudendosi di pensare come nel suo tempo)
permette di non cadere nel relativismo assoluto, nella "hybris" di chi
si illude di rifare il mondo a sua immagine e somiglianza.


In realtà, Hannah Arendt non propone affatto la "polis" come
modello della politica, ma usa il richiamo di quell'esperienza come
punto di vista per rappresentare l'"espropriazione moderna della
politica". Per rendersi conto della forza di questo procedimento
critico-ermeneutico basterà riflettere sull'analisi devastante che
Hannah Arendt compie dei luoghi comuni della politica moderna: la
sostituzione del sociale al politico - per cui l'amministrazione della
grande famiglia sociale rimpiazza l'esercizio diretto della parola in
politica; la sostituzione del fare all'agire - per cui la produttività
diviene l'unico senso dell'agire in comune; la sostituzione della tutela
alla padronanza di sé; l'orrore per l'imprevedibilità dell'agire - che
porta a tipi ben peggiori di irreversibilità; la finzione per cui
l'amministrazione dei molti da parte dei pochi, garantita dalla
rappresentanza, viene spacciata per libertà politica; l'ipostatizzazione
dello stato come realtà eterna e necessaria; infine, da un punto di
vista più specializzato e interno alla storia delle idee, l'incapacità del
pensiero politico di emanciparsi da questi presupposti di fatto
nonché, come conseguenza diretta, il declino irreversibile della
teoria politica e l'ascesa delle scienze sociali, la cui funzione
dominante è dimostrare l'insensatezza e l'impossibilità della libertà,
in nome di immagini dell'uomo sempre più deterministiche oppure -
ma è in fondo la stessa cosa - utilitaristiche ed esangui.

La grecità inattuale di Hannah Arendt è tutta nella capacità di
distanziarsi dalla fatalità dell'espropriazione della politica, di
rappresentare l'irresistibile ascesa moderna del "politico" (54) (nel
senso di macchina amministrativa) "contro" la possibilità della
"politeia", della cittadinanza diretta. Il lettore potrà vedere
(contrariamente alle letture stereotipate di "Vita activa") che un
sobrio pessimismo permea tutto il saggio. E benché Hannah Arendt
salutasse con entusiasmo le epifanie più o meno felici (e sempre
sconfitte) dell'antica "politeia" - dai consigli della rivoluzione tedesca
a quelli della rivoluzione ungherese del 1956 fino ai movimenti del
'68 (55) in Europa e in America, finché non furono sopraffatti dalle
tradizionali mitologie stataliste e violente - sapeva bene che quella
lontana esperienza era tutt'al più una fonte di modelli del pensiero,
ma certamente non una prassi che potesse rivivere. La sua ultima
opera, "La vita della mente", in cui le esperienze della vita
contemplativa vengono rivalutate ed esplorate a fondo, costituisce


una sorta di sigillo a questo disincantamento nei confronti della
politica. Eppure, la radicalità del suo distanziarsi costituisce a
tutt'oggi uno degli strumenti per descrivere l'espropriazione in cui
viviamo.

Il tempo ha probabilmente reso giustizia anche all'immagine della
"polis" di cui alcuni avevano criticato l'astoricità. Quando è apparso
chiaro che perfino la storia più materialistica non sarebbe possibile
senza modelli, in parte costruiti arbitrariamente dagli storici, è
risultato che i concetti con cui Hannah Arendt aveva costruito la sua
rapida immagine dell'Atene di Pericle non erano frutto di un
romanticismo anacronistico, ma di una singolare capacità di
penetrazione, alimentata oltrettutto da una conoscenza diretta delle
fonti (56). Non ci riferiamo soltanto al concetto di "isonomia" (che
Hannah Arendt interpreta correttamente come "uguaglianza politica"
di uomini che mantenevano la loro diversità sociale), ma soprattutto
all'eccezionalità di una democrazia, in cui l'espressione politica era
divenuta l'attività principale, che assorbiva ogni risorsa e capacità.
Un'espressione beninteso ossessiva, capace di produrre il primo
esempio articolato di democrazia diretta come i primi esempi di
intolleranza democratica e di faziosità (soprattutto nella sua fase di
declino). Dobbiamo ricordare che per Hannah Arendt questa
esperienza era pre-filosofica o meglio pre-platonica: se è vero che la
filosofia di Platone (nella "Repubblica" e soprattutto nel "Politico")
(57) esasperava l'ideale della «militanza» (58), e cioè del cittadino
come milite eternamente all'erta della propria città, è anche vero
che con Platone l'amministrazione della città (come dice Hannah
Arendt, l'ideale della comunità domestica allargata a tutta la "polis"
e subordinata al re-filosofo, che è superiore perfino alle leggi
comuni) soppianta l'ideale della democrazia. E' proprio a questo
punto critico, a questa svolta, che si deve l'inizio della tradizione
autoritaria in filosofia politica. E ciò significa, tra l'altro, che una
lettura della proposta arendtiana come "etica" (come sistema di
norme, di regole o di precetti pratici) scaturita da una superiore
capacità di pensare (59) è sostanzialmente errata. Non principi
razionali - quali che siano, argomentativi, comunicativi,
trascendentali o trascendenti - presiedono alla sfera degli affari
comuni degli uomini. La possibilità dell'agire insieme non discende
da un sistema di norme che emanerà sempre dall'alto, o da un


luogo separato (perfino nell'idea della "prudentia" aristotelica, per
non parlare delle ipotesi contrattualistiche), ma è affare di
pertinenza della politica, in ultima analisi, delle regole che gli uomini
si daranno autonomamente nel loro spazio politico.





5. La "vita activa" e il cosmo.



Negli ultimi anni, sono stati soprattutto gli aspetti del pensiero di
Hannah Arendt presentati nelle pagine precedenti ad attirare
l'attenzione della critica. Se la teoria dell'agire rientrava, nonostante
tutte le riserve a cui abbiamo accennato, nella svolta pratica della
filosofia contemporanea (60), la teoria della politica sembrava una
risposta alla crisi delle ideologie, e soprattutto di quella marxiana, a
cui nel bene e nel male era affidata, negli anni Sessanta e Settanta,
la possibilità di ripensare la democrazia. Ma la definizione
dell'identità inter-attiva dell'uomo esposta in questo saggio riposava
su alcuni assiomi, relativi soprattutto alla posizione dell'uomo nel
cosmo, che costituiscono la particolare «antropologia» di Hannah
Arendt. Si tratta di assiomi molto semplici e tuttavia, ancora una
volta, difficili da afferrare a prima vista, perché rimandano a una
visione spesso implicita, e ricostruibile tenendo presente l'insieme
delle opere di Hannah Arendt. Ci sembra opportuno esporli
brevemente, a conclusione di questa presentazione, perché offrono
delle prospettive interpretative su un problema che è divenuto oggi
di interesse dominante, ma che al tempo della stesura di "Vita
activa" cominciava appena a imporsi nel dibattito filosofico: ci
riferiamo alla relazione tra uomo e natura.

Gli assiomi della teoria politica arendtiana si riferiscono a tre
condizioni fondamentali della nostra esistenza (nel duplice senso di
«condizionamenti» e di «situazioni costitutive»). La prima condizione
è l'ambiente naturale, organico e inorganico, in cui vive l'uomo, la
Terra. L'attività che corrisponde a tale condizione è il "lavoro", con
cui la specie umana assicura la propria sopravvivenza. Il tipo umano


corrispondente è "animal laborans". La seconda condizione è
l'insieme di artefatti di cui l'uomo si circonda per dare permanenza
alla sua vita sulla terra. Questo insieme costituisce il Mondo umano,
a cui corrispondono l'attività dell'operare e il tipo dell'"homo faber".
La terza condizione - difficile da definire, perché è stata oscurata e
travisata nello sviluppo dell'Occidente, e perché il tipo umano
corrispondente è trascurabile (nemmeno i "politici di professione"
che "lavorano" in politica possono rientrarvi) - è ciò che i greci
chiamavano "polis", ovvero lo spazio pubblico in cui gli uomini
possono entrare in relazione gli uni con gli altri, e conservare la
memoria dei loro atti mediante il discorso. L'attività corrispondente è
l'"agire", nel senso della "politeia", e il tipo umano attivo in questo
spazio pubblico è quello che Aristotele definisce "zoon politikon".

Le tre attività compongono là "vita activa", distinta dalla "vita
contemplativa", che si svolge nell'interiorità dei soggetti e non
comporta né attività esteriori né relazioni con gli altri uomini. Qui
Hannah Arendt non intende stabilire il ruolo del pensiero nella
condizione umana, ma parte dal presupposto che alle fonti della
nostra cultura, la Grecia pre-platonica, le tre attività della "vita
activa" fossero collocate in una gerarchia di fatto che vedeva al
primo posto l'agire in comune o "politeia", al secondo l'operare e al
terzo il lavoro. Ora, "Vita activa" non è altro che il tentativo di
esaminare le relazioni teoriche e storiche tra queste attività
fondamentali. L'intera teoria si conclude nella constatazione della
scomparsa della più alta facoltà umana, l'"agire", e pone le
premesse di una ricerca ulteriore sullo statuto del pensiero nella
condizione umana.

Se fosse in gioco solo questa matrice teorica - come la critica ha
soprattutto ritenuto, e come in fondo abbiamo esposto in queste
pagine introduttive - la presentazione del saggio potrebbe chiudersi
qui, e i lettori potrebbero seguire direttamente il filo della riflessione
arendtiana, nonché la successiva serie di distinzioni concettuali
(sfera privata/sfera pubblica, cittadinanza/amministrazione,
soggettività/società, e così via) in cui Hannah Arendt articola la sua
teoria. Ma il fatto è che assiomi, definizioni e articolazioni della
teoria presuppongono un'implicita concezione del ruolo umano nel
cosmo. A tale concezione dobbiamo riferirci, sia per saggiare alcune


prospettive inattese della teoria, sia per accennare a relazioni poco
evidenti del pensiero arendtiano con il dibattito contemporaneo.

Possiamo partire dall'idea di "mortalità" (61). Ebrea non credente, e
comunque non praticante, Hannah Arendt ritiene che il solo punto di
riferimento per la brevità della vita umana sia la relativa stabilità del
cosmo (della Terra e del Cielo, per usare la terminologia di
Heidegger) (62). Per rendere tale relazione, con la cui
rappresentazione ebbe inizio la filosofia pre-socratica, si possono
citare alcuni versi di Bertolt Brecht, che Hannah Arendt ha posto in
esergo alla traduzione tedesca di "Vita activa" (63):



"Als im weissen Mut~erichosse aufwuchs Baal

War der Himmel schon so gross und still und fahl

Jung und nackt und ungeheuer wundersam

Wie ikn Baal dann liebte, als Baal kam.

[...]

Als im dunkeln Erdenschosse faulte Baal

War der Himmel noch so gross und still und fahl

Jung und nackt und ungeheuer wunderbar

Wie ihn Baal einst liebte, als Baal war".



[«Quando crebbe nel materno bianco ventre Baal

già era il cielo così grande e quieto e scialbo

giovane e nudo e immensamente strano

come piacque allora a Baal, quando Baal nacque.

[...]

Quando dentro il ventre buio della terra marcì

era ancora il cielo grande e quieto e scialbo

giovane e nudo e immensamente splendido

come piacque allora a Baal, quando Baal fu»] (64).



Se la trascendenza non è rappresentabile (e certo non lo era per
Hannah Arendt, che ha sempre mantenuto una completa discrezione
sulle sue credenze religiose) (65), e se la fine dell'autorità sacra
sulle cose del mondo non può essere certamente surrogata da
nuove mitologie, che cosa può proteggere la breve vita umana (dal
ventre materno al ventre della terra, sotto «il cielo così grande e


quieto e scialbo») dalla mancanza di senso? La risposta di Hannah
Arendt - nell'impossibilità di postulare una nuova alleanza tra terra e
cielo, tra mortali e divini - è precisamente il mondo come insieme
degli artefatti umani e, in esso, dello spazio politico. Qui «spazio
politico» non si riferisce soltanto al campo dell'agire imprevedibile,
ma anche allo spazio della memoria e del discorso, e quindi alla
tradizione, alla conservazione degli artefatti. Se in "Vita activa" c'è
un'accusa perfino violenta rivolta al moderno, essa riguarda
l'ossessione per il "consumo", sia nell'accezione di distruzione
incessante del mondo sia in quella di mera subordinazione alle
supposte soddisfazioni materiali. Una conseguenza diretta
dell'impoliticità del mondo moderno è la subordinazione di ogni
attività, talento e spinta umana al perpetuo rinnovamento del
metabolismo uomo-natura. Infatti, se il mondo degli artefatti è
l'intercapedine tra umanità e natura, tra Baal, il cielo scialbo e la
terra buia, la consumazione del mondo non può che portare
inevitabilmente all'impatto diretto tra uomo e natura, a un attacco
della natura suscettibile di conseguenze imprevedibili e irreversibili.

Quando Hannah Arendt stendeva "Vita activa", l'ecologia era
soltanto un settore specializzato delle scienze naturali, e i primi
manifesti della ondata ecologistica (che si sarebbe ingrossata a
partire dagli anni Sessanta) non erano ancora stati scritti. Hannah
Arendt, oltretutto, non derivava la prognosi sulla distruzione
dell'ambiente da ricerche specializzate, ma da una riflessione sul
senso dell'agire umano. Era estraneo al suo modo di pensare
qualsiasi assunto organicistico o vitalistico preliminare a una
definizione della relazione tra uomo e cosmo. D'altra parte, in
questo saggio come in altri, il concetto di natura non svolge alcun
ruolo evocativo o idilliaco; esso si riferisce in primo luogo alla
"nascita" (secondo un etimo raramente ricordato) (66), e quindi al
pathos della novità a cui è legata ogni nascita. Ma è proprio il nesso
natura-nascita che ci permette di riflettere sull'insensatezza di un
processo che si potrebbe riassumere anche come distruzione,
consapevole o no, dei luoghi della nascita - siano essi le abitazioni
costruite dall'uomo nel corso dello sviluppo culturale, oppure la terra
su cui esse poggiano o il cielo che le sovrasta. In questo senso,
distruggendo la natura, la società umana distrugge la condizione
fondamentale della propria nascita, e quindi della propria libertà.


C'è infatti una differenza abissale tra il "pathos" della novità nella
nascita - che è affine al cominciamento, all'"archein" dell'agire in
comune - e l'innovazione in-sensata, uniforme e senza inizio né fine
nella riproduzione quotidiana della vita, che è divenuta il principio
dominante del mondo contemporaneo. Analogamente, c'è una
differenza abissale tra l'imprevedibilità dell'agire - che si manifesta in
uno spazio condiviso - e l'imprevedibilità dell'azione umana sulla
natura. Finché uno spazio politico esiste, esso presuppone un cosmo
stabile, o meglio accettato nella sua eternità. E' solo quando il
cosmo diviene relativo - e il punto di leva dell'esistenza umana è
spostato fuori dalla terra e dal mondo - che lo spazio politico diviene
superfluo o troppo stretto. L'agire, che un tempo era confinato al
mondo umano, si riversa al di fuori di esso, fa oggetto della propria
imprevedibilità il cielo e la terra. Ma questo spostamento non ha
solo come diretta conseguenza la perdita dello spazio dell'agire. Per
quanto l'agire politico sia imprevedibile, esso non è in linea di
principio irreversibile, perché è soprattutto esercizio della parola, e
la parola può essere usata per ricordare o per perdonare, e perciò
per bloccare l'imprevedibilità, per non rendere irreversibili le
conseguenze dell'agire. Al contrario, l'agire rivolto alla natura non
conosce una parola pubblica che possa fermarne le conseguenze.
Non altre ci sembrano le difficoltà di frenare la distruzione in una
società complessa, e cioè in una società che ha rimosso l'agire, e
perso in realtà la capacità di decidere e di operare politicamente.

Il capitolo finale di "Vita activa", in cui Hannah Arendt discute
queste conseguenze fatidiche di una sparizione dell'agire (dello
spazio politico e del mondo che lo rendeva possibile) è stato scritto
probabilmente sotto l'influsso del pensiero di Martin Heidegger. Ma,
diversamente da quest'ultimo, Hannah Arendt non credeva che un
"Ereignis" (un «evento» (67) oppure una estrema manifestazione
del «proprio» del "Dasein" umano) avrebbe attribuito un senso
nuovo all'imperio della tecnica dispiegata, ultimo stadio ancora
conosciuto dell'espropriazione del mondo. Né nelle pagine di "Vita
activa" si troveranno vie d'uscita dalle aporie politiche del mondo
moderno. Questo saggio non offre consolazioni ai lamenti per la
perdita della natura, né ammicca all'utopia di una politicità
evidentemente impraticabile nel suo significato puro - nell'epoca in
cui l'intero mondo è divenuto una sola grande famiglia amministrata.


Se è consentito un accostamento (non arbitrario in termini di
contenuto, se non proprio da un punto di vista testuale), questo
saggio è permeato dallo stesso disincanto con cui, un secolo fa,
Jules Laforgue immaginava la sparizione della vita umana.



"Les temps sont révolus! Morte à jamais, la Terre,

Après un dernier râle (où tremblait un sanglot!)

Dans le silence noir du calme sans écho,

Flotte ainsi qu'une épave énorme et solitaire.

Quel rêve! Est-ce donc vrai? Par la nuit emporté

Tu n'es plus qu'un cercueil, bloc inerte et tragique:

Rappelle-toi pourtant! Oh, l'épopée unique!...

Non, dors, c'est bien fini, dors pour l'éternité".



[«I tempi son compiuti! Morta per sempre, la Terra,

dopo un estremo rantolo (un pianto vi tremava!)

In quel silenzio nero della calma senz'echi,

Fluttua come un relitto enorme e solitario.

Che sogno! E' dunque vero? Portato dalla notte,

Non sei più che una bara, inerte blocco tragico:

E tuttavia ricorda! Oh! l'unica epopea!...

No, dormi, è proprio finita, dormi per l'eternità»] (68).



Non sappiamo se Hannah Arendt avrebbe accettato un simile
paragone. Ma proprio lei, che apprezzava sopra ogni altra
espressione la parola poetica, sapeva che l'ironia dei poeti è il
passatempo più innocente e salutare quando dal mondo sono
bandite, o ridotte a mera parvenza, altre possibilità comuni di
parola. E in fondo "Vita activa" non è che un elogio della parola,
proferita in pubblico in un'epoca perduta e oggi solo possibile nella
singolarità della privatezza.



Alessandro Dal Lago

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