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mercoledì, febbraio 19, 2014

Cornelius Castoriadis II Progetto dell’Autonomia


II Progetto dell’Autonomia

1. Senso dell'autonomìa - L 'indivìduo

Tentiamo di comprendere che cos'è un individuo autonomo, e
che cos’è una società autonoma o non alienata.
Freud proponeva come massima della psicoanalisi «Dove era
Es. devo divenire Io» \Wo Es wur. sol! Idi wenleii)'. lo è qui. in
prima approssimazione, il conscio in generale. L’Es, rigorosamente
inteso come origine e luogo delle pulsioni («istinti»), dev'essere
preso in questo contesto come rappresentante dell'inconscio nel
senso più ampio, lo. coscienza e volontà, devo prendere il posto
delle forze oscure che. «in me», dominano e agiscono per me - «mi
agiscono», come diceva G. Groddcck . Queste forze non sono semplicemente
- né particolarmente, come vedremo più avanti - le pure
pulsioni, libido o pulsione di morte; sono anzitutto la loro interminabile,
fantasmatica e fantastica alchimia, sono anche e soprattutto
le forze di formazione e repressione inconsce, il Super-io e l'Io
inconsci. Un'interpretazione di tale frase diventa a questo punto
necessaria. Io devo prendere il posto di Es: questo non può significare
né la soppressione delle pulsioni, né l'eliminazione o il riassorbimento
dell’inconscio. Si tratta di prendere il loro posto in
quanto istanza dì decisione. L'autonomia sarebbe il dominio del
conscio sull’inconscio. Senza alcun pregiudizio per la nuova dimensione
di profondità rivelata da Freud', questo è il programma della
riflessione filosofica sull’individuo da venticinque secoli, ad un
tempo il presupposto e l’esito dell’etica così come l'hanno vista
Platone o gli stoici, Spinoza o Kant (è d’enorme importanza di per
sé, ma non per la presente discussione, il fatto che Freud propon165
ga una via efficace per raggiungere ciò che era rimasto per i filosofi
un «ideale» accessibile in funzione di un sapere astratto)4. Se
aH'autonomia, cioè al darsi leggi e regole da se stessi, si oppone
l'eteronomia, cioè il ricevere leggi e regole da un altro, allora l'autonomia
è la mia legge, opposta al regolamento elaborato dall’inconscio,
che è una legge altra, una legge datami da un altro.
In che senso si può dire che Tesser regolati dall’inconscio è il
soggiacere alla legge di un altro? Di quale altro si tratta? Di un altro
in senso letterale, non di «un altro Io» sconosciuto, ma di un altro
in me. Come dice Jacques Lacan, «l’inconscio è il discorso
dell’Altro». L’inconscio è fondamentalmente il precipitato degli
intenti, dei desideri, degli investimenti, delle esigenze, delle attese,
insomma delle significazioni di cui l’individuo è stato oggetto, fin
dal suo concepimento e addirittura da prima, da parte di coloro che
l'hanno generato e allevato3. Ne consegue, come implicazione dell'autonomia,
che il mio discorso deve prendere il posto del discorso
deH’Altro, d'un discorso estraneo che è in me e mi domina, che
parla attraverso di me. Questa delucidazione indica immediatamente
la dimensione sociale del problema (importa poco che l’Altro di
cui qui si tratta sia all’inizio l’altro in senso «ristretto», l’altro parentale;
attraverso tutta una serie di articolazioni evidenti, la coppia
parentale alla fine rimanda alla società intera e alla sua storia).
Ma qual è questo discorso dell’Altro, non più nelle sue origini,
ma nella sua qualità? E fino a che punto può essere eliminato?
La caratteristica essenziale, dal punto di vista che qui ci interessa,
è il rapporto che intercorre tra il discorso dell’Allro e I’/'hjmai’inario.
Il punto è che, dominato da questo discorso, il soggetto
si prende per qualcosa che non è (che in ogni caso il soggetto
non è necessariamente per lui stesso): ne consegue che gli altri ed
il mondo intero subiscono per il soggetto un travestimento corrispondente.
Il soggetto non si dice, ma viene detto da qualcuno, esiste
quindi come parte del mondo di un altro (certamente a sua volta
travestito). Il soggetto è dominato da un immaginario, che viene
vissuto come più reale del reale, anche se non è saputo come tale,
anzi proprio perché non è saputo come tale'1. L’essenziale dell’eteronomia
- o dell’alienazione, nel senso generale del termine - a
livello individuale, è la dominazione da parte di un immaginario
autonomizzato che si è arrogata la funzione di definire per il soggetto
tanto la realtà quanto il suo desiderio. La «repressione delle
pulsioni» come tale, il conflitto tra il «principio di piacere» e il
«principio di realtà», non costituiscono l'alienazione individuale
che è in fondo l’impero quasi illimitato di un principio di //-realtà.
Il conflitto importante al riguardo non è quello tra pulsioni e realtà
(se questo conflitto bastasse conte causa patogena, non vi sarebbe
mai stata neanche una sola risoluzione anche approssimativamente
normale del complesso di Edipo daH’origine dei tempi, e mai
un uomo e una donna avrebbero camminato su questa terra), ma
quello tra pulsioni e realtà, da una parte, e ¡'elaborazione immaginaria
interna al soggetto, da ll'a io#.
L’Es, nel motto di Freud, deve quindi esser compreso come elemento
significante essenzialmente quella funzione dell’inconscio
che investe di realtà l'immaginario, l'autonomizza e gli conferisce
potere di decisione, nella misura in cui il contenuto di questo
immaginario resta in rapporto con il discorso dell'Altro («ripetizione
», ma anche trasformazione amplificata di questo discorso).
Quindi proprio dove c ’era questa funzione dell’inconscio, dove
c'era il discorso dell’Altro che gli fornisce alimento. Io devo
subentrare. Ciò significa che il mio discorso deve prendere il posto
del discorso dell'Altro. Ma che cos’è il mio discorso? Che cos’è
un discorso che sia mio?
Un discorso che sia mio, è un discorso che abbia negato il
discorso dell’altro; che lo abbia negato, non necessariamente nel
suo contenuto, ma in quanto esso è discorso dell’Altro; in altre
parole, un discorso che, esplicitando ad un tempo l’origine e il
senso di quel discorso, lo abbia negato o affermato con cognizione
di causa, rapportandone il senso a ciò che si costituisce come
verità propria del soggetto, come la mia verità propria.
Se il motto di Freud, in questa interpretazione, fosse inteso in
senso assoluto, proporrebbe un obiettivo inaccessibile. Il mio
discorso non sarà mai integralmente mio nel senso definito prima.
Evidentemente, non potrò mai riprendere tutto, sia pure semplicemente
per ratificarlo. E inoltre - vi torneremo in seguito - la nozione
di verità propria del soggetto è essa stessa un problema molto
più che una soluzione.
Questo è altrettanto vero del rapporto con la funzione immaginaria
dell'inconscio. Come pensare a un soggetto che abbia totalmente
«riassorbito» la sua funzione immaginaria? Come si potrebbe
disseccare questa fonte al più profondo di noi stessi da dove
sgorgano al tempo stesso fantasmi alienanti e creazioni libere più
vere della verità, deliri irreali e poemi surreali, questo doppio
fondo eternamente ricominciato di ogni cosa senza di cui niente
avrebbe sfondo, come eliminare ciò che è alla base di, o in ogni
caso inestricabilmente legato a. quel che ci fa uomini - la nostra
funzione simbolica - che presuppone la nostra capacità di vedere
e pensare in una cosa ciò che essa non è?
Se dunque non si vuol fare della massima di Freud una semplice
idea regolativa, la cui definizione faccia riferimento ad una
condizione irraggiungibile, risultando così una nuova mistificazione,
bisogna darle un altro senso. La massima di Freud deve essere
intesa in quanto rimanda non già a uno stato compiuto, ma a
una situazione attiva; non a una persona ideale, divenuta Io una
volta per tutte, che sia capace di emettere un discorso esclusivamente
suo, e che non produca mai fantasmi, ma a una persona
reale, che non interrompe il movimento con cui riprende ciò che
era acquisito e si appropria del discorso dell’Altro: a una persona
reale, capace di svelare i propri fantasmi come fantasmi, da cui in
definitiva non si fa dominare, a meno che non lo voglia. Non si
tratta di un semplice «tendere verso», ma di una situazione concreta,
definibile da caratteristiche che la separano radicalmente
dallo stato di eteronomia. Queste caratteristiche non consistono in
una «presa di coscienza» effettuata una volta per sempre, ma in un
altro rapporto tra conscio e inconscio, tra lucidità e funzione
immaginaria, in un altro atteggiamento del soggetto nei confronti
di se stesso, in una modifica profonda del miscuglio attività-passività.
del segno sotto cui esso si effettua, del posto rispettivo dei
due elementi che lo compongono. Quanto poco si tratti, in tutto
ciò, di una presa del potere da parte della coscienza in senso stretto,
lo mostra il fatto che si potrebbe completare la sentenza di
Freud con il suo contrario: Dove Io sono. Es deve sorgere ( Wo Id i
bin, soli Es auftaudien). Anche desiderio e pulsioni - che si tratti
di Eros o di Thanatos - sono lo e si tratta di portarli non solo
alla coscienza, ma all'espressione e all’esistenza*. Un soggetto
autonomo è un soggetto che si sa fondato a concludere: questo è
vero, ma anche: questo è davvero il mio desiderio.
L’autonomia non è quindi né delucidazione senza residui né eliminazione
totale del discorso dell’Altro nel suo essere ignorato
come tale, ma instaurazione di un altro rapporto tra il discorso
dell'Altro ed il discorso del soggetto. L’eliminazione totale del
discorso dell’Altro non saputo come tale è una condizione nonstorica.
Il peso del discorso dell’Altro non saputo come tale lo si
può riconoscere anche in quegli autori che hanno tentato nel modo
più radicale di andare al tonilo deH'interrogazione e della critica
dei presupposti taciti, che si chiamino Platone, Cartesio, Kant,
Marx o Freud stesso. Ma vi sono coloro che - come Platone o
Freud - non si sono mai fermati in questo movimento; e vi sono
coloro che si sono fermati, e che si sono a volte, a causa di ciò,
alienati al proprio discorso, divenuto altro. Esiste la possibilità permanente
e in permanenza attualizzabile di guardare, rendere obiettivo,
mettere a distanza, distaccare e infine trasformare il discorso
dell’Altro in discorso del soggetto.
Ma che cos’è questo soggetto? Questo terzo termine della frase
di Freud che deve subentrare laddove era Es, non è certamente
l’Io puntuale dell’«io penso», né il puro soggetto-attività, senza
ostacoli né inerzia, questo fuoco fatuo dei filosofi soggettivisti,
questa fiamma liberata da ogni supporto, vincolo e nutrimento.
L'attività del soggetto che «lavora su se stesso» incontra come
proprio oggetto l'insieme dei contenuti (il discorso dell'Altro) dai
quali non si libera mai; e, senza questo oggetto, tale attività semplicemente
non è. Il soggetto è anche attività, ma l’attività è attività
su qualcosa, diversamente non è nulla. Tale attività è quindi
co-determinata da quel che essa si dà come oggetto. Ma questo
aspetto deli'inerenza reciproca del soggetto e dell’oggetto - l'intenzionalità,
il fatto che il soggetto non è se non nella misura in
cui pone un oggetto - è solo una prima determinazione, relativamente
superficiale, è ciò che porta il soggetto al mondo e in permanenza
lo mette in movimento. C’è un’altra determinazione che
non riguarda l’orientamento delle fibre intenzionali del soggetto,
ma la loro stessa materia, che porta il mondo nel soggetto e fa
entrare il movimento in ciò che egli potrebbe credere la propria
quiete. Infatti che cos’è questo soggetto attivo che è soggetto di...,
che evoca davanti a sé, pone, oggettiva, guarda e mette a distanza?
E forse puro sguardo, capacità nuda di evocazione, messa a
distanza, scintilla intemporale, non-dimensionalità? No, è sguardo
e supporto dello sguardo, pensiero e supporto del pensiero, attività
e corpo che agisce - corpo materiale e corpo metaforico. Uno
sguardo in cui non vi sia già qualcosa di guardato non può veder
nulla; un pensiero in cui non vi sia già qualcosa di pensato non
può pensar nulla1'. Ciò che abbiamo definito supporto non è il semplice
supporto biologico, ma il fatto che un contenuto qualsiasi è
sempre già presente, senza però ridursi a residuo, scoria, ingombro
o materia indifferente, bensì come condizione efficiente deli'attivìtìi
del soggetto. Questo supporto, questo contenuto non è né
semplicemente del soggetto, né semplicemente dell'altro (o del
mondo). E l’unione prodotta e produttrice di sé e dell'altro io del
mondo). Nel soggetto come soggetto vi è il non-soggetto, e tutte
le buche in cui la filosofia soggettivistica inciampa, se le scava da
sola dimenticando questa verità fondamentale. Nel soggetto vi è
certo come suo momento «quel che non può mai diventare oggetto
», la libertà inalienabile, la possibilità sempre presente di girare
10 sguardo, di fare astrazione da ogni contenuto determinato, di
mettere tra parentesi tutto, compreso se stesso, salvo il fatto che
11 soggetto stesso è questa capacità che risorge come presenza e
prossimità assoluta nel momento in cui si pone essa stessa a
distanza da tutto. Ma questo momento è astratto, è vuoto, non ha
mai prodotto e non produrrà mai qualcosa di diverso dall'evidenza
muta e inutile del cogito situi, la certezza immediata di esistere
come cosa pensante, che non può neppure portarsi legittimamente
all’espressione per il tramite della parola. Infatti non appena
la parola, anche non pronunciata, apre una prima breccia, il
mondo e gli altri si infiltrano da ogni parte, la coscienza viene
inondata dal torrente delle significazioni, che proviene, per così
dire, dall'interno, e non dall’esterno. Solo attraverso il mondo si
può pensare il mondo. Appena il pensiero è pensiero di qualcosa,
il contenuto risorge, non solo in ciò che è da pensare, ma in ciò
attraverso cui viene pensato (darin, wodurch es gedaclit mrd).
Senza questo contenuto, al posto del soggetto si troverebbe solo
il suo fantasma. E in questo contenuto, vi sono sempre l’altro e
gli altri, direttamente o indirettamente. L'altro è ugualmente presente
anche nella forma e nel fatto del discorso, come esigenza di
confronto e di verità (il che evidentemente non equivale a confondere
la verità con l’accordo delle opinioni). Infine, solo in apparenza
esula dal nostro discorso ricordare che il supporto di questa
unione del soggetto e del non soggetto nel soggetto, la cerniera di
questa articolazione di sé e dell’altro, è il corpo, struttura «materiale
» carica di un senso virtuale, che non è alienazione - ciò non
vorrebbe dire nulla - ma partecipazione al mondo e al senso, attaccamento
e mobilità, pre-costituzione di un universo di significazioni
prima di ogni pensiero riflesso.
Proprio perché «dimentica» questa struttura concreta del soggetto,
la filosofia tradizionale, narcisismo della coscienza affascinata
dalle proprie forme nude, riduce al rango di condizioni di servitù
tanto l’altro quanto la corporeità. Volendosi poi fondare sulla
libertà pura di un soggetto fittizio, si condanna a ritrovare l’alienazione
del soggetto effettivo come problema insolubile; analogamente.
volendo fondarsi su di una razionalità esauriente, è costretta
a scontrarsi costantemente con la realtà intollerabile di un irrazionale
irriducibile. Così, alla fine, diventa un'impresa irrazionale
e alienata; tanto più irrazionale, quanto più cerca, approfondisce e
purifica indefinitamente le condizioni della propria razionalità;
tanto più alienata, quanto più continua ad affermare la sua libertà
nuda, mentre quest’ultima è al tempo stesso incontestabile e vana.
Il soggetto in questione non è dunque il momento astratto della
soggettività filosofica, ma il soggetto effettivo, penetrato da ogni
lato dal mondo e dagli altri. L'Io dell’autonomia non è Sé assoluto,
monade che pulisce e leviga la sua superficie esterna-interna
per eliminarne le impurità implicate dal contatto con altri, ma
istanza attiva e lucida che riorganizza costantemente i propri contenuti
aiutandosi con questi stessi contenuti, istanza produttiva in
virtù d ’un materiale e in funzione di bisogni e di idee che risultano
a loro volta debitori a quanto è stato prodotto da questa stessa
istanza soggettiva.
Non può trattarsi, neppure sotto questo profilo, di eliminazione
totale del discorso dell'altro, non solo perché ciò sarebbe un
compito interminabile, ma poiché l’altro è di volta in volta presente
nell'attività che r«elimina»10. Ed è per questo che non può
esistere alcuna «verità propria» del soggetto in senso assoluto. La
verità propria del soggetto è sempre partecipazione a una verità
che lo supera, che si radica e lo radica in definitiva nella società
e nella storia, anche quando il soggetto realizza la sua autonomia.

2. D im en sio n e so c ia le d e l!'a u to n om ia
Abbiamo parlato a lungo del senso dell’autonomia per l’individuo.
poiché in primo luogo era necessario distinguere chiaramente
e decisamente questo concetto dalla vecchia idea filosofica della
libertà astratta, le cui risonanze si ritrovano persino nel marxismo.
Inoltre solo questa concezione dell'autonomia e della struttura
del soggetto rende possibile e comprensibile la prassi da noi definita
come «quel fare nel quale l’altro o gli altri sono presi di mira
come esseri autonomi e considerati agenti essenziali dello sviluppo
della loro autonomia»11. In ogni altra concezione una simile
«azione di una libertà su un'altra libertà» resta lina contraddizione
in termini, un’impossibilità perpetua, un miraggio o un miracolo.
Oppure dovrebbe confondersi con le condizioni e i fattori
deU’eteronomia, poiché tutto ciò che viene dall'altro riguarda i
«contenuti di coscienza» o la «psicologia» e perciò rientra nell'ambito
delle cause esterne; in una simile concezione finiscono
per incontrarsi l’idealismo soggettivista ed il positivismo psicologista.
Ma in realtà, è proprio perché l’autonomia dell’altro non è
folgorazione assoluta né semplice spontaneità che mi è possibile
averne di mira lo sviluppo. L’autonomia non significa l'eliminazione
pura e semplice del discorso dell’altro, ma la rielaborazione
di questo discorso, in modo che l'altro non sia materiale indifferente
ma importi per il contenuto di ciò che dice: solo così diventa
possibile un’azione inter-soggettiva non più condannata a restare
vana o a contrastare Con la sua semplice esistenza ciò che è stato
presupposto come suo principio. In mancanza di ciò non potrebbe
esserci una politica della libertà e si sarebbe costretti a scegliere
tra il silenzio e la manipolazione o ci si dovrebbe ridurre alla
magra consolazione del «dopo tutto l’altro farà quel che vorrà». E
solo per questo, in definitiva, che sono responsabile di quanto dico
e di quanto taccio12.
Infine l’autonomia, così come l'abbiamo definita, porta direttamente
al problema politico e sociale. La concezione che abbiamo
delineata mostra ad un tempo che non si può volere l’autonomia
senza volerla per tutti e che la sua realizzazione non può concepirsi
appieno se non come impresa collettiva. Se non si tratta più
di intendere con questo termine né la libertà inalienabile di un soggetto
astratto, né il dominio da parte di una coscienza pura su di
un materiale indifferenziato ed essenzialmente «identico» per tutti
e per sempre, ostacolo bruto che la libertà dovrebbe superare («passioni
», «inerzia», ecc.); se il problema dell’autonomia sta nel fatto
che il soggetto incontra in se stesso un senso che non è suo e che
deve trasformare utilizzandolo; se l’autonomia è questo rapporto in
cui gli altri sono sempre presenti come alterità e come ipseità del
soggetto - allora l’autonomia non è concepibile, già a livello filosofico,
se non come un problema e un rapporto sociale.
Tuttavia il termine sociale contiene qui più di quanto abbiamo
finora esplicitato e rivela subito una nuova dimensione del problema.
Ciò a cui ci siamo direttamente riferiti fino a questo punto,
non va oltre l’inter-soggettività, anche se l'abbiamo intesa in un’
estensione illimitata - il rapporto da persona a persona, sia pure
articolato all'infinito. Ma questo rapporto si situa a sua volta in un
insieme più ampio, che è il sociale propriamente detto.
In altri termini; che il problema del l'autonomia rimandi subito,
anzi che esso sia identico, al problema della relazione fra il soggetto
e l’altro o gli altri; che l’altro o gli altri non vi appaiano come
ostacoli esterni o maledizione subita - «l'inferno sono gli altri»11,
«vi è quasi un maleficio nell’esistenza in comune» - ma che siano
invece costitutivi del soggetto, del suo problema e della sua possibile
soluzione: tutto ciò non fa che confermare qualcosa di ben noto
da sempre a chi non è fuorviato dll'ideologia d’un certo tipo di filosofia:
e cioè il fatto che l'esistenza umana è una esistenza in comune
e che tutto quello che viene detto al di fuori di questo presupposto
- proprio quando, a cose latte, ci si affatica a reintrodurre
«l'altro», il quale si vendica di essere stato escluso all'inizio dalla
soggettività «pura» e fa resistenza - è non-senso. Ma questa esistenza
in comune, che si presenta anche come inter-soggettività
prolungata, non resta, e a dire il vero non è, nella sua origine, semplice
inter-soggettività, ma esistenza sociale e storica, ed è questa
per noi la dimensione essenziale del problema. L’elemento intersoggettivo
è, in qualche modo, la materia di cui è fatto il sociale,
ma questa materia non esiste se non come parte e momento di quel
sociale che essa forma, ma che inoltre presuppone.
Il sociale-slorico14 non è né la sommatoria indefinita dei reticoli
dell'inter-soggettività (anche se è anche questo) né tantomeno
il loro semplice «prodotto»: sì invece il collettivo anonimo, l'umano-
impersonale che riempie ogni formazione sociale data, ma
che inoltre l’ingloba, che inserisce ogni società tra le altre, e le
inscrive tutte in una continuità in cui in qualche modo coesistono
le società scomparse, quelle che sono altrove e anche quelle che
non sono ancora nate. Si tratta, dunque, da un lato, d'un insieme
di strutture date, d'istituzioni e opere «materializzate», che siano
o meno materiali, e, d ’altro lato, di cM che struttura, istituisce,
materializza. In sintesi, il sociale-storico è l’unione e la tensione
della società istituente e della società istituita, della storia fatta e
della storia che si fa.

3. L 'eterenomia istutuita:
l'alienazione come fenomeno sociale
L'alienazione trova le sue condizioni, oltre l’inconscio individuale
e il rapporto inter-soggettivo che vi si gioca, nel mondo
sociale. Oltre il «discorso dell’altro», vi è quel che lo carica di un
peso irremovibile che limita e rende quasi vana ogni autonomia
individuale13. E quel che si manifesta come massa di condizioni di
privazione e di oppressione, come struttura solidificata globale,
materiale e istituzionale, di economia, potere e ideologia, come
mistificazione, manipolazione e violenza. Nessuna autonomia individuale
può superare le conseguenze di questo stato di cose, annullando
gli effetti sulla nostra vita della struttura oppressiva della
società in cui viviamo1'1. L’alienazione, ("eteronomia sociale, non
si manifesta semplicemente come «discorso dell’altro», anche se
quest’ultimo vi svolge un ruolo decisivo in quanto determinazione
e contenuto dell’inconscio e del conscio della massa degli individui.
Ma al suo interno l’altro scompare nell’anonimato collettivo,
nell'impersonalità dei «meccanismi economici del mercato» o
della «razionalità del Piano», della legge di pochi presentata come
la legge e basta. E. parallelamente, quel che ora rappresenta l’altro
non è più un discorso: è una mitragliatrice e un ordine di mobilitazione.
una busta-paga e merci costose, una decisione di tribunale
e una prigione. U«altra» è ormai «incarnato» altrove rispetto
aH'ineonscio individuale, anche se la sua presenza per delega17
nell’inconscio di tutti gli interessati (colui che tiene la mitragliatrice.
colui per il quale e colui davanti al quale è tenuta) è condizione
necessaria di questa incarnazione; ma l'inverso è ugualmente
vero: il fatto che vi siano alcuni che maneggiano mitragliatrici
è senza dubbio condizione del perpetuarsi dell'alienazione. A questo
livello il problema della priorità dell'ima o dell'altra condizione
non ha senso, e ciò che qui ci interessa è la dimensione propriamente
sociale1*.
Quindi l'alienazione si presenta come alienazione istituita, in
ogni caso come alienazione pesantemente condizionata dalle istituzioni
(questo termine è qui inteso nel suo senso più ampio, compresa
in particolare la struttura dei rapporti reali di produzione). E
il rapporto dell'alienazione alle istituzioni appare duplice.
In primo luogo, le istituzioni possono essere, e in realtà sono,
alienanti nel loro contenuto specifico. Lo sono in quanto esprimono
e sanciscono una struttura di classe, più in generale una divisione
antagonistica della società e, correlativamente, il potere di
una determinata categoria sociale sulle altre. Lo sono anche in
modo specifico per ognuna delle classi o ceti di una società data.
Così l'economia capitalista - produzione, ripartizione, mercato, e
così via - è alienante in quanto consustanziale alla divisione della
società in proletari e capitalisti; lo è anche in modo specifico per
ognuna delle due classi in questione, per i proletari beninteso, ma
anche per i capitalisti; abbiamo già rettificato in altra sede il semplicismo
della considerazione marxista che vede nei capitalisti
semplici ingranaggi dei meccanismi economici19, ma naturalmente
non si deve cadere neU'errore opposto, sognando capitalisti liberi
nei confronti delle «loro» istituzioni.
Ma oltre a questo aspetto e in modo più generale - dato che
ciò vale anche per società che non presentino divisioni antagonistiche.
come molte società arcaiche - vi è alienazione della società
alle sue istituzioni, senza distinzione di classe. Non intendiamo con
ciò gli aspetti specifici che colpiscono «ugualmente» classi diverse,
né il fatto che la legge, pur al servizio della borghesia, ne sia
anche un limite. Ci riferiamo al fatto ben più importante che Pi
stituzione. una volta posta, sembra autonomizzarsi. possedere una
inerzia ed una logica proprie, superare nella sua sopravvivenza e
nei propri effetti, la sua funzione, i suoi «fini» e la sua «ragion
d'essere». Le evidenze si capovolgono; ciò che poteva esser visto
«all'inizio» come un insieme di istituzioni al servizio della società,
diventa ora una società al servizio delle istituzioni.

4 . Il «comuniSmo» nella sua accezione mitica
Il superamento dell'alienazione sotto queste due forme è stato,
com'è noto, un’idea centrale del marxismo. La rivoluzione proletaria
sarebbe dovuta culminare, dopo una transizione, nella «fase
superiore del comunismo», e un tale passaggio segnerebbe «la fine
della preistoria dell'umanità e l'ingresso nella sua autentica storia»,
«il salto dal regno della necessità al regno della libertà». Queste
idee sono restate imprecise20 e, in questa sede, non tenteremo di
esporle sistematicamente, né di discuterle alla lettera. Ci basterà
ricordare che hanno connotato più o meno esplicitamente non solo
l’abolizione delle classi, ma l’eliminazione della divisione del lavoro
(«non vi saranno più pittori, ma uomini che dipingono»), una
trasformazione delle istituzioni sociali difficile da distinguere, al
limite, dall’idea di soppressione totale di ogni istituzione («estinzione
dello Stato», eliminazione di ogni vincolo economico) e, sul
piano filosofico, l'insorgenza d ’un «uomo totale» e di un'umanità
ormai in grado di «dominare la propria storia».
Tali idee, malgrado il loro carattere vago, remoto, quasi gratuito,
non solo esprimono un problema vero, ma sorgono ineluttabilmente
sul cammino della riflessione politica rivoluzionaria. Nel
marxismo, è incontestabile che esse siano la conclusione della sua
filosofia della storia, in loro assenza indefinibile. Ciò che si può
deplorare non è il fatto che Marx ed Engels ne abbiano parlato,
ma che non ne abbiano parlato a sufficienza; non già per fornire
«ricette alle cucine socialiste del futuro», né per dedicarsi a una
definizione e descrizione utopiche di una società futura, ma per
tentare di coglierne il senso in rapporto ai problemi presenti e in
particolare in rapporto al problema deH'alienazione. La prassi non
può eliminare il bisogno di delucidare l’avvenire che vuole; come
la psicoanalisi non può eludere il problema del/della fin e dell'analisi
così la politica rivoluzionaria non può schivare la questione
del proprio esito e del senso di questo esito.
Ci importano poco l’esegesi e la polemica riguardo a un problema
finora rimasto nel vago. Nelle intuizioni di Marx sul superamento
dell’alienazione, si trova una serie di elementi incontestabilmente
veri: in primo luogo, naturalmente, la necessità di abolire
le classi, ma anche l'idea di una trasformazione delle istituzioni
tale che un'immensa distanza debba in realtà finire per separarle
da ciò che esse hanno rappresentato fin qui nella storia; e
tutto ciò presuppone e comporta al tempo stesso uno sconvolgimento
nel modo di essere degli uomini, individualmente e collettivamente,
di cui è difficile scorgere i limiti. Ma tali elementi
hanno subito, talvolta negli stessi Marx ed Engels, e in ogni caso
nei marxisti, uno slittamento verso una mitologia mal definita ma
in fondo mistificatrice, che provoca una polemica o infanti mitologia
anch'essa mitologica negli avversari della rivoluzione. Una
delimitazione in rapporto a queste due mitologie, che del resto condividono
una base comune, è di per sé necessaria, ma permette
anche di avanzare nella comprensione positiva del problema.
Se con comuniSmo («fase superiore») si intende una società da
cui sarebbe assente ogni resistenza, ogni spessore, ogni opacità:
una società puramente trasparente a se stessa; in cui i desideri di
tutti s'accordassero spontaneamente o, per accordarsi, avessero
solo bisogno di un dialogo alato mai appesantito dal simbolismo;
una società che scoprisse, formulasse e realizzasse La propria
volontà collettiva senza passare attraverso le istituzioni, o una
società le cui istituzioni non avessero più nulla di problematico:
ebbene, se si intende questo, allora è necessario dire con chiarezza
che si tratta di una fantasticheria incoerente, d'una condizione
irreale e irrealizzabile la cui rappresentazione deve essere eliminata.
Si tratta cioè d'una formazione mitica, equivalente e analoga
a quella del sapere assoluto o d'un individuo la cui «coscienza
» abbia riassorbito l’essere intero.
Nessuna società sarà mai totalmente trasparente, innanzitutto
perché gli individui che la compongono non saranno mai trasparenti
a se stessi, poiché è impossibile eliminare Vinconscio. Inoltre,
perché il sociale non implica solo gli inconsci individuali, e nemmeno
semplicemente le loro inerenze inter-soggettive reciproche,
i rapporti tra persone, consci e inconsci, che non potranno mai
esser dati integralmente come contenuto trasparente a tutti, senza
introdurre il duplice mito di un sapere assoluto posseduto ugualmente
da tutti: il sociale implica un qualcosa che non può mai esser
dato come tale. La dimensione sociale-storica, come dimensione
del collettivo e dell'anonimo, instaura per ognuno e per tutti un
rapporto simultaneo di interiorità ed esteriorità, di partecipazione
ed esclusione, che non può essere abolito, e neanche venir «dominato
» in nessun senso di questo termine. Il sociale è tutti e nessuno,
ciò che non è mai assente e quasi mai presente come tale, un
non-essere più reale di ogni essere, ciò in cui noi tutti siamo
immersi da ogni parte ma che non possiamo mai afferrare «in carne
e ossa». Il sociale è una dimensione indefinita, anche se in ogni
istante circoscritta; una struttura definita e allo stesso tempo in
mutamento, un’articolazione oggettivabile di categorie d ’individui
e ciò che. oltre tutte le articolazioni, sostiene la loro unità. E ciò
che si dà come struttura - forma e contenuto indissociabili - degli
insiemi umani, ma che supera ogni struttura data, un'energia produttrice
inafferrabile, un che d ’informe che però dà forma, un sempre
più e sempre anche altro. Il sociale è ciò che può presentarsi
solo entro e attraverso t*istituzione, ma che è sempre infinitamente
più dell’istituzione, poiché è, paradossalmente, nello stesso
tempo ciò che riempie l’istituzione, ciò che essa forma, ciò che ne
sovradetermina costantemente il funzionamento e ciò che, in fin
dei conti, la fonda: la crea, la mantiene in esistenza, l’altera, la
distrugge. Vi è il sociale istituito, ma esso presuppone sempre il
sociale istituente. «In tempi normali» il sociale si manifesta nell’istituzione,
iti a tale manifestazione è ad un tempo vera e in qualche
modo fallace, come mostrano i momenti in cui il sociale istituente
irrompe e si mette in opera a mani nude, cioè i momenti di
rivoluzione. Ma tale opera mira immediatamente a un risultato,
cioè a darsi di nuovo un'istituzione per esistere in essa in modo
visibile; e non appena questa istituzione è posta, il sociale istituente
sfugge, si mette a distanza, è già anche altrove21.
Il nostro rapporto al sociale - e allo storico, che ne è il dispiegamento
nel tempo - non può chiamarsi rapporto di dipendenza:
ciò non avrebbe senso. E un rapporto d'inerenza, che come tale
non è né libertà, né alienazione, ma il solo terreno su cui libertà e
alienazione possono esistere, e che unicamente il delirio di un narcisismo
assoluto potrebbe voler abolire, deplorare, o vedere come
una «condizione negativa». Se si vuole ad ogni costo cercare un
analogo o una metafora di questo rapporto, la si troverà nel nostro
rapporto con la natura. Questa appartenenza alla società e alla storia.
infinitamente evidente e infinitamente oscura, questa consustanzialità,
identità parziale, partecipazione a qualcosa che ci supera
indefinitamente, non è un’alienazione, così come non lo sono la
nostra spazialità e la nostra coiporeità. in quanto aspetti «naturali»
della nostra esistenza, che la «sottopongono» alle leggi della fisica,
della chimica, o della biologia. Sono alienazione solo nei fantasmi
di una ideologia che rifiuta l’esistente in nome di un desiderio
polarizzato da un miraggio - il possesso totale o il soggetto
assoluto - , un desiderio che insomma non ha ancora appreso a vive178
re, né a vedere, e quindi non può vedere nell'essere che privazione
e mancanza intollerabili, a cui contrappone l’Essere (fittizio).
Questa ideologia che non può accettare l'inerenza, la finitézza,
la limitazione e la mancanza, coltiva in due modi il disprezzo della
realtà «non ancora matura» che non riesce a raggiungere: ora attraverso
la costruzione di una finzione «piena», ora attraverso l'indifferenza
per ciò che è e per ciò che se ne può fare. Il che si manilèsta,
sul piano teorico, nell’esigenza esorbitante di recupero integrale
del «senso» della storia passata e futura; e sul piano pratico,
nell’idea, non meno esorbitante, dell'uomo «che domina la sua storia
», padrone e possessore della storia, come sarebbe sul punto di
diventare, a quanto pare, padrone e possessore della natura. Tali
idee, nella misura in cui si trovano nel marxismo, tradiscono la sua
dipendenza dall'ideologia tradizionale, così come tradiscono la
loro dipendenza dall'ideologia tradizionale e dal marxismo le proteste
simmetriche e indispettite di coloro che, sulla base della
costatazione che la storia non è oggetto di possesso né trasformabile
in soggetto assoluto, inferiscono la perennità dell'alienazione.
Ma dire che l'inerenza degli individui o di ogni società determinata
a un sociale e a uno storico che li superano in tutte le dimensioni,
dire che questa inerenza è alienazione, ha senso solo ponendosi
nell'ottica della «miseria dell'uomo senza Dio».
La prassi rivoluzionaria, proprio poiché è rivoluzionaria e deve
osare al di là del possibile, è «realista» nel senso più vero e comincia
accettando l’essere nelle sue determinazioni profonde. Per essa
un soggetto che fosse slegato da ogni inerenza alla storia - magari
avendone recuperato il «senso integrale»- o che avesse preso la
tangente rispetto alla società - magari «dominando» in maniera
esauriente il proprio rapporto a essa - non è un soggetto autonomo
ma psicotico. E, mutatis mwandis, lo stesso vale per ogni
società determinata: quand’anche comunista, una società può
emergere, esistere e definirsi solo sulla base del sociale-storico che
è oltre ogni società e ogni storia particolare e le nutre tutte. Non
soltanto non si tratta di recuperare un «senso» della storia passata,
ma non è possibile «dominare», nel senso corrente del termine.
la storia futura, a meno che non si persegua il fine, del resto
e per fortuna irrealizzabile, della distruzione della creatività della
storia. Per ribadire, come semplice immagine, ciò che abbiamo
detto sul senso dell’autonomia per l'individuo, così come non si
può eliminare o riassorbire l’inconscio, è altrettanto impossibile
eliminare e riassorbire questo fondamento illimitato ed insondabile
su cui riposa ogni società determinata.
E ugualmente fuori discussione l'idea di una società senza istituzioni,
quale che sia lo sviluppo degli individui, il progresso della
tecnica o l’abbondanza economica. Nessuno di questi fattori sopprimerà
gli innumerevoli problemi costantemente posti dall’esistenza
collettiva degli uomini, e perciò neanche la necessità di
accordi e procedure che permettano di discuterne e decidere, a
meno che non si postuli una mutazione biologica dell’umanità in
virtù della quale si realizzi la presenza immediata di ciascuno in
tutti e di tutti in ciascuno (ma gli autori di fantascienza si sono
accorti che uno stato di telepatia universale comporterebbe solo un
enorme disturbo generalizzato produttore unicamente di rumore e
non di informazione). E allo stesso tempo fuori discussione l’idea
di una società che coincida integralmente con le proprie istituzioni,
che sia esattamente ricoperta con precisione e senza residui dal
tessuto istituzionale, che, dietro questo tessuto, non abbia alcuno
spessore materiale: una società appiattita a un mero reticolo di istituzioni.
Vi sarà sempre distanza tra la società istituente e ciò che.
volta per volta, è istituito. Tale distanza non è un elemento negativo
o una carenza, ma è una delle espressioni della creatività della
storia, quel che le impedisce di irrigidirsi una volta per tutte nella
«forma finalmente trovata» dei rapporti sociali e delle attività
umane. Grazie ad essa, ogni società contiene sempre più di quanto
non mostri. Voler abolire tale distanza, in un modo o nell'altro,
non vuol dire saltare dalla preistoria alla storia o dalla necessità
alla libertà, ma voler saltare nell’assoluto immediato, cioè nel niente.
Come l’individuo non può cogliere o darsi alcunché - non se
stesso né tanto meno il mondo - al di fuori del simbolico, così una
società non può darsi nulla al di fuori di quel simbolico di secondo
grado che sono le istituzioni. E così come non posso definire
alienazione il mio rapporto al linguaggio come tale - in cui posso
bensì dire tutto ma non quel che è assolutamente indeterminato, di
fronte al quale sono ad un tempo condizionato e libero, rispetto al
quale una decadenza è possibile ma non ineluttabile - , è altrettanto
insensato dire che il rapporto alla società è, come tale, alienazione.
L’alienazione appare in questo rapporto, ma non è questo
rapporto, così come l'errore e il delirio sono possibili solo nel linguaggio,
ma non sono il linguaggio.

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