La dittatura del tempo astratto
Robert Kurz
Il lavoro come disturbo comportamentale della modernità
Nella storia del pensiero occidentale la
lingua della filosofia e della scienza si è distaccata sempre più da
quella dell’uomo della strada, per trasformarsi nel linguaggio criptico
di una casta sacerdotale del sapere borghese, elitaria e separata dal
resto della società. Sono rari i concetti che appartengono
simultaneamente sia alla sfera della riflessione teoretica sia a quella
della vita pratica quotidiana. Nella maggior parte dei casi si tratta di
qualcosa di particolarmente "ambiguo" che fornisce involontariamente la
prova dell’assurdità della società borghese. Il "lavoro" è uno di
questi concetti: da un lato rappresenta una categoria filosofica,
economica e sociologica, dall’altro viene impiegato in una sconcertante
molteplicità di accezioni nella prassi esistenziale di ogni individuo.
Questo carattere del particolare significato del lavoro rimanda a un
nesso universale nel mondo
moderno. Nessuna parola è così chiara di primo acchito e successivamente
così enigmatica come questa. L’ambiguità di significato della categoria
de lavoro si rende evidente già nel fatto che essa può venire adoperata
tanto in senso affermativo quanto in senso oppositivo. Il marxismo ha
sempre cercato di reclamare per sé il lavoro in quanto ideale positivo,
distinguendolo dal presunto "non lavoro" del mondo borghese e dei suoi
rappresentanti. La stampa socialista del XIX secolo amava illustrare
nelle sue caricature i capitalisti alla stregua di parassiti corpulenti o
come dandy o flaneurs che conducevano una vita piacevole e
"sfaccendata" sulle spalle della classe lavoratrice. Per questa ragione
l’istanza fondamentale era sbarazzarsi degli "oziosi" invece che della
categoria del lavoro. Ma in quelle immagini grossolane in realtà erano
riconoscibili gli antichi signori feudali o i beneficiari di cospicui
patrimoni personali, non certo i moderni manager. I tycoons dell’industria sono notoriamente snelli, praticano il jogging giornaliero, hanno meno tempo libero
degli schiavi nelle piantagioni e devono sottoporsi a terapia perché
"lavoro-dipendenti". In realtà il lavoro è stato da sempre un ideale
borghese e capitalistico, molto prima che il socialismo rivendicasse per
sé questo concetto. Per questa ragione una presunta critica del
capitalismo dal "punto di vista del lavoro"
rappresenta di fatto solo un paradosso. L’amore per il lavoro viene
cantato gaudiosamente anche dalla dottrina sociale della Chiesa ed è
stato ugualmente beatificato dal liberalismo che promette, analogalmente
al marxismo, la sua "liberazione". Una vera e propria adorazione del
lavoro caratterizza anche le ideologie conservatrici nonché quelle di
estrema destra. E’ evidente che la religione del lavoro è il sistema di
riferimento comune di tutte le teorie moderne, di tutti i sistemi
politici e di tutte le classi sociali. C’è una generale competizione nel
manifestare la più intensa devozione a questa religione e nel
sollecitare il maggiore rendimento da parte degli individui.
La strana carriera del concetto di lavoro
Un tale modo di pensare forse può irritare l’uomo comune. Ma che significa? "Si deve lavorare!". Non è forse vero che gli uomini
hanno sempre lavorato? Altrimenti niente cibo, niente vestiti, niente
abitazioni e niente cultura. Dal nulla non si ottiene nulla. E’
incontestabile che gli uomini abbiano sempre prodotto cose e idee per
vivere, nutrire, studiare e divertirsi. Ma questo implica forse che il
concetto sovrastorico e universale di "lavoro" sia adatto a definire
questo insieme di attività? Il "lavoro" è un’astrazione, una parola la
cui generalità presuppone una poliedricità di significati. Karl Marx, il
cui rapporto con un concetto "positivo" di lavoro non è esente da
contraddizioni, sosteneva da un lato che il lavoro appare "in questa
astrazione solo come categoria della società moderna" (Marx, 1857).
Contemporaneamente difendeva tuttavia la valenza sovrastorica di questa
generalità indeterminata, essendo dell’opinione che il lavoro fosse, per
così dire, un’astrazione "razionale", che "esprime una relazione
antichissima e valida per tutte le forme di società" (ibidem).
Friederich Engels affermava persino che il lavoro avesse avuto un ruolo
decisivo nel "processo di umanizzazione della scimmia" e che quindi i
nostri antenati "estremamente pelosi" e con "barba e orecchie appuntite"
fossero stati partecipi di questa benefica astrazione razionale
(Engels, 1876). Ma questo corrisponde a verità? Un’astrazione razionale
dovrebbe essere un "concetto superiore" generale e sensato, da
applicarsi a cose differenti dal punto di vista qualitativo ma che si
trovano comunque tutte su un piano determinato. Per esempio mele, pere,
pesche, arance ecc. sono comprese nel concetto generale di "frutta". Ma
in questo senso il "lavoro", inteso come concetto generale per le
attività umane, non rappresenta affatto un’astrazione razionale. Anche
passeggiate, giocare a scacchi o leggere romanzi sono attività umane,
senza che normalmente vengano definite come "lavoro". Dove si può porre
il limite senza però introdurre un elemento di arbitrarietà? Per fare
chiarezza è necessario determinare più precisamente il particolare
carattere sociale del concetto di lavoro. Storicamente l’universalità
sociale del concetto di lavoro in quanto tale non è poi tanto evidente.
In effetti, molte culture fondate sulla caccia, sull’allevamento o
sull’agricoltura non conoscevano alcun concetto di lavoro astratto in
grado di abbracciare attività diversissime tra loro. E questo non certo
perché tali culture difettassero di capacità di astrazione. In esse
sarebbe apparso del tutto irragionevole, e persino folle, riunire
attività come andare a caccia e coltivare piante, cucinare e allevare
bambini, curare le malattie e praticare riti culturali sotto un unico
concetto astratto di "attività in genere". In queste società arcaiche
(per quanto esse siano ricostruibili o ne esistano dei resti) c’erano
spesso differenti concetti di attività, ciascuno valido per i differenti
ambiti della vita, per gli uomini e per le donne, per diversi gruppi
sociali o abilità (contadini, artisti, guerrieri ecc.), che non
corrispondevano in alcun modo al moderno concetto universale di lavoro.
Quando e in quale contesto è sorto dunque questo concetto astrattamente
generale dell’attività economica e sociale? In diversi idiomi la radice
della parola "lavoro" è riconducibile a un significato che contrassegna individui in stato di minorità,
dipendenti o schiavi. Pertanto il "lavoro" originariamente non era
un’astrazione neutrale e razionale bensì sociale: è l’attività di coloro
che hanno perso la propria libertà. Qualsiasi cosa facciano queste
persone, che sia spaccarsi la schiena in miniera o nelle piantagioni,
cucinare i pasti in casa come domestici, accompagnare i bambini a scuola
o fare aria alla padrona, si tratta sempre dell’attività di persone
definite come servi. L’esistenza in quanto servo incarna il
contenuto dell’astrazione "lavoro". In questo senso, come astrazione
socialmente limitata, il concetto di lavoro non poteva in alcun modo
possedere il carattere di una forma di attività socialmente generale e
tanto meno essere determinato positivamente. Non sorprende che il
concetto di lavoro nell’antichità avesse assunto il significato
collaterale di sofferenza e infelicità (come in latino). La sofferenza
della persona attiva in senso negativo è "vacillare sotto un carico
gravoso" (laborare). Questo carico può anche essere invisibile,
poiché in verità si tratta del carico sociale della mancanza di
autonomia. In fondo, questo viene espresso anche nell’Antico Testamento
quando il lavoro viene interpretato come una maledizione inflitta da Dio
agli uomini. La coincidenza di significato tra sofferenza e lavoro non
si riferisce semplicemente al mero sforzo. Anche un uomo libero in
determinate occasioni può dare fondo alle sue energie e provarvi perfino
piacere. Perciò è completamente erroneo interpretare il "non lavoro"
degli uomini liberi e indipendenti dell’antichità come puro "dolce far
niente" e come semplice pigrizia, come si legge spesso nella letteratura
del marxismo volgare. Nei poemi omerici l’eroe Ulisse è orgoglioso di
avere intagliato da solo il suo letto nuziale. Non l’attività in quanto
tale era disonorevole, e neppure il lavoro manuale, ma la sottomissione
dell’uomo ad altri uomini o a una "professione". Un uomo libero poteva
occasionalmente costruire un letto o un armadio, ma non doveva essere un
falegname di professione; poteva occasionalmente svolgere attività
commerciali ma non essere un commerciante; poteva occasionalmente
scrivere poesie ma non essere un poeta. Chi era formalmente libero, ma
doveva sottomettersi per tutta la vita a un lavoro in qualche ramo della
produzione in cambio di denaro diventava, in relazione a questa
attività, un "minorato" e valeva poco più di uno schiavo. Pertanto
l’attività del libero dilettante non doveva necessariamente essere più
maldestra o di qualità più scadente rispetto a quella dei professionisti
non affrancati. Applicarsi in differenti campi artistici e acquisire
diverse conoscenze era considerato onorevole; dalle fiabe di diverse
culture possiamo renderci conto di come nelle antiche società perfino i
figli dei re e i principi dovevano talvolta apprendere, accanto all’arte
della guerra e alla conoscenza intellettuale, anche una pratica
manuale, non per fare gli artigiani per tutta la vita e sottomettersi
così alla sofferenza del lavoro, ma per sviluppare abilità in molteplici
ambiti e poter combinare liberamente fra loro forme di attività
qualitativamente differenti. Fu il cristianesimo a ridefinire per la
prima volta in senso positivo il significato negativo dell’astrazione
"lavoro" e in modo del tutto paradossale, cioè come sofferenza e
infelicità! Ovvero: se la sofferenza del Cristo sulla croce ha redento
l’umanità dai suoi peccati terreni, allora la fede esige l’"imitazione
del Cristo". Questo significa farsi carico gioiosamente e spontaneamente
della sofferenza. Con questo genere di fede masochista nella sofferenza
positiva, il cristianesimo nobilitava anche il lavoro come obiettivo
desiderabile, nello stesso senso in cui occasionalmente ci si
autoflagellava in estasi ascetica. Nei chiostri i monaci e le suore si
sottomettevano coscientemente e liberamente all’astrazione "lavoro" per
condurre una vita nel segno del dolore del Cristo come "servi di Dio".
Per la storia della mentalità, come è stato dimostrato, la disciplina e
l’ordine nei monasteri, così come la rigorosa suddivisione dei compiti
giornalieri e l’ascesi monacale furono i precursori della successiva
disciplina di fabbrica e dell’astratto calcolo del tempo "aziendale". Ma
la missione specificatamente cristiana del lavoro si riferiva solo al
significato metaforico del concetto, come accettazione religiosa della
sofferenza con lo sguardo rivolto all’aldilà; non veniva ancora
perseguito alcuno scopo terreno positivo. Fu solo il protestantesimo,
particolarmente nella sua forma calvinista che, a partire dal XVI
secolo, rese il masochismo cristiano della sofferenza del lavoro un
elemento di questo mondo; il credente non doveva più (meno che mai per
guadagnare soldi) assumere su di sé le sofferenze del lavoro come "servo
di Dio" nella solitudine del chiostro, ma lo doveva fare per ottenere
successo nella società terrena e proprio in questo modo dimostrare di
essere "eletto" da Dio. Ma naturalmente egli non poteva assolutamente
godere dei frutti del successo per non perdere la grazia divina
nell’imitazione di Cristo; doveva utilizzare, con il volto segnato dalla
sofferenza, il risultato del lavoro come punto di partenza per eseguire
nuovo lavoro e accumulare incessantemente ricchezze astratte senza
poterne godere. In questa singolare combinazione tra un mesto scopo
ultraterreno con un altrettanto mesto scopo di questo mondo sorgeva
l’ancora più mesta mentalità moderna del lavoro – il lavoro come una
specie di disturbo comportamentale.
Economia politica delle armi da fuoco
Non sarebbe certo sufficiente limitarsi a
considerare la mera promozione dell’astratta categoria lavoro da
sofferenza negativa a categorie positiva nella storia religiosa e
intellettuale. Perché la turba comportamentale protestante potesse
intraprendere la sua marcia trionfale per il mondo fu necessaria la
mediazione di potenti interessi materiali. Come è noto, a partire
dall’epoca rinascimentale si sviluppò repentinamente una produzione di
merci che iniziò a dissolvere l’economia naturale agraria. La mentalità
protestante si collegò a questa ascesa dell’economia di mercato che
doveva sfociare nel capitalismo moderno. E la positivizzazione della
categoria del lavoro era naturalmente legata a questo contesto, che oggi
viene definito come l’inizio della "modernizzazione" con il suo
sviluppo ulteriore, apparentemente senza fine. E’ significativo che la
modernizzazione, proprio come il lavoro, sia stata valutata
positivamente da tutte le ideologie, riflessioni teoriche e correnti
politiche della società capitalistica in ascesa. Per quanto potessero
essere nemiche, esse riconoscevano nel processo di formazione del loro
mondo un "progresso" della società. Per l’ideologia borghese lo
scatenarsi della produzione di merci e del capitalismo equivaleva
naturalmente a una produzione di ricchezza in continuo aumento. Anche il
marxismo, benché non esente da contraddizioni, fa coincidere il
progresso borghese con lo "sviluppo delle forze produttive". In ogni
caso, la spinta motrice originaria della modernizzazione e quindi del
lavoro veniva sempre individuata in qualche conquista positiva. Il
motivo principale del decollo della modernità andava cercato a piacere
nelle innovazioni scientifiche e artistiche del Rinascimento, nelle
grandi "scoperte" geografiche da Colombo in poi, nell’idea di origine
protestante-calvinista della responsabilità personale dell’individuo e
nella graduale liberazione dalle "superstizioni medievali": d’altra
parte Marx nel celebre capitolo sull’"accumulazione originaria del
capitale" ha descritto l’inaudito carattere terroristico della
modernizzazione ai suoi albori, il violento allontanamento dei fittavoli
dai loro campi, la vera e propria guerra contro le masse impoverite,
l’edificazione di istituti di correzione e di case di lavoro su grande
scala. Come si accorda tutto ciò con la diffusione, che si suppone
avvenuta in modo pacifico, della produzione di merci? Fin dai primordi,
nelle "nicchie" dell’economia naturale agraria, uno scambio di merci
locale e un commercio a distanza di merci particolari (sale, seta,
metalli, armi…) erano sempre esistiti in maggiore o minore misura, senza
che mai fosse sorto un "sistema produttore di merci" (vale a dire il
capitalismo) che abbracciasse la società nel suo complesso, in cui il
lavoro potesse proseguire e coronare la sua singolare carriera come
realtà ormai sostanziale per tutti gli uomini.
In cosa consisteva dunque, all’inizio della nuova epoca, quella
"novità" effettiva che ha generato come inevitabile conseguenza la
storia della modernizzazione? Si può essere d’accordo con il
materialismo storico, secondo cui il fattore decisivo non fu un mero
cambiamento di idee e mentalità, ma uno sviluppo sul piano dei fatti
materiali. Tuttavia, ad aprire la strada al processo di modernizzazione
non fu una forza produttiva, ma al contrario una dirompente
forza distruttiva: l’invenzione delle armi da fuoco. Sebbene questo
nesso sia conosciuto ormai da tempo, esso resta completamente
inesplorato nelle più celebri e importanti teorie della modernizzazione
(compreso il marxismo). Fu lo storico dell’economia Werner Sombart,
proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale, a introdurre la
questione in modo dettagliato nel suo studio Guerra e capitalismo
(1913), però solo per abbandonarsi poi all’entusiasmo bellico
analogamente a molti intellettuali tedeschi dell’epoca. Solo negli
ultimi anni il legame tra le origini del capitalismo, il progresso della
tecnologia degli armamenti e l’economia di guerra è tornato a essere
tematizzato, ad esempio per opera dell’economista tedesco Karl George
Zinn nel suo libro Cannoni e peste (1989) e dello storico statunitense Geoffrey Parker nel suo studio La rivoluzione militare
(1990). Ma queste analisi non hanno avuto la risonanza che meritavano.
E’ chiaro che il mondo occidentale e i suoi ideologi possono accettare
difficilmente l’idea secondo cui il fondamento ultimo del loro sistema
va ricercato nell’invenzione di perfezionati strumenti di morte. E
questo nesso non vale solo per le origini più remote ma vige tuttora per
la democrazia moderna; la "rivoluzione militare" è rimasta fino a oggi
il motore segreto della modernizzazione. L’innovazione delle armi da
fuoco ha sconvolto le forme precapitalistiche di dominio, rendendo
ridicola dal punto di vista militare la cavalleria feudale. Già prima
dell’invenzione delle armi da fuoco si aveva sentore delle conseguenze
sociali delle più efficaci armi a distanza, visto che il Concilio
Lateranense II proibì nel 1129 l’impiego della balestra contro i
cristiani. Non a caso, la balestra introdotta in Europa attorno all’anno
1000 e proveniente da culture extraeuropee era l’arma tipica di
predoni, fuorilegge e ribelli. Quando arrivarono le "canne da fuoco",
ancora più efficaci come armi a distanza, suggellarono il tramonto dei
cavalieri con armatura e cavallo. Le armi da fuoco non erano nelle mani
di un’opposizione "dal basso" contro la signoria feudale. Al contrario,
condussero a una "rivoluzione dall’alto" da parte di principi e re.
Questo perché la produzione e la mobilitazione dei nuovi sistemi di armi
non era più possibile al livello di quelle strutture locali e
decentralizzate che avevano contraddistinto la riproduzione sociale fino
a quel momento, ma richiedeva un’organizzazione sociale completamente
nuova su diversi livelli. Le armi da fuoco, soprattutto i grandi
cannoni, non potevano più essere prodotte in piccole officine
artigianali come le armi da taglio o da punta premoderne. Perciò si
costituì una particolare industria degli armamenti che produceva cannoni
e fucili in grande fabbriche. Allo stesso tempo sorse una nuova
architettura difensiva nella forma di giganteschi bastioni che dovevano
resistere ai cannoni. Si svolse una gara di innovazione tra armi
difensive e offensive e una corsa agli armamenti tra gli Stati destinata
a durare fino a oggi. A causa dell’avvento delle armi da fuoco anche la
struttura degli eserciti si modificò in modo sostanziale. I guerrieri
non potevano più armarsi da soli ma le armi dovevano essere fornite loro
da un potere sociale centralizzato. Perciò l’organizzazione militare
della società si separò da quella civile. Al posto di cittadini o di
signori locali con i seguiti armati, mobilitati di volta in volta per
ogni campagna subentrarono "truppe permanenti". Nacque la "milizia" come
gruppo sociale particolare e l’esercito divenne così un corpo estraneo
all’interno della società. Lo status di ufficiale si trasformò
da impegno personale dei cittadini più facoltosi in una "professione"
moderna. Conseguentemente a questa nuova organizzazione militare e alle
nuove tecniche di combattimento si accrebbe di colpo anche la dimensione
dell’esercito: tra il 1500 e il 1570 gli effettivi delle forze armate
aumentarono di dieci volte (Parker, 1990).L’industria bellica, la corsa
agli armamenti e il mantenimento di eserciti molto più grandi e
permanentemente organizzati, nonché separati dalla società civile,
condussero necessariamente a un radicale sconvolgimento dell’economia e
dell’intera struttura sociale. L’enorme complesso militare svincolato
dalla società esigeva una "permanente economia di guerra". Questa nuova
economia della morte si stendeva come un sudario sull’economia naturale
delle antiche società agrarie. Poiché armi e milizie non potevano più
essere mantenute attraverso forme di produzione locale e agraria, ma
dovevano essere rifornite su larga scala e in contesti anonimi, esse
dipendevano dalla mediazione del denaro. La produzione di merci e
l’economia monetaria come elementi fondamentali del capitalismo
ricevettero così il loro impulso decisivo, ai primordi della nuova
epoca, dallo scatenarsi dell’economia degli armamenti. Questo sviluppo
produsse e accelerò la soggettività capitalistica e la sua mentalità del
"guadagno" astratto. Il permanente bisogno finanziario dell’economia di
guerra condusse, nelle società civili, all’ascesa dei capitalisti
commerciali e monetari, dei grandi accumulatori di denaro e dei
finanziamenti di guerre. Ma anche la nuova organizzazione degli eserciti
in quanto tale dette impulso alla forma mentis capitalistica. Gli
antichi guerrieri agrari si trasformarono in "soldati", cioè in
beneficiari del "soldo". Essi furono i primi "lavoratori salariati"
moderni che dovevano riprodurre la propria esistenza completamente
attraverso paghe in denaro e consumo di merci. E perciò non combattevano
più per obiettivi ideali ma soltanto per denaro. Per loro era
indifferente chi uccidevano, a patto che la paga fosse buona; e
divennero così i primi rappresentanti del "lavoro astratto" (Marx) per
il moderno sistema produttore di merci. Essi furono del resto anche i
primi a poter diventare "disoccupati". Se non c’era più denaro nelle
casse dei principi, diminuivano i "posti di lavoro" nell’esercito. Molti
fucilieri e artiglieri vittime delle dimissioni di massa finivano
letteralmente sulla strada, diventando temuti vagabondi, briganti e
assassini occasionali. Per i capitani e i condottieri dei "soldati"
contava procurarsi del bottino attraverso saccheggi, per poi
trasformarlo in denaro. Però l’output del bottino doveva essere maggiore dell’input
dovuto ai costi della guerra. Era un impulso decisivo per la nascita
della moderna razionalità economica e aziendale. All’alba della nuova
epoca la maggior parte dei generali e dei capi mercenari impiegavano in
modo lucroso il loro bottino- denaro e partecipavano al capitale
commerciale e finanziario. All’inizio del capitalismo non troviamo così
il pacifico commerciante, il risparmiatore laborioso e il produttore
ingegnoso, ma il loro esatto contrario: se i soldati come artigiani
sanguinari delle armi da fuoco furono i prototipi dei moderni lavoratori
salariati, allora condottieri e caporioni "che facevano quattrini"
furono i prototipi della moderna classe imprenditoriale e della sua
"attitudine al rischio". Come liberi imprenditori della morte i
condottieri erano tuttavia dipendenti dalle grandi guerre dei poteri
centrali statali e dalla loro capacità di finanziamento. Il mutevole
rapporto moderno tra mercato e Stato ha qui la sua origine. Per
finanziare le industrie degli armamenti e i bastioni, le gigantesche
armate e le guerre, gli Stati premoderni si dovevano trasformare in
potentati militari e spremere sino all’osso la loro popolazione. Ma
questo si verificò in una forma nuova. Al posto dei consueti tributi in
natura subentrò la tassazione monetaria. Gli uomini furono così
costretti a "guadagnare denaro" per poter pagare le tasse allo Stato. In
questo modo l’economia di guerra spingeva non solo direttamente ma
anche indirettamente il sistema il sistema dell’economia di mercato. Tra
il XVI il XVIII secolo la tassazione monetarizzata delle masse nei
paesi europei aumentò talvolta del 2000 %! L’obbligo di guadagnare
denaro non per se stessi ma per uno scopo estraneo, la colossale
spremitura operata dal dispotismo militare fece correre di pari passo
l’astrazione del denaro e quella del lavoro. Non sorprende che il
protestantesimo-calvinismo fosse l’ideologia più indicata per l’economia
proto-moderna degli armamenti; il carattere di fine in sé privo di
godimento, proprio dell’accumulazione astratta di ricchezza, assunse
così non solo l’adeguata forma monetaria e desensualizzata, ma tormentò
anche l’umanità meno "eletta" con la corrispondente forma di attività
astratta. L’astrazione "lavoro" divenne così il concetto che descriveva
l’erogazione di energia vitale per scopi imposti dall’esterno e il suo
antico significato di minorità e di dipendenza guadagnò in questo
contesto un nuovo peso, e contemporaneamente assunse, nella sua
elevazione religiosa, un carattere sociale universale (il cattolicesimo
dovette condividere, bene o male, la secolarizzazione protestante del
lavoro). Naturalmente gli uomini non si lasciavano coinvolgere di buon
grado nelle pretese della nuova economia degli armamenti e del denaro.
Potevano esservi costretti solo attraverso la repressione sanguinosa.
L’economia di guerra permanente delle armi da fuoco produsse per alcuni
secoli l’insurrezione popolare permanente e quindi la guerra permanente
verso l’interno: dalle "guerre dei contadini" ai primordi della nuova
epoca, fino alle insurrezioni dei "luddisti" (i cosiddetti "distruttori
di macchine") dell’epoca dell’industrializzazione. Per imporre colossali
tributi, i poteri centrali dello Stato dovettero costituire un
altrettanto colossale apparato poliziesco e di amministrazione:
divennero "assolutistici". Tutti i moderni apparati dello Stato derivano
da questa storia. Al posto dell’amministrazione locale subentrò
l’amministrazione centralistica e gerarchica, attraverso una burocrazia
il cui nucleo era costituito dagli apparati tributari e dalla
repressione interna. Anche il successivo sviluppo effettivo delle "forze
produttive industriali" portò sempre il marchio di questa origine.
L’industrializzazione del XIX secolo fu, sia dal punto di vista
tecnologico sia da quello della storia dell’organizzazione e delle idee,
un derivato delle armi da fuoco, della produzione proto-moderna di
armamenti e dei suoi effetti a livello sociale. Pertanto non sorprende
che il rapido sviluppo capitalistico delle forze produttive a partire
dalla prima rivoluzione industriale si sia potuto svolgere solo in una
forma distruttiva, anche nel caso delle innovazioni tecniche
apparentemente più innocue. Non solo dal punto di vista tecnologico, ma
anche nelle strutture sociali, la moderna democrazia occidentale non può
celare di essere un derivato della dittatura militare dell'inizio della
modernità. Sotto la sottile crosta del rituale democratico delle
elezioni e del discorso politico troviamo la mostruosità di un apparato
che amministra in modo permanente i cittadini dello Stato apparentemente
liberi e li disciplina in nome dell’economia monetaria totale e
dell’economia di guerra, ancora oggi a essa legata. L’"amministrazione
del lavoro" è parte integrante e centrale di questo sistema. In nessuna
società della storia c’è mai stata una percentuale così elevata di
pubblici ufficiali, amministratori, soldati e poliziotti; nessuna ha mai
destinato una parte così cospicua delle sue risorse alle armi e alle
milizie.
L’economia "svincolata"
Se si cerca di comprendere la logica
economica e sociale che i potentati militari assolutistici degli inizi
della modernità hanno trasmesso alla società, questa va determinata nei
termini di un’autonomizzazione del denaro fine a se stesso e della
relativa forma astratta di attività "lavoro". La proverbiale fame di
denaro dell’assolutismo aveva ancora uno scopo specifico e materiale
(seppur già autonomizzato), cioè la nuova economia delle armi da fuoco e
le sue esigenze. Ma una volta che questa logica del "fare soldi" fu
messa al mondo, travalicò i limitati obiettivi dell’assolutismo, che si
trovò ben presto a recitare la parte dell’apprendista stregone. Così il
"fare denaro", una volta scatenato, non si limitava più a una pretesa
applicata esternamente al modo di produzione tradizionale (ad esempio
nella forma della tassazione monetaria), ma divenne lo stimolo interno
per un nuovo modo di produzione che si estese all’intero corpo sociale. I
regimi assolutistici avevano stabilito, accanto alla tassazione
monetaria, una propria imprenditoria produttiva, esterna alle
tradizionali gilde e corporazioni, il cui fine non era più la
soddisfazione dei bisogni ma solo e unicamente procurarsi del denaro.
Per la prima volta queste manifatture e coltivazioni statali producevano
esclusivamente per mercati autonomi ed estesi, che dovevano diventare
il presupposto della "libera" concorrenza. Il denaro si trasformò così
da medium marginale in presupposto generale e
contemporaneamente in scopo finale e universale dell’intera vita
sociale. Il risultato definitivo fu che non si poté produrre più neppure
un pezzo di pane che non fosse sottomesso all’attività capitalistica,
cioè al lavoro astratto come trasformazione autoreferenziale di energia
umana in denaro. Karl Marx fu il primo ad analizzare con precisione
questo assurdo meccanismo e la corrispondente inversione di mezzo in
fine. Il denaro era divenuto, per così dire, un (irrazionale) "mezzo di
sostentamento fondamentale". Non era più un medium che serviva per soddisfare una parte delle necessità, ma al contrario erano ora i bisogni a essere un medium
(e la loro soddisfazione un mero prodotto di scarto) per rendere
operativa la "valorizzazione" autoreferenziale del denaro. Così il
movimento incessante della trasformazione di lavoro in denaro al di là
di ogni scopo originario si trasformò in un "sistema" cibernetico
chiuso. Dopo l’assolutismo questo carattere ermetico del sistema trovò i
suoi nuovi rappresentanti in quei "liberi imprenditori" che derivavano
in linea discendente dai condottieri della prima modernità, dagli
esattori sanguisughe e dagli amministratori delle manifatture punitive e
delle piantagioni schiavistiche. Si può immaginare quale concetto di
"libertà" questi illustri despoti modellarono nella loro ideologia del
liberalismo (economico) e ritorsero contro i loro padri assolutistici,
ovvero: per alcuni la "libertà" di essere imprenditori in questo sistema
e accumulare denaro senza poterselo godere; per gli altri la "libertà"
di sottomettersi incondizionatamente alle presunte leggi "leggi
naturali" di questo sistema autonomizzato fondato sul lavoro forzato,
sulla valorizzazione del denaro e sui mercati anonimi! I regimi
assolutistici erano divenuti disfunzionali per la prosecuzione dello
sviluppo del sistema, poiché la forma di governo dinastica non era più
adeguata a strutture che si costituivano come oggettivate. Ciò che
restava era quella logica sfrenata che aveva avuto come archetipo il
cannone: lo "strumento" iniziava a dominare il suo creatore. Si costituì
così una sfera separata dal resto dell’esistenza, la cosiddetta
economia o "economia nazionale" in senso moderno. Questo particolare
aspetto è stato analizzato soprattutto dallo storico della società e
dell’economia Karl Polanyi. Nella sua opera classica, La grande trasformazione, Polanyi
si occupò, a differenza di Marx, non tanto della logica interna
autoreferenziale della "valorizzazione del valore" e della sua
regolarità, quanto del fatto che l’economia, il cui significato
originario era "gestione della casa per quel che riguarda i bisogni", si
era trasformata in una sfera enormemente autonomizzata. Osservando
questa inaudita novità, che era stata interpretata dagli ideologi
liberali come "natura umana", Polanyi sostiene: "E’ vero che nessuna
società può esistere senza un sistema di qualche genere che assicuri
l’ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci, ma questo
non implica l’esistenza di istituzioni economiche separate; normalmente
l’ordine economico è semplicemente una funzione dell’ordine sociale nel
quale esso è contenuto… La società del XIX secolo, nella quale
l’attività economica fu isolata e attribuita a una particolare
motivazione economica, rappresentò in realtà una discontinuità
particolare. Un modello istituzionale di questo genere non potrebbe
funzionare se la società non fosse in qualche modo subordinata ai suoi
requisiti: un’economia di mercato può esistere soltanto in una società
di mercato….Nel corso di tutto questo sviluppo la società umana era
diventata un accessorio del sistema economico" (Polanyi, 1944). Mentre
in tutte le altre "società integrate", così come le definiva Polanyi,
l’attività economica resta subordinata a un contesto culturale, comunque
lo si giudichi, il capitalismo capovolge il rapporto tra economia e
società: in esso è l’ordine sociale a essere solo una funzione
dell’ordine economico, che si è reso autonomo da tutti gli ambiti
sociali e dai bisogni. In questo sconvolgimento trova il suo fondamento
non solo l’esatto contrario dei concetti di autonomia e
auto-responsabilità, cioè la resa incondizionata al fine in sé del
denaro, ma anche il carattere smisurato della tendenza alla
moltiplicazione incessante, perché non esiste più un rapporto con i
bisogni, la riflessione intellettuale e le determinazioni culturali, ma
solo con il medium economico autonomizzato. Questo processo non
era iniziato però con il "capitalismo svincolato" ottocentesco, ma già
con l’economia delle armi da fuoco "svincolata" dei regimi
proto-moderni, anche se fu l’industrializzazione capitalistica, a
partire dalla fine del Settecento, che portò al pieno dispiegamento di
questa logica. Il lavoro in senso moderno è dunque, secondo il contesto
sistemico impersonale, la forma di attività specifica dell’"economia
svincolata". Come nel caso dell’attività servile nell’antichità,
determinata in quanto astrazione sociale del "lavoro", era indifferente
ciò che si faceva, poiché era sempre e solo un dispendio di "energia
servile", così il contenuto della riproduzione sociale nel suo complesso
è divenuto indifferente poiché si tratta sempre della stessa
trasformazione di energia umana astratta in denaro. Dato che quasi tutte
le attività si concentravano nella sfera autoreferenziale alienata e
"svincolata" dell’economia, l’astrazione "lavoro", un tempo socialmente
delimitata come attività servile, si è trasformata nella forma
universale di attività sociale. In ultima analisi questo significa che
ormai ci sono solo attività servili, anche se non c’è più un "signore"
in carne e ossa ma solo un contesto sistemico autonomo. Il lavoro ha
preso il posto di Dio e perciò adesso siamo tutti "servi di Dio", che si
differenziano solo per la loro posizione funzionale nella gerarchia di
una generale "attività sofferente" che non ha altro scopo che se stessa.
Anche il management è parte del lavoro e prende questa croce terrena su
di sé per trovare in essa il suo potere masochistico, del tutto
secolarizzato, svincolato perfino dai motivi protestanti e non più
cosciente delle sue origini. L’eroe omerico Ulisse avrebbe disprezzato i
cosiddetti dominatori odierni alla stregua di servi miserabili perché
si sottomettono al giogo del lavoro, accettando così una schiavitù che è
divenuta universalmente sociale. Si nota che il marxismo è
involontariamente divenuto complice di questa incapacità di intendere e
di volere (e perciò anche propulsore dello sviluppo capitalistico),
avendo fatto proprio nel tardo XIX secolo il concetto positivo di lavoro
in quanto dissidenza del liberalismo. Mentre Marx, teorico "astruso"
per la coscienza positivistica, con la sua critica radicale delle forme
economiche autonomizzate (che notoriamente definiva come "feticismo")
aveva almeno sfiorato la critica del lavoro, senza però completarla in
modo coerente, il marxismo del movimento operaio restò ancorato a
un’astratta categoria di lavoro falsamente determinata come
sovrastorica. In ciò si mostra che il movimento operaio che conosciamo
non rappresentò l’inizio di un livello di riflessione più elevato della
critica sociale, ma piuttosto il risultato di una sconfitta degli
antichi movimenti di ribellione sociale contro il lavoro a partire dal
Cinquecento. Disconoscendo il nesso reale, i "partiti del lavoro"
intraprendevano l’inutile tentativo di criticare il capitalismo facendo
leva sul suo stesso concetto di attività.
Economia aziendale come spazio-tempo astratto
Nell’"economia svincolata" la forma di
attività astratta "lavoro", insieme con il tempo in essa racchiuso,
assume una qualità particolarissima e addirittura spettrale. Il tempo
della produzione viene dissociato da tutte le necessità e gli scopi
autodeterminati dei produttori; diventa esso stesso una risorsa da
sfruttare. Il tempo è notoriamente denaro e perciò il tempo nel
capitalismo ha sempre giocato un ruolo decisivo. Ma dato l’automatismo
dei suoi obiettivi, anche il tempo diventa astratto con conseguenze
altamente sgradevoli per le persone che sono consegnate a questo tempo
per la maggior parte della loro esistenza. La formulazione filosofica
decisiva, valida sino a oggi, del moderno concetto di tempo si trova in
Immanuel Kant. Kant ha scoperto che spazio e tempo non sono un contenuto
del pensiero umano, ma le forme aprioristiche della nostra facoltà di
pensiero e di percezione. Noi possiamo conoscere il mondo solo nelle
forme dello spazio e del tempo, che sono inscritte nella nostra ragione
prima di ogni cognizione. Ma Kant determina queste forme di spazio e di
tempo in modo completamente astratto e astorico, valido in egual misura
per tutte le epoche, forme sociali e culture. Il tempo è per lui
"temporalità in genere" senza alcuna qualità determinata. Di
conseguenza, egli definisce spazio e tempo come "pure forme
dell’intuizione sensibile". Il tempo è così per Kant un tempo che
scorre, astratto, privo di contenuto e sempre uniforme, le cui unità
sono tutte identiche: "I diversi tempi non sono se non parti appunto
dello stesso tempo". La ricerca in ambito storico-culturale ha da tempo
rilevato che questa determinazione astorica dell’esperienza e della
percezione del tempo non è più sostenibile. Prima di tutto si è scoperto
che le culture premoderne non pensavano nella forma di un tempo lineare omogeneo, ma piuttosto in quella di un tempo ciclico,
di ritmi temporali che continuano a ripetersi, modellati secondo i
cicli stagionali (agrari) e cosmici. Dunque il tempo potrebbe anche
essere una forma della percezione ascritta aprioristicamente alla
facoltà di conoscere umana, ma questa forma è sottoposta a cambiamenti
culturali. Gli studi più recenti riguardo alle molteplici varietà
culturali del concetto di tempo hanno confermato questa ipotesi. In
tutte le culture estranee alla modernità capitalistica, non solo il
tempo "scorre" diversamente ma ci sono persino forme di tempo del tutto
differenti, che decorrono parallelamente, a seconda della circostanza o
dell’ambito esistenziale cui la percezione del tempo è riferita: "Ogni
cosa ha il suo tempo". Poiché l’economia autonomizzata del capitale ha
trasformato le astrazioni di denaro e lavoro in uno scopo che
retroagisce su se stesso, essa inverte il rapporto di astratto e di
concreto: l’astrazione (ad esempio il lavoro o il tempo) adesso non è
più espressione di un mondo concreto e sensibile, ma al contrario tutti i
nessi concreti e gli oggetti sensibili valgono solo come espressione
dell’astrazione capitalistica, che nella forma reificata del denaro
domina la società. La misura del lavoro, e insieme del denaro, è però il
tempo. Tuttavia anche questo tempo non è più un tempo concreto e
qualitativamente diverso a seconda del suo riferimento, ma è proprio
quel tempo che scorre, astratto, uniforme e lineare che Kant aveva
ciecamente presupposto e che corrisponde allo scopo in sé
dell’accumulazione del capitale. Adesso nessuna cosa ha più il proprio
tempo, relativo alle necessità del momento e ai nessi culturali, ma
tutte le cose hanno lo stesso tempo, che scorre sempre nella stessa
direzione e sempre con la stessa rapidità. Questa dittatura del tempo astratto, messa in atto attraverso il meccanismo della concorrenza anonima, ha creato uno spazio altrettanto astratto, lo spazio funzionale del capitale separato dal resto della vita, che obbedisce alla razionalità economico-aziendale. E’ sorto per così dire uno spazio-tempo capitalistico
inanimato e privo di connotati culturali che ha iniziato a divorare il
corpo sociale. La forma di attività astratta "lavoro" rinchiusa in
questo spazio-tempo doveva essere purificata da tutti gli elementi
vitali disfunzionali, per non disturbare la scorrevole linearità del
tempo: lavoro e casa, lavoro e vita personale, lavoro e cultura si
scindono sistematicamente. In questo modo è sorto anche il moderno
dualismo tra lavoro e tempo libero. Non ce ne accorgiamo più ormai, ma
questo termine implica che il tempo di lavoro è un tempo ove la libertà è
assente, un tempo che gli uomini sono costretti (originariamente
persino con la forza) a sacrificare per un fine in sé a loro estraneo,
determinato dalla dittatura delle unità temporali astratte e uniformi
della produzione capitalistica.
La luce dell’Illuminismo
Lo spazio-tempo astratto dell’economia
aziendale è necessariamente smisurato poiché caratterizza l’incessante
impulso capitalistico verso l’accumulazione del denaro. In questo modo
un elemento per lo più misconosciuto dell’Illuminismo borghese acquista
un significato tanto particolare quanto distruttivo. E’ noto che la
storia della modernizzazione si delizia con metafore della luce. Il sole
radioso della ragione deve affermarsi sulle tenebre della superstizione
e rendere visibile il disordine del mondo per realizzare finalmente una
società secondo criteri razionali. Ma questa presunta ragione è in
realtà l’irrazionalismo sociale dell’economia "svincolata". In questo
contesto la "luce dell’Illuminismo" non è soltanto un mero simbolo del
regno del pensiero, ma si riveste di un concreto significato economico e
sociale. Proprio da questo punto di vista fu fatale che il marxismo e
il movimento operaio storico si percepissero come i veri eredi
dell’Illuminismo e della sua metafora sociale della luce. Un verso della
traduzione tedesca dell’Internazionale, l’inno marxista, dice che nel
meraviglioso futuro socialista "splenderà incessantemente il sole". Un
caricaturista tedesco ha preso alla lettera questo verso e nel "regno
della libertà" ha raffigurato lavoratori madidi di sudore, fermi sotto
il sole, che si lamentano: "Sono già tre anni che splende e ancora non
si decide a tramontare". Non è solo una trovata umoristica. In un certo
senso la modernizzazione effettivamente "ha reso la notte come il
giorno". In Inghilterra, che come è noto fu l’avanguardia
dell’industrializzazione, l’illuminazione a gas fu introdotta già ai
primi del XIX secolo per diffondersi presto nel resto d’Europa. Alla
fine dell’ottocento la luce elettrica sostituì le lampade a gas. Si
potrebbe certo dire che si tratta di un’estensione delle possibilità
umane, se l’illuminazione artificiale fosse stata utilizzata o meno per
scopi autodeterminati secondo i bisogni e il libero accordo. Ma questo
non era lo scopo del totalitarismo capitalistico della luce.
L’eliminazione della notte è divenuta estesa e permanente, sebbene la
medicina abbia dimostrato da lungo tempo che ciò può far insorgere
malanni fisici e psichici. Perché allora questa violenta illuminazione
planetaria che ha raggiunto oggi anche l’angolo più recondito? L’impeto
smisurato del modo di produzione capitalistico non può tollerare per
principio un tempo che resti "oscuro". Questo perché il tempo
dell’oscurità è anche il tempo del riposo, della passività, della
contemplazione. Il capitalismo pretende al contrario l’espansione della
sua attività fino ai limiti estremi fisici e biologici. Tali limiti
temporali sono determinati dalla rotazione della Terra, cioè delle 24
ore del giorno astronomico che è in parte oscuro. La tendenza del
capitalismo è di rendere totale la parte rischiarata e di occupare
l’intero giorno astronomico. La notte disturba questo impulso. La
produzione, circolazione e distribuzione della merce devono svolgersi 24
ore su 24. Questo processo è analogo a quello della modificazione delle
misure dello spazio. Il sistema metrico fu introdotto dal regime della
Rivoluzione francese nel 1795 e si estese velocemente come
l’illuminazione. In Germania tuttavia ci si convertì a questo sistema
solo nel 1872. Le misure di spazio basate sul corpo umano (piede, cubito
ecc.) furono eliminate dall’astratta misura del metro, che doveva
corrispondere a un quarantamilionesimo della circonferenza terrestre.
Questa unificazione astratta delle misure spaziali corrispondeva
all’immagine meccanicistica del mondo propria della fisica newtoniana,
che divenne in seguito il modello per la forma meccanicistica della
moderna economia di mercato come fu analizzata e propagandata da Adam
Smith, il fondatore della scienza economica. L’immagine dell’universo e
della natura come un’unica grande macchina si trovava in perfetto
accordo con la macchina economica universale del capitale e le misure
astratte di tempo e spazio divennero una forma comune alla macchina
fisica ed economica, per l’universo come per la produzione di merci
"svincolata". Il tempo astronomico rese possibile che il giorno del
lavoro astratto penetrasse dentro la notte e che il tempo del riposo ne
risultasse divorato. Solo così il tempo astratto poté essere staccato
dalle cose e dai rapporti concreti. Il marxismo con la sua insistenza
sulla ragione illuminista si è occupato poco di questi temi e così
furono ideologi conservatori, come per esempio Ernst Junger nel suo Libro dell’orologio a polvere,
a criticare il tempo astratto della modernità in un contesto che era
tutt’altro che emancipatorio (Junger, 1954). Proprio nell’interesse
dell’emancipazione sociale, è però importante tematizzare il problema
del tempo "svincolato" dai contesti vitali reali e paragonarlo a diverse
forme di tempo di cui non abbiamo più coscienza, per farsi un’idea del
tempo capitalistico e della pretesa che esso rappresenta. La maggior
parte degli antichi misuratori di tempo, come le clessidre o gli orologi
ad acqua, non mostravano "che ora è" ma erano tarati sulla base di
processi concreti per indicare il loro "tempo adeguato". Si potrebbe
forse paragonarli con i misuratori di cottura che con una suoneria ci
segnalano quando un uovo è cotto a dovere. La quantità del tempo qui non
è astratta ma orientata su una determinata qualità. Il tempo
astronomico del lavoro astratto, al contrario, è avulso da ogni qualità.
Esso permette ad esempio di fissare, indipendentemente dalla stagione e
dai ritmi dell’organismo, l’inizio del lavoro "alle sei". Perciò
l’epoca del capitalismo è anche l’epoca della "sveglia", cioè degli
orologi che con un suono stridulo strappano gli uomini al sonno, per
spingerli sui loro "posti di lavoro" illuminati artificialmente. Una
volta anticipato alla notte l’inizio del lavoro, era possibile anche
allungare il lavoro nella notte. Questa modificazione ha anche un
aspetto estetico. Come l’ambiente viene "smaterializzato" attraverso
l’astratta razionalità aziendale, dovendo la materia e i suoi nessi
sottomettersi ai criteri di redditività, così, a causa della stessa
razionalità, esso viene privato del senso della dimensione e delle
proporzioni. Se talvolta i vecchi edifici ci appaiono in qualche modo
più belli e più accoglienti dei moderni e se osserviamo inoltre che
questi, a paragone con gli edifici "funzionalistici" odierni, sembrano
avere qualcosa di irregolare, allora ciò è da ricondurre al fatto che le
loro misure sono conformi alle misure corporee e le loro forme si
adattano al paesaggio. L’architettura moderna al contrario utilizza
misure spaziali astronomiche e forme "decontestualizzate", avulse
dall’ambiente. Ciò vale anche per il tempo. Anche la moderna
architettura del tempo è sproporzionalizzata e decontestualizzata. Non
solo lo spazio è divenuto sgradevole, ma anche il tempo. Nel Settecento e
nell’Ottocento l’introduzione del tempo astronomico astratto nelle
attività quotidiane fu percepita come una tortura. Per lungo tempo gli
uomini reagirono contro il lavoro notturno legato
all’industrializzazione. Lavorare prima dell’alba e dopo il tramonto era
considerato addirittura immorale. Se nel Medioevo gli artigiani
dovevano eccezionalmente lavorare di notte per terminare la loro opera,
dovevano essere lautamente remunerati, nonché abbondantemente
alimentati. Il lavoro notturno rappresentava solo un caso d’emergenza.
Ed è una delle più grandi "imprese" del capitalismo essere riuscito a
far passare per normale misura dell’attività umana il tempo della
tortura. Da questo punto di vista, dai primordi del capitalismo non è
cambiato nulla. Al contrario, il cosiddetto lavoro "a turni" si è esteso
sempre più nel corso del Novecento. In un’impresa la cui attività è
regolata su due o tre turni, le macchine possono funzionare senza
interruzioni, con solo brevi pause per regolazioni, manutenzione e
pulizia. Anche le ore di apertura di grandi magazzini e negozi devono
possibilmente essere dilatate al limite delle 24 ore giornaliere, come
dimostra il dibattito sull’orario di chiusura degli esercizi in
Germania. In molti paesi, come negli Usa, non c’è un orario di chiusura
stabilito per legge e numerosi negozi mostrano in effetti la scritta:
"Aperto 24 ore su 24". Da quando la tecnologia di comunicazione
microelettronica ha globalizzato il flusso del denaro, la giornata
finanziaria di una metà della Terra travalica in quella dell’altra. "I
mercati finanziari non dormono mai!", recita la pubblicità di una banca
giapponese. La luce della ragione illuminista equivale all’illuminazione
dei turni di notte. Nella stessa misura in cui la concorrenza sui
mercati anonimi diviene totale, l’imperativo sociale esterno si
trasforma in una costrizione interna agli individui. Il sonno diventa un
nemico come la notte, perché finché si dorme si perdono occasioni e ci
si espone indifesi agli attacchi altrui. Nell’economia di mercato il
sonno dell’uomo è perciò breve e leggero come quello di una bestia
selvatica e lo è tanto più quanto più quest’uomo desidera il "successo".
Il supplizio del lavoro eterodeterminato dei turni di notte meccanici
si configura, al livello manageriale, come "volontaria" rinuncia al
sonno. Ci sono perfino seminari per i manager in cui vengono insegnate
tecniche per la minimizzazione del sonno. In tutta serietà le scuole di self-management
affermano: "L’uomo d’affari ideale non dorme mai", proprio come i
mercati finanziari! La sottomissione degli individui al lavoro astratto e
alla misura astronomica del tempo non è però possibile senza un
controllo altrettanto totale. Un controllo universale richiede
un’osservazione universale e l’osservazione è possibile solo con la
luce: più o meno come la polizia durante l’interrogatorio punta una luce
abbagliante sul volto dei criminali. Non a caso in tedesco la parola
"Illuminismo" (Aufklarung) ha assunto nel gergo militare il
significato collaterale di "perlustrazione in cerca del nemico". E una
società in cui ciascuno diviene un nemico per gli altri e per se stesso,
perché tutti devono servire lo stesso dio secolarizzato del lavoro, si
trasforma per necessità logica in un sistema di totale osservazione e
auto-osservazione. Non si discute sul senso e sullo scopo del proprio
agire, ma si illumina spietatamente per eseguire il fine in sé
dell’"economia svincolata".
L’espropriazione del tempo
All’espropriazione degli uomini delle
condizioni della loro riproduzione si ricollega anche la sistematica
espropriazione del loro tempo. Questo non vale solo dal punto di vista
qualitativo ma anche da quello quantitativo come si può rilevare dalla
penetrazione invasiva del tempo di lavoro all’interno del giorno
astronomico. Sebbene esso abbia divorato la maggior parte del tempo
giornaliero attivo il tempo di lavoro per la stragrande maggioranza dei
produttori non è un tempo vitale ma un tempo morto e vuoto che viene
risucchiato dalla vita come in un incubo. Viceversa dal punto di vista
dello spazio–tempo capitalistico è il tempo libero dei produttori ad
essere giudicato come tempo vuoto ed inutile. Perciò esiste nel
capitalismo una tendenza inveterata ed oggettiva a ridurre ai minimi
termini il tempo libero o per lo meno a razionarlo rigorosamente. Non
solo l’"impresa" deve funzionare possibilmente 24 ore su 24 ma anche la
spremitura dei singoli individui–lavoratori deve essere protratta fino
ai suoi limiti assoluti. Come osservava Marx nei Grundrisse da ciò
scaturisce un paradosso, che rivela la completa ottusità del "progresso"
borghese: "Il macchinario più evoluto costringe il lavoratore a
lavorare ancora più a lungo ora di quanto faccia un selvaggio o di
quanto lavorerebbe lui stesso con strumenti più semplici e grezzi"
(Marx, 1974/1857, 596). Questa crassa sproporzione si fonda sul fatto
che i produttori non possono decidere a quale fine sia da destinarsi
l’incremento di produttività. Come tutte le altre decisioni anche questa
viene assunta in nome loro dalla logica funzionale del capitalismo.
Nelle antiche società agrarie al basso livello delle forze produttive
erano da attribuire molti elementi di ottusa ristrettezza (per esempio
tradizioni anguste e legami fondati sulla parentela di sangue) e
talvolta problemi legati alla sussistenza (per esempio se il raccolto
andava perduto). Ma il fine ultimo della produzione, anche se condotta
con mezzi scadenti, non era certo uno scopo in sé astratto, come
all’interno del rapporto fondato sulla costrizione del moderno sistema
produttore di merce, ma il godimento e l’ozio. Questo concetto di ozio
delle società antiche e medioevali non deve essere in alcun modo confuso
con il moderno concetto di tempo libero. Questo perché il tempo
dell’ozio non era un tempo residuo separato dal processo delle attività
remunerate, ma un momento della vita che godeva di valore autonomo. Per
questa ragione l’incremento della produttività era di regola impiegato
per estendere l’ozio e non per aumentare ulteriormente la produzione. Al
contrario la razionalità aziendale che mira all’abbassamento dei costi
converte ogni avanzamento tecnico esclusivamente e forzosamente in
produzione aggiuntiva e sovraproporzionale, dunque in lavoro
supplementare e non in ozio supplementare per i produttori. Già la mera
quantità esterna di tempo produttivo nell’antichità e nel medioevo era
di gran lunga limitata nonostante il livello tecnico inferiore rispetto
all’epoca capitalista. Dalle regole dei monasteri dell’Alto Medioevo che
in quanto antesignani della moderna disciplina di fabbrica manifestano
già elementi di tempo astratto, scopriamo sorprendentemente che per la
passione dolorosa del lavoro non erano previste quasi mai più di sei o
sette ore al giorno; dunque in quell’epoca gli uomini sopportavano per
la devota mortificazione della carne e l’abnegazione di sé ciò che oggi i
sindacati, per giunta solo in qualche ramo della produzione e in
qualche paese vincitore sul mercato mondiale, celebrano come la più
grande conquista nell’"accorciamento della giornata di lavoro"! La
dirompente espansione del "tempo di lavoro" avveniva di pari passo con
quella del lavoro stesso. Non senza stupore i moderni "studiosi del
tempo libero" rilevano: "Tra le popolazione primitive agrarie e
nell’antichità, i giorni di riposo occupavano circa la metà
dell’anno…(Anche) i prestatori di lavoro salariato, gli schiavi e i
bifolchi non erano aggiogati in modo così intensivo alla loro vita
lavorativa come noi moderni potremmo credere…Intorno alla metà del
quarto secolo nella Roma repubblicana si contavano almeno 175 giorni di
riposo…" (Opachovski 1997, 25f.). Solo nella gloriosa modernità i giorni
di festa vengono sempre più ridotti di numero per ampliare lo
spazio–tempo del lavoro. Ma anche sotto un altro aspetto la prestazione
annuale dei produttori, anche dove veniva estorta da un "signore", si
dimostrava meno imponente che nel capitalismo: nelle antiche società
agrarie dell’Europa c’era una sensibile differenza stagionale per
quelche riguarda l’entità delle attività. Nella stagione calda c’erano
più incombenze (per il raccolto) rispetto all’inverno che per la
popolazione contadina era un periodo relativamente tranquillo e spesso
era utilizzato per la celebrazione di feste private come ancora
apprendiamo dai canti che ci sono stati tramandati. Questa limitazione
nella quantità delle prestazioni annuali dovuta all’alternarsi delle
stagioni fu soppressa senza scampo perché nel tempo astronomico dello
spazio funzionale aziendale non dovevano essere posti limiti sistemici
alla costrizione alla prestazione. Non da ultimo nelle società
precapitalistiche quella che noi definiamo formalmente come "giornata di
lavoro" non era assolutamente contraddistinta da un’attività
concentrata sotto il controllo di un potere economico oggettivato.
C’erano per esempio lunghi periodi di pausa (dal punto di vista moderno)
che il regime aziendale non potrebbe mai permettersi; anzitutto le
pause di mezzogiorno si protraevano per alcune ore in cui si pranzava
piacevolmente, un’usanza quest’ultima che si è conservata più a lungo
nelle regioni mediterranee e meridionali in genere che al Nord, finché
non dovette a sua volta cedere all’industrializzazione capitalistica ed
alla cadenza del tempo astratto. L’attività produttiva precapitalistica
era inoltre meno "concentrata" cioè dal nostro punto di vista, più lenta
e meno intensiva. In questa attività autodeterminata senza la pressione
della concorrenza questo ritmo temporale del produrre, misurato
rappresenta il modo "naturale" in cui gli uomini conducono le loro
attività. Non possiamo più comprendere in alcun modo questa esperienza.
Sotto la muta costrizione della concorrenza sui mercati anonimi il tempo
"svincolato" del lavoro fu concentrato sempre di più: il
perfezionamento nel processo di risucchio dell’energia vitale si
accrebbe con l’aiuto della cosiddetta "razionalizzazione del tempo" che
si protrae fino ad oggi. Nel corso del 20° secolo questa logica
nevrotica del "risparmio di tempo" si è trasformata in aperta paranoia.
Per potere alimentare permanentemente con sempre maggiore rendimento il
folle scopo a sé a dispetto dei limiti assoluti del giorno astronomico
bisogna "conficcare" sempre più spazio nelle unità identiche del tempo
astronomico astratto.Questa assurda tendenza vorrebbe deflagrare con
violenza anche il giorno astronomico; per la logica capitalistica nulla è
impossibile pur di mettere ancor più alla frusta i produttori di
capitale. Così in Giappone si discute in apparenza con estrema serietà a
proposito di un giorno di 28 ore, come riporta la stampa: "Non abbiamo
mai desiderato tanto avere dell’altro tempo… ma il giorno è sempre di 24
ore, e con tutto quello che c’è da fare non bastano più. Ma perché
proprio 24 ore? Perché la rotazione della terra dura 24 ore è la
risposta più scontata. In questo modo si determina il ritmo di notte e
giorno. Ma davvero questo fatto è così rilevante per la nostra vita
quotidiana? Non sarebbe meglio un orologio legato ai ritmi vitali umani
per esempio che segua il battito cardiaco? Per ogni ora ci sarebbero 600
secondi in avanzo, in 24 ore ben 14400 secondi. Sono proprio 4 ore. Per
farla breve il giorno di 28 ore non sarebbe la misura del tempo più
adeguata alla nostra specie?…Ancora fino al 19° secolo molti orologi
avevano solo la lancetta delle ore… In Giappone negli anni ’70 del
secolo scorso non esisteva ancora una parola per "secondo". Ma oggi
siamo abituati a trovarci davanti la lancetta dei secondi all’ora del
telegiornale…Così ha pensato la compagnia giapponese Sport Train che ha
lanciato sul mercato "Montu" il primo orologio a 28 ore…I datori di
lavoro vorrebbero un taglio ulteriore, risparmiare con i giorni di 28
ore anche un intero giorno per settimana. In effetti Montu prevede la
settimana di sei giorni… " (Coulmas 1999).E’ naturale che nelle
esperienze del 20° secolo insieme con il vecchio movimento operaio anche
l’utopia socialista del lavoro si sia volatilizzata. Anche se quasi
nessuno ne deriva un concetto critico, oggi tutti sanno istintivamente
che non si può tenere a bada il capitalismo attraverso una
trasfigurazione della forma di attività che gli è propria. Ma se ne è
tratta la conclusione che nessuna critica al capitalismo sia possibile.
Mentre la generale costrizione al lavoro prosegue, i movimenti sociali
si sono nel complesso dileguati. Gli uomini capitalistici cercano di
rifugiarsi sempre più in una utopia individualizzata del tempo libero.
Ma anche lì li attende ancora una volta il capitalismo ghignante, che ha
colonizzato il tempo libero ormai solo complementare al tempo di
lavoro. Essendo il lavoro a priori un rapporto di minorità deve esserlo
anche il tempo libero. Il tempo libero non è tempo liberato ma uno
spazio funzionale secondario del capitale. Non si tratta di ozio libero
ma di un tempo funzionalizzato per il permanente (e assiduo) consumo di
merci. In questo modo da un lato l’industria culturale e del tempo
libero costituiscono nuove sfere del lavoro, dall’altro anche il tempo
libero come tale viene equiparato al tempo di lavoro. Allora l’uomo
capitalistico resta un lavoratore sia che "guadagni" denaro, sia che lo
spenda. Questo stato di cose rispecchia solo la tendenza generale
secondo cui l’"economia senza vincoli" nel corso dello sviluppo
capitalistico penetra gradualmente all’interno dei settori della vita
dissociati e smembrati con la sua propria logica ed in una certa misura
li "fagocita": la vita torna ad essere una totalità, ma una totalità
capitalisticamente integrata.La contraddittorietà di questo modo di
vivere e produrre che valeva in passato come contraddizione soggettiva,
come opposizione contro le prevaricazioni, si è in ogni caso del tutto
oggettivata e appare ancora come realtà della disoccupazione. Questa
d’altronde cresce drammaticamente in misura globale. L’insopportabile
contraddizione diviene così visibile ma solo in senso negativo. La
disoccupazione nel capitalismo non è mai tempo libero, ma solo tempo di
miseria. I disoccupati non vivono nella condizione della disponibilità
di tempo libero ma in quella della superfluità della loro persona. Non è
il principio del lavoro a non essere più valido ma l’esistenza dei
disoccupati. La prosecuzione del lavoro riceve una diversa qualità: il
lavoro dei disoccupati consiste nel doversi cercare miserevolmente un
nuovo lavoro, spronati ed umiliati dall’amministrazione burocratica del
lavoro e della miseria. Dopo che l’utopia del tempo libero è naufragata
in modo altrettanto miserabile come l’utopia del lavoro, un progetto di
liberazione potrebbe consistere nel rigettare l’intero sistema di
riferimento e liberarsi dalle categorie del capitalismo. Un ritorno alla
società agraria premoderna non è né possibile né desiderabile,
l’analisi storica può solo avere il senso di scoprire la grottesca
incomprensione che ha giovato solo al colossale sviluppo delle forze
produttive nella modernità e all’annientamento dell’ozio libero. Il
capitalismo potrà essere processato solo se anche il lavoro verrà
processato. Per superare la prigionia del tramontato movimento operaio
all’interno del concetto positivo del lavoro capitalistico possiamo
citare ancora una volta Marx, il Marx "oscuro" che i marxisti del lavoro
hanno sempre sfogliato confusamente: "Il lavoro è per sua essenza
un’attività non libera, inumana, asociale, condizionata dalla proprietà
privata e creatrice di proprietà privata. Il superamento della proprietà
privata diverrà reale quando verrà concepito come superamento del
lavoro" (Marx 1845).
Ads by LyricsSayAd Options
Ads by LyricsSayAd Options
Nessun commento:
Posta un commento