"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post
https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk
domenica, luglio 27, 2014
la condanna del silenzio 3.0
"Non sei parte del movimento ci sono echi jungeriani nelle tue parole e torni ad ad essere quello che eri una spia votata all'autodistruzione" il cattivo maestro
Doveva essere una festa per tutto il paese
il ritorno dalla paura e dalla follia
il ritorno dal carnevale e dalla paranoia
ma non è stato così
non era l'inizio era la fine della storia
di un sistema
che parte dal sangue e arriva al cervello
finiva così la mia dipendenza
dalle droghe dallo stato e dal partito
dai cattivi maestri e dalle ideologie
il nichilismo è ovunque
domina incontrastato
dietro parole valori ideali c'è il denaro
solo l'unico resiste
il nichilista creatore
le nubi si schiarivano
vedevo oltre la cortina fumogena
del segreto di stato
la mia seconda vita
celata nascosta da speciali medicine della memoria
durante quegli anni gettati via al vento
con una bottiglia
sempre in mano e qualche trip senza ritorno
Ora senza ritegno
la condanna del silenzio
una recita infame
Gesù veniva venduto per trenta denari
e non era solo Giuda lo zelota il traditore
ma un intero paese
stavo impazzendo con la torazina
iniettata nella notte mentre ero ubriaco
cominciavo un viaggio a ritroso
tante storie maledette
balenavano nella mente
droga a fiumi e sesso facile
terrorismo e strategia della tensione
spionaggio e magia nera
ringiovanimenti e omicidi mirati
alieni e demoni
antisemitismo di stato e lavaggi del cervello
praticati da maniaci eroi di un paese maledetto
dalla mia presenza dalla mia essenza
la condanna del silenzio
per il diavolo che si credeva Gesù
finisce in questa bottiglia
nel mare della rete
sabato, luglio 19, 2014
Il capitalismo come religione di Walter Benjamin
Il capitalismo come religione di Walter Benjamin
traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti
Questo frammento, databile alla metà del 1921, è tratto da: Walter Benjamin, Sul concetto
di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi 1997. Una nuova e bella traduzione
del solo frammento con testo a fronte è stata pubblicata di recente da Il Melangolo
a cura di Carlo Salzani.
Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente
all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta
un tempo le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo, non
solo di una conformazione condizionata religiosamente, come pensa Weber, bensì di un
fenomeno essenzialmente religioso condurrebbe ancora oggi sulla cattiva strada di una smisurata
polemica universale. Non possiamo chiamare in causa la rete in cui ci troviamo. Più tardi
tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea.
Però tre tratti di questa struttura religiosa sono già al presente riconoscibili. In primo luogo
il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. Tutto in
esso ha significato solo in relazione diretta al culto, esso non conosce alcuna dogmatica
particolare, alcuna teologia. Da questo punto di vista l’utilitarismo assume la sua colorazione
religiosa. A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo:
la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve
et sans merci. Qui non c’è nessun “giorno feriale”, nessun giorno che non sia un giorno di
festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno
dell’adorante. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente,
il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo
sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un’immensa coscienza della
colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa,
bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere
Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. Quest’ultima non
la si deve qui attendere nel culto stesso, e nemmeno nella riforma di questa religione, che
dovrebbe potersi attenere a qualcosa di sicuro in essa, né nel rinnegarla. Inerisce all’essenza
di questo movimento religioso, che è il capitalismo, il perdurare fino alla fine, fino alla
finale, piena colpevolizzazione di Dio, il raggiunto stato di disperazione del mondo che per ora
ancora si spera. In questo risiede lo storicamente inaudito del capitalismo, che la religione non
è più riforma dell’essere, ma la sua distruzione. L’espansione della disperazione a stato religioso
del mondo dal quale si debba attendere la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta.
Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo. Questo passaggio del pianeta
uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine della sua orbita è l’ethos
che costituisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione
capitalistica inizia ad adempierla. Il quarto tratto di essa è che il suo Dio dev’essere
tenuto segreto, ci si può rivolgere a lui solo allo zenit della sua colpevolizzazione. Il culto
viene celebrato davanti a una divinità ancora immatura, ogni idea, ogni pensiero rivoltole
ferisce il mistero della sua maturazione.
La teoria di Freud appartiene anch’essa al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata
in modo totalmente capitalistico. Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia,
ancora da chiarire pienamente, il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio.
II tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di
Nietzsche. L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione,
nella purificazione, nella penitenza bensì nell’incremento apparentemente
costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. Perciò sono inconciliabili l’incremento
e lo sviluppo nel senso del non facit saltum. Il superuomo è l’uomo storico arrivato
senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo. Questo far esplodere il cielo per mezzo di
umano intensificato, che religiosamente è e rimane (anche per Nietzsche) produzione di
colpa, lo ha pregiudicato Nietzsche. E analogamente Marx: il capitalismo che non si converte
diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in quanto tali funzione della
colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo.
Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.
II capitalismo – come dev’esser da dimostrare non solo nel calvinismo, ma nelle restanti direzioni
cristiane ortodosse – in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e
in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.
Confronto tra le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e le banconote di diversi stati
dall’altro.
Lo spirito che parla dell’ornamentio delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto. Sorel Reflexions sur la violence p. 262
Superamento del capitalismo tramite la migrazione Unger Politik und Metaphysik p. 44
Fuchs: struttura della società capitalistica o s.
Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie 2. Bd. 1919/20
Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. 1912)
Vedi innanzitutto la letteratura citata in Schönberg sotto II Landauer: Aufruf zum Sozialismus
p. 144
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza
spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti.
Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice
di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono
nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-
materiale.
Il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è
tramutato nel capitalismo.
Metodologicamente si dovrebbe innanzitutto indagare quali collegamenti con il mito abbia
istituito il denaro nella storia, fino a che dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così tanti
elementi mitici da poter costituire il proprio mito.
Guidrigildo / Thesaurus delle buone opere / compenso che è dovuto al prete. Plutone come
dio della ricchezza.
Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit 1816 p. 56 ss.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura risolutiva, per noi in questa [sua]
qualità al tempo stesso redentiva e omicida, del sapere: il bilancio come il sapere redentivo
e liquidatorio.
Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione il richiamare alla mente che il
paganesimo originario di sicuro ha concepito in primo luogo la religione non come un interesse
“superiore”, “morale” bensì come l’interesse più immediato, pratico, che cioè, in altre parole,
proprio come l’odierno capitalismo, non è stato affatto in chiaro circa la propria natura
“ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità
vedeva un membro certo di essa, proprio nel senso in cui la borghesia odierna lo vede nei
suoi appartenenti non produttivi.
Un commento, oggi di Giorgio Agamben
1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei
cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca
che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà
a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici,
semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo
americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro
in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che
aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno
delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a
partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio
sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di
…” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo
senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe
fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo)
non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un
biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente
autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano,
che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come
è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua
capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel
debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze
del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e
ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste
monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie.
La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento
coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia
Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto
la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il
denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito
che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di
Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da
Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX
e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”).
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione
della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso,
che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della
modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema
e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento
di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione
di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di
festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide
con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione
di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non
espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione
si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale…
e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel
destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza,
ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del
mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i
tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con
esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio
del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso
è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che
comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana
appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa…
è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitali-
smo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma
immediatamente in socialismo”.
3. Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione,
come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che
cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con
questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e
gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a
un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes
pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di
trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco
di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire:
pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode
presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione
che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che
non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il
nostro credito e la nostra parola. Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è
ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione
fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci
alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè,
quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”:
“Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere…
Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides
in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo
riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla
fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi,
da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun
oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief ) – cioè:
nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto
altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire
credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e
gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.
4. Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità
in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile
alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare
– in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria
fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno,
cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è
un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che
“sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli
ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate.
Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo,
prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo
“come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora
immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista,
di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata
annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in
senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un
mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.
5. Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a
vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario
contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali
e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla
luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio
della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno
in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era
naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non
aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta,
al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio
tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo
con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997,
p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale
aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito
dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per
così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione
futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione
capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che
non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso,
sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato
atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento
della religione capitalista: il credito-debito.
FONTE: http://www.lostraniero.net/
traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti
Questo frammento, databile alla metà del 1921, è tratto da: Walter Benjamin, Sul concetto
di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi 1997. Una nuova e bella traduzione
del solo frammento con testo a fronte è stata pubblicata di recente da Il Melangolo
a cura di Carlo Salzani.
Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente
all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta
un tempo le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo, non
solo di una conformazione condizionata religiosamente, come pensa Weber, bensì di un
fenomeno essenzialmente religioso condurrebbe ancora oggi sulla cattiva strada di una smisurata
polemica universale. Non possiamo chiamare in causa la rete in cui ci troviamo. Più tardi
tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea.
Però tre tratti di questa struttura religiosa sono già al presente riconoscibili. In primo luogo
il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. Tutto in
esso ha significato solo in relazione diretta al culto, esso non conosce alcuna dogmatica
particolare, alcuna teologia. Da questo punto di vista l’utilitarismo assume la sua colorazione
religiosa. A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo:
la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve
et sans merci. Qui non c’è nessun “giorno feriale”, nessun giorno che non sia un giorno di
festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno
dell’adorante. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente,
il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo
sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un’immensa coscienza della
colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa,
bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere
Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. Quest’ultima non
la si deve qui attendere nel culto stesso, e nemmeno nella riforma di questa religione, che
dovrebbe potersi attenere a qualcosa di sicuro in essa, né nel rinnegarla. Inerisce all’essenza
di questo movimento religioso, che è il capitalismo, il perdurare fino alla fine, fino alla
finale, piena colpevolizzazione di Dio, il raggiunto stato di disperazione del mondo che per ora
ancora si spera. In questo risiede lo storicamente inaudito del capitalismo, che la religione non
è più riforma dell’essere, ma la sua distruzione. L’espansione della disperazione a stato religioso
del mondo dal quale si debba attendere la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta.
Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo. Questo passaggio del pianeta
uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine della sua orbita è l’ethos
che costituisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione
capitalistica inizia ad adempierla. Il quarto tratto di essa è che il suo Dio dev’essere
tenuto segreto, ci si può rivolgere a lui solo allo zenit della sua colpevolizzazione. Il culto
viene celebrato davanti a una divinità ancora immatura, ogni idea, ogni pensiero rivoltole
ferisce il mistero della sua maturazione.
La teoria di Freud appartiene anch’essa al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata
in modo totalmente capitalistico. Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia,
ancora da chiarire pienamente, il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio.
II tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di
Nietzsche. L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione,
nella purificazione, nella penitenza bensì nell’incremento apparentemente
costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. Perciò sono inconciliabili l’incremento
e lo sviluppo nel senso del non facit saltum. Il superuomo è l’uomo storico arrivato
senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo. Questo far esplodere il cielo per mezzo di
umano intensificato, che religiosamente è e rimane (anche per Nietzsche) produzione di
colpa, lo ha pregiudicato Nietzsche. E analogamente Marx: il capitalismo che non si converte
diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in quanto tali funzione della
colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo.
Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.
II capitalismo – come dev’esser da dimostrare non solo nel calvinismo, ma nelle restanti direzioni
cristiane ortodosse – in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e
in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.
Confronto tra le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e le banconote di diversi stati
dall’altro.
Lo spirito che parla dell’ornamentio delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto. Sorel Reflexions sur la violence p. 262
Superamento del capitalismo tramite la migrazione Unger Politik und Metaphysik p. 44
Fuchs: struttura della società capitalistica o s.
Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie 2. Bd. 1919/20
Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. 1912)
Vedi innanzitutto la letteratura citata in Schönberg sotto II Landauer: Aufruf zum Sozialismus
p. 144
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza
spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti.
Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice
di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono
nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-
materiale.
Il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è
tramutato nel capitalismo.
Metodologicamente si dovrebbe innanzitutto indagare quali collegamenti con il mito abbia
istituito il denaro nella storia, fino a che dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così tanti
elementi mitici da poter costituire il proprio mito.
Guidrigildo / Thesaurus delle buone opere / compenso che è dovuto al prete. Plutone come
dio della ricchezza.
Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit 1816 p. 56 ss.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura risolutiva, per noi in questa [sua]
qualità al tempo stesso redentiva e omicida, del sapere: il bilancio come il sapere redentivo
e liquidatorio.
Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione il richiamare alla mente che il
paganesimo originario di sicuro ha concepito in primo luogo la religione non come un interesse
“superiore”, “morale” bensì come l’interesse più immediato, pratico, che cioè, in altre parole,
proprio come l’odierno capitalismo, non è stato affatto in chiaro circa la propria natura
“ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità
vedeva un membro certo di essa, proprio nel senso in cui la borghesia odierna lo vede nei
suoi appartenenti non produttivi.
Un commento, oggi di Giorgio Agamben
1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei
cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca
che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà
a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici,
semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo
americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro
in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che
aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno
delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a
partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio
sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di
…” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo
senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe
fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo)
non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un
biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente
autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano,
che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come
è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua
capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel
debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze
del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e
ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste
monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie.
La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di
metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento
coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia
Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto
la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il
denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito
che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di
Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da
Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX
e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”).
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione
della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso,
che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della
modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema
e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento
di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione
di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di
festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide
con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione
di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non
espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione
si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale…
e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel
destino dell’uomo”.
Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza,
ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del
mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i
tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con
esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio
del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso
è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che
comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana
appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa…
è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitali-
smo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma
immediatamente in socialismo”.
3. Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione,
come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che
cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon?
David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con
questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e
gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a
un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes
pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di
trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco
di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire:
pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode
presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione
che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che
non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il
nostro credito e la nostra parola. Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è
ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione
fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci
alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè,
quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”:
“Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere…
Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides
in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo
riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla
fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi,
da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun
oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief ) – cioè:
nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto
altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.
Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire
credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e
gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.
4. Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità
in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile
alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare
– in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria
fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno,
cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è
un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che
“sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli
ebrei – è sostanza – ousia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate.
Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo,
prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo
“come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora
immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista,
di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata
annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in
senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un
mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.
5. Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a
vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario
contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali
e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla
luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio
della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno
in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era
naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non
aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta,
al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio
tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo
con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997,
p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale
aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito
dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per
così dire ipotecare anticipamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione
futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione
capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che
non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso,
sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato
atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento
della religione capitalista: il credito-debito.
FONTE: http://www.lostraniero.net/
Etichette:
capitalismo,
comunismo,
Karl marx,
religione,
Walter Benjamin
giovedì, luglio 17, 2014
Jacques Camatte S O M M O S S A
S O M M O S
S A
« Ma non scoppiano forse tutte le sommosse,
senza eccezione, nel disperato isolamento dell’uomo dalla comunità
(Gemeinwesen)? »
Karl Marx, 1844
Sì, tutte le sommosse, le ribellioni, i
disordini[1],
i sollevamenti, le insurrezioni, le rivoluzioni, da migliaia di anni senza mai,
durante tutto questo tempo, giungere a ritrovare la Gemeinwesen, a ritrovare la continuità. Tale è per me la constatazione
a proposito di ciò che è avvenuto in Francia, e posso aggiungere: ripetizione
coatta dell’impossibilità di uscire dall’esclusione, dall’isolamento, dal
rinchiudersi, dalla repressione.
Dato che noi non ci aspettiamo niente
da questo mondo[2], non
dobbiamo cercare quale possa essere il significato dei disordini che hanno
colpito le periferie di diverse città in Francia nel novembre 2005. Una tale
ricerca sarebbe espressione di un’ermeneutica rivoluzionaria unita al tentativo
di prevedere l’eventualità di ciò che veniva chiamato «ripresa rivoluzionaria»,
oppure il prolungamento di una fase di controrivoluzione. Un tale approccio
agli avvenimenti rivelava la dipendenza in cui ci si trovava in rapporto al
divenire della società-comunità del capitale; dipendenza che non poteva che
rafforzare la speciosi-ontosi. Questo tipo di ermeneutica non era propria dei
rivoluzionari, la si ritrovava presso tutti quelli che tentavano di trovare, in
seno ad un dato avvenimento, un senso, un significato che permettesse in
qualche modo di scongiurare un divenire temuto, in una parola la catastrofe.
Cercare dei segni per fondare un senso,
un significato, denota l’incertezza verso il mondo, l’angoscia a causa di una
minaccia inconscia. La rottura con la dipendenza implica una dinamica
dell’affermazione in cui coloro che si distanziano da questo mondo cercano di
vivere un’altra realtà. Da quel momento essi agiscono e non si limitano a
reagire.
Aggiungiamo che la messa in gioco
effettiva di queste due ermeneutiche ha contribuito (e contribuisce) in
definitiva al recupero di quanto aveva potuto minacciare la società presente.
Per esporre ciò richiamo, anzitutto, i
temi fondamentali del mio cammino: il processo rivoluzione è finito, necessità
di abbandonare questo mondo, necessità di intraprendere un cammino di
liberazione-emergenza, scacco della dinamica di uscita dalla natura, scacco
delle diverse coperture, come lo è in modo lampante il capitale, dispiegamento
dell’ontosi-speciosi, il reale è inaccessibile.
Il processo rivoluzione è finito e la
dinamica del lottare contro un potere che domina e tende a strutturare la
società è parimenti finita, a motivo della percezione del meccanismo infernale
che ha bisogno di oppressori e di oppressi per potersi realizzare. Inoltre il
desiderio di liberazione non è appannaggio di un gruppo di uomini e di donne
che costituiscono la maggioranza della popolazione, i dominati, ma esiste anche
in quelli che dominano e formano la minoranza. Diciamo che essi rappresentano
il polo della dominazione in seno al meccanismo infernale. Da qui è importante
percepire come una potente dinamica di liberazione-emergenza può prendere
ampiezza senza che si abbia un processo rivoluzione concepito e vissuto fino a
poco fa come quello per eccellenza della liberazione. Dico prendere ampiezza
perché questo processo è già avviato da molto tempo e diviene più manifesto da
due secoli ma zavorrato, e quindi inibito dalla dinamica rivoluzionaria.
È un divenire in cui non vi sono
nemici, nessuna violenza sotto qualsiasi forma, né riconciliazione che mascheri
gli orrori commessi. È un divenire in cui si impone una immensa indagine sulle
modalità di realizzazione di questi orrori che derivano dalla repressione
sociale, parentale.
A partire da qui io posso rapportarmi a
ciò che avviene ed è avvenuto in Francia. Si tratta di constatare e non di
interpretare, come ho detto in precedenza. E ciò che si constata,
nell’immediato, è una manifestazione di violenza in cui uomini e donne ripetono
quello che hanno subito individualmente nel corso della loro ontogenesi
(allargando un poco i limiti del concetto biologico) e collettivamente nel
corso dei millenni. In precedenza si è potuta constatare anche una oscillazione
tra un mettere in derelizione con delle misure repressive che pesano sulle
possibilità di sopravvivenza (ribasso dei sussidi, soppressione di diverse
garanzie) e delle misure riformiste che si sforzano in qualche modo di medicare
delle ferite. Le sommosse esplodono in seguito a un ritorno verso la
derelizione, che induce a porsi la questione di sapere perché la dinamica riformista
non può essere mantenuta. La risposta è evidente. Si manifesta la ripetizione
coatta di un punto di vista positivo, attivo; i repressori hanno bisogno di
ricollocare i repressi nella situazione di derelizione in cui essi stessi
furono posti e di cui essi hanno rimosso la sofferenza che ne fu indotta, dal
che deriva il loro oblio di una tale situazione. Sommosse simili si sono
prodotte in precedenza in Gran Bretagna così come negli Stati Uniti. Per ciò
che riguarda i giovani, il fenomeno è ricorrente dal 1956 (Stoccolma).
Ma se non c’è da interpretare c’è la
necessità di tenere conto dei fenomeni in tutta la loro dimensione storica che
attraversa la società-comunità attuale. Un primo esempio è quello
dell’assimilazione, soprattutto in Francia, poi dell’integrazione un po’
ovunque nel mondo. In effetti la mondializzazione di cui si parla tanto si
attua nel fatto che molte città hanno una popolazione mondializzata. In un
articolo di Le Monde del 10 novembre
2005 riguardante la città di Francoforte, si indica che “questa città tedesca
in cui risiede il 27,4% di stranieri originari di 169 paesi, conduce delle
politiche attive a favore dell’integrazione e dell’alloggiamento”. Si constata
che dalla metà del secolo scorso l’assimilazione ha dovuto più o meno essere
abbandonata per lasciare il posto all’integrazione, il che fa sì che, per
esempio negli USA, lo spagnolo diventi la seconda lingua del paese. Ma questo
fallimento dell’assimilazione si accompagna ad un irrigidimento, in seno a
diversi raggruppamenti, sull’identità e quindi ad un aumento delle tensioni. In
seguito a tutto ciò si va verso la perdita sempre maggiore della concretezza e
al fatto che ogni uomo, ogni donna, è definito(a), determinato(a) solo
giuridicamente, dallo Stato. Dato che quest’ultimo tende a divenire
evanescente, ciò aumenta l’insicurezza di coloro che sono integrati. Questa
insecurizzazione, in altri contesti, è stata vista bene da Hannah Arendt nel
suo studio sul totalitarismo.
Legato a questo fenomeno è da vedere quello del rapporto con l’Islam. E
qui bisogna ripartire dalla sua origine. Si può essere abbastanza d’accordo con
Dante nel considerare che Maometto provocò uno scisma in seno ad un immenso
spazio sociale corrispondente all’incirca a quello occupato dall’impero romano
e dominato dal cristianesimo. Tuttavia, la coazione a ripetere fa sì che nel
corso del divenire dell’Islam si avvii un recupero di ciò che era stato
prodotto in precedenza in seno al modo di produzione schiavista, recupero della
filosofia e di ciò che è chiamato “scienza”. È quello che i cattolici avevano
operato con la filosofia, e che operarono, ulteriormente, durante il
Rinascimento, per ciò che riguarda la “scienza”. La soluzione di Maometto
consistette nell’integrare il movimento del valore, nel limitarlo. Tuttavia,
nel tempo si impose una certa regressione di questo movimento con la
riaffermazione di un’unità superiore tramite la formazione dei diversi imperi
musulmani. L’Occidente uscì dal suo impasse passando al modo di produzione
capitalista. Con ciò, sorpassò l’area islamica e pervenne a minacciarla
totalmente. Ciò che si imporrebbe quindi ai musulmani è di operare alla maniera
di Maometto una integrazione del capitale al fine di salvare l’Umma. Ma il
capitale, essendo pervenuto alla comunità materiale, essendosi autonomizzato,
non può essere integrato. Di conseguenza i musulmani devono “fare” con il
capitale, come si vede d’altronde dall’attività dei diversi gruppi islamici. In
altri termini il capitale ha provocato una riunificazione dell’area che era
stata frammentata dallo scisma, ma tutte le tensioni accumulate nel corso del
tempo si sono mantenute, e aggravate.
Questa riunificazione risulta da una
sorta di convergenza tra l’area occidentale, produttrice del capitale, e l’area
musulmana. In effetti al livello del paese in cui il modo di produzione
capitalista si è più sviluppato, si impone in maniera irrimediabile non più una
nazione, come in Europa, ma una unione che è una forma di comunità tendente ad
integrare ogni sorta di etnie, ma in cui, simultaneamente, le determinazioni
etniche tendono ad essere negate (frenare, inceppare il comunitarismo) e,
perciò, la comunità tende ad essere astratta e dispotica, definendosi come
despota il capitale. Tuttavia, in rapporto alla sua morte potenziale, la
necessità di un’unione superiore trascendente si ripresenta ampiamente alla
superficie. Di conseguenza l’area occidentale rappresentata dagli USA e l’area
musulmana rappresentata dai paesi del Medio Oriente presentano ciascuna una
comunità e un’unità superiore trascendente, che occorre riattivare potentemente
(dato mistico) per assicurarne la salvezza. A partire da qui si può percepire
che sorge la coazione a ritornare a ciò che esisteva prima della frattura.
Perciò la presenza, in particolare, degli statunitensi in Iraq pone termine ad
un ciclo storico. Gli europei, bloccati dagli arabi e dai mongoli nella loro
espansione verso est, li aggirarono e scoprirono l’America. A partire dal
momento in cui si completò il loro inserimento in questo nuovo continente, essi
ripresero, all’inizio del XIX secolo, ad opporsi ai popoli di area musulmana
attaccandosi ai paesi africani, poi ai paesi arabi, soprattutto quelli del
Medio Oriente, all’inizio del XX secolo e, alla fine di questo secolo,
l’intervento occidentale prende la svolta decisiva di cui noi vediamo al giorno
d’oggi lo sviluppo considerevole[3].
Il problema dell’integrazione della
Turchia all’Unione Europea (anche qui la nazione tende ad essere soppiantata
dall’unione) si presenta come un caso particolare, esemplare, della relazione
dell’area occidentale con l’area musulmana. Prima dell’Islam, questo paese
partecipò pienamente alla formazione di ciò che sarà chiamato l’Occidente. Si
può risalire agli Ittiti, ai Mittani, ma insisterò sull’importanza della Lidia
nella genesi del movimento del valore nella sua dimensione orizzontale, della
Frigia e, evidentemente di città come Mileto in rapporto al dispiegarsi della
filosofia. Si può aggiungere l’importanza del movimento cristiano, per esempio
i Cappadoci, ma anche le diverse correnti eretiche, gnostiche. Quindi, il
desiderio della Turchia di entrare nella comunità europea, non partecipa di un
desiderio di riunirsi ad un’unità perduta, ad una dinamica abbandonata?
Questo di certo non gioca direttamente
sul comportamento dei francesi di origine musulmana, come del resto su quello
degli altri francesi, ma ciò interviene, non fosse altro che a causa delle
paure, e del fenomeno inconscio dell’attivazione della minaccia, di cui i
rapporti tra musulmani e occidentali sono i supporti.
È opportuno tener conto anche della
tendenza, già segnalata, all’evanescenza dello Stato, ciò che faciliterà un
ritorno a quello che i giuristi e i filosofi descrivevano con il nome di stato
di natura. E qui abbiamo una grande contraddizione con l’altra tendenza che è
quella di assicurare tutto. La contraddizione mostra di essere nello stesso
tempo convergenza. Convergenza perché questo segnala che siamo nell’insicurezza
totale, quella che i filosofi e i giuristi si rappresentavano, e che noi
dobbiamo costantemente assicurarci, rassicurarci. Lo Stato aveva tanta più
importanza per il fatto che con il suo ruolo repressivo esso partecipava
ampiamente al meccanismo infernale, e che con i suoi interventi riformisti,
conciliatori (conciliazione e armonizzazione tra le classi) esso operava come
un palliativo a questo meccanismo, esprimendo l’utopia di potergli sfuggire.
Ciò si è fortemente affermato nel secolo scorso con lo Stato-Provvidenza.
Più in profondità si manifesta il
fenomeno di regressione-degenerazione della specie. La regressione vuol dire
che ognuno di noi tende a rivivere i traumi originali e con questo tende a
ritornare bambino, neonato, o embrione[4].
Ciò agisce anche per quanto riguarda la specie. Così possiamo citare come
esempi: l’estendersi dell’obesità (l’individuo diviene un bambinone che
desidera essere accudito dalla mamma), l’AIDS che segnala la situazione di
derelizione, l’assenza di difesa, di protezione, ma anche i disordini dentari
con la perdita dei denti del giudizio, il loro impianto difettoso, il
restringimento della mandibola, il suo avanzare o arretrare in rapporto al
mascellare superiore, i disturbi a livello respiratorio che possono essere
legati a tutto questo, mentre le alterazioni dell’occlusione possono ostacolare
la realizzazione della stazione verticale. Tutto ciò colpisce sempre più
persone. Ma non è cosa recente. Weston A. Price, nel suo libro Nutrition and
physical degeneration, uscito nel
1938 e riportante studi che risalivano a vent’anni prima, parla di tutti questi
malanni dentari, e menziona l’ortodonzia. Egli mostra che tutti questi
disordini sono legati alla perdita di un modo di vita tradizionale, e in
particolare all’adozione dell’alimentazione occidentale. Egli accorda quindi
molta importanza alla nutrizione. Ma a mio avviso occulta totalmente il trauma
provocato dal contatto con la civiltà occidentale. E qui ritroviamo i
rivoltosi, figli e figlie di uomini e di donne che facevano parte di un mondo
diverso da quello occidentale. W. Price insiste su un rapporto tra questi
fenomeni di degenerazione e l’aumento della delinquenza … Ma la delinquenza è
una forma primaria, immediatista, di sommossa, che esprime il non poter
sfuggire alla ripetizione coatta. Io penso che la regressione sia solo un punto
di partenza per lo sviluppo di una degenerazione che si presenta come un
possibile.
Lo sviluppo della tecnica permette ampiamente di poter regredire.
Dobbiamo affrontare tutto questo con un giro a lato. Secondo Julian Jaynes i
nostri antenati udivano delle voci. Egli basa questa affermazione sullo studio
della letteratura greca, della bibbia, dei testi sumeri, delle psicosi e
facendo appello alla psicologia sperimentale. Quello che mi interessa si trova
collegato con il tema fondamentale che stiamo esponendo nel nostro testo: la
repressione che induce dominazione e dipendenza.
« Noi siamo degli esseri coscienti. Cerchiamo di comprendere la natura
umana. L’ipotesi paradossale alla quale siamo pervenuti nel capitolo precedente è che, a un dato
momento, la natura umana si era divisa in due: una parte che comandava,
chiamata dio, e una parte che obbediva, chiamata uomo. Nessuna delle due era
cosciente. Il che ci è quasi incomprensibile[5]».
Gli uomini udivano delle voci, che essi hanno interpretato come le voci
degli dei. J. Jaynes opera un avvicinamento con quello che accade negli
schizofrenici. « Le voci, nella schizofrenia, intrattengono ogni sorta di
relazioni con il paziente. » «Molto spesso esse criticano i pensieri e le
azioni del malato. A volte, esse gli proibiscono di fare proprio ciò che egli
stava per intraprendere.» «Se abbiamo ragione di supporre che le allucinazioni
degli schizofrenici assomigliano ai comandi degli dei dell’Antichità, dovrebbe
quindi esserci una fonte psicologica comune, nei due casi. Si tratta
semplicemente, a mio avviso, dello stress[6] ». Lo stress
era in relazione con gli scontri tra gruppi umani, con la repressione e con la
manifestazione inconscia dell’antica minaccia vissuta dalla specie, che
determinò la sua uscita dalla natura. Per superare lo stato di inferiorità in
cui gli uomini e le donne si trovavano, essi fecero appello alla sovranatura e
ad un dato momento inventarono gli déi, operatori della repressione (vale a
dire l’imposizione di un divenire fuori natura), ma anche della salvezza. Il
fatto che essi udissero delle voci provenienti dall’esterno significava che non
vi era ancora stata interiorizzazione e quindi nessuna formazione di una
coscienza.
Ciò posto, qual è il rapporto tra le voci udite dai nostri antenati e
quelle che ascoltiamo quando ci colleghiamo ad una stazione radio, quando
afferriamo un telefono? Cosa succede in seguito, quando, con la televisione,
l’emittente della voce diviene visibile? La televisione diviene un sostituto
della coscienza? Ma le cose divengono ancora più spettacolari, strane con i
telefoni mobili. Uomini e donne possono udire delle voci (dialogare con
l’invisibile), parlare a queste voci, senza rischiare di passare per matti,
matte[7]. Ancor più con
dei telefoni più sofisticati, essi ed esse possono vedere i portatori di tali
voci, e il telefono mobile diventa la metafora della coscienza, se non è la
coscienza. Inoltre, constato l’impossibilità in cui uomini e donne si trovano,
di vivere l’immediato; è necessario che essi, che esse siano connessi(e)
costantemente a qualche cosa, se no è la depressione. Bisogna che essi, che
esse, dicano il loro vissuto o le loro preoccupazioni. Essi, esse sono
attaccati(e), legati(e) a qualcosa. Con la possibilità di connettersi a
Internet, c’è anche il tentativo di ritrovare la continuità con il tutto. Con
il telefono mobile, l’individuo si pensa reperibile, non evanescente, al modo
in cui, secondo J. Jaynes, ciò si imponeva per i nostri antenati con la voce
degli déi.
Gli uomini e le donne vorrebbero udire di nuovo le voci per essere
aiutati; registrare il discorso repressivo, non essendo più sufficienti la
coscienza e la rimozione per compiere il loro processo di vita. Ma allo stesso
modo non tendono a ritrovare dei comportamenti perduti come parlare camminando,
essendo la marcia e la parola complementari, significando tutti e due una
progressione. Certamente altri fattori intervengono in ciò che causa «
l’essenzialità » del telefono mobile. Il desiderio di controllare l’altro, per
esempio, e con ciò di mantenere la repressione. Non si può nascondere neppure
la dimensione di droga. Molti assumono delle droghe per ascoltare delle voci,
il che ci riporta a J. Jaynes. « Ascoltare è in effetti una forma di
obbedienza. Così, queste due parole che provengono dalla medesima radice sono
probabilmente la stessa parola, all’origine. È vero in greco, in latino, in
ebraico, in francese, in tedesco, in russo e anche in inglese, dove la parola «
obbedire » viene dal latino « obbedire », che è un
composto di « ob + audire », cioè udire stando davanti a
qualcuno[8]. Quindi
ripetizione coatta della dipendenza determinata dalla derelizione subita
originariamente. La negatività dell’ascolto si rivela bene nel fenomeno del
brusìo[9]. Uomini e
donne ascoltano delle voci che suggeriscono loro … l’utilizzazione del telefono
mobile per amplificare il fenomeno di propagazione.
Di conseguenza anche un ascolto profondo in cui l’ascoltatore recepisce
al meglio ciò che il parlante enuncia, senza giudicare né interpretare, può
essere ancora un supporto di messa in dipendenza. Piuttosto che ascoltare,
conviene quindi essere in continuità.
Infine, per concludere provvisoriamente e succintamente questo tema: il
martellamento, sul piano tanto uditivo quanto visuale, effettuato dai
pubblicitari sostituisce, ugualmente, il tormento che i nostri antenati,
secondo J. Jaynes, subivano da parte delle voci.
Rimane da
posizionarsi rispetto a questi avvenimenti. Ciò non comporta obbligatoriamente
la necessità di intervenire, poiché l’intervento ha spesso la dimensione della
repressione. Il mondo così com’è mi è stato imposto da quando sono comparso. Io
non ne sono minimamente responsabile. Ho deciso di abbandonarlo perché mi è
estraneo. Ho involontariamente contribuito al suo mantenimento e forse al suo
divenire nella misura in cui la mia opposizione in rapporto ad una prospettiva
rivoluzionaria ha potuto rafforzarlo. Ma ho voluto evitare ogni tipo di
ripetizione coatta; di conseguenza abbandonare questo mondo ha implicato:
ritrovare la mia naturalità che fu bloccata a causa della repressione parentale
e sociale; facilitare la rigenerazione della natura; testimoniare di questa
dinamica di uscita dal mondo. Gli avvenimenti in corso obbligano ad apportare
delle precisazioni e delle integrazioni.
Per questo,
occorre intraprendere ora un’altra investigazione teorica di maggiore ampiezza
tanto sul piano storico quanto sul piano delle aree geo-sociali, interrogandoci
sul comportamento degli uomini e delle donne da millenni. Essi stanno in un
conflitto che presenta delle fasi esplosive come le guerre in cui si afferma
l’hybris, la dimensione maniacale, e delle fasi di tregua, di pausa, che
caratterizzano la pace, aventi una dimensione depressiva. Il conflitto è
possibile solo se si ha percezione di nemici, di minaccia, solo se ciò che non
è sé ma altro, diviene supporto per essere vissuto come nemico. Homo sapiens si
fonda attraverso il rifiuto della natura percepita come minacciosa, il che ha
un fondamento per il fatto del rischio di estinzione che la specie corse. Un tale
rifiuto comporta la repressione della naturalità (designata da certuni come ciò
che è selvaggio) in ogni uomo e in ogni donna.
Alla base di
tutto si trova la percezione del nemico, voglio dire con questo l’affermazione
di un vissuto in cui quest’ultimo non solo opera ma è determinante, sul piano
dell’individuo come del gruppo, dell’etnia, della nazione, della specie. Il
nemico può essere un vissuto reale o fantasmatico! In ogni caso esso è
necessario, poiché è il totalmente altro (das ganze
Anderes, la sua dimensione mistica), lo sconosciuto. Egli lo è perché la
dinamica specio-ontosica fa sì che si esista a partire da un rifiuto, da una
negazione. Ora, l’esistenza del nemico deriva dalla repressione parentale. Ogni
nemico concreto o fantasmatico è in effetti il supporto per significare il
nemico fondamentale, originario, l’essere naturale, la naturalità. Noi siamo
fondati sulla repressione della nostra naturalità, posta come la nemica,
l’ostacolo per acceder all’essere domesticato, che si pone fuori dalla natura.
Inversamente, noi siamo portati a interpretare il nostro essere naturale come
il nemico della madre, del padre che ci deve far accedere alla cultura,
all’extra-natura, al fine di comprendere perché siamo rifiutati, il che sta a
fondamento dell’irrazionalità. Noi siamo nemici di … e siamo colpevoli. Si esce
dallo stadio in cui si è rifiutati interiorizzando il nemico. Egli è in noi. La
guerra è l’esteriorizzazione amplificata di questo conflitto interno il cui
supporto fondamentale, con il quale esso è in continuità, è la lotta della
specie contro la natura. Distruggere un nemico sarebbe togliere la
colpevolezza, disfarsene.
« Tentare di
immaginare una guerra senza figurarsi preliminarmente un nemico: è impossibile.
Che l’obiettivo sia una preda, una vittima sacrificale, uno spirito maligno o
un oggetto del desiderio, è l’idea di nemico che mobilita l’energia. La figura
del nemico alimenta le passioni della paura, dell’odio, della collera, del
desiderio di vendetta, della furia distruttrice o della concupiscenza, fornendo
quel surplus di energia compressa che rende il campo di battaglia possibile.
(…) Il nemico è la levatrice della guerra[10] ».
« Se la
guerra si origina nello Stato, lo Stato esordisce con la creazione di un nemico[11]».
La guerra,
come la schiavitù, è permanente. James Hillman si pone la seguente domanda: «
Se la guerra è normale, lo è perché essa è radicata nella natura umana, o
perché è essenziale per la società? Essa è al fondo l’espressione
dell’aggressività e dell’istinto di autoconservazione degli esseri umani,
oppure è un prolungamento del comportamento gregario, dai cacciatori fino ai
razziatori e, per finire, fino alle coalizioni di uomini nei paesi lontani?[12] ».
Ed egli
afferma: « Può darsi che, davvero, si venga al mondo sapendo già tutto, guerra
inclusa, non perché si possiede un istinto bellicoso, ma perché esiste nella
nostra anima la conoscenza del cosmo, e la guerra è uno dei fondamenti del
cosmo[13]».
A proposito
della schiavitù, Viviana Pâques scrive: « Quasi tutte le società hanno
conosciuto la schiavitù. Non osiamo sopprimere questo “quasi” perché non
sappiamo bene, laddove la schiavitù non è attestata da qualche parte, se si
tratta davvero di una assenza o di una lacuna nella nostra documentazione.[14]». In
effetti, dalle precisazioni che ella porta in seguito, risulta chiaramente che
il concetto di messa in schiavitù, che implica la perdita della libertà e il
fatto di divenire possesso di qualcun altro, esiste da sempre. Ciò mi sembra
molto verosimile per il fatto stesso che in diverse lingue una medesima parola
indica il bambino e lo schiavo. Il bambino è schiavo, egli è spossessato della
sua naturalità e dipende dagli esseri che lo hanno represso. Egli è condannato
a lavorare per diventare un essere adattato a un mondo che diviene sempre più
estraneo alla natura, un essere domesticato. Da qui l’ambiguità e il carattere
contraddittorio del lavoro, soprattutto quando è posto come elemento essenziale
di una dinamica di liberazione. Aggiungiamo che la maggior parte dei concetti come
nemico, lavoro, ecc., sono gravati della confusione iniziale nella quale noi
fummo posti.
Guerra e
schiavitù, che sono in stretta relazione, derivano dalla dinamica della
repressione. Messa in schiavitù, infantilizzazione, domesticazione e dinamica
di liberazione, transizione all’indipendenza e alla maturità si alternano, come
si alternano guerra e pace, e così anche mania e depressione.
Ritorniamo
al concetto di nemico che ha per supporto iniziale tutto ciò che fa ostacolo a
uno sviluppo dato, che sia per l’individuo o per la specie, da cui le sue
diverse figure: avversario (challenger), oppositore, contraddittore, ecc. Per
il fatto stesso della sua genesi, esso racchiude confusione e violenza. La
prima appare nell’ambiguità della designazione del supporto: sono io (fondante
l’odio di sé) o l’altro? In effetti, in generale, si impone una coesistenza dei
due, ciò che comporta un desiderio di separarli, di rivelare chi è quello vero,
da cui lo sbocciare della violenza[15].
Grazie alla guerra si perviene ad afferrare il vero nemico, a conoscerlo; si
esce dall’ambiguità, dall’indecisione, dalla procrastinazione; da una forma
irrigidita di incoazione[16] a
vivere, e si accede ad un’autenticità[17],
rinforzata dal fatto che i compagni d’arme subiscono lo stesso fenomeno, mentre
l’imminenza del pericolo costringe ad uscire da tutti i blocchi, permettendo di
oltrepassare il sé. Da qui si può accedere al sacrificio (ripetizione di quello
della propria naturalità), al dono di sé. La guerra dà luogo a grandi
sofferenze e alla loro esaltazione. Ora, la sofferenza appare agli uomini e
alle donne come necessaria per accedere a se stessi, secondo l’adagio: « non si
conosce nulla fintanto che non si è sofferto ». Di conseguenza, tanto dal punto
di vista di sé quanto dell’altro (il nemico) la guerra è l’iniziatrice per
eccellenza.
Il nemico è
l’estraneo, l’altro che rimette in causa (come lo fu per il fatto della non
accettazione della nostra naturalità[18]).
Egli sorge dall’effettuazione della rottura di continuità di cui realizza una
antropomorfosi e la sua epifania. « Infine anche quando la mia soggettività si
lega in seno ad un’amicizia, a un matrimonio, alla paternità o alla maternità,
o in un giuramento, l’Altro permane esterno, definito come non-me[19] ».
Me e sé
esprimono la discontinuità che permane in noi, un ripiego, una diffidenza,
eufemismo della paura, la paura dell’ignoto, dell’imprevisto, della
spontaneità. Ora, davanti al pericolo, l’individuo la può ritrovare; da qui una
delle ragioni, secondo J. Hillman, del « terribile amore per la guerra ».
Sorto dalla
discontinuità, l’altro, il nemico, colui che sorprende, è un supporto per il
numen. La guerra permette di rivivere pienamente il momento mistico originale
che perdura intero in ognuno sotto forma di impronta. Abbiamo già evocato
l’oltrepassamento del sé che è come un andare al di là per attingere il numen,
integrarlo o fondersi in esso, e che partecipa della dinamica della
trascendenza (un tentativo di ristabilire la continuità), dell’appartenenza, a
quella del sacrificio e del dono d sé.
La guerra
appare come ciò che affascina e fa paura, shock and awe, come ricorda J.
Hillman; essa suscita il sublime che partecipa pienamente della mistica. « Il
sublime concepito in quanto coincidenza stupefacente del funesto e del bello in
un istante unico ed esaltante, è venuto dalla natura, dalla terra[20] ».
Per parlare del sublime gli ossimori si impongono, come quando si tratta di
esprimere il mistico che pure necessita delle contraddizioni, della
sovrapposizione degli stati, dell’irrazionale. Non è questo il luogo per
esplicitare questi temi. Voglio solamente sottolineare un dato essenziale che
può spiegare una causa del conflitto in Medio Oriente. Grazie alla mistica
l’individuo cerca di andare al di là della rottura, vale a dire di pervenire al
momento che precede la sua effettuazione, al fine di uscire
dall’imprigionamento, dal mistero. Il « totalmente altro » ci rinchiude in noi
stessi, ci blocca, instaurando il possibile di una violenza allo scopo di
uscirne.
La
dimensione mistica di questo conflitto[21] è un
supporto per la specie per giungere, per così dire, alla fase della sua
concezione, quando essa si separò dalla natura e si fondò nel divenire di
erranza nel quale essa tenta vanamente di cogliersi.
Durante il
momento mistico originale, regnano la confusione, la violenza, la depressione,
la collera. Detto altrimenti, il conflitto e la depressione sono inerenti al
divenire di Homo sapiens. Ciò fa parte del contenuto della speciosi. Alain
Ehrenberg ne La fatigue d’être soi – Dépression et société[22],
indica due modalità di interpretazione dei disordini psichici, quella di P.
Janet centrata sul « deficit » e quella di S. Freud centrata sul « conflitto ».
Tuttavia nella realtà non si verifica una manifestazione esclusiva. È perché
non può più farsi carico del conflitto che l’individuo incontra la depressione
(ciò che d’altronde esprime un rivissuto). Inoltre egli può uscire dalla
depressione attraverso la violenza, quindi attraverso il conflitto. « La fatica
di essere sé » si trova in rapporto con l’impossibilità di assumere una
programmazione che tenda a dare all’individuo una consistenza che è in totale
rottura con la sua naturalità. Egli non può più effettuare il lavoro di
domesticazione. Il fatto che nella vita corrente la depressione sembra avere il
sopravvento sul conflitto segnala la fine dei ricoprimenti e la tendenza sempre
più netta all’imporsi del momento mistico, il quale riporta alla violenza
originaria per uscire dal blocco, per rifiutare un avvenuto, andare al di là di
ciò che ossessiona, affascina, fa paura.
Da millenni,
attraverso i miti e la storia, il conflitto, la guerra, sembrano essere
permanenti. Ne è causa fondamentale la repressione che pone ogni essere in
divenire in conflitto più o meno intenso con ciò che lo reprime. F. Renggli,
nel suo studio dei miti mesopotamici, sostiene che essi esprimono le lotte al
momento della nascita, per nascere, per esistere, per uscire da un blocco. Si
ritrova questo nei miti greci come nelle epopee indiane del Ramayana o
del Mahabharata, piene di episodi guerrieri come, per esempio, nei films
o nella serie dei Dragon Balls. La specie resta bloccata.
La guerra,
così come la rivoluzione, manifesta la forma più estrema del conflitto che si
mostra onnipresente nel processo di vita di Homo sapiens[23],
potendosi vivere e concepire natura e cosmo solo attraverso di lui. Lotte tra
etnie, tra razze, tra classi, lotta per la vita accoppiata alla selezione
naturale (dinamica della grazia), lotte in seno allo sport[24], ai
giochi, ai concorsi, in seno all’economia, nella passione, a cui si possono
aggiungere i saccheggi, i rapimenti, le prese in ostaggio (variante della messa
in schiavitù) etc., possono illustrare la nostra affermazione.
La modalità
del nostro posizionarci ora si rivela. Noi non abbiamo da dire agli uomini e
alle donne ciò che devono fare, e neanche augurarci che essi lo facciano;
sarebbe repressione. Ma noi possiamo esporre come le cose dovrebbero andare in
funzione del nostro cammino di liberazione-emergenza. Ricordando la constatazione
del permanere del meccanismo infernale delle ripetizioni coatte con
l’accentuarsi della repressione, e quindi con l’insostenibilità della miseria e
delle sofferenze delle popolazioni sempre più numerose che vivono la
separazione fondamentale e insopportabile di fronte alla comunità (come già
segnalato nel 1968 con il volantino a proposito degli avvenimenti di allora) è
giusto dire che bisogna essere portati ad abbandonare la dinamica
dell’inimicizia. Anche i repressori cercano di liberarsene, di ritrovare la
loro naturalità. Essi lo effettuano riattualizzando ciò che hanno subito e
riattualizzando un mondo in cui ci sono dei nemici. Quindi io considero, come è
stato già indicato, che non bisogna più pensare che vi siano dei nemici –
altrimenti si ratifica il meccanismo infernale – ma che si è in presenza di
uomini e di donne che operano in definitiva nella stessa dinamica determinata
da questo meccanismo. Ciò implica di aprirsi alla repressione che è realizzata
da coloro che giocano il ruolo di repressori, non per accettarla ma per
eliminare un supporto. In effetti il rispetto del loro ordine non incepperà
assolutamente il fenomeno di dissoluzione che essi vogliono scongiurare, per
paura di una minaccia inconscia, ma essi non potranno servirsi di uomini e di
donne, posti al di fuori della loro sfera, come supporti di colpevolizzazione
che gli permettano di occultare, nascondere tutto.
Attualmente
con la repressione essi pensano di poter eliminare la minaccia che li travaglia
inconsciamente. Noi non dobbiamo, con il nostro comportamento, attivare
quest’ultima e lanciarli ancor più nel rimetterla in gioco.
La specie è
in costante ansietà, attraversata da emozioni molto antiche. Si può dire che
essa si trovi in uno stato di perpetua sommossa, per il fatto di essersi
edificata nel rifiuto e perché il suo pensiero è un pensiero repressivo. Essa
non può vivere l’immediato del suo mondo, della natura, del cosmo, perché
inconsciamente vi percepisce una minaccia che deve instancabilmente vincere. Al
suo livello come a quello dell’individuo, se non diveniamo coscienti dei traumi
iniziali e non comprendiamo che ogni minaccia è scomparsa (anche se essa può
imporsi in modo imprevisto noi abbiamo la capacità di sfuggirle) e che non
abbiamo nemici, noi siamo condannati a rivivere forzatamente i grandi cicli di
sommossa-depressione. Ritrovando la continuità e la partecipazione, i punti di
riferimento non sono più assolutamente necessari; di conseguenza amico e nemico
non hanno più ragione d’essere, allo stesso modo che guerra (mania) pace
(depressione).
Jacques CAMATTE
Dicembre 2005
Traduzione di Marco IANNUCCI
[1] I disordini
possono designare anche un insieme di sintomi di una malattia, la quale può
avere disordine come sinonimo: «La ricerca di strutture soggiacenti è
abbandonata, e la parola malattia sostituita da quella di disordine (desorder)». Alain Ehrenberg, La fatigue d’être soi – Dépression et société, Ed. Odile Jacob,
poches, Paris, 2000. La specie umana
vive nel conflitto e si percepisce attraverso il conflitto.
[2] «Da questo mondo
gravido di catastrofi non c’è da aspettarsi nulla, neppure il verificarsi di
una di queste. (…) che il rifiuto dell’attesa implica la completa comprensione
intellettuale-corporea dell’impossibilità di realizzare una qualsiasi cosa in
questo mondo.» Contre toute attente, 1978, Invariance, série III, n°
5-6, p. 123. [Trad. italiana in Il
disvelamento, Milano: La Pietra 1978, pagg. 113-115].
[3] Non mi nascondo l’intervento degli occidentali in Asia, in
particolare in India e in Indonesia, e nell’area che era sotto l’influenza
cinese, dalla Birmania al Vietnam attuale. Tuttavia, anche qui, lo scontro fu
in gran parte con l’area musulmana.
[4] A questo proposito si vedano, tra l’altro, i lavori di Anne
Dambricourt-Malassé, di Rosine Chandebois, in particolare L’embryon cet inconnu, Ediz. L’Age d’Homme, Losanna, 2004. Possiamo
aggiungere i teorici della psico-storia.
[5] Julian Jaynes,
La naissance de la conscience dans l’effondrement de l’esprit (titolo
inglese: The origin of consciousness in the breakdown of the bicameral mind,
1976), Ed, PUF, Parigi, 1994, p. 103.
[6] Idem, alle successive pp. 108, 110, e 114. Ancora due
citazioni complementari «La funzione degli déi consisteva essenzialmente nel
dirigere e organizzare l’azione in situazioni nuove».
«La mente bicamerale, controllata dagli
déi, si è sviluppata come la tappa finale dell’evoluzione del linguaggio. Ed è
in questo sviluppo che risiede l’origine della civiltà».
[7] È anche possibile che persone facciano finta di telefonare,
al fine di poter «parlare da soli» senza passare per matti.
[8] Julian Jaynes, o.c., p. 117. Secondo il Dictionnaire historique de la langue française, diretto da Alain Rey, obéir viene
dal «latino oboedire, propriamente « prestare orecchio a » da cui «
essere sottomesso a » … .
[9] Alla base di un brusìo si trova un ritorno del rimosso. Non
è quindi impossibile che vi sia percezione di voci.
[10] James Hillman A
terribile love of war 2004, che abbiamo letto nella sua traduzione
italiana: Un terribile amore per la
guerra, Ed. Adelphi, Milano, 2005, p.38.
[11] Idem, p. 39.
[12] Idem, p. 36.
[13] Idem, p. 56. Cfr. anche: « (…) la necessità della guerra è
inscritta nel cosmo. » p. 58.
[14] Viviana Pâques, L’homme et
l’esclavage, in Histoire des mœurs, t. III, Ed. Gallimard, Parigi, 1991, p. 499.
[15] La dinamica dei kamikaze può essere interpretata come
quella di eliminare simultaneamente il nemico esterno e quello interiore.
[16] Azione che è al suo inizio, nel momento in cui
l’intenzionalità può essere bloccata dall’indecisione; ciò che, di conseguenza,
sospende in qualche modo l’agire.
[17] « L’ipocrisia in America non è un peccato ma una necessità
e uno stile » James Hillman, op. cit. p. 239. Questo fa per così dire eco alla
citazione di H. Arendt che egli ha fatto a p. 171. « Strappare la maschera di
ipocrisia con la quale l’avversario copre il suo volto, rivelare le tortuose
macchinazioni e le manipolazioni che gli permettono di dominare senza
utilizzare mezzi violenti – vale a dire lanciarsi nell’azione a rischio di
essere schiacciato per proclamare la verità – tali sono ancora oggi le più
forti motivazioni della violenza così come la vediamo manifestarsi nei campus e
nella strada. » Sur la violence in Du mensonge à la violence, Ed. Calmann-Lévy, Presses Pocket,
Parigi, p. 165.
Notiamo parimenti la definizione della
violenza dovuta allo stesso autore e che James Hillman riporta a p. 170. « (…)
la violenza – l’atto compiuto senza ragionare, senza parlare, e senza
riflettere sulle conseguenze … ». op. cit. p. 163. Essa designa perfettamente
la remontée di ciò che fu subito.
[18] Le citazioni che seguono esplicitano che il bambino è
l’estraneo, e che il nemico possiede un doppio supporto. Esse sono tratte da Un étranger à
demeure d’Anne Bouchart Godard, in L’enfant, Ed. Gallimard, Folios-Essais, Parigi, 2001. « Alla violenza
fatta all’umano con il sorgere di un bambino reale, desiderato e fantasticato
da lunga data tuttavia …» p. 253.
« Il bambino con le reazioni
individuali e regressive che porta in sé, minaccia l’individuo e la collettività Essi risponderanno di rimando con la
violenza. » p. 257
« Questa “messa a morte” del
bambino selvaggio attraverso il neonato reale, nello stesso tempo, permette che
una tale messa a morte abbia luogo di nuovo in ogni membro del gruppo. » p. 258
« Il neonato è accolto come
estraneo e inquietante a causa della rimozione; i pericoli di cui egli minaccia
per proiezione dell’esperienza antica, sono alla dismisura dei fantasmi primari
». p. 262
«Il bambino-dio, a cui
appartengono le decisioni di vita e di morte, deificando i suoi genitori è anche l’oggetto estraneo, sconosciuto,
che ferisce con le sue differenze, e le sue esigenze senza contropartita ». p.
263.
« In quanto simile e in
quanto diverso, il bimbo fa violenza all’adulto ». p. 263.
Le teorie che esaltano il
bambino in quanto salvatore, complementari a quella che afferma che egli
sceglie i suoi genitori, partecipano anch’esse alla dinamica della repressione.
[19] James Hillman,
op. cit., p.194.
[20] J. Hillman, op. cit., p. 146. Il testo consacrato al «
sublime » nel Thésaurus de Encyclopædia Universalis, 1968,
racchiude diverse notazioni che rivelano bene la sua parentela con il mistico.
« (…) l’esperienza emozionale, nella quale il soggetto prova l’inaccessibilità
di questo altro attorno al quale si è purtuttavia cristallizzato il campo
intero delle sue aspirazioni ». « Ma l’essenza del sublime risiede nello stato
di mancanza e di abbandono che esso instaura, al livello dell’intelligenza e
della sensibilità. Il sublime crea una rottura per generare uno choc …». «
L’incertezza costituisce il luogo di emergenza del sublime; ».
[21] Ho già affrontato questo tema in Gloses en marge d’une
réalité VIII. Cfr. sul sito della
rivista Invariance.
[22] Questa frase sintetizza bene, a mio avviso, il pensiero
dell’autore: « Il depresso non è all’altezza, egli è stanco di dover diventare
se stesso. » p. 11. Tuttavia questo « se stesso » non ha niente a che vedere
con la sua naturalità, ma con un essere determinato dal divenire sociale. In
fondo il lavoro non è più atto a realizzare la domesticazione.
S. Freud non ha teorizzato soltanto il conflitto utilizzando
la sua trilogia: es, io, super-io, alla quale è il caso di aggiungere
d’altronde l’ideale dell’io, che può corrispondere al « progetto » così in voga
attualmente, ma anche l’insufficienza, l’impotenza con il concetto di hilflosigkeit. Inoltre A. Adler può essere considerato
del pari come un fondatore della teoria dell’insufficienza, senza ridurlo a
questo, dato che il conflitto non può essere fatto scomparire.
[23] È difficile abbandonare il conflitto. « Non è vero che
l’unica vittoria durevole consiste giustamente nel vincere il cuore e lo
spirito dell’altro? » J. Hillman, op. cit., p. 213. Poiché vincere implica che
vi sia lotta.
[24] In cui regna la pratica del doping che permette di
oltrepassarsi per divenire più « competitivi [conflittuali]».
FONTE: http://revueinvariance.pagesperso-orange.fr/
Etichette:
Gemeinwesen,
Invariance,
Jacques Camatte
Iscriviti a:
Post (Atom)